università degli studi di roma “la sapienza”

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA”
FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO COSTITUZIONALE E DIRITTO
PUBBLICO GENERALE
Tesi di dottorato:
“LA SOGGEZIONE DEL GIUDICE ALLA SOLA LEGGE E I SUOI RISVOLTI NEL
GIUDIZIO AMMINISTRATIVO”.
TUTOR: Prof. Augusto Cerri
CANDIDATO: Dott. Antonio Tripodi
MATRICOLA: 493679
Anno accademico 2012/2013
1
LA SOGGEZIONE DEL GIUDICE ALLA SOLA LEGGE E I
SUOI RISVOLTI NEL GIUDIZIO AMMINISTRATIVO.
∞
INDICE
INTRODUZIONE. ........................................................................................................................................... 4
CAPITOLO 1: L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI GIURISDIZIONE E L'IMPORTANZA DEL
PRINCIPIO DI SEPARAZIONE DEI POTERI E DELLA NASCITA DELLO STATO
COSTITUZIONALE DI DIRITTO COME PRESUPPOSTI DELLA LEGALITÀ NELLA
GIURISDIZIONE. .............................................................................................................. 8
1.1. LA GIURISDIZIONE NEL PERIODO STORICO ANTECEDENTE LA TEORIZZAZIONE DEL PRINCIPIO DI
SEPARAZIONE DEI POTERI: ALCUNI SPUNTI DI RIFLESSIONE. ..................................................................... 8
1.2. LA SUDDIVISIONE DEI POTERI STATUALI NEL PENSIERO DI MONTESQUIEU COME PRIMO
PRESUPPOSTO NECESSARIO DEL PRINCIPIO DI LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE. ............................... 24
1.3. LO STATO COSTITUZIONALE DI DIRITTO COME SECONDO PRESUPPOSTO NECESSARIO PER LA
CONSACRAZIONE DEL PRINCIPIO DI LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE. .................................................. 32
1.4. PRIME RIFLESSIONI SUI PRESUPPOSTI DEL PRINCIPIO DI LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE. ..... 43
CAPITOLO 2: IL PRINCIPIO DI STRETTA LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE: GENESI ED
EVOLUZIONE. ................................................................................................................ 48
2.1. I LAVORI PREPARATORI DELLA COMMISSIONE DEI 75 E L'ART. 94 DEL PROGETTO DI
COSTITUZIONE. L’APPROVAZIONE DELL’ART. 101 COST. ........................................................................... 48
2.2. IL PRIMO COMMA DELL’ART. 101 COST.: VALORE SIMBOLICO/FORMALE O “SUBORDINAZIONE
STRUTTURALE” DELLA GIURISDIZIONE ALLA SOVRANITÀ POPOLARE? ................................................... 70
2.3. IL SECONDO COMMA DELL'ART. 101 COST.: GIUDICI E LEGGE......................................................... 79
2.4. SEGUE: SOGGEZIONE ALLA LEGGE. L'AVVERBIO “SOLTANTO” E LA SUA RILEVANZA NEL PRINCIPIO
DI “STRETTA” LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE. ........................................................................................ 86
2.5. PRINCIPIO DI STRETTA LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE E CORTE COSTITUZIONALE (BREVI
CENNI). ............................................................................................................................................................. 93
CAPITOLO 3: IL PRINCIPIO DI STRETTA LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE E IL
RAPPORTO CON LE ALTRE NORME COSTITUZIONALI: TRA DIRITTO DI AGIRE, GIUSTO
PROCESSO E GIUDIZIO AMMINISTRATIVO. ................................................................... 96
3.1. INTRODUZIONE. ..................................................................................................................................... 96
3.2. ART. 101 COST. E DIRITTO DI AGIRE E DIFENDERSI IN GIUDIZIO: “IL DIRITTO ALLA
GIURISDIZIONE”............................................................................................................................................. 100
3.3. IL GIUSTO PROCESSO TRA DIRITTO ALLA GIURISDIZIONE E PRINCIPIO DI STRETTA LEGALITÀ
NELLA GIURISDIZIONE. ................................................................................................................................ 110
3.4. LA DISCIPLINA COSTITUZIONALE DE “LA MAGISTRATURA”. BREVI CENNI. ................................. 120
3.5. LA GARANZIA COSTITUZIONALE DELLA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO: ARTT.
103 E 113 COST. .......................................................................................................................................... 131
CAPITOLO 4: LA SOGGEZIONE DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO ALLA SOLA LEGGE E
IL PROCESSO AMMINISTRATIVO: ANALISI E CRITICA................................................. 140
4.1. UNA BREVE INTRODUZIONE. ............................................................................................................. 140
4.2 DIRITTO AMMINISTRATIVO E PROCESSO AMMINISTRATIVO SOTTO LA LUCE DEL DIRITTO
OGGETTIVO. I LIMITI INTERNI ALLA GIURISDIZIONE. ............................................................................ 144
2
4.3 IL PUBBLICO MINISTERO E LA NECESSITÀ DI UNA SUA ISTITUZIONE ALL’INTERNO DEL
PROCESSO AMMINISTRATIVO. ALCUNI SPUNTI DI RIFLESSIONE. ......................................................... 172
4.4 LA MANCATA OSSERVANZA DEL PRINCIPIO DI STRETTA LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE DEL
GIUDICE AMMINISTRATIVO CONFIGURATA COME VIOLAZIONE DEI LIMITI ESTERNI DELLA
GIURISDIZIONE: L’ECCESSO DI POTERE GIURISDIZIONALE. ................................................................... 186
CONCLUSIONI. ......................................................................................................................................... 201
BIBLIOGRAFIA ......................................................................................................................................... 204
3
Roma, 11 Maggio 2013
INTRODUZIONE.
Nell’ormai lontano dicembre del 2009, allorché mi si prospettò l’opportunità
di dedicare i miei successivi tre anni di studio ad una problematica di diritto
costituzionale, non ebbi dubbi sulla persona che, in questo percorso, avrei
voluto accanto a me, quale guida e fonte di ispirazione: a più di tre anni da quel
freddo dicembre, non posso far altro, pertanto, che essere
grato al Prof.
Augusto Cerri, per il supporto umano, prima ancora che tecnico, che in questi
anni ho sentito da lui promanare nei miei confronti.
Proprio il Prof. Cerri, nonostante già allora mi rendessi conto delle difficoltà
che avrei incontrato nel confrontarmi con un tema di tal portata, mi ha donato,
non senza numerosi spunti di riflessione, il coraggio e la carica giusta per
affrontare le problematiche, a me molto care, riguardanti il principio di stretta
legalità nella giurisdizione, benché fossero molte di più e molto più grandi di
quel che allora potessi solo lontanamente immaginare.
La scelta del tema, infatti, non è derivata da un capriccio personale, ma da
una vera e propria esigenza che non sono riuscito a trattenere, l’esigenza di far
chiarezza, prima di tutto con me stesso, in ordine alle dinamiche che conducono
da un tratto di inchiostro alla modificazione concreta della vita di ognuno di noi
e, dunque, all’attuazione dell’ordinamento, attraverso un percorso denominato
processo, in cui vi è un organo terzo ed imparziale che nell’ambito delle proprie
funzioni è soggetto imprescindibilmente all’applicazione della legge.
La primissima parte del lavoro, pertanto, è stata dedicata ad una breve analisi
del concetto di giurisdizione nel corso dei secoli: ad esso, infatti, si sono
ricollegati nel tempo distinti ordini di poteri, molto diversi tra loro. Si è arrivati
così ad affermare che il principio di stretta legalità nella giurisdizione ha
trovato i presupposti necessari alla propria genesi nella teorizzazione della
separazione dei poteri e in quella dello Stato costituzionale di diritto: in passato,
4
infatti, la concentrazione dei poteri in poche figure finiva per confondere l'opera
giurisdizionale con quella legislativa, sicché la decisione di una controversia
non era applicazione di una regola ma, troppo spesso, creazione di essa
mediante una valutazione ispirata a principi di equità: ciò determinava che
l’esercizio del potere prescindeva dai diritti e dagli interessi dei soggetti facenti
parte dei vari ordinamenti.
Il principio di stretta legalità, insomma, era logicamente impensabile in
assenza, prima di tutto, dei suddetti due presupposti, i quali non hanno fatto
nient’altro che gettare le basi per l’affermazione del principio democratico:
legalità e democrazia furono le parole chiave che determinarono la fine degli
Stati assoluti in favore di una concezione di Stato in senso moderno, in cui la
dignità della persona umana è stata messa al centro della creazione delle
“nuove” regole giuridiche e, soprattutto, delle nascende costituzioni.
Con la seconda parte del lavoro, dunque, l’attenzione è stata concentrata
esclusivamente sul significato delle brevissime disposizioni contenute nell’art.
101 della Costituzione italiana, laddove viene solennemente proclamato che
“La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti
soltanto alla legge”.
Molti studiosi si sono a lungo interrogati sul significato di tali norme e sul
rapporto, se esistente, che dovrebbe legare la prima alla seconda. Partendo da
un’approfondita analisi dei dibattiti in sede Costituente, si è pertanto cercato di
mettere in risalto dapprima il valore combinatorio dei due commi dell’art. 101
Cost. e, successivamente, il significato profondo di quello che è stato
denominato, adottando la nomenclatura del Prof. Riccardo Guastini, principio
di stretta legalità nella giurisdizione.
Sotto il primo aspetto, si è sottolineato che amministrare la giustizia in nome
del popolo non vuol dire altro che far rispettare quelle regole che lo stesso
ordinamento istituisce mediante l’utilizzo di quegli schemi costituzionali
previsti dalla nostra Carta.
5
In tale ottica, il primo e il secondo comma dell’art. 101 Cost., oltre ad essere
in stretta connessione tra loro, costituiscono due facce della stessa medaglia o,
ancor meglio, l’una il principio, l’altra le sue modalità di attuazione scelte in
sede Costituente: la subordinazione della funzione giurisdizionale alla sovranità
popolare è la norma che stabilisce il principio, il quale viene attuato, a sua
volta, mediante l’onere, posto in capo al giudice, di applicare la legge.
Sotto il secondo aspetto, si arriva dunque ad affermare che il giudice è
vincolato all’applicazione incondizionata della legge proprio perché è soggetto
alla sovranità popolare, o meglio, ad ogni atto che, nel rispettare gli schemi
costituzionali, sia espressione dell’esercizio della ridetta sovranità; pertanto,
dire che il giudice è soggetto “soltanto alla legge”, equivale a negare ogni altro
vincolo che non sia dalla stessa richiamato, cosicché il compito dell’Autorità
giurisdizionale non è quello di formulare un giudizio morale, politico, o
checchessia ma, viceversa, di effettuare un giudizio legale (nel senso di basato
sulla legge).
A tal punto, si è avuto modo di rilevare che il principio di stretta legalità
nella giurisdizione non avrebbe alcun senso all’interno di un sistema, da un
lato, sprovvisto delle necessarie guarentigie volte a tutelare, in primis, la
persona e la dignità umana e, dall’altro, che fosse carente di quelle norme sulla
giurisdizione che hanno il ruolo, all’interno del nostro ordinamento, di
aggiungere quel valore strutturale proprio di un Paese democratico, basato sulla
terzietà e imparzialità del giudizio e sulla predeterminazione di procedure,
principi, oneri, vincoli e diritti.
La terza parte del presente lavoro, pertanto, è stata dedicata alle disposizioni
costituzionali che, nell’intrecciarsi con l’art. 101 Cost., lo riempiono e ne
traggono valore, tratteggiando il quadro dell’impianto giurisdizionale italiano:
sotto la luce dell’art. 101 Cost., si è cercato di analizzare brevemente alcune
norme costituzionali che, in tal senso, assumono un imprescendibile rilievo,
quali gli artt. 24, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 111, 113 Cost.
6
Infine, nell’ultima parte del lavoro, si è cercato di dare una prospettiva
concreta all’impianto costituzionale descritto, mediante una breve analisi del
giudizio amministrativo, in cui si sono prese in considerazione alcune ipotesi di
riforma.
Quel che pare emergere, infatti, da una breve analisi di alcune problematiche
generali sul sistema di giustizia amministrativa italiana, è che in tale ambito il
principio di stretta legalità nella giurisdizione rischia di non avere
quell’incidenza, determinante e imprescindibile, che ha portato l’Assemblea
costituente a redigere tale norma in forma solenne.
Parrebbe emergere, insomma, un quadro in cui il rapporto tra pubblica
funzione
esercitata
dall’Amministrazione
e
sindacato
giurisdizionale
dell’A.G.A. non sembri seguire pedissequamente le linee tratteggiate dall’art.
101 Cost., secondo comma, giacché la tutela dei singoli, a cui l’evoluzione del
nostro sistema giurisdizionale amministrativo ha mirato nel corso degli anni,
non sempre è in grado di farsi portatrice degli interessi della comunità:
sembrerebbe, in definitiva, che in tal modo si sia arrivati a trascendere da una
considerazione basilare e, cioè, che la funzione pubblica esercitata dalle
Amministrazioni nasce e ha ragion d’essere in quanto portatrice degli interessi
della collettività; tale interesse (quello collettivo) non può avere un ruolo
marginale nel corso del giudizio e, soprattutto, la sua determinazione non può
essere lasciata al solo “scontro” delle prospettive giudiziali formulate dalle parti
e all’intreccio del loro rispettivo interesse privato.
E’ necessario, in definitiva, che nel processo amministrativo, vista la
funzione propria dell’Amministrazione, venga introdotto un meccanismo volto
a dare l’impulso, al giudice adito, di applicare la legge che proviene dal popolo
sovrano, senza perimetri stabiliti da interessi privati.
7
CAPITOLO 1: L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI GIURISDIZIONE E
L'IMPORTANZA DEL PRINCIPIO DI SEPARAZIONE DEI POTERI E DELLA
NASCITA DELLO STATO COSTITUZIONALE DI DIRITTO COME PRESUPPOSTI
DELLA LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE.
1.1. LA GIURISDIZIONE NEL PERIODO STORICO ANTECEDENTE LA
TEORIZZAZIONE DEL PRINCIPIO DI SEPARAZIONE DEI POTERI: ALCUNI
SPUNTI DI RIFLESSIONE.
Nel pensiero giuridico moderno, anche prescindendo dalle numerose
differenze tra gli ordinamenti sparsi in tutto il mondo, la locuzione “esercizio
della giurisdizione” richiama nella mente di ogni individuo una funzione ben
precisa: l'emanazione di una sentenza, da parte di un giudice, che racchiude la
decisione di un caso concreto.
Se si dovesse domandare, ad un soggetto non esperto di diritto, quale sia il
modo in cui il giudice arrivi a decidere una controversia, non si rimarrebbe
stupiti nel ricevere una tanto spontanea quanto repentina risposta: il giudice
emette la propria decisione in base a ciò che la legge (il diritto, la norma, la
disposizione) prevede per quella determinata fattispecie.
Si potrebbe continuare ad interrogare il nostro caro amico per ore ed ore,
fino allo sfinimento, ma ci si accorgerebbe, già dopo poche battute, che egli,
come del resto gran parte della popolazione, ha un'idea più o meno precisa di
cosa sia la giurisdizione, delle esigenze alle quali risponda, del modo in cui
venga esercitata e, soprattutto, almeno per i fini che qui interessano, di come il
giudice sia vincolato “esclusivamente” all'applicazione di una regola, stabilita
ben prima della decisione della controversia, che deve da lui essere
puntualmente individuata per “vestire” la fattispecie che gli si presenta.
La dottrina ha ovviamente fornito numerose definizioni del concetto di
giurisdizione, ispirandosi, di volta in volta, all'aspetto o al profilo che
maggiormente voleva mettere in risalto nel contesto di una trattazione più
8
ampia: si è pertanto parlato di composizione delle liti1, di attuazione della
legge2, di applicazione di una sanzione3, di affermazione dell'ordinamento nel
caso concreto4, di conoscenza e applicazione di norme preesistenti5, di
applicazione delle norme giuridiche alle fattispecie concrete mediante l'obbligo
di osservazione di regole procedurali6, e molto, molto altro ancora. Altresì
numerose sono state le definizioni e i corollari del principio di legalità (o
meglio di stretta legalità) nella giurisdizione, per i quali si rimanda ai capitoli
successivi della presente trattazione.
Eppure, non si deve dimenticare che il fenomeno di cui stiamo discutendo
ha iniziato ad assumere i caratteri da tutti noi conosciuti soltanto in un periodo
relativamente recente: nel corso della storia il potere di iusdicere ha infatti
racchiuso numerose ed eterogenee sfaccettature, tutte sì ricollegabili alla
decisione di una controversia, ma in modi, con forme e, soprattutto, con
“vincoli” molto diversi di epoca in epoca.
Sono state la teorizzazione del principio di separazione dei poteri,
sviluppatasi in modo decisivo, sulla base di teorie precedentemente formulate 7,
1 F. CARNELUTTI, Sistema del diritto processuale civile, I, Padova, 1936, pag. 44.
2 G. CHIOVENDA, Princpi di diritto processuale civile, Napoli, 1928, p. 301: “la giurisdizione
consiste nell'attuazione della legge mediante la sostituzione dell'attività di organi pubblici all'attività
altrui, sia nell'affermare l'esistenza di una volontà di legge sia nel mandarla ulteriormente ad effetto”.
3 E. REDENTI, Intorno al concetto di giurisdizione, in Scritti e discorsi giuridici di mezzo secolo, I,
Milano, 1962, pag. 227.
4 S. SATTA, Giurisdzione (nozioni generali), in Enciclopedia del diritto, XIX, Milano, 1970, pag.
224.
5 R. GUASTINI, Il giudice e la legge. Lezioni di diritto costituzionale, Torino, 1995, pag. 12.
6 A. PIZZORUSSO, L'organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e
istituzionale, Torino, 1990, pag. 3: “l'opera del giudice consiste essenzialmente in un'attività volta
all'applicazione delle norme giuridiche alle fattispecie concrete e qualificata dall'obbligo di osservare
particolari regole procedurali”.
7 L'idea che la separazione dei poteri fosse un metodo per evitare soprusi nell'esercizio dei
poteri sovrani è molto antica, rinvenendosi nelle riflessioni di molti filosofi greci: Platone, ne “La
Repubblica” espose il principio di indipendenza del giudice dal potere politico; Aristotele, nella
“Politica”, delineò una forma di governo misto in cui venivano identificati tre momenti dell'attività
statuale (deliberativo, esecutivo e giudiziario). Nel XIII secolo Henry de Bracton, nel De legibus et
consuetudinibus Algliae, introdusse la distinzione tra gubernaculum e iurisdictio, indicando il primo
come potere di governo nella scelta della politica da seguire e il secondo come la produzione e
l'applicazione di norme giuridiche. Ciò non ostante, l'idea della separazione dei poteri in senso
moderno prende le mosse dal pensiero di John Locke che, nei due trattati sul governo del 1690,
articola il potere sovrano in potere legislativo, esecutivo (che comprende anche il giudiziario) e
federativo (relativo alla politica estera e alla difesa). E' sulla base del pensiero di quest'ultimo che
9
soltanto nel XVIII secolo e la nascita dello Stato costituzionale di diritto a
gettare le basi per introdurre il principio di legalità nella giurisdizione nei Paesi
di civil law8.
Per tali motivi, la connessione, che ormai sembra inscindibile, tra esercizio
del potere di iusdicere in senso moderno e principio di legalità – inteso nella
sua accezione di soggezione del giudice alla sola legge, sotto i numerosi profili
che di seguito verranno trattati - non è stata, nel corso dei secoli, così netta e
complessa come lo è oggi.
Senza pretendere di trattare l'evoluzione storica del concetto di
giurisdizione in modo compiuto – opera titanica, che incarna gli evidenti limiti
di una comparazione storica che avvenga tra società lontane nei secoli, in senso
letterale e retorico, che per di più non è affine al risultato cui si mira – si
possono brevemente inanellare alcuni esempi per trarre qualche spunto di
riflessione.
Nel diritto romano, la iurisdictio era un complesso di facoltà attribuite ai
singoli magistrati, che nel corso della storia ha subito numerose variazioni “in
funzione delle diverse epoche di sviluppo del diritto romano, e delle diverse
forme del processo”9.
Montesquieu, nell'opera “Lo Spirito delle leggi”, pubblicato nel 1748, fonda la sua teoria sull'idea che
"Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti [...]. Perché non si
possa abusare del potere occorre che [...] il potere arresti il potere". Individua, inoltre, tre poteri
(intesi come funzioni) dello Stato - legislativo, esecutivo e giudiziario - così descritti: "In base al
primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e
corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle
ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo, punisce i delitti o giudica le
liti dei privati". Da questi presupposti, come a breve si vedrà, Montesquieu elabora la teoria sulla
separazione dei poteri che, ai fini che qui interessano, sottopone quello giudiziario a quello
legislativo, con la conseguenza che il giudice debba essere la "bouche de la lois". Per maggiori
dettagli cfr, tra gli altri, G. SILVESTRI, La separazione dei poteri, Milano, 1979-1984; G. BOGNETTI, La
divisione dei poteri. Saggio di diritto comparato, Milano, 1994.
8 Secondo R. GUASTINI, Nuovi studi sull’interpetazione, Roma, 2008: “Negli ordinamenti di
common law il principio di legalità nella giurisdizione prende la forma di regola del precedente
vincolante (“stare decisis”)”.
9 G. I. LUZZATTO, voce Giurisdizione (dir. rom.), in Enciclopedia del diritto, vol. XIX, Milano, 1986,
pag. 190 e ss. secondo l’A. “La iurisdictio può essere definita come l’insieme delle facoltà attribuite ai
magistrati cui è affidata, in Roma, l’amministrazione della giustizia civile (e, a partire dal III secolo d.
C., e con parecchi limiti, anche della giustizia criminale)”.
10
Basti ricordarne alcune sue evoluzioni: in un primo momento, tale potere,
che trovava fondamento nell’imperium10, consisteva, sulla base del rigido
formalismo delle legis actiones, in un determinato complesso di poteri del
magistrato giusdicente preordinati all’indicazione, alle parti contendenti, della
norma applicabile al caso concreto e del rito da seguire se il procedimento fosse
continuato11.
Successivamente, con l’emanazione della lex Aebutia, che introdusse
nell’ordinamento romano il procedimento formulare12, vennero superati i limiti
posti dallo ius civile e dall’estrema rigidità del procedimento per legis actiones,
cosicché si ampliò il contenuto della iurisdictio13 con l'introduzione di quegli
elementi che, in precedenza, trovando fondamento nello ius honorarium,
venivano esclusi, come datio o denegatio actionis; exceptio, actiones ficticiae,
utiles, in factum; iudicia bonae fidei14.
Dal III secolo d. C., poi, con l’introduzione ed il prevalere del processo
extra ordinem ed il venir meno della distinzione tra la fase in iure e apud
iudicem, si assistette ad un assoluto oscuramento del significato classico del
termine iurisdictio: in essa vennero ricompresi non soltanto gli atti volti
all’istruzione della causa e all’identificazione delle parti e della materia del
10 Tale termine, riferentesi in origine al potere assoluto di governo in Roma, fu
successivamente riconosciuto ad alcuni magistrati e comprendeva funzioni eterogenee tra loro. Per
quel che qui interessa, durante l’epoca del processo formulare, nell’imperium dei magistrati
venivano ricompresi gli interdicta, le actiones in integrum restitutiones, le cautiones
praetoriae (o stipulationes praetoriae) e la bonorum possessio.
11 F. DE MARTINO, La giurisdizione in diritto romano, Padova, 1937.
12 Diverse le teorie sulla genesi del procedimento formulare. La dottrina dominante, sulle orme
tracciate da Wlassak, ritiene che esso sia un’evoluzione della giurisdizione esercitata nei confronti
degli stranieri dal Praetor peregrinus che necessariamente doveva svolgersi al di fuori delle maglie
imposte dal processo per legis actiones. Sul punto cfr. M. WLASSAK, Römische Prozessgesetze,
Leipzig, 1988, Id., Der Gerichtsmagistrat im gesetzichen Spruchverfahren, in ZSS. R., 1904; Id., Die
klassiche Prozessformel, Wien-Leipzig, 1924. Altra dottrina (Bertolini, Luzzatto) riconduce l’origine
del ridetto procedimento ad una prassi sorta dinanzi al Praeter urbanus: C. BERTOLINI, Appunti
didattici, Torino, 1913; G. I. LUZZATTO, Procedura Civile Romana, Bologna, 1948.
13 L’ampliamento del contenuto della iurisdictio ebbe l’effetto di oscurare, negli anni successivi,
lo stesso significato della stessa. Nel linguaggio e nella prassi si arrivò a ricomprendervi l’intero
complesso delle attività riconducibili al magistrato giusdicente.
14 G.I. LUZZATTO, cit. 9, pag. 194.
11
contendere, ma anche tutta quella attività concernente la funzione di magistrato
e l’amministrazione del processo15.
Tutto ciò ci permette di affermare che nel lungo periodo di vigenza del
diritto romano, indipendentemente dal processo applicato, vi era una
inscindibile connessione tra la iurisdictio e l'imperium16, in quanto l'attività
giurisdizionale spesso implicava una sorta di opera legislativa. Le due potestà
regie “quella di amministrare la giustizia e l'altra di legiferare erano […]
intimamente connesse, la seconda essendo diretta conseguenza della prima e
da questa solo legittimata. La legislazione era una forma di giustizia”17.
Ciò non stupisce: già nel XIV secolo Bartolo da Sassoferrato, noto giurista
della scuola dei commentatori, arrivò a tale conclusione, in quanto, nel
delineare
l'ampiezza
della
iurisdictio
(iurisdictio
ponitur
ut
genus
generalissimus), affermò, non lasciando adito ad alcun dubbio, che la
“iurisdictio est potestas de iure publico introducta cum necessitate iuris dicendi
et aequitatis statuendae tamquam a persona publica”18.
Pertanto, benché i magistrati romani (e poi quelli dell'epoca del diritto
comune) fossero soggetti a determinate regole, non si può assolutamente
affermare che fosse presente un principio di legalità nella giurisdizione, proprio
perché l'esercizio dell'attività decisoria spesso implicava operazioni di tipo
normativo: si pensi all’attività del Praetor urbanus, un magistrato dotato del
potere di imperium e di iurisdictio, che all'inizio di ogni anno emanava un
edictum nel quale esponeva ai cives romani il suo programma, ed in particolare
le regole in base alle quali avrebbe amministrato la giustizia.
15 G.I. LUZZATTO, In tema di origine del processo extra ordinem, in Studi in onore di E. Volterra,
Milano, 1971.
16 Tanto ciò è vero che la iurisdictio era attribuita, in linea generale, ai soggetti provvisti di
potere di imperium.
17 M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell'Europa medievale, Bologna, 1994, pag. 524.
18 BARTOLO DA SASSOFERRATO, In primam Digesti Veteris partem, ad l. Ius dicentis, ff. de
iurisdictione, II.1.1, n. 3. cfr. F. CALASSO, Iurisdictio nel diritto comune classico, in Studi in onore di V.
Arangio-Ruiz, VI, Napoli, 1953, pag. 87.
12
Egli, sebbene non potesse modificare lo ius civile, poteva apportarvi delle
deroghe per casi eccezionali, dovute a ragioni di equità, e poteva introdurre
ulteriori regole giuridiche per dirimere controversie che non trovavano nello ius
civile una normazione19.
Similmente a quanto si è detto per la iurisdictio romana, anche il concetto di
giurisdizione nel periodo intercorrente tra la “caduta” dell'Impero di Roma 20 e
il rinascimento giuridico21 (c.d. Diritto intermedio22) tendeva ad inglobare una
serie eterogenea di poteri e funzioni, spesso difficilmente caratterizzata da una
radice comune, la quale non era riconducibile alla “semplice” applicazione
della legge.
D'altro canto è stata proprio l'evoluzione (e a volte l'involuzione) sociale e
le esigenze alle quali di volta in volta la giurisdizione doveva rispondere, a
determinare un “frastagliamento” di tale concetto che, ormai da anni, si era
allontanato dalla nozione classica di iurisdictio.
Ad esempio, a cavallo tra il IV ed il V secolo, quando i popoli germanici
riuscirono a penetrare nelle regioni imperiali e a stanziasi in esse, non era
presente alcun principio di legalità nella giurisdizione in quanto l'assemblea
degli uomini liberi, alla quale era demandato il potere giurisdizionale, seppur
“influenzata” dalle regole tradizionali del poprio popolo, non era vincolata
all'applicazione di una norma. Il processo, pertanto, se paragonato a quello
sviluppatosi a Roma, era arcaico e rudimentale: esso, infatti, non era diviso in
due distinti gradi di giudizio e si svolgeva dinnanzi all'assemblea degli uomini
liberi, la quale esplicava le proprie funzioni su tutte le cause di cui veniva
19
Sul ruolo del Praetor si rimanda a E. BETTI, Iurisdictio praetoris e potere normativo, Napoli,
1968, p.7-23.
20 Diverse furono le cause che determinarono la fine dell'Impero romano d'Occidente sotto la
pressione delle popolazioni germaniche: anarchia militare, conflitti interni tra i vari pretendenti al
trono, la crisi economica, lo stato di abbandono e spopolamento di città e campagne, ecc. Per
maggiori dettagli cfr. F. DE MARTINO, Storia economica della Roma antica, Firenze, 1979.
21 Per approfondimenti sulla nascita della Scuola bolognese cfr. M. CARAVALE, Ordinamenti
giuridici dell'Europa Medievale, 1994, Bologna, pag. 290 e ss.
22 Per approfondimenti sul tema si rinvia a O. CAPITANI, Storia dell’Italia medievale, Bari, 1986.
13
investita, arrivando ad emettere una decisione definitiva e pienamente
esecutiva, spesso generata da prove ordaliche23.
Con l'avvento dell'età longobarda si assistette, invece, ad una netta crescita
del potere giurisdizionale del re a danno dell'assemblea: ad egli, infatti, venne
attribuito lo scutum potestatis, in ragione del quale veniva designato
“comandante” nella difesa del territorio contro i nemici “esterni” e giudice
supremo nell'amministrazione interna della giustizia24, esercitata anche
mediante la nomina e la revoca di altri soggetti con poteri giurisdizionali 25. Ciò
fa comprendere come non fosse possibile, neanche in detto periodo, la presenza
di un principio di legalità nell'esercizio del potere giurisdizionale: una sola
figura incarnava tutte le promanazioni del potere sovrano.
Il re, infatti, che presiedeva il c.d. Placitum o in esso si faceva
rappresentare da funzionari della sua Corte, aveva il potere di decidere, secondo
la propria esclusiva volontà, i ricorsi presentati avverso i provvedimenti emessi
da altri giudici e qualunque causa poteva essere portata alla sua cognizione o da
egli direttamente avocata sotto il proprio potere decisionale 26. “Quod regi
placuerit” è l'espressione che veniva utilizzata nei tribunali regi, la quale
lasciava intendere che il re non fosse sottoposto, nell'ambito della propria
attività giurisdizionale, alle norme esistenti: ad egli, infatti, viene attribuita
“plenitudo potestatis e può, quindi, liberamente sostituire la propria volontà
anche alle eventuali precedenti decisioni sulle prove”27.
23 G. SALVIOLI, Storia della procedura civile e criminale, in Storia del diritto italiano diretta da P.
Del Giudice, III, Milano, 1927, pag. 31 e ss.
24 P. BOGNETTI, L’influsso delle istituzioni militari romane sulle istituzioni longobarde del secolo VI
e la natura della « Fara », già in Atti Congresso Internaz. di Diritto Romano e Storia del Diritto (
Verona 27-29 sett. 1948 ), Milano 1953, IV, ora in id., L’età longobarda, Milano s. a., III.
25 G. SALVIOLI, op. ult. cit.: i giudicanti nominati dal re dovevano promettere, per iscritto, di ben
amministrare la giustizia.
26 W. SKEDL, Die Nichtgkeitsbeschwerde in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Leipzig, 1886.
27 C. SCHWARZENBERG, voce Giurisdizione (diritto intermedio) in Enciclopedia del diritto, XIX,
1970, Milano, pag. 201.
14
Chiaramente, come già accennato, il re non era l'unico soggetto a cui
veniva attribuito il potere giurisdizionale28: nel regno, diviso in ducati, la
massima autorità era rappresentata dai duchi i quali esercitavano la
giurisdizione nel proprio territorio, decidendo le controversie con l'ausilio di
propri collaboratori, i missus domni reges. Il ducato, inoltre, era a sua volta
suddiviso in sottoterritori, al capo dei quali vi erano gastaldi, scudalsci, decani
ed attori, muniti di specifico potere giurisdizionale.
In detto periodo, col termine Iudex venivano pertanto indicati i magistrati
investiti di potere giurisdizionale direttamente dal re che avevano competenza
decisionale nella propria iudiciaria, cioè la porzione di territorio nella quale
potevano esercitare il proprio potere29.
E' interessante a questo punto evidenziare come il sistema “giudiziario”
appena accennato convinse Carlo Magno, tra il VI e l'VIII secolo, ad introdurre,
nei propri territori, un governo che, se da un lato era caratterizzato da profili di
unità e accentramento30, dall'altro tentava di gettare le basi per un primordiale
principio di legalità nella giurisdizione, molto diverso ovviamente da quello da
noi conosciuto.
Il territorio, infatti, venne articolato in magistrature, centrali e delle
province; al centro il sovrano veniva coadiuvato da ufficiali come il senescalco,
cui spettava la sovraintendenza del palazzo regio, il magister pincernarum, a
capo dei coppieri, il camerario, che aveva la cura delle stanze del Sovrano e del
suo tesoro, il comes stabuli, responsabile delle stalle e dei trasporti.
In provincia, viceversa, il rappresentante del sovrano era il conte, di nomina
regia, che governava su un territorio ben definito (la contea) utilizzando i poteri
sovrani mediante l'aiuto di un proprio vicario.
In tale complesso organigramma, Carlo Magno volle fossero scelti tra gli
uomini liberi “sapientes, Deum timentes, mundanae legis documentis eruditi”
28 P. DIACONO, Storia dei Longobardi, Milano, 1992.
29 E. BERNARDINI, L'arte medievale: visigoti, longobardi, carolingi verso l'anno mille, Milano, 2004.
30 M. CARAVALE, op. ult. cit., pag. 117 e ss.
15
con lo specifico compito di formulare le sentenze poi pronunciate dai comites31.
Tali soggetti presero il nome di Scabini, funzionari regi incaricati di
accompagnare i comites per l'esercizio della funzione giurisdizionale32.
L'introduzione degli Scabini, secondo un’autorevole dottrina, apportò due
enormi vantaggi per l'amministrazione della giustizia: da un lato, si creò nel
regno l'idea che la giustizia derivasse dal popolo; dall'altro, considerando che
gli Scabini venivano estratti dai territori in cui poi avrebbero esercitato i propri
poteri, così possedendo specifica cognizione del diritto applicabile, vennero
risolti numerosi conflitti inerenti il diritto da applicare in quella determinata
porzione di territorio33.
Carlo Magno, inoltre, si impegnò molto per far rispettare dai suoi delegati i
principi del proprio ordinamento, mediante l'introduzione di numerose
disposizioni ad essi rivolte: il giudice, per esempio, doveva conoscere la legge e
(non a caso) il suo popolo; i conti, a loro volta, dovevano scire legem per
evitare decisioni ingiuste o illegittime.
Ciò portò nel periodo carolingio ad un attento controllo dell'operato dei
giudici che venivano puntualmente condannati quando non esplicavano
fedelmente le proprie attribuzioni e, per lo più, per fatti riguardanti la
denegazione di giustizia.
In altri termini, era stato introdotto, anche se con connotati molto diversi da
quelli odierni, un principio di legalità nella giurisdizione che consisteva
nell'obbligo di “rispettare” i principi provenienti dall'ordine sovrano, adempiuto
da soggetti esperti di diritto.
Tale meccanismo fu reso possibile mediante l'introduzione di una nuova
figura, i c.d. missi dominici, soggetti che, nell'impero carolingio, esercitarono
31 C. SCHWARZENBERG, op. ult. cit. pag. 203 e ss.
32 Bisogna precisare, però, che gli Scabini non erano giudici in senso tecnico ma “urteilfinder”
lett. cercatori di sentenza. Venivano anche denominati legumlatore, in quanto, quando la fattispecie
concreta sottoposta al loro giudizio non era prevista da alcuna norma, erano legittimati a decidere
secondo equità (ut rectum visum fuerit), creando la regola.
33 F. CALASSO, Medioevo del diritto, I, Milano, 1954, pag. 210 e ss.
16
diverse funzioni. A loro era attribuito, per esempio, il potere di riparare alla
negligenza dei giudici che erano incorsi in denegazione di giustizia, quello di
sostituire le sentenze dei comites emesse a proprio vantaggio personale o viziate
da corruzione, ecc34.
Anche i sistemi vigenti nell'epoca dei Comuni italiani, come accennato,
tentarono di inserire negli ordinamenti vigenti un principio che vincolasse
l'attività del giudice al rispetto della norma: anche in questo caso, vista la
concentrazione dei poteri sovrani, non si può parlare di un vero e poprio
principio di legalità, dato che numerose controversie venivano decise tramite il
ricorso all'aequitas; tuttavia le idee sorte nell'epoca dei Comuni gettarono le
basi per l'innovazione che sarebbe poi giunta con la teorizzazione del principio
di separazione dei poteri.
A metà dell'XI secolo si assistette ad una dirompente spinta, tanto nell'ambito
sociale quanto in quello giuridico, che contribuì al formarsi di una “nuova
epoca”, definita da alcuni autori “rinascimento giuridico”35. I fattori che,
secondo la dottrina maggioritaria36, innescarono un siffatto vento di
cambiamento sono molteplici: il superamento dell'anno Mille 37, nel quale,
secondo la tradizione popolare, si sarebbe dovuta verificare la fine del mondo,
come testimonia l'apposizione, nelle donazioni effettuate nei confronti della
Chiesa, della formula “appropinquante fine mundi”38; l'aumento demografico
34 Non si può parlare però di una uniformità di poteri dei missi dominici: mentre nei confronti
delle decisione dei vicari o dei giudici ecclesiastici potevano intervenire direttamente, per quelle dei
comites dovevano preliminarmente riferire al sovrano, che poteva attirare sotto di sé la decisione.
35 F. CALASSO, Medioevo del diritto, I – Le fonti, Milano, 1954, pag. 347 e ss. L'A. sottolinea che,
generalmente, con tale termine viene identificato anche il periodo storico riferentesi ai secoli XV e
XVI.
36 G. I. LUZZATTO, Storia economica d'Italia, Roma, 1949; G. DE VERGOTTINI, Origine e sviluppo
storico della comitatinanza, in Studi senesi, vol. XVIII, 1929.
37 Cfr. F. CALASSO, op. ult. cit., pag. 347, che ricorda “le parole con le quali il CARDUCCI iniziava il
discorso Primo (1868) Dello svolgimento della letteratura nazionale: <<V'immaginate il levar del sole
nel primo giorno dopo l'anno mille? Questo fatto di tutte le mattine ricordate che fu quasi miracolo, fu
promessa di vita nuova, per le generazioni uscenti dal secolo decimo? Ecc.>> Opere (ed. naz.), VII, p.
3”.
38 V. TAMASSIA, La formula <<appropinquante fine mundi>> nei documenti del medio evo, in Il
Filangieri, XII, 1887.
17
della popolazione e, conseguentemente, dei ceti meno abbienti39; la crescita
della produzione delle merci e della circolazione della ricchezza, con il crearsi
di una nuova borghesia, composta da artigiani, industriali, professionisti,
banchieri e commercianti40.
La società feudale, basata sulla proprietà terriera, venne pertanto travolta
sotto la spinta innovativa delle classi emergenti, che iniziarono a riunirsi in
consorterie41: nasce una nuova vita politica che in numerosi territori italiani si
concretizzò con l'istituzione del Comune42 e con la conseguente modifica del
sistema giurisdizionale che cercò di rispondere alle nuove esigenze cittadine.
Il Comune veniva governato da un Consiglio generale cittadino43 che
eleggeva i propri magistrati, detti Consoli, i quali - in un primo momento in
rappresentanza del Vescovo - erano incaricati della reggenza44. I Consoli, ai
quali era demandato in linea di principio il potere giurisdizionale, prestavano
giuramento di fedeltà davanti alla cittadinanza: in tale cerimonia elencavano i
39 G. I. LUZZATTO, L'inurbamento delle popolazioni rurali in Italia nei secoli XII e XIII, in Dai servi
della gleba agli albori del capitalismo, Bari, 1966 (già in Studi di storia e diritto in onore di Enrico
Besta, Milano, 1939); N. RODOLICO, Il popolo minuto, Bologna, 1899; R. CAGGESE, Classi e Comuni rurali
nel Medio Evo italiano, Firenze, 1909.
40 F. CALASSO, op. ult. cit., pag. 350 e ss.
41 Per approfondimenti: F. NICCOLAI, I consorzi nobiliari ed il Comune nell'alta e media Italia,
Bologna, 1971.
42 C. SCHWARZENBERG, op. ult. cit.: “Il travaglio della rivoluzione comunale riesce, dopo dure lotte, a
strappare dalle mani del comes quella iurisdictio piena, che diventerà esclusiva del comune cittadino e
per la quale sarà, in seguito, necessario procedere ad una divisione di competenza sulla base di un
ordine gerarchico fra le singole giurisdizioni interne”.
43 È interessante notare come gli Statuti Comunali contenessero una procedimento che, se non
puntualmente seguito, inficiava la validità delle deliberazioni assunte dall'organo collegiale cittadino.
Esso prevedeva, per esempio, la convocazione dell'assemblea in presenza di un numero minimo di
cittadini e la verbalizzazione delle decisioni. Sul punto cfr. F. SENATORE, Medioevo: istruzioni per l'uso,
Firenze, 2008, pag. 118 e ss. "In un organo collegiale una decisione è considerata valida e legittima
perché, all'interno di competenze prestabilite, è stata seguita una corretta procedura: convocazione
della riunione, presenza del numero legale, discussione e dichiarazione di voto, scrutinio segreto,
verbalizzazione. La forma in questo caso è la sostanza".
44 C. CAPRA, G. CHITTOLINI, F. DELLA PERUTA, Storia Medievale, Firenze, 1995 pag. 334 "Le città
avevano continuato ad essere sedi di autorità ecclesiastiche e civili e, in qualche misura, centri
politico-amministrativi e giudiziari. Ciò grazie in particolare all'autorità del vescovo e ai diritti di
giurisdizione che aveva acquistato nei secoli X e XI sull'area urbana e suburbana. Intorno al vescovo,
alla sua autorità, ai suoi organi di governo, nell'esercizio di quelle funzioni, si erano sviluppati inoltre
ceti urbani diversi, definiti talora dalle fonti boni homines, che acquistarono influenza esercitando il
governo insieme e per conto del vescovo”.
18
compiti che gli venivano demandati che, insieme alle consuetudini e alle leggi
approvate dall'assemblea del Comune, formarono i primi Statuti cittadini45.
Nella seconda metà del XII secolo, accanto all'oligarchia nobiliare, nuove
famiglie iniziarono a rivendicare una posizione di potere all'interno del Comune
di appartenenza.
Si aprì, quindi, una fase di crisi del modello comunale originario che portò
inesorabilmente a sostituire la figura del Console con quella del Podestà, un
professionista, istruito nelle nascenti università, che proveniva da un territorio
esterno al Comune, al quale vennero attribuite le funzioni dell'ormai cessata
carica di Console46.
In tale epoca si assistette ad un cambiamento radicale dell'esercizio dei
poteri giurisdizionali, tanto nel processo civile quanto in quello criminale,
dovuto alla riscoperta del diritto romano nelle scuole e, in particolare, del
sistema procedurale istituito da Giustiniano.
Si abbandonò il processo germanico (caratterizzato da profili di pubblicità,
oralità e fondato sulle prove ordaliche), e si iniziò ad utilizzare il processo
romano-canonico, essenzialmente scritto, il quale si apriva con la
libelli
oblatio, cioè con la comunicazione scritta della pretesa dell’attore, proseguiva
con la litis contestatio, con cui le parti fissavano la propria posizione, e si
concludeva con una pronuncia impugnabile in termini perentori.
L'amministrazione della giustizia, cessati i privilegi ed i poteri dei Vescovi e
dei Conti, fu affidata al Tribunale consolare47, benché l'Imperatore si riservò la
propria competenza per le questioni concernenti le sentenze appellate che
superassero un determinato valore economico.
45 Tale procedura ricorda molto quel che si è poc’anzi detto sul Praetor urbanus in Roma.
46 E. CRISTIANI, Le alternanze fra consoli e podestà ed i podestà cittadini, in Problemi della civiltà
comunale, Milano, 1971, pag. 47 e ss.
47 Nel 1183 la Pace di Costanza aveva riconosciuto ai Consoli la giurisdizione nelle cause sia
criminali che civili, di primo e secondo grado. Vennero soppiantati i tribunali ecclesiastici e le
giurisdizioni feudali.
19
La giurisdizione dei Consoli si estendeva nella città, nel distretto circostante
e ad essa erano assoggettati anche gli stranieri presenti nel territorio comunale. I
Consoli, nell’esercizio delle loro funzioni, potevano essere assistiti da legum
periti, detti anche causidici e consiliarii (pratici del diritto ma non giuristi
dotti).
Alle soglie del XIII secolo, però, come già accennato, la figura del Podestà
sostituì quella del Console, con la conseguenza che l’ordinamento giudiziario si
fece più complesso: venne aumentato il numero dei giudici, distinti per
competenza, e si creò un ordine gerarchico di consules iustitiae presieduto dal
Podestà. I magistrati, a loro volta, potevano essere coadiuvati dal consilium
sapientis, composto da giuristi esperti48.
Al Podestà venne quindi attribuita la plena iurisdictio, anche se poi la
concreta amministrazione della giustizia veniva delegata ai propri funzionari.
All'interno dell'ordinamento comunale si svilupparono, inoltre, numerosi
ordinamenti particolari che seguivano le regole dettate dalla corporazione di
riferimento: l'opera del Podestà non fu, quindi, affatto semplice, dovendo egli
fungere da arbitro nel rapporto tra i vari ordinamenti e, più spesso, negli scontri
tra le varie famiglie che scalpitavano per affermare il proprio potere49.
E' proprio per tali motivi politici che, nel XIII secolo, numerosi territori
passarono da un governo comunale (ispirato a principi repubblicani) ad un
regime signorile, ove il signore aveva l'autorità di governare, amministrare la
giustizia ed adottare provvedimenti militari anche prescindendo dal diritto
vigente: egli era infatti “chiamato a valutare liberamente quali decisioni
fossero più opportune per la miglior difesa degli interessi della comunità, della
giustizia, della protezione del territorio e delle persone”50.
48 R. VUOLI, Il Podestà e la Consulta municipale nell'ordinamento giuridico del Comune, Roma,
1928.
49 Un esempio è il caso di Venezia ove la Serrata del Maggior Consiglio assegnò in modo stabile
il monopolio del governo ad un ristretto numero di famiglie.
50 M. CARAVALE, op. ult. cit., pag. 491.
20
Il formarsi delle signorie produsse, ovviamente, ulteriori innovazioni anche
nell’ordinamento giudiziario51. Considerato che nelle signorie erano ricompresi
più territori, nelle città principali vennero istituiti Tribunali d’appello,
comunemente denominati Tribunali superiori52, la cui circoscrizione si
estendeva in vasti territori.
Essi avevano competenza per le cause di un certo valore economico e per
quelle penali più gravi mentre per le cause minori continuarono ad esercitare il
potere giurisdizionale le Corti di giustizia dei singoli Comuni. Il magistrato
locale, pertanto, prima di essere investito del proprio ufficio, giurava che
avrebbe rinviato alla Corte d'appello centrale tutte le cause di sua competenza.
Inoltre, erano riservate al foro superiore tutte le cause pubbliche, relative a
diritti del fisco, a strade, mulini, boschi, per le quali vennero istituiti tribunali
speciali.
Bisogna ricrdare che, accanto agli ordinamenti appena descritti, in alcuni
territori reggeva un'impostazione ordinamentale di tipo monarchico: tra di essi,
l'esempio più importante è sicuramente costituito dal regno normanno-svevo,
presente nell’Italia meridionale.
Ivi il re era posto a capo dell’amministrazione giudiziaria, e ad egli spettava
la risoluzione delle liti tra i maggiori vassalli del regno, coadiuvato da propri
collaboratori quali il Gran Giustiziere (che si occupava della giurisdizione
criminale), il Gran Camerario, (al quale era affidata la giustizia civile) ed il
Gran Ammiraglio (responsabile dei giudizi militari).
L'organo giurisdizionale apicale era la Magna Curia, presieduta dal re (o in
sua vece dal Gran Giustiziere) e composta dai grandi ufficiali del regno, che
espletava funzioni di ultimo grado di giudizio ed era, inoltre, competente nei
casi di denegata giustizia da parte dei giudici inferiori. Al di sotto vi erano, poi,
i giudici territoriali, dislocati nelle varie province del regno, di nomina regia,
51 M. BELLOMO, Società e diritto nell’Italia medievale e moderna, Roma 2002.
52 R. BOUTRUCHE, Signoria e feudalesimo, Bologna ,1984.
21
che esercitavano per conto del re le proprie funzioni. Tra di essi alcuni venivano
denominati magistrati, con la funzione di regere curiam, e altri giudici, con
l'incarico di ius dicere53.
Si può quindi affermare, come rilevato dalla dottrina54, che “i secoli XII-XV
sono caratterizzati dalla pluralità degli ordinamenti giuridici, e, quindi,
conseguentemente, anche da tutta una molteplicità di giurisdizioni sorte, come
giustamente è stato ricordato dal Calasso55, dalla stessa realtà della vita”.
La situazione sin qui descritta condusse molti giuristi ad elaborare alcuni
principi di teoria generale che “giustificassero” la presenza dei sistemi allora
vigenti.
Tra di essi, molto importanti furono gli studi condotti sul concetto di
iurisdictio: si ricordano le parole di Irnerio “iurisdictio est potestas cum
necessitate iuris scilicet reddenti equitasque statuende”56 e di Bartolo da
Sassoferrato “iurisdictio est potestas de iure pubblico introducta cum
necessitate iuris dicendi et aequitatis, tamquam a persona publica,
statuendae”57 che richiamavano l'importanza del rispetto del diritto vigente da
parte di coloro che fossero i titolari di tale potere ma anche l'applicazione della
norma mediante l'aequitas, che contribuiva all'evoluzione del sistema.
In definitiva, nell'epoca dei Comuni (e in quella successiva di cui si è dato
breve conto) gli ordinamenti cercarono di vincolare l'esercizio della
giurisdizione a regole più o meno precise, innescando alcuni meccanismi che
privilegiassero una sorta di legalità quanto meno nella risoluzione di quelle
controversie che si basavano su regole del diritto comune pacificamente
riconosciute vigenti. Tuttavia, come accennato, tale opera non portò a grandi
53 E. BESTA, Il diritto pubblico italiano dagli inizi del secolo XII alla seconda metà del secolo XV,
Padova, 1930, pag. 145 e ss.
54 C. SCHWARZENBERG, op. ult. cit., pag. 213.
55 F. CALASSO, Iurisdictio nel diritto comune classico, in Studi in onore di V. Arangio-Ruiz, VI,
Napoli, 1953, pag. 420-443.
56 Glossa decrevit ad Inst. 1.2.6 e glossa decrevit ad l. quod principi, ff. de constitutionibus
principum (D. 2.1.).
57 Glossa ad tit. de iurisdictione (D. 2.1.) edita da E. BESTA, L'opera di Irnerio. Contributo alla
storia del diritto italiano, II, Torino, 1896, p. 20.
22
risultati, almeno per i fini che qui si intende mettere in risalto, proprio perché la
concentrazione dei poteri in poche figure finiva per confondere l'opera
giurisdizionale con quella legislativa: la decisione non era applicazione di una
regola ma, troppo spesso, creazione di essa mediante una valutazione ispirata a
principi di equità. Inoltre, nonostante i numerosi testi normativi, il diritto
positivo non giocava un ruolo così importante come è accaduto dopo “l’era
della codificazione”. Non si era ancora formato, come è noto, lo Stato di diritto.
23
1.2. LA SUDDIVISIONE DEI POTERI STATUALI NEL PENSIERO DI MONTESQUIEU
COME PRIMO PRESUPPOSTO NECESSARIO DEL PRINCIPIO DI LEGALITÀ
NELLA GIURISDIZIONE.
“Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il
potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, poiché si può
temere che lo stesso monarca, o lo stesso senato, facciano leggi tiranniche per
eseguirle tirannicamente. Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non
è separato dal potere legislativo e dall'esecutivo. Se fosse unito al potere
legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario:
infatti il giudice sarebbe legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il
giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se lo
stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo,
esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le
decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le controversie dei
privati"58.
Il passo sopra riportato, sul quale a breve si tornerà, è tratto dal capitolo
sesto dell'undicesimo libro della più celebre opera di Montesquieu e racchiude
in poche righe il pensiero giuridico e filosofico dell'Autore, un pensiero che,
paragonato all'epoca in cui fu teorizzato, risulta geniale e incredibilmente
moderno: è stata proprio la teorizzazione del principio di divisione dei poteri
sovrani, sopra riportata, a gettare le basi degli ordinamenti moderni.
In questo breve paragrafo è allora il caso di analizzare direttamente il
pensiero di Montesquieu e, in particolar modo, le teorie espresse con ferma
lucidità nel capitolo undicesimo de “Lo Spirito delle Leggi”: da esse si possono
trarre importanti spunti per proseguire questa trattazione, proprio perché il
principio di legalità nella giurisdizione può essere prospettato come il risultato
58 CHARLES-LOUIS DE SECONDAT DE MONTESQUIEU, Lo Spirito delle Leggi, Libro XI, Trad. di B. BOFFITO
SERRA, Milano, 1967, pag. 207.
24
di un rapporto tra poteri, esercitati da soggetti diversi, che tra loro si limitano
sino a trovare un equilibrio istituzionale.
Sin qui si è infatti tentato di rilevare che negli ordinamenti antichi non
fosse possibile integrare il principio previsto dall'art. 101 Cost., secondo
comma, tanto perché i poteri statuali erano concentrati in pochi soggetti che li
esercitavano cumulativamente, quanto perché il diritto positivo non esercitava
una rilevante ingerenza, quanto ancora, perché non vi era alcun tipo di
normativa che dettasse dei limiti e delle regole valenti per il potere legislativo
così come è accaduto con l’avvento dello Stato costituzionale di diritto. La
teorizzazione del principio di suddivisione dei poteri, e la sua successiva
applicazione, è stata, pertanto, un passo necessario verso la legalità nella
giurisdizione.
Nel libro XI della propria opera, Montesquieu, premettendo la sua “idea
generale” secondo cui “distinguo le leggi che determinano la libertà politica
nel suo rapporto con la costituzione, da quelle che la determinano nel suo
rapporto col cittadino. Le prime saranno l'argomento del presente libro”,
prende le mosse, per elaborare la sua teoria, dal concetto di libertà, a suo dire
spesso travisato59, arrivando ad affermare che “in uno Stato, vale a dire in una
società dove ci sono delle leggi, la libertà può consistere soltanto nel poter fare
ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve
volere”: “la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono”60.
Occorre soffermarsi su queste poche righe nelle quali è chiara ed evidente
l'influenza che le tesi dei contrattualisti61, in particolare di Hobbes e Locke62,
59 CHARLES-LOUIS DE SECONDAT DE MONTESQUIEU, op. ult. cit. pag. 204: “Non c'è parola che abbia
ricevuto maggior numero di significati diversi e che abbia colpito la mente in tante maniere come
quella di libertà. Gli uni l'hanno intesa come la felicità di deporre colui a cui avevano conferito un
potere tirannico; gli altri, come la facoltà di eleggere quelli a cui dovevano obbedire; altri ancora,
come il diritto di essere armati e di poter esercitare la violenza; altri infine come il privilegio di non
essere governati che da un uomo della propria nazione, o delle proprie leggi”.
60 CHARLES-LOUIS DE SECONDAT DE MONTESQUIEU, op. ult. cit., pag. 205.
61 M. D'ADDIO, voce Contrattualismo, in Enc. del diritto, X, Milano, 1962, pag. 216: “Si suol
denominare con il termine di <<contrattualismo>> quel complesso di teorie che, nell'ambito delle
dottrine politiche, concordano nel ritenere che il fondamento del potere (e quindi della società civile)
25
hanno esercitato nei confronti di Montesquieu. Egli, infatti, inizia il proprio
discorso dal concetto di libertà in un ordinamento in cui è implicito il patto
sociale: la libertà, secondo l'Autore, non consiste nel poter fare tutto ciò che si
vuole, ma nel fare ciò che la legge permette, che dovrebbe coincidere, in linea
generale, con ciò che il singolo individuo deve volere, proprio in ragione del
ridetto patto sociale.
Sotto altro concorrente aspetto la libertà è qui intesa come il potere, di cui è
investito il singolo, di decidere, tanto di non porre in essere ciò a cui la legge
non lo obbliga, quanto ciò che la legge gli permette.
Per Montesquieu, insomma, è la legge – intesa anche sotto il profilo della
certezza del diritto – che si contrappone all'esercizio dispotico del potere, in
guisa tale da creare uno spazio in cui i soggetti sono liberi di agire senza il
timore dell'ingerenza del potere sovrano63.
La preoccupazione dell'Autore è allora quella di individuare i criteri in base
ai quali la libertà politica, all'interno di un ordinamento, può essere esercitata in
quanto “La democrazia e l'aristocrazia non sono Stati liberi per loro natura. La
libertà politica non si trova che nei governi moderati. Tuttavia non sempre è
negli Stati Moderati; vi è soltanto quando non si abusa del potere; ma è una
sia di carattere convenzionale e risieda però in un accordo tra i singoli individui (pactum societas o
unionis)”.
62 Nella concezione di Hobbes gli individui sono inseriti in un contesto naturale in cui non vi
sono regole politiche, sociali e morali. Il contratto pertanto pone in essere un ordine sociale volto a
dirimere i conflitti che naturalmente sorgono nei rapporti tra i vari consociati, così permettendo ai
singoli di vivere serenamente, potendo conservare i propri beni della vita. Sul punto cfr. T. HOBBES,
Il Leviatano, ed. R. GIAMMANCO, I, Torino, 1955, pag. 205 e ss. Nella teoria di Locke la condizione di
partenza (lo stato di natura) ha una caratterizzazione etica più marcata, in quanto gli individui
convivono in una situazione di diritto naturale in cui sono giudici ed esecutori dei propri diritti. Ciò
comporta il rischio di una perenne situazione di conflittualità. Per tale motivo essi si accordano nel
demandare il potere politico ad un organismo rappresentativo del popolo. Cfr. J. LOCKE, Due trattati
sul Governo, Torino, 2010.
63 Sul punto si vedano le riflessioni di G. SILVESTRI, voce Poteri dello Stato (divisione dei), in Enc.
del diritto, XXIV, Milano, 1985, pag. 671: “Il punto centrale dell'elaborazione di Montesquieu
(considerato generalmente il <<padre>> del principio) è stato la tutela e la realizzazione della legalità,
assunta come carattere differenziale dello Stato <<moderato>>, nel quale sussiste una certa misura di
libertà (della persona e dei beni), rispetto allo Stato dispotico, nel quale l'unico principio di governo è
l'applicazione irrazionale della forza. La legge, secondo Montesquieu, deve essere normalmente
generale. La generalità della legge, oltre a costituire il fondamento teorico per la realizzazione della
certezza del diritto, è indispensabile per la stessa affermazione della legalità nei rapporti concreti”.
26
esperienza eterna che qualunque uomo che ha un certo potere è portato ad
abusarne; va avanti finché trova dei limiti. Chi lo direbbe! Perfino la virtù ha
bisogno di limiti”64.
Il passaggio sopra riportato fornisce una chiave di lettura per “giustificare”
la teoria della suddivisione dei poteri: Montesquieu individua nel governo
moderato i presupposti per uno “Stato libero”, ma ciò non basta, in quanto
l'uomo tende per propria natura ad abusare del potere, cosicché è necessario che
all'esercizio di esso venga posto un limite, rinvenibile in un altro potere:
“Perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle
cose, il potere arresti il potere. Una costituzione può essere tale che nessuno sia
costretto a fare le cose alle quali la legge non lo obbliga, e a non fare quelle
che la legge permette”.
Prima, allora, di teorizzare la separazione dei poteri, accennata nel passo
sopra riportato, riemerge in Montesquieu l'influenza delle teorie contrattualiste,
come un cerchio che si chiude mediante il collegamento del presupposto da cui
nasce al fine a cui mira.
L'Autore, infatti, dapprima osserva che gli Stati, oltre ad avere il fine
generale di conservarsi, mirano, a seconda delle ideologie, ad un fine
particolare: l'ingrandimento a Roma, la guerra a Sparta, il commercio a
Marsiglia ecc.
Poi, tra di essi, individua alcuni che hanno il fine costituzionale di garantire
la libertà politica, ed è a tale modello che, con l'uso della retorica, l'Autore si
ispira.
L'equazione sviluppata da Montesquieu si compie, pertanto, con
straordinaria semplicità: se lo Stato è il risultato del patto sociale, contratto dai
singoli per garantire la libertà politica e dirimere i conflitti, lo Stato medesimo,
a sua volta, deve essere improntato a creare un equilibrio nel quale la libertà
64 CHARLES-LOUIS DE SECONDAT DE MONTESQUIEU, op. ult. cit., pag. 206.
27
politica può essere esercitata senza che il potere la sopprima, nei limiti
necessari di cui la legge si fa portatrice65.
Da qui la separazione dei poteri: “Il potere legislativo veniva diviso tra
popolo ed aristocrazia (Camera e Senato); il potere esecutivo apparteneva al
Sovrano; al medesimo doveva essere riconosciuta la facoltà di bloccare le
leggi. Il potere giudiziario era neutro ed imparziale (pur se i giudici dovevano
essere sempre dello stesso ceto dell'imputato)”66.
In tutto il capitolo sesto de “Lo Spirito delle Leggi”, intitolato “Della
Costituzione dell'Inghilterra”, Montesquieu offre allora ai propri lettori
numerosi e proficui temi di riflessione67 che hanno notevolmente influenzato
l’illuminismo giuridico68; tuttavia, ai fini che qui interessano, è il caso di
soffermarsi specificamente soltanto sulla parte di tale capitolo in cui l'autore si
confronta con la libertà politica e il potere giudiziario69: è ancora una volta più
65 CHARLES-LOUIS DE SECONDAT DE MONTESQUIEU, op. ult. cit., pag. 206: “Vi è anche una nazione al
mondo che ha per fine diretto della propria costituzione, la libertà politica. Esamineremo i principi su
cui la fonda. Se son buoni, la libertà vi si rifletterà come in uno specchio. Per scoprire la libertà
politica nella costituzione non occore un grande sforzo. Se si può vederla dov'è, se si è trovata, perché
cercarla?”.
66 A. CERRI, voce Poteri (divisione dei) in Enc. Giuridica Treccani, XXIII, Roma, 1991, pag. 3.
67 U. PETRONIO, La lotta per la codificazione, Torino, 2002, pag. 309: “nel suo libro ci sono tanti
spunti che sono diventati altrettanti capisaldi dell’illuminismo giuridico, almeno per il modo in cui
sono stati recepiti: la definizione di legge come <<la ragione umana, per il fatto che essa governa tutti
i popoli della terra>>, da cui deriva la conseguenza che <<le leggi politiche e civili di ciascuna nazione
non devono essere che i diversi casi particolari ai quali si applica la ragione umana>>; la descrizione
della complessità delle leggi civili in un governo monarchico, che poi è stata letta come una critica alla
molteplicità delle leggi,[...] la descrizione del fatto che in una monarchia si giudica secondo la legge,
quando essa è chiara, e secondo lo spirito della legge, cioè attraverso l’interpretazione, quando essa
non è chiara, mentre in una repubblica è nella natura della costituzione che si giudichi sempre
secondo la lettera della legge, dato che nessun cittadino accetterebbe che si interpretasse una legge
che riguardi i propri beni, il proprio onore o la propria vita [...] l’affermazione, infine, che gli uomini
sono governati da diversi tipi di legge, il diritto naturale, il diritto divino, il diritto canonico, il diritto
delle genti, che può essere inteso come un diritto civile universale, il diritto civile di ciascuno Stato, e
via dicendo”.
68 Si pensi, ad esempio, alla enorme influenza che Montesquieu ebbe sulla rivoluzione francese,
testimoniata dalla famosa formulazione dell’art.16 della Déclaration des droits de l’homme et du
citoyen del 1789: “Toute societé dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée si la séparation
des pouvoirs déterminée, n’a point de constitution”.
69 Per i restanti numerosi profili, si rimanda a: F. RIMOLI, voce Poteri (divisione dei), in
Dizionario di diritto pubblico, a cura di S.CASSESE, Milano, 2006; G. SILVESTRI, La separazione dei
poteri, Milano, 1979-1984; G. BOGNETTI, La divisione dei poteri. Saggio di diritto comparato, Milano,
1994; G. MARANININI, La divisione dei poteri e la riforma costituzionale, Venezia, 1928; F. BASSI, Il
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che evidente l'influenza dei contrattualisti e in modo particolare di Locke,
puntualmente citato70.
principio della separazione dei poteri (evoluzione poblematica) in Riv. trim. dir. pubbl., 1965; V.
ZANGARA, Studio sulla separazione dei poteri, in Scritti giuridici in onore della CEDAM, Padova, 1953.
70 CHARLES-LOUIS DE SECONDAT DE MONTESQUIEU, op. ult. cit., pag. 206. Si riportano di seguito
alcuni passi del secondo trattato sul governo che sembrano essere basilari nell'elaborazione teorica
di Montesquieu: “Per comprendere correttamente il potere politico, e derivarlo dalla sua origine, si
deve considerare la condizione in cui gli uomini si trovano per natura: uno stato di perfetta libertà (a
State of perfect Freedom) di ordinare le loro azioni e disporre dei loro possessi e delle loro persone
come meglio credono, nei limiti della legge di natura, senza chiedere licenza o dipendere dalla volontà
di un altro uomo. Una condizione anche di eguaglianza, in cui ogni potere e giurisdizione sono
reciproci, poiché nessuno ne ha più di un altro, non essendoci nulla di più evidente del fatto che le
creature della stessa specie e dello stesso rango, destinate, senza distinzione, agli stessi vantaggi della
natura, e all’uso delle stesse facoltà, debbano anche essere uguali le une alle altre, senza
subordinazione o soggezione, se il signore e padrone di tutte loro, con una dichiarazione manifesta
della sua volontà, non ne ha collocata una in posizione di preminenza sulle altre, e non le ha conferito,
con una scelta chiara ed evidente, un diritto certo al dominio e alla sovranità [...] Ma, sebbene sia uno
stato di libertà, tuttavia non è uno stato di licenza; sebbene l’uomo abbia in quello stato
un’incontrollabile libertà di disporre della sua persona e dei suoi possessi, non ha la libertà di
distruggere se stesso, né qualsiasi creatura in suo possesso, se non quando lo richieda un qualche fine
più nobile della sua mera conservazione. Lo stato di natura ha una legge di natura che lo governa, che
obbliga tutti: la ragione, che è quella legge, se consultata, insegna all’umanità tutta che, essendo tutti
uguali e indipendenti, nessuno dovrebbe recar danno alla vita, alla salute, alla libertà e ai possessi di
un altro, poiché gli uomini essendo tutti fattura di un solo creatore onnipotente e infinitamente
saggio; essendo tutti servitori di un unico padrone sovrano, inviati sulla terra per suo ordine e per i
suoi intenti, sono proprietà di colui che li ha creati, e destinati a durare finché piaccia a lui, e non ad
altri. Poiché siamo dotati delle stesse facoltà e partecipi della medesima comune natura, non si può
supporre tra noi alcuna subordinazione, che ci autorizzi a distruggerci gli uni con gli altri, come se
fossimo fatti per l’uso gli uni degli altri, come gli ordini inferiori delle creature sono fatti per il nostro
uso. Come ognuno di noi è tenuto a preservare se stesso, e a non abbandonare volontariamente la
propria posizione; così, per la stessa ragione, quando ciò non entra in competizione con la sua stessa
sopravvivenza, per quanto può, deve preservare il resto dell’umanità, e non può, se non per fare
giustizia nei confronti di un criminale, uccidere o danneggiare la vita o quanto serve alla
preservazione della vita: la libertà, la salute, l’integrità fisica o i beni di un altro. Affinché a ogni uomo
sia impedito di violare i diritti altrui e di nuocere ad altri, affinché la legge di natura, che vuole la pace
e la preservazione di tutta l’umanità, sia osservata, l’esecuzione della legge di natura è in quello stato
nelle mani di ogni uomo, per cui ognuno ha diritto di punire il trasgressore di quella legge nella
misura in cui ciò può impedire la sua violazione. La legge di natura, come tutte le altre leggi che
riguardano l’uomo in questo mondo, esisterebbe inutilmente, se non ci fosse nessuno che nello stato di
natura avesse il potere di eseguire quella legge, e quindi di preservare l’innocente e reprimere i
criminali. Se nello stato di natura chiunque può punire un altro per un male che gli è stato fatto,
ognuno può farlo; perché in quello stato di perfetta eguaglianza, in cui per natura non c’è superiore,
né giurisdizione di uno su un altro, ciò che ciascuno può fare in accordo con questa legge, ognuno
deve avere il diritto di farlo. […] Se l’uomo nello stato di natura è libero come si è detto, se è assoluto
padrone della sua persona e dei propri beni, uguale al più grande tra tutti e soggetto a nessuno,
perché si priva della propria libertà? Perché cede questo imperio e si sottomette al dominio e al
controllo di un qualsiasi altro potere? A ciò è ovvio rispondere che, sebbene nello stato di natura egli
ha tale diritto, tuttavia il godimento di esso è molto incerto, e costantemente esposto alla violazione
da parte di altri. Poiché tutti sono re quanto lui, ogni uomo essendo suo pari, e poiché la maggior
parte di essi non osserva in modo stretto l’equità e la giustizia, il godimento della proprietà che egli
ha in questo stato è molto insicuro, e incerto. Ciò gli fa desiderare di lasciare questa condizione, che,
per quanto libera, è piena di paure e continui pericoli. Non è perciò senza ragione che egli spera e
29
Montesquieu afferma che la libertà politica “consiste in quella tranquillità
di spirito che proviene dall'opinione che ciascuno ha della propria sicurezza; e
perché si abbia questa libertà, bisogna che il governo sia tale che un cittadino
non possa temere un altro cittadino”. Per addivenire a ciò, allora, occorre che
l'ordinamento si fondi su un costante rapporto tra poteri sovrani, esercitati da
soggetti diversi, in modo tale che essi si limitino, si bilancino tra loro71: come
già detto, egli sostiene che “perché non si possa abusare del potere bisogna
che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere”72.
La libertà politica non può essere garantita se il “potere giudiziario” non
viene separato da quello legislativo73. Ma ciò non basta: Montesquieu pensa ad
un corpo giudicante tratto “dal grosso del popolo, in dati tempi dell’anno, nella
maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale che duri soltanto
quanto lo richiede la necessità”.
vuole unirsi in società con altri che sono già associati, o hanno in mente di unirsi per la salvaguardia
reciproca delle loro vite, della loro libertà e dei loro patrimoni, cose che definisco col termine generico
di proprietà. Il fine principale e fondamentale per cui gli uomini si uniscono in stati e si sottomettono
al governo, dunque, è la salvaguardia della proprietà; fine in vista del quale molte cose mancano nello
stato di natura. Primo, manca una legge stabile, certa e conosciuta, riconosciuta e accettata per
comune consenso quale criterio del giusto e dell’ingiusto, e misura condivisa per risolvere ogni
controversia. Sebbene, infatti, la legge di natura sia chiara e intelligibile a tutte le creature razionali;
tuttavia, gli uomini, essendo sviati dai loro interessi, e ignoranti di essa per non averla studiata, non
sono in grado di riconoscerla come legge vincolante nella sua applicazione ai casi concreti”.
71 A. CERRI, op. ult. cit. pag. 3: “In realtà il sistema di Montesquieu a buon diritto potrebbe essere
anche considerato il progenitore del principio dei pesi e contrappesi”. L'A., sul punto, rimanda a: M. J.
C. VILE, Constitutionalism and the separation of powers, Oxford, 1969.
72 Secondo la dottrina, F. RIMOLI, voce Poteri (divisione dei), in Dizionario di diritto pubblico, a
cura di S. CASSESE, Milano, 2006, in Montesquieu “la tripartizione delle funzioni (e dei poteri), svolta
secondo la consueta corrispondenza, si arricchisce, però […] di un insieme di strumenti volti ad
assicurare un reciproco controllo, un sistema di bilanciamenti che avrà molta fortuna in seguito”, ed
infatti, si rileva che “tale ricostruzione è ripresa e resa più complessa in Benjamin Constant (che
individua ben cinque poteri: uno neutrale, quello regio, uno rappresentativo ereditario, nel senato,
uno rappresentativo popolare, nella Camera dei rappresentanti, uno esecutivo, nel governo, e uno
giudiziario) nonché dagli autori del Federalist, per i quali alla cnsueta tripartizione si connette
strettamente il modello federale e il principio della non coincidenza della durata dei mandati, ambedue
intesi, nel peculiare contesto nordamericano, come ulteriore momendo di garanzia dell’equilibrio tra
i poteri stessi e tra le forze sociali di una nazione in via di formazione, e infine da Rousseau, che coglie
appieno la stretta connessione tra il principio di divisione dei poteri e sovranità”
73 “Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e
dall’esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe
arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe
avere la forza di un oppressore”.
30
Ed è a questo punto della trattazione, sulla base del pensiero di Locke, che
Montesquieu afferma: “Ma se i tribunali non devono essere fissi, i giudizi
devono esserlo a un punto tale da costituire sempre un preciso testo di legge. Se
fossero una opinione particolare del giudice, si vivrebbe nella società senza
conoscere esattamente gli impegni che vi si contraggono” 74.
Si tratta di un richiamo al principio di legalità nella giurisdizione,
ovviamente molto lontano e primordiale rispetto a quello contenuto all’art. 101,
comma 2, che l’Autore, peraltro, espone principalmente per risolvere due ordini
di problemi: da un lato, delimitare il potere del giudice, il quale non deve fare
ricorso al libero arbitrio; dall’altro lato rispondere alle esigenze di certezza del
diritto.
Tali problemi, molto sentiti nell’era dell’illuminismo, si inserirono nella
coscienza sociale, al punto tale che su di essi vi furono accesi dibattiti e veri e
propri scontri: iniziarono a nascere quei movimenti che portarono alla creazione
dello Stato costituzionale di diritto.
74 L’affermazione di Montesquieu deve molto alle riflessioni esposte da Locke nel paragrafo
136 del secondo trattato sul governo, puntualmente citato: “In secondo luogo, l’autorità legislativa o
suprema non può assumersi il potere di governare per mezzo di decreti arbitrari ed estemporanei,
ma è tenuta a dispensare giustizia e a decidere i diritti dei sudditi per mezzo di leggi promulgate e
valide, e giudici conosciuti e autorizzati. Infatti, poiché la legge di natura non è scritta, e quindi non è
possibile trovarla che nella mente degli uomini, chi, per passione o interesse, la cita o applica male,
non può essere così facilmente convinto del suo errore, se non c’è un giudice stabilito; e così non è
utile come dovrebbe, a determinare i diritti e a fissare i confini della proprietà di chi vive sotto di essa,
soprattutto quando tutti ne sono giudici, interpreti ed esecutori, anche nella loro stessa causa. Anche
colui che ha il diritto dalla sua parte non ha forza sufficiente per difendersi dalle offese o per punire i
delinquenti, non avendo che la sua sola forza. Per evitare questi inconvenienti, che disturbano la
proprietà nello stato di natura, gli uomini si uniscono in società, in modo da poter avere la forza
congiunta dell’intera società per assicurare e difendere la loro proprietà, e leggi stabili per delimitarla
così che ciascuno possa sapere ciò che è suo. E’ a questo fine che gli uomini affidano tutto il loro
potere naturale alla società, nella quale entrano a far parte, e la comunità mette il potere legislativo
nelle mani che ritiene adatte, con la fiducia che sarà governata da leggi dichiarate, altrimenti la pace,
la quiete e la proprietà saranno ancora nella condizione d’incertezza, in cui si trovavano nello stato di
natura”.
31
1.3. LO STATO COSTITUZIONALE DI DIRITTO COME SECONDO PRESUPPOSTO
NECESSARIO PER LA CONSACRAZIONE DEL PRINCIPIO DI LEGALITÀ
NELLA GIURISDIZIONE.
In una primissima definizione lo Stato costituzionale di diritto o, più
semplicemente, Stato costituzionale, può essere descritto come l’ordinamento
in cui il potere legislativo viene sottoposto alle regole sancite da una
Costituzione rigida, anche mediante il controllo di legittimità di una Corte a ciò
preposta75. Secondo la più tradizionale ricostruzione storico-sociale, esso nasce
e si sviluppa per superare i limiti dello Stato di diritto.
E’ da quest’ultimo, pertanto, che bisogna prendere le mosse al fine di
comprendere
dapprima
in
cosa
consista
lo
Stato
costituzionale
e,
successivamente, perché è così importante per la genesi del principio di stretta
legalità nella giurisdizione.
L’espressione Stato di Diritto76 (Rechtsstaat) affiora nei primi decenni del
XIX sec. nella letteratura tedesca77 per inneggiare un nuovo modello di Stato, in
cui la libertà e l’eguaglianza di ogni individuo assumono un ruolo centrale,
sulla spinta delle idee sorte nell’illuminismo. Esso è stato definito come “lo
Stato che assoggetta se stesso alle regole di diritto che esso stesso pone. Può
cambiarle, ma fino a che i suoi organi competenti a modificarle – e solo essi, in
base al principio di separazione dei poteri – non le modificano, lo Stato non
75 G. MORBIDELLI, "La costituzione" in G. MORBIDELLI, L. PEGORARO, A. REPOSO & M. VOLPI, Diritto
pubblico comparato, Torino, 2004, pag. 27-72.
76 Ovviamente, viene indicata come Stato di diritto anche la dottrina inglese del Rule of law –
teorizzata soprattutto da A. Venn Dicey basata sui “limiti impliciti che la legge stessa incontra nel
contesto stratificato di privilegi, di diritti e di garanzie processuali, che fanno da muro da secoli
contro il potere statale” G. AMATO, Forme di Stato e forme di governo, Bologna, 2006.
77 Una parte della dottrina non è concorde sulla paternità della teoria: cfr. R. CARRÈ DE MALBERG,
Contribution à la Théorie générale de l’État, I, Paris, 1920 e G. BURDEAU, Traité de science politique, IV,
Paris, 1964 secondo i quali lo Stato di Diritto nasce con la teoria della costituzione adottata
dall’Assemblea costituente francese del 1789. Altri autori, prediligono una via di mezzo, secondo la
quale la teoria del Rechtsstaat è un’evoluzione o comunque si basa sulla dottrina dei limiti del potere
regio. Cfr. R. VON MOHL, Die Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften, I, Graz, 1960, p. 227
e ss.
32
può ignorarle, pena la sua condanna da parte dei suoi stessi tribunali, aditi
dall’individuo leso dal comportamento statale illegittimo”78.
Presupposto dello Stato di diritto è lo Stato liberale, che sulle ceneri
dell’organicismo, il quale anteponeva l’organismo-istituzione all’individuo,
costruisce un nuovo modello in cui la persona, punto focale dell’ordinamento,
deve essere “protetta” da leggi obiettive che si inseriscono nei comportamenti
da questo tenuti79.
Tutto ciò viene posto in essere mediante la consacrazione del nuovo ruolo
che la legge deve assumere: lo Stato-Ente è allora obbligato ad agire sotto i
vincoli da questa imposti; il potere esecutivo non deve essere immune
dall’accertamento giurisdizionale, ma anzi superarne il vaglio di “legittimità”; il
diritto deve ispirarsi il più possibile a margini di certezza80.
La legge, pertanto, “è il tramite indispensabile della libertà. L’individuo è
libero in quanto agisce nei binari della legge e questa a sua volta è l’unico
strumento capace di proteggerlo dall’arbitrio”81.
La supremazia della legge sul potere esecutivo e su quello giurisdizionale,
nel senso sin qui delineato, assume e presuppone l’effetto e lo scopo di
78 P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, p. 12
79 G. ZAGREBELSKY, Società – Stato – Costituzione, Torino, 1988, pag. 52: “mentre l’individualismo
ha come obiettivo quello di liberare l’individuo dalle costrizioni che gli derivano dall’essere parte di
una società organizzata secondo leggi obiettive, scale gerarchiche intangibili ecc. – l’organicismo
mira allo scopo opposto, il controllo delle energie individuali, considerate distruttive, secondo un piano
obiettivo”.
80 La Costituzione della Confederazione Svizzera si è preoccupata di codificare tali principi:
“art. 5. Stato di diritto: 1. Il diritto è fondamento e limite dell’attività dello Stato. 2. L’attività dello
Stato deve rispondere al pubblico interesse ed essere proporzionata. allo scopo. 3. Organi dello Stato,
autorità e privati agiscono secondo il principio della buona fede. 4. La confederazione e i Cantoni
rispettano il diritto internazionale. art. 7. Dignità umana. La dignità della persona va rispettata e
protetta. art. 8. Uguaglianza giuridica. 1. Tutti sono uguali davanti alla legge. 2. Nessuno può essere
discriminato, in particolare a causa dell’origine, della razza, del sesso, dell’età, della lingua, della
posizione sociale, del modo di vita, delle convinzioni religiose, filosofiche o politiche, e di menomazioni
fisiche, mentali o psichiche. 3. Uomo e donna hanno uguali diritti. La legge ne assicura l’uguaglianza,
di diritto e di fatto, in particolare per quanto concerne la famiglia, l’istruzione e il lavoro. Uomo e
donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore. 4. La legge prevede
provvedimenti per eliminare svantaggi esistenti nei confronti dei disabili”.
81 P. COSTA-D. ZOLO, Lo Stato di diritto, Milano, 2002, pag. 94.
33
garantire l’eguaglianza giuridica di ogni individuo, anche sotto il profilo dei
diritti e delle libertà che iniziano ad essere riconosciuti come fondamentali82.
In altri termini, “lo Stato di diritto è legato in modo indissolubile alla
presenza di alcune forme istituzionali, senza le quali la sua astratta
proclamazione rimarrebbe priva di effettività. Queste possono essere
individuate nella separazione dei poteri, nel principio di legalità e nella
contemporanea tutela di libertà ed eguaglianza. Solo la presenza di questi
pilastri può rendere possibile la realizzazione di un antico sogno, il governo
delle leggi, ritenuto già nella Politica di Aristotele, migliore di quello degli
uomini, in quanto capace di imporre regole al potere”83.
Essenziale sottolineare, poi, che lo Stato di diritto, anche nel pensiero dei
suoi primi fautori84, presuppone la partecipazione popolare nel formarsi della
legge, che ha il compito di delimitare il potere politico. Del resto la legge può
essere “accettata” dagli individui soltanto se essi partecipano al procedimento
pubblico di sua formazione85.
Tuttavia, secondo la dottrina classica del Rechtsstaat, affinché il potere
legislativo non si trasformi da garanzia per i cittadini a strumento per
raggiungere i propri obiettivi personali86 occorre il ricorso al sistema censitario,
tipico degli Stati liberali.
Sulle basi di quanto sin qui evidenziato, la teoria del Rechtsstaat perde
allora la sua carica originaria, puntando ad intervenire sul presupposto
dell’esercizio della sovranità e, in particolare, sulla sua formale legittimazione:
la legge diviene il parametro ed il limite su cui valutare l’azione del potere
esecutivo.
82 A. CERRI, Uguaglianza (principio di), in Enc. Giuridica Treccani, XXIII, Roma, 1991.
83 G. SILVESTRI, Lo Stato di diritto nel XXI secolo, in Rivista dell’Associazione Italiana dei
Costituzionalisti, 2, Roma, 2011, pag. 2.
84 R. VON MOHL, Das Staatsrecht der Königsreichs Wurttemerb, Tübingen, 1840.
85 Non sorprende, pertanto, che le successive riflessioni sullo Stato di diritto si siano incentrate
sulle modalità di partecipazione popolare al processo rappresentativo.
86 Cfr. B. CONSTANT, Cours de politique constitutionelle, Bruxelles, 1851, pag. 143-145, il quale
intravede il rischio che si cerchi di raggiungere il benessere mediante la politica e non con il
proprio lavoro.
34
Ne consegue, come rilevato da Stahl87, che il Rechtsstaat abbandona
l’analisi dello scopo e dell’oggetto dell’attività statuale per concentrarsi sul
modo e sul metodo per la sua realizzazione: dallo scopo si è passati alla forma
dello Stato88 e lo Stato di diritto (Rechtsstaat) finisce col coincidere con il
diritto dello Stato (Straatsrecht).
Si affaccia pertanto l’idea che la semplice soggezione dei pubblici poteri al
potere legislativo non possa soddisfare le esigenze per le quali è sorta la teoria
dello Stato di diritto, in considerazione del fatto che l’attività normativa non
incontra alcun limite.
Già nei primi anni del novecento la dottrina tedesca89 sottolinea
l’importanza che lo Stato imponga a sé medesimo delle regole da seguire; alle
stesse conclusioni giunge, in Francia, Carrè de Malberg90. In questa concezione
i diritti non preesistono allo Stato ma sono il frutto di un atto volontario di
regolazione della sovranità, di autoobbligazione, di autolimitazione91.
Iniziano a sentirsi i mormorii di chi teme che porre l’accento sull’aspetto
formale del rispetto della legge possa condurre ad effetti catastrofici, tali da
poter stravolgere l’ordinamento sociale: la supremazia della legge non vincolata
da alcun limite può, se portata all’estremo, condurre a legalizzare e, quindi,
legittimare qualsiasi principio, qualsiasi norma.
Sebbene, allora, la teorizzazione dello Stato di diritto e il movimento volto
alla razionalizzazione delle norme mediante lo strumento della codificazione
abbiano giocato un ruolo decisivo verso il principio di legalità nella
87 J. F. Stahl, Die Sttatslehre und die Principien des Staatsrechts, Heidelberg, 1856.
88 G. Dietze, Rechtsstaat und Staatsrecht, in Aa. Vv., Die moderne Demokratie und ihr Recht:
Festschrift fur Gerhard Leibholz, Tübingen, 1966.
89 G. JELLINEK, System der subjektiven öffentlichen Rechte, Tübingen, 1905; R. VON JHERING, Der
Zweck im Recht, Leipzig, 1916.
90 R. CARRÈ DE MALBERG, op ult. cit., pag. 490 e ss.: L’autore nega che in Francia si fosse
configurato un vero e proprio Stato di diritto perché nonostante l’État lègal avesse sottoposto il
potere amministrativo e quello giudiziario alla legge, agli individui non era concessa alcuna
garanzia sull’uso della legge se non “le bon vouloire de l’autorité législative”. Lo stesso concetto verrà
dall’Autore esposto in La loi, expression de la volonté générale, Parigi, 1931.
91 Termini rispettivamente utilizzati da Gerberg, Jellinek e Romano. cfr. L. FERRAJOLI, La
sovranità nel mondo moderno, Roma-Bari, 1997, p. 86.
35
giurisdizione, non si può comprendere il valore intimo dell’odierno art. 101
Cost., II comma, senza dar conto della nascita degli Stati costituzionali e delle
teorie antecedenti al suo formarsi.
In questa prospettiva una funzione determinante deve essere attribuita al
positivismo giuridico e alle successive critiche da esso subìte, nonché alle
dottrine che, per semplicità, possono essere raggruppate sotto il binomio di
“Democrazia e Costituzione”: il dibattito sviluppatosi intorno a questi concetti
ha contribuito a plasmare il pensiero giuridico arrivando a formare pian piano il
modello di Stato costituzionale assunto dall’ordinamento italiano.
Non potendosi, per ovvi motivi di brevità, ripercorrere ogni tappa di tale
percorso, appare utile dar conto, quanto meno per somme linee, dell’acceso
confronto intellettuale sorto tra Hans Kelsen e Carl Schmitt92 sulle ceneri e
sull’esempio della Repubblica di Weimar93, in cui si rinvengono interessanti
spunti concernenti le Costituzioni moderne94, essenziali per il prosieguo del
presente scritto, soprattutto per quel che concerne, da un lato, il principio di
legalità nella giurisdizione come applicazione di una norma costituzionalmente
legittima, dall’altro il controllo di legittimità della Corte costituzionale95.
92 La contrapposizione e l’analisi del pensiero dei due Autori è stata oggetto di numerose
riflessioni. Tra di esse si rimanda a M. CASERTA, Democrazia e Costituzione in Hans Kelsen e Carl
Schmitt, Roma, 2005.
93 G.E. RUSCONI, La crisi di Weimar: Crisi di sistema e sconfitta operaia, Torino, 1977.
94 C. SBAILÒ, Weimar. Un laboratorio per il costituzionalismo europeo. Scienza giuridica e crisi dei
valori occidentali, Troina (Enna), 2007.
95 L’importanza degli studi di Kelsen e delle riflessioni maturate sull’analisi del suo pensiero
sono state ricordate nella giornata di studio svoltasi presso il Palazzo della Consulta il 30 maggio
2003 avente ad oggetto “Ruolo delle Corti costituzionali nelle odierne democrazie”. Nella relazione
finale (consultabile sul sito internet della Consulta) si legge: “Nel 1928, nel clima di profondi
mutamenti del costituzionalismo europeo del primo dopoguerra, Hans Kelsen, padre fondatore del
modello europeo del controllo di costituzionalità di tipo accentrato introdotto dalla Costituzione
austriaca del 1920, osservava che «una costituzione cui manchi la garanzia dell’annullamento degli
atti incostituzionali non è, in senso tecnico, completamente obbligatoria», e che essa equivarrebbe
«presso a poco, dal punto di vista giuridico, ad un voto privo di forza obbligatoria»” e ancora: “[fu]
Hans Kelsen, nella celebre controversia dottrinale sul “custode della costituzione”, che oppose il giurista
viennese a Carl Schmitt alla fine degli anni Venti, ad osservare che l’importanza della garanzia
giurisdizionale della costituzione «è di ordine assolutamente primario per una repubblica
democratica, della quale le istituzioni di controllo sono una condizione di esistenza». Kelsen avvertiva
con forza, pertanto, la consapevolezza che la funzione di stabilizzazione e di razionalizzazione svolta
dalla giustizia costituzionale appare tanto più importante nell’ambito di assetti sociali a carattere
pluralistico: «se l’essenza della democrazia – concludeva – risiede […] nel costante compromesso tra i
36
Entrambi gli autori sopra citati studiano il sistema democratico affrontando
i profili costituzionali che lo stesso dovrebbe incarnare ma con fini molto
diversi tra loro: Kelsen tenta di individuare gli elementi essenziali di una
democrazia per dare una risposta alla crisi da essa subìta nel contesto
parlamentare in cui vive; Schmitt, viceversa, tenta di individuare i limiti del
sistema democratico criticandone l’utilizzo, anche al fine di prendere in
considerazione una svolta autoritaria.
Ambedue gli autori prendono ad oggetto della propria analisi il sistema
democratico ma seguendo uno schema ricostruttivo molto diverso: Kelsen pone
l’accento sul processo di trasformazione e mediazione che subiscono libertà ed
eguaglianza in un ordinamento democratico, arrivando ad elaborare un modello
relativistico di democrazia “che si candida come adeguata all’epoca del
crepuscolo degli idoli e del politeismo dei valori”, in quanto risultato di un
mondo “partorito dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese, dove nessun
valore può sottrarsi alla discussione razionale né si presta a essere
monopolizzato da un’autorità”, sicché “non c’è più qualcosa come un bene
comune, e in sua assenza si può solo mediare fra una pluralità di valori in
conflitto”96. L’Autore, pertanto, nel guardare ad una società differenziata e
pluralista, ritiene che la democrazia debba consistere nella elaborazione di un
sistema procedurale all’interno del quale i valori della società si bilancino tra
loro, nel corso dell’evoluzione dell’ordinamento.
Anche Schmitt, nell’analizzare il contesto sociale in cui vive, è consapevole
di trovarsi in un mondo dove non è possibile, stante l’eterogeneità delle masse,
dei rispettivi bisogni e dei rispettivi valori, individuare il “bene comune” 97, ma
arriva ad elaborare una teoria della democrazia molto diversa da quella
kelseniana: egli rifugge con forza l’idea di sottoporre il potere politico a schemi
gruppi che la maggioranza e la minoranza rappresentano in parlamento, e quindi nella pace sociale,
la giustizia costituzionale appare strumento idoneo a realizzare questa idea»”.
96 M. BARBERIS, Introduzione, in H. KELSEN, La democrazia, ed. it., Bologna, 1995, pag. 31.
97 C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno,
Bologna, 1996.
37
procedurali ed è convinto che in democrazia sia essenziale la sola eguaglianza
sostanziale, attuata mediante la scelta di un preciso contenuto politico che
alimenti la spinta democratica attraverso l’identificazione dei cittadini in tale
contenuto, in tali valori98.
Ambedue gli autori, poi, legano l’idea della democrazia a quella di
Costituzione, in quanto “nella rinnovata attenzione novecentesca agli studi
costituzionali, la costituzione può essere letta quale vertice dell’ordinamento
giuridico della forma politica democratica, sicché costituzione e democrazia si
fondono nel moderno Stato costituzionale democratico”99.
Anche su tale concetto, però, arrivano a conclusioni diverse: Kelsen,
nell’introdurre
la
“dottrina
della
costruzione
gerarchica
a
gradi
dell’ordinamento” (Stufenbaulehre)100 analizza il concetto di Costituzione in
base alla sua funzione, che è volta a garantire il pluralismo democratico. In tale
contesto, la Costituzione si sviluppa su un binomio composto da “Costituzione
in senso stretto” in cui vengono disciplinati gli organi dello Stato e i
procedimenti legislativi, e “Costituzione in senso lato”, che contiene i diritti
fondamentali dell’ordinamento su cui si deve poggiare101, in un’ottica di
garantismo delle masse meno agiate. Tale impianto costituzionale può essere
modificato in ogni sua parte ma con il rispetto delle procedure ivi previste.
98 Per un dettagliato parallelo del concetto di democrazia nei due autori cfr. M. FIORAVANTI,
Kelsen, Schmitt e la tradizione giuridica dell’Ottocento in G. GOZZI-P. SCHIERA, Crisi istituzionale e
teoria dello Stato in Germania dopo la Prima guerra mondiale, Bologna, 1987.
99 M. CASERTA, Democrazia e costituzione in Hans Kelsen e Carl Shmitt, Roma, 2005, pag. 15.
100 G. BONGIOVANNI, Stato di diritto e giustizia costituzionale, in P. COSTA-D. ZOLO, Lo Stato di
diritto, Milano, 2002, pag. 330: “L’introduzione della “dottrina della costruzione gerarchica a gradi”
dell’ordinamento (Stufenbaulehre) e della Costituzione quale norma superiore viene legata a una
nuova interpretazione della dottrina tradizionale delle funzioni dello Stato, cioè della dottrina dei tre
poteri dello Stato. La critica a tale dottrina è rivolta ai suoi aspetti ideologici e alle sue conseguenze
politiche [...]. La teoria gerarchica dell’ordinamento e il primato della Costituzione che ne è il
correlato consentono, al contrario, il superamento dello schema rigido della divisione dei poteri,
concependo tutte le funzioni dello Stato come esecutive della Costituzione, e fornendo in questo modo
“una solida piattaforma unificante che riconduce i poteri alle norme, assicura il rispetto dei vincoli
reciproci e il reciproco coordinamentro tra poteri. La Costituzion e diviene la “fondazione dell’unità”
dello Stato e rappresenta lo strumento della integrale giuridificazione del potere”.
101 H. KELSEN, La garantie jurisdictionelle de la Constitution, traduzione italiana in H. KELSEN, La
giustizia costituzionale (a cura di C. GERACI) Milano, 1981; Id. Vom Wesen und Wert der Demokratie,
Tübingen, 1929.
38
Anche Schmitt parte dall’elaborazione del concetto di Costituzione102 ma il
suo fine è mettere in risalto l’elemento politico che, secondo la sua concezione,
in essa deve risiedere, quale massima espressione dell’ordinamento: la
costituzione diviene allora l’elemento cardine del sistema in quanto costituisce
la “decisione politica fondamentale”. In tale contesto, allora, egli distingue tra
Costituzione e legge costituzionale, la prima immutabile, in quanto costituisce
la scelta politica inemendabile del potere costituente. La seconda, viceversa,
modificabile.
Nonostante il dibattito tra Kelsen e Schmitt sia stato molto acceso oltre che
percepito come l’eterno combattersi tra due posizioni inconciliabili, le loro
riflessioni, combinate, ebbero una notevole influenza nei secoli successivi,
tant’è che non è errato affermare che le loro teorie, rielaborate e sviluppate, si
intrecciano e completano nei moderni sistemi costituzionali.
Esse influenzarono la nuova era di studi sul concetto di Stato, in cui la
contrapposizione
tra
Stato
di
diritto
e
Stato
sociale,
nell’ambito
dell’affermazione del suffragio universale e del principio democratico,
condusse alla formazione dello Stato costituzionale.
La ridetta influenza è ovviamente molto palese in Germania: la legge
fondamentale tedesca del 1949 (Grundgesetz) 103 nell’identificare la Repubblica
federale come Rechtsstaat, la definisce altresì Sozialstaat104 (Stato sociale) 105.
102 C. SCHMITT, Dottrina della costituzione, (a cura di A. CARACCIOLO), Milano, 1984.
103 Si veda, per esempio l’art. 20 della Costituzione tedesca: “(I) La Repubblica Federale Tedesca
è uno Stato federale democratico e sociale.
(II) Tutto il potere statale emana dal popolo. Esso è esercitato dal popolo nelle elezioni e nei
referendum e per mezzo di speciali organi del Potere legislativo, del Potere esecutivo e del Potere
giudiziario.
(III) La legislazione è vincolata all'ordinamento costituzionale, il potere esecutivo e la
giurisdizione sono vincolati alla legge ed al diritto.
(IV) Tutti i tedeschi hanno diritto alla resistenza contro chiunque intraprenda a rimuovere
l'ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio”.
104 Sulle problematiche riguardanti la difficile conciliazione tra Rechtsstaat e Sozialstaat cfr. E.
R. HUBER, Rechtstaat und Sozialstaat in der modernen Industriegesellschaft, Oldenburg, 1962.
105 Ciò risulta senza ombra di dubbio dalla semplice lettura dell’art. 28 della Grundgesetz: “(I)
L'ordinamento costituzionale dei Länder deve corrispondere ai principi dello Stato di diritto
repubblicano, democratico e sociale ai sensi della presente Legge fondamentale. Nei Länder, nei
Distretti e nei Comuni il popolo deve avere una rappresentanza che emerga da elezioni generali,
39
Se da un lato, quindi, la Grundgesetz riconosce le libertà individuali e la
proprietà come fondanti l’ordinamento tedesco, con l’implicita impossibilità,
secondo il modello dello Stato di diritto, di una loro limitazione da parte della
pubblica amministrazione, dall’altro lato la legge fondamentale tedesca impone
allo Stato medesimo degli obiettivi sociali da raggiungere. I due concetti, come
è stato osservato dalla dottrina, non si coagulano in una forma di Stato ma
segnano un confine tra ciò che è diritto e ciò che è politica106: diritti e libertà
fondamentali trovano garanzia nella Costituzione nei confronti dei poteri
sovrani (diritto) e, nel contempo, i diritti sociali costituiscono obiettivi ai quali
l’amministrazione deve mirare mediante gli strumenti ad essa attribuiti dalla
legge ordinaria107 (politica).
In termini molto simili si accese il dibattito in Italia: tuttavia,
nell’elaborazione di quello che sarebbe poi diventato il nostro Stato
costituzionale, ebbero un’incisiva influenza gli studi pubblicistici dei “difensori
dello Stato”108, partoriti dal grembo di una “nuova” concezione di Stato
unitario, su una presunta, ma non improbabile, “comune ispirazione”109. Oreste
dirette, libere, uguali e segrete. Nei Comuni, al posto di un organo elettivo, può subentrare
l'assemblea dei cittadini del Comune [Gemeindeversammlung].
(II) Ai Comuni deve essere garantito il diritto di regolare, sotto la propria responsabilità,
tutti gli affari della comunità locale nell'ambito delle leggi. Anche i Consorzi di Comuni
[Gemeindeverbände] hanno, nei limiti dei loro compiti fissati dalle leggi, il diritto all'autonomia
amministrativa nei limiti delle competenze loro attribuite dalle leggi.
(III) II Bund garantisce che l'ordinamento costituzionale dei Länder corrisponda ai diritti
fondamentali e alle disposizioni dei commi I e II del presente articolo”.
106 In tal senso cfr. A. MANGIA, L’ultimo Forsthoff, Padova, 1995, pag. 14 e ss.
107 E. FORSTHOFF, Begriff und Wesen des sozialen Rechtsstaates, Berlino, 1954.
108 L’espressione è tratta da S. CASSESE, Lo Stato, <<Stupenda creazione del diritto>> e <<vero
Principio di vita>>, nei primi anni della rivista di diritto pubblico (1909-1911) in Quaderni Fiorentini
per la storia del pensiero giuridico moderno, 16, 1987, Milano, pag. 501.
109 S. CASSESE, op. ult. cit., pagg. 501-502: “Nei primi tre anni di vita della <<Rivista di diritto
pubblico>> si trovano tre scritti, dei tre protagonisti della scienza giuspubblicistica della prima metà
del secolo (Vittorio Emanuele Orlando, Santi Romano, Oreste Ranelletti) dedicati ad un tema allora
centrale, lo Stato. Non è dato sapere con sicurezza se ciò sia stato casuale, ma è probabile che non lo
sia. I direttori della nuova rivista, infatti (Vittorio Emanuele Orlando, Luigi Luzzatti, Antonio Salandra,
Alfredo Codacci Pisanelli, Carlo Calisse, Camillo Corradini e Salvatore D’Amelio), nel <<programma>>
del periodico, intitolato <<il nostro compito>>, affermavano che, essendo ormai <<un fatto
compiuto>> la costruzione scientifica del diritto pubblico, occorreva <<associare le tendenze sparse e
cospiranti nel fine>>. Occorreva <<una conoscenza unitaria delle indagini nei diversi campi della
scienza>> e, per far ciò, la rivista non doveva essere <<un magazzino di articoli scientifici>>. Il
programma – probabilmente, considerato lo stile altisonante e appassionato, scritto dal primo
40
Ranelletti, Santi Romano e Vittorio Emanuele Orlando, ognuno con lo stile che
li contraddistinse, si occuparono di tali problematiche, ponendo molto spesso
l’accento sulle funzioni e sulla nascita dello Stato e sul modo di agire di
quest’ultimo. Il modello italiano, pertanto, assumeva caratteri distintivi dovuti
alla diversità dei quesiti che la dottrina e la politica si ponevano.
Nonostante, allora, il termine Stato di diritto fosse entrato nel patrimonio
della cultura italiana, esso non riprodusse la diversità di significati e prospettive
che erano state sollevate dalla dottrina tedesca110: i concetti di legalità e di
giustizia nell’amministrazione, tra l’altro, erano stati già illustrati dalle dottrine
della “monarchia costituzionale”.
In Italia, pertanto, il termine Stato di diritto veniva utilizzato come
sinonimo di Stato o governo legale111, Stato giuridico112, Stato costituzionale113,
e racchiudeva il significato individuato dalla celebre definizione del Ranelletti
di seguito riportata: “Lo Stato, in quanto si sottopone al diritto, e di questo
assicura l’osservanza anche in riguardo a sé medesimo, per mezzo di apposite
istituzioni, è “Stato di diritto”114.
Benché, allora, le influenze delle dottrine sviluppate in Germania, di cui si
è dato poc’anzi conto, hanno trovato un notevole spazio nel concepimento della
nostra Costituzione, si noti come l’espressione Stato di diritto, che è molto
utilizzata nella Costituzione tedesca, venne raramente usata in senso tecnico
dall’Assemblea Costituente italiana: si rinvengono soltanto alcune citazioni per
firmatario, l’Orlando – insisteva sul fatto che <<ogni fascicolo deve apparire un tutto armonico e
proporzionato>>. Sottolineava l’impegno collettivo (<<nel 1902 eravamo ancora un nucleo: ora è
l’intera famiglia>>). Metteva insieme l’<<intento patriottico e scientifico>> di <<fare scienza
italiana>>, contro la tendenza a ispirarsi soverchiamente alla scuola francese e a quella tedesca. Con
queste ambizioni è probabile che la pubblicazione, a brevissima distanza di tempo, di tre scritti sullo
Stato non sia casuale”.
110 Sul punto si vedano le considerazioni di I. ARTOM, nell’introduzione a R. GNEIST, der
Rechtsstaat, tr. it. Lo Stato secondo il diritto, ossia la giustizia nell’amministrazione politica, Bologna,
1884, III.
111 A. SALANDRA, La giustizia amministrativa nei governi liberi, Torino, 1904.
112 V. MICELI, Principi di diritto costituzionale, Milano, 1913, pag. 226.
113 V. E. ORLANDO, Introduzione al diritto amministrativo, in Primo Trattato completo di diritto
amministrativo italiano, Milano, 1897, pag. 33 e ss.
114 O. RANELLETTI, Principi di diritto amministrativo, Napoli, 1912.
41
definire uno Stato regolato dalle leggi in cui il diritto sia separato dalla
morale115, per far riferimento alla divisione dei poteri116, all’indipendenza della
magistratura117, alla tutela giurisdizionale dei diritti118. Una concezione,
insomma, che non mira a definire l’istituto nel senso tecnico in cui è sorto, ma
ad identificare “tutti i poteri [che] emanano dal popolo e sono esercitati nelle
forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi; nel che sta l’altra esigenza
dello <<Stato di diritto>>”119.
Ovviamente, lo si è detto, i lasciti delle dottrine tedesche concernenti le
teorie dello Stato di diritto, dello Stato sociale e dello Stato costituzionale, con
l’implicita contrapposizione tra libertà individuale e proprietà privata da un lato
e l’impegno sociale dello Stato dall’altro, hanno sollevato in Italia le stesse
problematiche affiorate in Germania: si pensi al lungo dibattito su norme
programmatiche e norme precettive della Costituzione.
Ma proprio i presupposti sociali e culturali dai quali doveva prendere le
mosse l’Assemblea Costituente, già individuati dalla dottrina, consentirono un
sostanziale abbandono del concetto classico di Stato di diritto, per mettere in
risalto i principi democratici di cui lo Stato costituzionale doveva farsi carico.
In questa prospettiva, come si vedrà nel prossimo capitolo in riferimento al
principio di stretta legalità nella giurisdizione, i principi cardine del nostro
ordinamento vengono trattati dall’Assemblea Costituente nel loro significato
più intimo, nel tentativo di distaccarsi da modelli che trovavano fondamento
nelle loro basi storico-sociali, per imprimere le caratteristiche di un Paese che,
in quell’epoca, mirava ad una svolta politica, sociale e culturale.
115 Commissione per la Cost., I Sottocommissione, 4 dicembre 1946, on. Marchesi.
116 A.C., 15 novembre 1947, on. Zotta.
117 A.C., 12 novembre 1947, seduta pomeridiana, on. Caccuri; A.C., 20 novembre 1947, seduta
antimeridiana, on. Bettiol.
118 Commissione per la Cost., II Sottocommissione, II Sez., 9 gennaio 1947, seduta
pomeridiana, on. Bozzi; 27 novembre 1947, seduta pomeridiana, on. Domenidò.
119 Relazione sul progetto di Costituzione presentata dal Pres. Ruini il 6 febbraio 1947.
42
1.4. PRIME RIFLESSIONI SUI PRESUPPOSTI DEL PRINCIPIO DI LEGALITÀ NELLA
GIURISDIZIONE.
Nei paragrafi precedenti l’attenzione si è focalizzata sul principio di
separazione dei poteri elaborato da Montesquieu e sullo Stato costituzionale di
diritto, sul presupposto che tali elementi siano necessari per comprendere a
fondo il principio di legalità nella giurisdizione negli ordinamenti moderni e,
specificamente, in quello italiano.
Non si è tentato di individuare ogni condicio sine qua non di tale principio,
ammesso che ciò sia possibile oltre che utile, in quanto tale operazione sarebbe
esulata dal fine cui si mira. Si è allora data rilevante importanza ai due
presupposti sopra menzionati sulla base delle seguenti riflessioni.
Il principio di legalità nella giurisdizione presuppone, già nella sua
nomenclatura, il rapporto tra due poteri dell’ordine sovrano: normativo e
giurisdizionale.
Per mantenere vivo tale rapporto, affinché non si tramuti in un unicum, è
essenziale che i due poteri non si cumulino nella sfera giuridica dello stesso
soggetto, ma siano attribuiti a due diversi organi statali.
In tempi antichi, la commistione delle promanazioni del potere sovrano in
un unico soggetto non consentiva la creazione del ridetto rapporto: spesso non
si avvertiva la differenza, ammesso che vi fosse, tra ciò che era giurisdizione e
ciò che era potere normativo.
Ma nel momento in cui fu caparbiamente sviluppata la teoria del patto
sociale, l’attenzione si focalizzò sui motivi per i quali una determinata comunità
dovesse rinunciare alle proprie libertà per farsi “regnare” da un soggetto a cui
venivano attribuiti poteri sovrani: tali motivi si rinvennero banalmente nei
compiti e nelle funzioni principali attribuite a tale soggetto che, in una primitiva
concezione, consistevano nel “dettare” le regole per la convivenza, farle
rispettare e attivarsi per il bene della comunità, consistente nei valori sentiti
come più importanti in un determinato periodo storico.
43
Ma la necessaria conseguenza di ciò implica, di per sé, il riconoscimento
di qualcosa di superiore rispetto alle determinazioni del singolo individuo:
implica, cioè, l’esistenza di precetti da rispettare, con la conseguente negazione
in essi di uno spazio per la libera scelta dell’individuo, e, per ragioni di
effettività, la creazione di strumenti per obbligare l’individuo a non venirne
meno.
In estrema sintesi, partendo dal presupposto che ogni individuo fosse
sovrano di sé medesimo, si creò l’idea che la sovranità, al fine di determinare la
base per la necessaria convivenza di tutti gli individui, dovesse essere concessa
ad un soggetto che, nel rispetto di determinati valori, bilanciasse gli interessi
dei singoli e delle masse.
La preoccupazione, allora, anche al fine di garantire un senso di giustizia
comune, fu quella di evitare che l’organo/il soggetto incaricato dell’importante
onere di esercitare il potere sovrano ne abusasse per fini personali.
Non stupisce affatto, allora, la frase di Montesquieu sopra riportata secondo
cui la libertà politica “vi è soltanto quando non si abusa del potere; ma è una
esperienza eterna che qualunque uomo che ha un certo potere è portato ad
abusarne; va avanti finché trova dei limiti”.
La teoria della suddivisione dei poteri ha pertanto un ruolo determinante
nel momento in cui elabora un sistema per limitare le aberrazioni del potere,
mediante l’attribuzione ad organi diversi di funzioni diverse.
La conseguenza di ciò, calata nel contesto del principio di stretta legalità
nella giurisdizione, è che colui che è incaricato di applicare la norma non può
anche dettarne il contenuto, altrimenti tale attività diverrebbe puro arbitrio.
Ma come si tenterà di mettere in risalto nel prosieguo tutto ciò non basta: il
principio di legalità nella giurisdizione implica anche una sorta di suddivisione
“interna” del potere giurisdizionale, nel senso che di seguito verrà prospettato.
Basti per ora pensare al rapporto tra giudice civile e Corte di Cassazione: il
primo vincola la seconda, salvo gravi mende del procedimento, a dare per
44
assunta la prospettazione del caso concreto (leggasi dei fatti postulati in
giudizio) così come accertata nel giudizio svoltosi dinnanzi a lui; la seconda ha
il potere, sempre più ficcante, di vincolare il primo o di sostituirvisi nella
applicazione del principio o della norma cui fa riferimento la fattispecie
concreta.
In tal senso, la soggezione del giudice “soltanto” alla legge deve essere
letta sotto un duplice profilo: un vincolo posto a presidio dell’applicazione della
norma da un lato, ed un obbligo di addivenire alla decisione nei modi e nelle
forme consentite dalla legge e (con la creazione dello Stato costituzionale di
diritto) dalla Costituzione. Non a caso, l’art. 24 della nostra Carta
costituzionale, nel sancire il diritto della persona di agire e difendersi in
giudizio, presuppone necessariamente che il procedimento che scaturisce
dall’esercizio dell’azione sia “conforme” alla legge.
Su tali punti, che in prima lettura possono sembrare oscuri, si tornerà
specificamente nel prosieguo della trattazione.
In questa sede è invece doveroso aggiungere un secondo passaggio che
porta a ritenere la nascita dello Stato costituzionale di diritto come ulteriore
presupposto essenziale del principio di legalità nella giurisdizione.
La nascita della Costituzione ha risposto, tra le altre, all’esigenza di
limitare il potere normativo mediante la creazione di determinate procedure e il
riconoscimento di determinate libertà che costituiscono uno spazio in cui lo
Stato non può intervenire: si fa palese riferimento a quel “nocciolo duro”, di cui
parlò Costantino Mortati, in cui non è ammessa alcuna ingerenza del potere
sovrano. Legalità nella giurisdizione, con la nascita dello Stato costituzionale, si
traduce in applicazione di una legge costituzionalmente legittima: all’uopo
l’istituzione di una Corte costituzionale incaricata, tra l’altro, di porre al vaglio
di legittimità la legge o gli atti aventi forza di legge, ha un’incidenza di non
poco rilievo. Allorquando il giudice si rende conto che la norma che dovrebbe
applicare è in contrasto con le disposizioni della Carta costituzionale ha
45
l’obbligo (per quanto non cogente) di sollevare la questione dinnanzi alla Corte,
proprio in ragione del principio di stretta legalità nella giurisdizione che gli
impone l’applicazione di una norma conforme alla Costituzione.
Sotto altro aspetto, la scelta di riconoscere le libertà fondamentali
dell’individuo, di inserire determinati valori come vincolo al potere normativo e
di affidare allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli, in quanto limitativi di
libertà ed uguaglianza, di ordine economico e sociale che impediscono il pieno
sviluppo della persona umana, si riflette necessariamente sul principio di
legalità nella giurisdizione nel momento in cui il giudice ha l’onere di
domandarsi se la normativa da applicare non sia irragionevole, ed in caso di
risposta affermativa debba sollevare questione di legittimità costituzionale
dinnanzi alla Corte.
In quest’ottica, il meccanismo che si viene a creare, di cui il nostro
ordinamento costituisce il paradigma, è il seguente: il giudice è soggetto
soltanto alla legge; ma la legge è vincolante soltanto nel caso in cui sia
conforme alla Costituzione, anche sotto il profilo della sua ragionevolezza; se il
giudice ritiene che la norma non risponda ai canoni dettati dalla Carta, egli non
ha il potere di non applicare la norma, ma deve rimettere la questione alla Corte
a ciò preposta. A ciò si aggiunga che la Corte non può intervenire direttamente
sulla normativa da essa ritenuta incostituzionale, ma deve essere sollecitata con
gli strumenti a tutti noti.
Si raggiunge, così, un equilibrio del sistema in cui la legalità nella
giurisdizione è presidiata da numerosi meccanismi a ciò destinati. Anche tali
questioni verranno sviluppate nel corso dell’opera.
Quel che però vien da domandarsi è se in ogni giudizio tale sistema
funzioni: in altre parole, il principio di stretta legalità nella giurisdizione così
come sinora accennato, viene pedissequamente seguito come modello
imprescindibile del giudizio, oppure vi sono delle zone d’ombra in cui la
legalità nella giurisdizione può venire meno?
46
Per rispondere a tale quesito si prenderà ad oggetto il sistema
giurisdizionale volto alla risoluzione del contenzioso amministrativo.
47
CAPITOLO 2: IL PRINCIPIO DI STRETTA LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE:
GENESI ED EVOLUZIONE.
2.1. I LAVORI PREPARATORI DELLA COMMISSIONE DEI 75 E L'ART. 94 DEL
PROGETTO DI COSTITUZIONE. L’APPROVAZIONE DELL’ART. 101 COST.
Il 2 giugno 1946 i cittadini italiani120 furono chiamati alle urne per il c.d.
Referendum istituzionale, dovendo scegliere, com’è noto, tra Monarchia e
Repubblica. Contestualmente, agli italiani furono consegnate le schede
elettorali per l’elezione dei deputati che avrebbero poi fatto parte
dell’Assemblea costituente, incaricata, tra gli altri, del delicato compito di
approvare la Carta costituzionale121.
Il 18 giugno del 1946 la Suprema Corte di Cassazione proclamò
ufficialmente la vittoria della Repubblica, con circa 12.700.00 voti. La
Monarchia ne aveva ricevuti, infatti, circa 10.700.000.
Fu così che il 25 giugno 1946 si insediò l’Assemblea costituente, presieduta
dall’on. Giuseppe Saragat, e composta da 556 deputati122.
Tra di essi, il 15 luglio 1946, vennero scelti 75 deputati per comporre la
Commissione per la Costituzione (conosciuta per lo più come Commissione dei
75), presieduta dall’On. Meuccio Ruini, già Presidente del Consiglio di Stato,
incaricata di redigere il progetto di Costituzione repubblicana.
La Commissione venne a sua volta articolata in tre sottocommissioni: la
prima, sui diritti e doveri dei cittadini, presieduta dall’On. Umberto Tupini; la
120 Per la prima volta nel nostro ordinamento, dopo i vani tentativi esperiti nel 1881 e nel
1907 dal movimento femminista ispirato da Maria Montessori, l’elezione avvenne con suffragio
universale, cosicché poterono esprimere il proprio voto tutti gli italiani, senza distinzioni di sesso,
che avessero compiuto il 21° anno di età. Nel 1945, infatti, il Consiglio dei Ministri, presieduto da
Ivanoe Bonomi, aveva emanato il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945, con
cui venne riconosciuto il diritto di voto alle donne.
121 Il Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 98/1946 affidava all'Assemblea il compito di
redigere la nuova costituzione, votare la fiducia al governo, approvare le leggi di bilancio e ratificare
i trattati internazionali.
122 Il sistema elettorale prescelto fu quello proporzionale a liste concorrenti, con suddivisione
in 32 collegi elettorali plurinominali. I deputati avrebbero dovuto essere 573 ma le elezioni non
poterono svolgersi nelle province di Trieste, Bolzano, Fiume, Gorizia e Zara, ancora sotto
occupazione militare.
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seconda, sull’organizzazione costituzionale dello Stato, presieduta dall’On.
Umberto Terracini; la terza, sui rapporti economici e sociali, presieduta dall’On.
Gustavo Ghidini. Inoltre, venne istituito un comitato di redazione (conosciuto
anche come “Comitato dei 18”), nominato dall’Ufficio di Presidenza della
Commissione dei 75, in concertazione con i rappresentanti dei gruppi politici, a
cui fu affidato il delicato compito di coordinare in un testo il lavoro svolto dalla
Commissione dei 75 e dalle sottocommissioni.
I lavori della Commissione terminarono il 12 gennaio del 1947 e il 4 marzo
del medesimo anno il progetto di Costituzione fu portato dinnanzi
all’Assemblea costituente per il dibattito in aula del testo.
La Carta costituzionale fu definitivamente approvata il 22 dicembre del
1947 e, come è noto, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre 1947.
Per quel che qui interessa, all’art. 101 fu inserita la seguente disposizione:
“La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti
soltanto alla legge”.
Orbene,
sino
all’approvazione
della
norma
anzidetta
vigeva
nell’ordinamento italiano il principio sancito all’art. 68 dello Statuto Albertino,
il quale disponeva che la giustizia “emanasse” dal Re e fosse amministrata “in
suo nome dai giudici” dallo stesso “istituiti”
123
: ciò significava, secondo la
prevalente dottrina, il riconoscimento dell’indipendenza dei giudici, i quali non
potevano essere intaccati, nell’esercizio delle proprie funzioni, né direttamente
dal Re né da ordini regi o ministeriali124. La norma, in altri termini, aveva il
pregio di evitare l’ingerenza di ogni altro potere in quello giurisdizionale.
Con l’art. 101 Cost., però, la Costituente andò oltre, preoccupandosi di
affermare, in modo semplice e conciso, la soggezione di tutti i giudici della
Repubblica italiana alla sola legge, in quanto, secondo l’auspicio dell’on.
123 Più precisamente: “La Giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo Nome dai Giudici
ch'Egli istituisce”.
124 In tale prospettiva cfr. F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commentario allo Statuto del Regno, III, Torino,
1909, pagg. 427-428.
49
Meuccio Ruini, l’art. 101 Cost. sarebbe dovuto essere “un’epigrafe, una parola
iniziale di tutto il Titolo” e per tale motivo “breve e lapidario”125.
Per comprendere la genesi e l’animus di tale norma occorre pertanto
prendere le mosse dall’art. 94 del Progetto di Costituzione che il 31 gennaio
1947 fu presentato dalla Commissione dei 75 alla Presidenza dell’Assemblea
costituente. Tale proposta di norma, scaturita a sua volta dai progetti sul potere
giudiziario e sulla Suprema corte costituzionale formulati nelle proprie relazioni
dagli On.li Calamandrei126, Leone127 e Patricolo128 , era originariamente
composta da tre commi, i quali disponevano, rispettivamente:
“La funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è
esercitata in nome del Popolo.
125 Seduta del 20 novembre 1947 in A. C., V, 3952 “Il Comitato di redazione ha tenuto conto,
uno per uno, dei numerosi emendamenti presentati; ma mi consentirete che, per impostare la
questione, io parta dal testo proposto dalla Commissione dei 75, il quale dice: «La funzione
giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo».
Il Comitato ritiene che si possa sopprimere l'inciso «espressione della sovranità della
Repubblica», perché questa formula non è espressa né a proposito del Parlamento, né a proposito del
potere esecutivo, cioè degli altri poteri a cui è parallelo il potere giudiziario; il metterla qui non
avrebbe significato e valore specifico.
Il Comitato mira ad ottenere la maggiore semplificazione possibile. Questo articolo 94 è
come un'epigrafe, come una parola iniziale di tutto il Titolo; quanto è più breve e lapidario, tanto è
certamente migliore.
Nel primo comma abbiamo accolto gli emendamenti presentati dagli onorevoli Targetti,
Colitto e Conti. Così questo primo comma si ridurrebbe all'espressione: «La giustizia è amministrata
in nome del popolo”.
126 Commissione per la Costituzione, II sottocommissione, Relazione del deputato Calamandrei
Piero sul potere giudiziario e sulla suprema corte costituzionale: art. 1: “Il potere giudiziario
appartiene esclusivamente allo Stato, che lo esercita a mezzo di giudici indipendenti, istituiti e
ordinati secondo le norme della presente Costituzione e della legge sull’ordinamento giudiziario. Le
sentenze e gli altri provvedimenti dei giudici sono resi in nome della Repubblica”; art. 2, co. 1: “I
giudici nell’esercizio delle loro funzioni dipendono soltanto dalla legge, che essi interpretano ed
applicano al caso concreto secondo la loro coscienza, in quanto la riscontrino conforme alla
Costituzione”; art. 24: “I magistrati non possono essere iscritti ad alcun partito politico (?)(Richiamo
delle incompatibilità elettorali?” in F. RIGANO, Costituzione e potere giudiziario, Pavia, 1982, pag. 263
e ss. .
127 Commissione per la Costituzione, II sottocommissione, Relazione del deputato Leone
Giovanni sul potere giudiziario e sulla suprema corte costituzionale: art. 1: “Il potere giudiziario
provvede all’interpretazione e applicazione del diritto. Le sentenze si emanano in nome della legge” in
F. RIGANO, op. ult. cit.
128 Commissione per la Costituzione, II sottocommissione, Relazione del deputato Patricolo
Gennaro sul potere giudiziario e sulla suprema corte costituzionale: art. 1: “Il potere giudiziario è
indipendente da ogni altro potere dello Stato”; art. 2: “Il potere giudiziario provvede all’attuazione
della giustizia sia nella fase istruttoria e del giudizio sia in quella esecutiva” in F. RIGANO, op. ult. cit.
50
I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano
secondo coscienza.
I magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni
segrete”.
Nonostante il meticoloso lavoro della Commissione dei 75, l’anzidetto
progetto normativo fu accompagnato, in sede costituente, da numerosi
interventi che ebbero un’influenza tale da modificare completamente il testo
dell’art. 101 Cost.
All’art. 94 del progetto di Costituzione, infatti, furono mosse, tra le altre, le
seguenti osservazioni:
- On. Dominedò: “La scuola del diritto libero fa del giudice qualche cosa
che si allontana dalla nostra concezione fondamentale, poiché, attraverso il
così detto potere creativo del diritto nel caso concreto, il giudice finisce per
sovrapporsi alla legge. Non è questa presunta libertà che noi vogliamo in un
ordinamento italico e latino, il quale si ricollega necessariamente alla
tradizione romanista, la più pura della nostra civiltà giuridica. Noi vogliamo
un giudice libero, il quale sia ad un tempo ancorato al diritto positivo, un
giudice libero che operi nell'orbita della legge, un giudice libero che dica il
diritto nel caso singolo, ma insieme si inchini alla creazione generale ed
astratta del diritto, la quale è opera di altri poteri dello Stato e, per il nostro
ordinamento, rappresenta garanzia di giustizia, di libertà, di democrazia.
Sul piano del così detto giudice libero, il quale operi con una propria
volontà creatrice nel caso singolo, noi ricordiamo quali abusi e degenerazioni
siano possibili. Là dove la certezza del diritto venga meno, noi sentiamo che la
funzione giurisdizionale non è più garanzia di libertà, ma strumento di
oppressione della libertà. Noi sappiamo che il giudice, il quale sia libero, nel
senso di poter incondizionatamente interpretare la cosiddetta coscienza
popolare, e cioè una asserita coscienza collettiva, non consacrata né in diritto
scritto né consuetudinario, si trasforma in un giudice che potrà seguire sino
51
all'estrema degenerazione il concetto della Führung, presunta interprete della
volontà collettiva. Signori, quel giudice tradirà il diritto: egli non sarà
segnacolo di libertà, bensì veicolo di servitù. E la storia troppo recente dei
nostri tempi parla duramente in questo senso.
Vogliamo invece un giudice duttile, libero, nella legge, il quale abbia il senso
sociale del diritto, il senso dell'avvicinamento del diritto alla vita; questo, sì,
noi intendiamo.
Riprendendo una espressione nota nel campo del diritto, miriamo ad un
giudice che sia sensibile non alla sola giurisprudenza dei concetti, alla
giurisprudenza teoretica, schematica o dottrinale, ma che faccia penetrare la
vita nelle pieghe del diritto, che sia sensibile alla giurisprudenza degli
interessi, se si vorrà ricordare la formula della Interessenjurisprudenz in
antitesi alla Begriffjurisprudenz. Noi a questo tendiamo, poiché è questo che fa
parte del nostro senso sociale del diritto, aderente alla viva realtà delle cose.
Noi non concepiamo un diritto che sia avulso dalla coscienza sociale del
popolo e che per ciò stesso non risponda alle esigenze della storia.
Ecco, precisamente: vogliamo che il diritto sia nutrito di socialità, non solo
nella fase creatrice, ma anche nella fase applicativa. Questo fa parte del nostro
senso umano, del nostro spirito della democrazia. Questo, sì, noi vogliamo. Ma
ciò inquadriamo proprio nel principio di libertà del giudice nell'ambito della
legge. Perché, a chi ben guardi, accentuare il senso di socialità del diritto,
porsi a contatto col palpito della coscienza comune, significa veramente
cogliere lo spirito della legge, essere cioè sul piano di chi applichi, di chi dica
il diritto nello stesso quadro in cui il legislatore, espressione della volontà
collettiva, lo formulò, lo creò. Siamo pertanto coerenti a noi stessi, quando si
accentua questa nota sociale nella fase applicativa della legge. Poiché non si
rinnega, bensì si avvalora il principio della certezza del diritto, quando
affermiamo che un giudice libero, così nutrito di socialità nell'esercizio della
sua virtù discrezionale, debba operare ad un tempo nel campo del diritto
52
costituito e preservare quindi l'esigenza suprema della intangibilità del diritto
obiettivo. Servi della legge per poterci dire liberi, secondo la grande parola di
Cicerone” 129.
- On. Bettiol: “Invece per quanto riguarda l'affermazione del progetto di
Costituzione, là dove è detto che i magistrati dipendono soltanto dalla legge,
che interpretano e applicano secondo coscienza, io, onorevoli colleghi, credo
che l'inciso «che interpretano e applicano secondo coscienza» dovrebbe essere
eliminato, perché è piuttosto pericoloso, quando si ha a che fare col problema
delle lacune, di fronte alle quali, inevitabilmente, il giudice si viene nella sua
concreta attività spesso a trovare. È chiaro che di fronte ad una lacuna il
giudice oggi non è lasciato completamente libero di giudicare secondo
coscienza o secondo i dettami di un diritto ultrapositivo, come in certi
determinati ordinamenti giuridici moderni, ma deve seguire già certi canoni
logici, teleologici, cogenti, che sono previsti dalle disposizioni preliminari al
Codice civile. Comunque, questo inciso potrebbe lasciare dei dubbi circa un
eventuale sconfinamento del magistrato nel campo della libera creazione del
diritto e nell'ambito di una libera applicazione di un diritto preesistente al caso
concreto” 130.
- On. Colitto: “Ho proposto, poi, che solennemente si proclami nella
Costituzione che «la giustizia è amministrata in nome del popolo». Ritengo che
tale dizione sia da preferirsi a quella «la funzione giurisdizionale è esercitata»,
adottata dal progetto. Forse tecnicamente questa è più precisa; ma, se si vuole
davvero che la Costituzione sia appresa dal popolo, bisogna abbandonare
l'eccessivo tecnicismo ed usare frasi, che pienamente, e soprattutto
agevolmente, dal popolo siano intese, apprese, ricordate.
Non si parla, del resto, proprio di amministrazione della giustizia
nell'articolo 96, allorché si proclama che il popolo ad essa partecipa mediante
129 Seduta antimeridiana del 7 novembre 1947, in A.C., IV, pag. 97 e ss.
130 Seduta pomeridiana del 7 novembre 1947, in A.C., IV, pag. 107 e ss.
53
l'istituto della giuria nei processi di Corte d'assise? Se queste parole sono usate
nell'articolo 96, non mi rendo conto perché dovrebbero parole diverse essere
usate in altri articoli del testo della Costituzione.
È appena il caso di aggiungere che le parole «espressione della sovranità
della Repubblica», con le quali nella prima parte dell'articolo 94 del progetto
si intende qualificare la «funzione giurisdizionale», sono da sopprimere, non
fosse altro che per la ragione che anche la funzione legislativa è espressione
della sovranità della Repubblica, e davvero non si comprende perché ciò si
debba ricordare per l'una funzione e tacere per l'altra”. [...] E a che giova
aggiungere che «i magistrati dipendono soltanto dalla legge» e che la legge
essi «interpretano ed applicano secondo coscienza»? Tutti dipendiamo dalla
legge. È sempre vivo ed attuale l'ammonimento di Cicerone: servi legum esse
debemus, si liberi esse volumus. Ed è intuitivo che, quale che sia lo stato della
pubblica opinione, quali che siano le influenze dei partiti, della stampa, dello
Stato, il magistrato deve pensare a compiere il dovere che la legge, e solo la
legge gli assegna, avendo come guida, che gli illumina la via, la serenità della
propria coscienza” 131.
- On. Bellavista:
“Vengo subito, perciò, ad illustrare gli emendamenti
proposti a proposito del Titolo IV. Ne ho presentato uno che si riferisce alla
prima parte dell'articolo 94, concernente, in particolare, la espressione: «La
funzione giurisdizionale è esercitata nel nome del popolo». Io ho proposto la
seguente variante: «...è esercitata in nome della Repubblica». A simiglianza
infatti, di quanto si pratica nella vicina Francia, le sentenze dovrebbero darsi
nel nome della Repubblica. Che cosa è la Repubblica se non il popolo italiano
giuridicamente organizzato sotto l'aspetto istituzionale? Mi pare quindi che
questa dizione si adegui meglio al nostro nuovo volto istituzionale” 132.
131 Seduta dell’8 novembre 1947, in A.C., IV, pag. 113 e ss.
132 Seduta dell’8 novembre 1947, in A.C., IV, pag. 113 e ss.
54
- On. Persico: “Passo subito all'articolo 94, che è veramente un ben
congegnato articolo, per la forma drastica con cui è compilato, con una frase,
che potrebbe essere iscritta lapidariamente sui palazzi di giustizia: «I
magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano
secondo coscienza». Vorrei proporre un'aggiunta al primo comma di questo
articolo. Quando si afferma che «la giustizia è esercitata in nome del popolo»,
cioè che le sentenze sono intestate in nome del popolo — e si scelse questa
forma come preferibile a quella «in nome della legge» — vorrei che si dicesse:
«in nome del popolo italiano», perché mi pare giusto che si renda a tutti noto
che «in nome del popolo italiano» — di questa comunità millenaria del popolo
italiano, che risorge e risorgerà sempre indomita dalle più dure cadute,
compresa l'ultima recentemente e ingiustamente subita — è data al giudice la
facoltà di emanare le sue sentenze” 133.
- On. Romano: “Vengo all'emendamento all'articolo 94.
Ho detto di sostituire il primo comma con le parole: «La funzione
giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in
nome del popolo italiano».
Nel progetto si è detto solamente «popolo». Quando lessi questa parola
«popolo» mi domandai: ma chi è questo popolo? Indubbiamente sono tutti gli
italiani. E poiché noi attraversiamo un periodo in cui fetecisticamente si
adopera questa parola per indicare determinati gruppi o frazioni, ho pensato
all'opportunità di un appellativo che mettesse chiaramente in evidenza che la
giustizia sarà amministrata in nome di tutto il popolo italiano” 134.
On. Salerno. “Una grande affermazione è contenuta nella nostra
Costituzione: «La funzione giurisdizionale è espressione della sovranità della
Repubblica ed è esercitata in nome del popolo».
133 Seduta dell’8 novembre 1947, in A.C., IV, pag. 113 e ss.
134 Seduta dell’11 novembre 1947, in A.C., IV, pag. 101 e ss.
55
È un'affermazione alla quale bisogna dare tutto il peso e la significazione
che merita se si vuole che questa Costituzione non sia solamente una raccolta
di formule esteriori, ma abbia veramente un contenuto di schiettezza e di
socialità. È un'affermazione importante perché fissa il potere, ma fissa anche la
fonte del potere: attribuisce alla funzione giurisdizionale tutta l'autorità
necessaria, ma pone un limite, che è la condizione della nascita e della vita di
questo potere.
Sovranità, e sovranità che deriva dal popolo!
Noi usciamo da un periodo di tirannide, in cui il potere esecutivo e tutto il
meccanismo dispotico che gli era sorto intorno si era mostruosamente
ingigantito a danno degli altri poteri, compreso naturalmente quello della
giustizia. È necessario che si formuli questa alta affermazione di riscatto e di
prestigio della giustizia. Proclamare in uno Stato ispirato alla legalità che il
potere giudiziario è espressione della sovranità popolare, significa applicare un
principio di schietta democrazia, che cioè tutti i cittadini sono uguali dinanzi al
giudice e il giudice è uguale per tutti. Non basta affermare che la norma
astratta è uguale per tutti. Il giudice deve essere sicuramente uguale per tutti.
La sovranità della giustizia però deve essere intesa nei suoi giusti termini
per evitare due pericoli a cui si potrebbe andare incontro: che cioè questa
sovranità sia soltanto una espressione verbale e, per così dire, una finzione, e
per evitare il pericolo opposto: che questa sovranità straripi nell'arbitrio e
diventi la negazione della funzione altissima che al potere giudiziario è
commessa.
Si vuole insomma che il giudice sia sovrano sì, ma che la sua sia una
sovranità effettiva e concreta, senza manti laceri né corone di cartone, ma
anche senza eccessi ed arbitrii che metterebbero la sua volontà in stridente
contrasto con la volontà sociale. E per me questo è il problema fondamentale:
creare un potere giudiziario sovrano che sia la fedele espressione della volontà
collettiva. [...] In quanto alla dipendenza, nella Costituzione è detto che il
56
giudice dipende dalla legge e dalla coscienza, ma io vorrei dire che non basta.
Occorre una terza dimensione, cioè egli deve dipendere anche dalla coscienza,
dallo spirito della legge, deve essere pervaso da quel soffio animatore che è
nella legge.
Non parliamo di una coscienza popolare che non sia consacrata nella
norma. Non ne parliamo. Era una preoccupazione dell'onorevole Dominedò,
ma è una preoccupazione che mi pare non abbia ragion d'essere, prima di tutto
perché una coscienza popolare non consacrata nella legge, in un regime
democratico, non può esistere. Questa specie di dualismo, di contrasto tra il
precetto e la volontà popolare può verificarsi in periodo di tirannide, quando la
coscienza popolare non giunge ad esplicarsi nella legge, ma non è concepibile
in periodo di libertà. In secondo luogo, se una coscienza popolare non è
consacrata nella legge, evidentemente non si tratta della legge che deve essere
applicata. Quando noi parliamo di coscienza popolare, parliamo di quella
coscienza che è nella legge e che l'accompagna, perché, onorevoli colleghi, si
dice (e l'hanno scritto i relatori autorevolissimi di questo Titolo) che la legge,
nell'atto della sua formazione, esaurisce il processo politico che le sta alla
base, ma io dubito della esattezza integrale di questa massima.
È proprio vero che tutta la politica venga esaurita? Non è forse anche vero
che vi è sempre qualcosa che non riesce ad inserirsi nella legge, non riesce a
prendere espressione concreta e che tuttavia esiste ed accompagna la legge
come un'ombra, come una vibrazione, come una invisibile riserva copiosa, alla
quale il giudice attinge forse con maggiore fortuna di quel che non faccia
attingendo alla legge medesima nella sua articolazione letterale, appunto
perché essa, definita e quasi conclusa in determinati cancelli, spesso finisce per
essere arida ed insufficiente?
Quando si dice che esiste lo spirito della legge, si parla di qualche cosa che
non deve essere considerata come un formalismo o una convenzionale figura
retorica che si tramanda da secoli, ma come alcunché di reale e vivente. Ora, è
57
questo lo spirito che lega il popolo alla giustizia ed alla Magistratura. È questo
lo spirito che lega il potere legislativo al potere giudiziario; ed è con questo
spirito che la legge viene interpretata secondo la coscienza, secondo la civiltà
di un periodo storico presso una determinata società.
Io ho sentito qui i più aurei discorsi pronunciati dai luminari della scienza. Il
tecnicismo ha raggiunto i vertici della elaborazione. Come dicevo in principio,
temo però che si sia lasciato nell'ombra quell'altro lato del problema, che è il
lato umano, e che bisogna inserire nella norma costituzionale. Quando poco fa
sentivo dire che il giudice applica la legge, e che questa applicazione della
legge si esaurisce nel processo dialettico e tecnico-giuridico, io pensavo che in
tutto questo non solo vi è un vizio di ragionamento, ma forse tutta una
inclinazione del nostro tempo a dimenticare quanto di umanità era negli antichi
maestri del diritto, da Francesco Carrara ad Emanuele Carnevale.
E vorrei dire che questo è anche un po' il vizio di una tendenza scientifica,
per cui Emanuele Carnevale, che fu uno degli ultimi veri umanisti del diritto
penale, temeva che la nuova scuola sorgente in Italia potesse disumanare il
diritto penale, come potrebbe disumanare il diritto ogni giudice che
prescindesse dal contenuto umano che esso racchiude.
Ora, qual è la funzione del giudice? Qual è la sua funzione al di fuori di ogni
tecnicismo, al di fuori di ogni formulazione scientifica, prescindendo da tutti gli
schemi e le nomenclature, qual è questa funzione del giudice? Che cosa fa il
giudice, in fondo? Non si passa d'un tratto dalla legge alla vita. Fra la legge e
la sua applicazione c'è un intervallo, c'è uno jatus, che bisogna riempire, c'è un
quid che bisogna trovare: questa è la funzione del giudice, vale a dire
adeguare, avvicinare, livellare la norma astratta al caso concreto, la norma
generale al caso specifico. E tutto questo secondo la legge e secondo la
coscienza del giudice, ma anche e soprattutto secondo la coscienza sociale. Si è
detto tanto volte ed autorevolmente: il giudice è la legge vivente. Un antico
filosofo affermava che le leggi peggiori possono diventare sopportabili quando
58
i giudici sono buoni e che viceversa le leggi buone possono diventare pessime
quando i giudici sono cattivi. Che cosa significa questo? Qual è la ragione di
queste alternative e quali sono gli strumenti di cui si deve servire il giudice per
trasformare la legge astratta in una legge vicina alla vita ed all'uomo? Qual è
la fonte alla quale potrà attingere? Essa non può essere che la ricerca
dell'umanità e del fondo sociale di cui è permeata la legge stessa. La legge per
essere giusta, deve essere aderente alla umanità ed allo spirito sociale. Questo
contatto e questa continuità fra la vita sociale e la vita giurisdizionale, lungi
dall'indebolire la sovranità del giudice, la rafforza e la contiene nei limiti
solamente accettabili, vale a dire i limiti di una sovranità costituzionale.
In tutto questo può entrare un atteggiamento politico? Potrei dire di sì, e se è
assurdo parlare di una politica giudiziaria, nel senso di un orientamento
sistematico della giustizia nella sua esplicazione, è altresì indubitabile che un
coefficiente politico entra in quasi tutte le attribuzioni e le esplicazioni
dell'attività della giustizia. Oggi la vita moderna ci va insegnando questo: che
le controversie demandate al potere giurisdizionale sono sempre più tali da
richiedere una larga conoscenza dei bisogni umani. La politica, quindi, è uno
di quei fattori che non possono essere nella vita collettiva allontanati e respinti,
perché è un po' come l'aria che circonda l'essere umano; politica però della
legge, che accompagna la legge stessa, non la politica del giudice, per cui quel
termine «coscienza», che si legge nel progetto e che si deve interpretare come
criterio di rettitudine e di zelo, va integrato e completato col concetto di
coscienza sociale che accompagna la norma; altrimenti, a lasciar arbitra la
coscienza subiettiva del giudice, si potrebbe andare incontro a dolorose
sorprese ed assistere alle più aperte storpiature della legge, nell'ottimistica
presunzione di compiere un sacro dovere” 135.
- On. Cassiani: “Quando si dice, onorevoli colleghi, che i magistrati
dipendono dalla legge, si fa evidentemente un'affermazione di estrema
135 Seduta dell’11 novembre 1947, in A.C., IV, pag. 101 e ss.
59
indipendenza, che sarebbe apparsa, badiamo bene, un'eresia qualche decennio
fa, quando Vittorio Emanuele Orlando, allora Ministro della giustizia, nell'Aula
del Parlamento prima e del Senato poi, tra il consenso pressoché unanime delle
due Assemblee, affermava che la legge è una astrazione che non consente né
dipendenze né rappresentanze; onde il Pubblico Ministero, del quale egli
trattava allora, non può essere il rappresentante della legge, ma deve essere il
rappresentante del potere esecutivo verso la Magistratura, secondo la teoria
tradizionale. [...] Ecco perché non comprendo la protesta vivace dell'amico e
collega Caccuri. Forse la sua passione di magistrato lo ha spinto oltre: contro
che cosa protesta, di che si lamenta? Insomma, con queste norme, e
particolarmente con quella dell'articolo 97, dove è scritto che i magistrati
dipendono soltanto dalla legge, si enuncia un principio che un tempo destava
allarme. È un principio che potrebbe farci temere un'operazione pericolosa,
l'operazione di tagliare quello che fu chiamato il «cordone ombelicale» che
deve legare la Magistratura al corpo statuale. Ci farebbe temere questa
operazione pericolosa, ove non fossimo, invece, convinti di concorrere,
attraverso queste norme, alla difesa delle pubbliche e delle private libertà del
popolo italiano” 136.
In estrema sintesi, dagli interventi sopra riportati, emerge come in sede
costituente le preoccupazioni intorno al progetto di norma costituzionale
contenuto nell’art. 94, in disparte le considerazioni sul 3° comma137, si
incentrassero, principalmente, su due linee direttrici, relative alle dizioni da
136 Seduta antimeridiana del 14 novembre 1947, in A.C., IV, pag. 111 e ss.
137 Il terzo comma dell’art. 94 del progetto costituzionale ebbe una sorte diversa. Cfr. R.
GUASTINI, art. 101 Cost., in Commentario della Costituzione fondato da Giuseppe Branca, 1994, Roma,
pag. 141: “Tracce del 3° comma dell’art. 94 del Progetto si trovano ora nel 3° comma dell’art. 98 del
testo definitivo: peraltro, non senza modificazioni assai significative. Intanto, l’art. 98 3° comma,
cost., ha una portata assai più ampia, giacché si riferisce non solo ai magistrati, ma anche a <<i
militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e
consolari all’estero>>. Soprattutto, l’art. 98 3° comma non proibisce senz’altro ai magistrati
l’iscrizione a partiti politici, ma si accontenta di autorizzare il legislatore ordinario (ed esso solo:
trattasi, infatti, di riserva assoluta di legge) ad introdurre, per i magistrati e per altri pubblici
funzionari, eventuali <<limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici>>. Naturalmente, la
proibizione di iscriversi a associazioni segrete, per i magistrati come per chiunque altro, è assorbita
dal più generale divieto di associazioni segrete, di cui all’art. 18 2° comma del testo definitivo”.
60
utilizzare nel primo e nel secondo comma dell’art. 101 Cost. alla stregua del
significato da attribuire ad ambedue le norme.
Per quel che riguarda il primo comma, si abbandonò l’utilizzo
dell’espressione
“esercizio
della
funzione
giurisdizionale”,
ritenuta
eccessivamente tecnica, in favore dell’espressione “amministrazione della
giustizia” più affine al linguaggio degli italiani, considerati destinatari
“privilegiati” delle norme costituzionali. Inoltre, fu cassato l’inciso che
classificava la funzione giurisdizionale come “espressione della sovranità della
Repubblica” (in altre parole, vennero accolte le proposte dell’On. Colitto: “Ho
proposto, poi, che solennemente si proclami nella Costituzione che «la giustizia
è amministrata in nome del popolo». Ritengo che tale dizione sia da preferirsi a
quella «la funzione giurisdizionale è esercitata», adottata dal progetto. Forse
tecnicamente questa è più precisa; ma, se si vuole davvero che la Costituzione
sia appresa dal popolo, bisogna abbandonare l'eccessivo tecnicismo ed usare
frasi, che pienamente, e soprattutto agevolmente, dal popolo siano intese,
apprese, ricordate”).
Anche il secondo comma subì numerose modifiche: in primo luogo, con
riferimento al rapporto tra giudici e legge, fu sostituita l’espressione
“dipendono” con quella “sono soggetti”, ritenuta più affine al quadro giuridico
proposto. Non fu approvato, poi, l’inciso “che interpretano ed applicano
secondo coscienza”, nel timore che tale espressione potesse legittimare un uso
distorto del potere giurisdizionale, contrastante, peraltro, con il disposto
dell’art. 12, 1° co., disp. prel. c.c. Infine, in sede di coordinamento del testo il
vocabolo “magistrati” fu sostituito con quello “giudici”138.
138 Sul punto, con riferimento alle discussioni avvenute in sede costituente, cfr. N. ZANON – L.
PANZERI, art. 101 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M.
OLIVETTI, 2006, pagg. 1958-1959: “Anche il 2° co., rispetto alla formulazione elaborata nel corso dei
lavori preparatori, fu oggetto di modifiche. Innanzi tutto, con riguardo alla relazione tra legge e
giudici, si sostituì l’espressione <<dipendono>> con <<sono soggetti>>, in quanto ritenuta
stilisticamente migliore e giuridicamente più corretta; inoltre, fu definitivamente abbandonato
l’inciso, riferito al rapporto di <<dipendenza>> alla legge dei magistrati, recante le parole <<che
interpretano ed applicano secondo coscienza>>: su questa scelta, in particolare, influì il timore di
61
Fu così che il 20 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea
costituente, esaminati gli emendamenti all’articolo 94 del Titolo IV della Parte
seconda del progetto di Costituzione: «La Magistratura», approvò il seguente
testo: “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I magistrati sono
soggetti soltanto alla legge”, poi sostituito, in sede di coordinamento del testo,
con quello a tutti noi noto139.
offrire una legittimazione costituzionale a metodi interpretativi contrastanti con quanto disposto
dall’art. 12, 1° co., disp. prel. c.c. e , dunque, di favorire sul piano esegetico il consolidamento del c.d.
<<diritto libero>>. Infine, per quanto non in sede di votazione ed approvazione bensì di
coordinamento del testo, si sostituì il vocabolo <<magistrati>> con <<giudici>>: questa modifica,
incidente in termini assai rilevanti sulla portata <<soggettiva>> del precetto, sembrerebbe averne
esclusa l’operatività nei confronti degli organi requirenti ”.
139 Appare utile, al fine di apprendere l’intero iter parlametare, riportare, qui di seguito, il
testo delle discussioni e della votazione concernenti l’art. 101 Cost., avvenuti in data 20 novembre
1947: “Presidente Terracini. Passiamo all'esame dell'articolo 94. Se ne dia lettura. Riccio, Segretario,
legge: «La funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome
del popolo. «I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano secondo
coscienza. «I magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete».
Presidente Terracini. A questo articolo 94 sono stati presentati numerosissimi emendamenti, molti dei
quali sono stati già svolti. Così, l'onorevole Mastino Pietro ha svolto il suo emendamento che era il
seguente: «Sostituirlo col seguente: «La funzione giurisdizionale è esercitata dai giudici e dai
magistrati del pubblico ministero, che dipendono soltanto dalla legge». L'onorevole Targetti ha
presentato il seguente emendamento: «Sostituirlo col seguente: «La giustizia è amministrata in nome
del popolo». Non essendo presente, s'intende che abbia rinunciato a svolgerlo. Sono stati svolti anche i
seguenti emendamenti: «Sostituire il primo e il secondo comma con i seguenti: «La funzione
giurisdizionale, espressione diretta della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo
italiano. «I magistrati non hanno vincoli di subordinazione gerarchica e sono tenuti soltanto alla
osservanza della legge che interpretano ed applicano secondo coscienza. «Caccuri». «Sostituire il
primo ed il secondo comma con i seguenti: «Il potere giudiziario emana direttamente dalla sovranità
dello Stato. «Questo lo esercita a mezzo di magistrati indipendenti. «Le sentenze sono rese in nome del
popolo. «Castiglia». «Sostituire il primo comma col seguente: «La funzione giurisdizionale,
espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo italiano. «Romano».
«Sostituire il primo comma col seguente: «La giustizia è amministrata in nome del popolo. «Colitto».
«Sostituire il primo comma col seguente: «La funzione giurisdizionale, espressione della volontà
popolare, è esercitata in nome della Repubblica. «Bellavista». «Sostituire il primo comma col
seguente: «Il potere giudiziario, emanazione diretta ed immediata della sovranità dello Stato, esercita
la funzione giurisdizionale in nome del popolo». «Adonnino». «Al primo comma, dopo le parole: in
nome del popolo, aggiungere l'altra: italiano. «Persico». «Sostituire il secondo comma col seguente: «I
magistrati sono indipendenti e sono soggetti soltanto alla legge. «Ruggiero Carlo». «Sopprimere
l'ultimo comma. «Subordinatamente, sopprimere le parole: o ad associazioni segrete. «Ruggiero
Carlo». «All'ultimo comma, sopprimere le parole: o ad associazioni segrete. «Persico». «All'ultimo
comma, dopo la parola: segrete, aggiungere: né far parte di qualsiasi organo estraneo alla
Magistratura. «Damiani». «All'ultimo comma, aggiungere le parole: né essere chiamati a far parte di
Commissioni od organi di carattere politico. «Rossi Paolo». L'onorevole Costa ha presentato il
seguente emendamento: «Al primo comma, alle parole: La funzione giurisdizionale, espressione della
sovranità della Repubblica, sostituire: La funzione giudiziale». Ha facoltà di svolgerlo. Costa. È una
questione tecnica. Mi sembra che la funzione sia giudiziale e che si debba dire appunto giudiziale e
non funzione giurisdizionale. È una tautologia, una ripetizione. Quindi mi pare che l'argomento che
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adduco sia sufficiente per giustificare questa proposta di sostituire alla formula «funzione
giurisdizionale» quella di «funzione giudiziale». Credo poi che sia inutile aggiungere «espressione
della sovranità della Repubblica» e possa solo bastare dire «la giurisdizione». Presidente Terracini.
L'onorevole Costa ha presentato i seguenti altri emendamenti: «Sopprimere il secondo comma.
«Subordinatamente, alle parole: dipendono, sostituire le altre: sono vincolati, e sopprimere le parole:
che interpretano ed applicano secondo coscienza». Ha facoltà di svolgerli. Costa. Ritengo che il
secondo comma sia superfluo. E ad ogni modo, non si dica che i magistrati «dipendono» soltanto dalla
legge, ma che i magistrati «sono vincolati» soltanto dalla legge. È un'espressione tecnica, che mi
sembra assai più appropriata di quella della dipendenza, la quale fa pensare a un rapporto
gerarchico, mentre il concetto è che i magistrati non hanno altro vincolo, altra soggezione che quella
della legge. Mi sembra, poi, superfluo dire che questa legge i magistrati «interpretano ed applicano
secondo coscienza». È inutile che ciò dica la Costituzione. Trattasi di un principio di ordine morale e
giuridico il quale è nella coscienza comune. Quindi considero una superfluità che se ne occupi la
Costituzione. Poi, quanto all'ultimo comma, quello riguardante i partiti politici, propongo che sia
soppresso per le ragioni che da vari oratori sono state svolte nella discussione generale. Presidente
Terracini. L'onorevole Nobili Tito Oro ha presentato i seguenti emendamenti: «Al primo comma, alle
parole: La funzione giurisdizionale, sostituire: La giurisdizione; sopprimere l'inciso: espressione della
sovranità della Repubblica; alle parole: è esercitata in nome del popolo, sostituire: è esercitata dalla
Magistratura in nome del popolo italiano». «Sostituire il secondo comma col seguente: «Il popolo
partecipa direttamente all'esercizio della giurisdizione nei processi di Corte d'assise nei modi stabiliti
dalla legge». «Sopprimere l'ultimo comma». L'onorevole Nobili Tito Oro ha facoltà di svolgerli. Nobili
Tito Oro. Onorevoli colleghi, la lunga, nutrita e profonda discussione seguita su questo Titolo ha
dimostrato insieme il culto che l'Assemblea, scrupolosa interprete del sentimento della Nazione, ha
per la giustizia, bene a ragione definita fundamentum rei publicae, e la necessità che essa avverte di
dare alla Magistratura, che ne costituisce il sacerdozio, quelle garanzie di difesa morale e di
indipendenza economica e politica che, da tanto tempo reclamate e promesse, non tollerano più
dilazioni. D'altra parte esse implicano, per il nuovo ordinamento che l'indipendenza politica della
Magistratura esige, la necessità che vi sia provveduto in sede di Costituzione. Il consenso di tutti i
Gruppi in questo generale riconoscimento, renderà più agevole l'esame degli articoli e più facile
l'accordo sulla loro definitiva formulazione; perché attorno al problema della giustizia la cura di
ciascuno di noi si è trasformata in una spasmodica emulazione per la ricerca del meglio; così da
richiamarci alla mente la rievocazione fatta dall'onorevole Ruini, nella sua relazione al progetto, di
quel simpatico amico dell'Italia che fu Henry Beyle, alias monsieur de Stendhal, spirito lucido, come
egli lo definisce e — aggiungerei io — illuminato, il quale — è l'onorevole Ruini che ce lo ricorda —
ha scritto che, avvicinandosi a una Costituzione, egli si sentiva sempre preso da un vero senso
religioso. Bisogna avere la lealtà di riconoscere che tale è il sentimento che domina noi tutti
nell'affrontare questo Titolo, che contempla il segreto della pace dei singoli e della fratellanza fra i
cittadini. Bisogna riconoscere che il testo del progetto risponde sufficientemente non soltanto ai
desideri dell'Assemblea, ma anche alle richieste dell'Associazione nazionale dei magistrati: le
manchevolezze che essi rilevano potranno essere facilmente eliminate, mentre le pretese lacune non si
addimostrano effettivamente tali riguardando materia di legge ordinaria. Il Titolo, così come
proposto dalla Commissione, si preoccupa di fermare due principî fondamentali, quello della unità
della giurisdizione, che non tollera abuso e prolungamento di giurisdizioni speciali, e quello della
autonomia e dell'indipendenza della Magistratura. I due principî sono sanciti rispettivamente, sotto
l'articolo 95 e sotto l'articolo 97; mentre l'articolo 94 riguarda le fonti della giurisdizione e gli articoli
dal 98 al 100 contengono norme completive. Avete udito, onorevoli colleghi, quale sia il testo
dell'articolo 94 come da me emendato; esso comprende anche gli emendamenti che ha svolti testé il
collega Costa. Mi permetterò di aggiungere qualche breve considerazione in ordine a questi e ai
rimanenti emendamenti miei. Al primo comma del progetto: «La funzione giurisdizionale, espressione
della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo» io propongo di sostituire: «La
giurisdizione è esercitata dalla Magistratura in nome del popolo italiano». Le ragioni di queste
modifiche sono evidenti. La giurisdizione è termine tecnico e chiaro, e nel suo significato proprio vuol
dire appunto: «La funzione giurisdizionale». «La giurisdizione» significa «dichiarazione del diritto»,
«applicazione della legge», e quindi «funzione e potestà di giudicare». Pertanto è pleonasmo
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tautologico dire «funzione giurisdizionale» anziché puramente e semplicemente «giurisdizione». A
questa locuzione segue, nel testo del progetto, l'inciso: «espressione della sovranità della Repubblica».
Mi si permetta di confessare che lo trovo non necessario, pretenzioso, non producente; esso non può
rappresentare la definizione della giurisdizione, in quanto non ne determina il contenuto; non ne
segnala né una caratteristica essenziale, né una caratteristica differenziale; perché espressioni della
sovranità della Repubblica sono del pari l'esercito, che si substanzia nel diritto di difesa armata dello
Stato e del suo territorio, la diplomazia che realizza il diritto di ambasceria, il Parlamento che
esercita il potere legislativo, il Governo e l'amministrazione che il potere esecutivo esprimono nel
diritto di batter moneta e di imporre tributi, ecc. L'attribuzione di una caratteristica che non è
speciale ed essenziale della giurisdizione, che abusa di un nome che deve esser sacro e che per questo
non va sciupato con l'abuso, ad evitare atteggiamenti demagogici e vacuità stilistiche, costituiscono
già giustificazione sufficiente alla proposta soppressione dell'inciso. D'altra parte, dire che la
giurisdizione è «espressione della sovranità della Repubblica» è un pleonasmo concettuale rispetto
all'affermazione successiva che essa «è esercitata in nome del popolo»: anche la sovranità dalla quale
la giurisdizione deriva procede dal popolo, al pari della sovranità della Repubblica. E precisare che la
giurisdizione è esercitata in nome del popolo non è soltanto riallacciarsi alla formula d'investitura
della potestà giusdicente, che nel nostro ordinamento repubblicano abbiamo sostituita alla quasi
secolare, aulica e non veritiera formula d'investitura cesarea, come requisito formale delle sentenze
che sono il prodotto della giurisdizione, ma è precisare la fonte prima dalla quale la giurisdizione
deriva: giacché dai primordi della umana società, dal periodo matriarcale e patriarcale alle prime
civiltà, fu sempre nel popolo, e non soltanto simbolicamente, il potere di rendere giustizia. Per questo
dicevo che il primo articolo del Titolo quarto riguarda la fonte della giurisdizione; per questo ho
proposto che anche la norma dell'articolo 96, che al popolo riserva la diretta partecipazione
all'esercizio della giurisdizione nei processi di Corte di assise, sia qui trasferita. Ma l'emendamento da
me proposto al primo comma va ancora oltre: poiché questa parte della Costituzione s'intitola alla
Magistratura, e questo titolo è stato già approvato; poiché questo primo articolo riguarda la fonte
della giurisdizione e il suo esercizio, io non vedo la ragione per cui non si dovrebbe dire subito, in
questa stessa sede, che la giurisdizione è esercitata dalla Magistratura, agganciando immediatamente
alla trattazione l'organo della giurisdizione che ne forma l'oggetto. E ho proposto altresì di non
limitarci a dire, coll'abusato linguaggio dei sacri principî, che la giurisdizione è esercitata in nome
del popolo, ma di precisare concretamente, che essa è esercitata «in nome del popolo italiano». So che
mi si obietterà che l'aggettivazione è superflua: purtroppo, onorevoli colleghi, a parte che
un'aggettivazione sì fatta non potrebbe mai, almeno sentimentalmente, considerarsi sciupata,
versiamo in una situazione che non la rende affatto superflua: il vecchio Piemonte, ha reclamato, per
voce dell'onorevole Villabruna, la reintegrazione nel godimento della Cassazione sabauda e contro
l'unità della nostra legislazione si è decisamente manifestata la tendenza regionalista. Onde non è
affatto superfluo porre il punto fermo, così che non si abbia domani, in sede legislativa, ad avanzare la
pretesa che siano pronunciate sentenze in nome del popolo della Valle, di quello siciliano, di quello
sardo, di quello veneto, ecc. Ecco dunque perché, soppresso l'inciso, ho proposto di sostituire al primo
comma «la giurisdizione è esercitata dalla Magistratura in nome del popolo italiano». E vengo al
secondo comma, che nel testo del progetto dice «i Magistrati dipendono soltanto dalla legge, che
interpretano ed applicano secondo coscienza». È affermazione questa che prelude alla concreta
dichiarazione di indipendenza che faremo fra poco risolutamente all'articolo 97. Mi pare che sia
perfettamente inutile questa prolusione astratta, superflua, vaga e di stile che vorrei superato. Che
cosa significa: i magistrati «dipendono soltanto dalla legge»? È poi elementare, che il magistrato ha
per compito specifico di interpretare e di applicare la legge e di farlo secondo la propria coscienza.
Questa è una cognizione così estesa, di così generale dominio, che appare assolutamente pretenzioso
sentire il bisogno di enunciarla in una Costituzione. Per queste ovvie considerazioni, e per evitare il
più possibile il superato stile illuminista ad alleggerimento del testo, io ho proposta la soppressione del
comma. E la raccomando all'Assemblea. E soggiungo che, se qualche cosa si sentisse il bisogno di
proclamare qui in riferimento al tema annunciato, sarebbe preferibile la concreta affermazione che il
magistrato requirente, il pubblico ministero, non rappresenta, come fin'ora si è tenuto ad affermare,
il potere esecutivo, ma soltanto la legge della quale è depositario, custode e vindice. (Approvazioni).
Questo potrebbe utilmente inserirsi ove non piacesse meglio inserirlo altrove. Il terzo comma,
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onorevoli colleghi, è stato largamente svolto, e io confido che tutta l'Assemblea si trovi d'accordo nel
volerlo soppresso. Confido che tutta l'Assemblea sarà concorde nel respingere il pensiero che ai
magistrati possa vietarsi l'appartenenza a partiti politici, che possa imporsi loro questa inaudita
diminutio capitis, che sopprimerebbe completamente la loro eguaglianza a tutti gli altri cittadini nel
godimento delle libertà essenziali, da quella di pensiero a quella di associazione; che toglierebbe loro,
in una parola, quei diritti politici che sono la caratteristica non soltanto del vir probus, ma di ogni
cittadino. Il magistrato deve conservare intatti e intangibili questi diritti e deve solo corrispondere,
nel loro esercizio, a quei doveri di compostezza e di austerità, che formano le caratteristiche
indefettibili del suo ministero, che è sacerdozio. Si può partecipare alla vita politica senza darsi
all'attivismo demagogico ed esasperato, che potrebbe sminuire la fiducia dei litiganti per la
manifestazione di dissenso politico o per quella di consenso coll'uno o coll'altro di essi. Il magistrato
deve sapersi imporre il riserbo, deve saper porre il sentimento della giustizia al di sopra di ogni
divergenza politica; e quando, così comportandosi, egli saprà tenere lontano il sospetto di
partigianeria faziosa, acquistandosi la fiducia delle parti quale che ne sia il pensiero politico, egli avrà
assolto ogni dovere, verso la legge e verso il proprio ufficio; e null'altro si potrà esigere da lui. Il
divieto di questo terzo comma, a parte anche l'impossibilità di un serio controllo della relativa
osservanza, ricorda concezioni di tempi passati, che non torneranno mai più. Detto questo, non ho
bisogno di occuparmi — e credo che l'astensione conferisca senso di responsabilità alla discussione
— di quegli emendamenti che hanno voluto fare una distinzione fra l'iscrizione ai partiti politici e
l'iscrizione alle associazioni segrete. Riassumendo. Vanno soppressi, secondo la mia proposta, i commi
due e tre. Ma, poiché, come ho spiegato, nell'articolo 94 io vedo l'indicazione delle fonti della
giurisdizione, in quanto vi si afferma che la Magistratura esercita la giurisdizione in nome del popolo,
io vorrei qui completare lo sviluppo di questo concetto, col trasferirvi la disposizione che è contenuta
all'articolo 96, per quanto riguarda la possibilità della partecipazione diretta del popolo all'esercizio
della giurisdizione nei processi di Corte di assise. In altri termini, poiché nel primo comma è
affermato che la giurisdizione è esercitata dalla Magistratura in nome del popolo, il che implica il
riconoscimento che il potere di giustizia risiede originariamente nel popolo, io chiedo che al popolo
sia riservato di partecipare direttamente ai processi di Corte d'assise nei modi stabiliti dalla legge.
Non faccio richiamo specifico alla giuria, ma chiedo sia affermata la possibilità che coll'ordinamento
giudiziario o coll'ordinamento processuale si riconosca al popolo questo diritto nelle forme che
saranno stabilite; mi pare che questa formula possa soddisfacentemente risolvere i contrasti che si
sono rivelati: dacché rimane impregiudicata la forma della reclamata partecipazione del popolo a
questi giudizi, che riguardano anche i più gravi processi politici; come rimane impregiudicata la
reclamata necessità d'imporre anche per essi la motivazione delle decisioni e di riconoscere contro
queste il diritto di appello. Affido per tanto fiducioso all'Assemblea il testo di questo articolo, quale
risulta dagli emendamenti da me proposti. (Approvazioni). Presidente Terracini. Segue
l'emendamento dell'onorevole Grassi, al secondo comma, così formulato: «Sostituire il secondo comma
col seguente: «I magistrati sono soggetti soltanto alla legge, che applicano secondo coscienza».
L'onorevole Grassi ha facoltà di svolgerlo. Grassi. Ho presentato un emendamento per il secondo
comma, perché per il primo comma io non avrei nessuna difficoltà ad accettare il testo della
Commissione. Però ritengo utile il secondo comma, per quanto l'onorevole Oro Nobili abbia detto che
si tratta di affermazione generica, ed effettivamente questa affermazione generica potrebbe essere
superflua, dato che nell'articolo successivo si parla di indipendenza della Magistratura. Tuttavia io
penso sia necessario che rimanga, perché mentre lì parliamo di Magistratura in genere, che è
indipendente ed autonoma, qui invece parliamo dei singoli, facenti parte dell'organo generale. Dire la
frase «dipendono dalla legge» mi sembra più corretto, in quanto non è un senso di dipendenza dalla
legge, ma un senso di soggezione di tutti i cittadini alla legge. L'importante è dire, con questa
affermazione, sia pure di carattere teorico e generale, che non solo la Magistratura, ma il singolo
magistrato è libero e indipendente e non è soggetto che soltanto alla legge. Presidente Terracini.
Segue l'emendamento dell'onorevole De Palma così formulato: «All'ultimo comma, sopprimere le
parole: o ad associazioni segrete». Ha facoltà di svolgerlo. De Palma. L'emendamento da me
presentato non credo che abbia bisogno di essere illustrato. È già stato illustrato da altri, quindi io lo
mantengo riportandomi a quanto altri colleghi hanno precedentemente detto. Presidente Terracini.
Lei, onorevole Grassi, ha fatto la stessa proposta. Grassi. Sì, siamo tutti d'accordo. L'articolo 13 della
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Costituzione proibisce le associazioni segrete, quindi sarebbe inutile ed anzi pericoloso dirlo in queste
occasioni. Presidente Terracini. Poiché vi sono numerosi emendamenti del tutto simili, vorrei pregare
i presentatori di volersi mettere d'accordo fra loro perché uno solo li svolga. Segue l'emendamento
dell'onorevole Perrone Capano: «Al terzo comma, sopprimere le parole: o ad associazioni segrete».
L'onorevole Perrone Capano ha facoltà di svolgerlo. Perrone Capano. Mi associo a quanto ha detto
l'onorevole De Palma. Presidente Terracini. Segue l'emendamento dell'onorevole Sardiello. «All'ultimo
comma, aggiungere le parole seguenti: né accettare cariche ed uffici pubblici elettivi». Non essendo
presente l'onorevole Sardiello, si intende che abbia rinunziato a svolgerlo. Segue l'emendamento
dell'onorevole Varvaro: «Aggiungere, in fine, il seguente comma: «I magistrati non possono essere
destinati ad uffici estranei all'ordine giudiziario». Non essendo presente l'onorevole Varvaro, si
intende che abbia rinunziato a svolgerlo. Segue l'emendamento dell'onorevole Caroleo: «Al secondo
comma, dopo le parole: secondo coscienza, sostituire le altre: secondo la volontà, che vi è espressa».
L'onorevole Caroleo ha facoltà di svolgerlo. Caroleo. Il mio emendamento è questo: alle parole «secondo
coscienza» sostituire le altre: «secondo la volontà, che vi è espressa». È ben detto che i magistrati
devono dipendere esclusivamente dalla legge, ma bisogna intendersi bene a proposito di questa
dipendenza, che verrebbe in certo qual modo superata dall'aggiunta delle parole «secondo coscienza».
Io penso che quando ci si riferisce ai magistrati italiani sia inutile fare un appello alla coscienza,
mentre è necessario, se non si vuol cadere in una specie di contraddizione, fare un espresso richiamo
alla volontà della legge, altrimenti sarebbe quasi inutile affermare che i magistrati dipendono dalla
legge. In ogni paese democratico, più che di separazione, deve parlarsi di delimitazione di poteri, e la
legge segna il limite della sovranità devoluta ai magistrati, come la legge segna il limite per tutti gli
altri poteri dello Stato. Ho sentito da taluno affermare che l'indagine del giudice intorno al pensiero
del legislatore sia quasi un conformismo, uno zelo inammissibile per il magistrato. Ma questo mi pare
che non sia rispondente al principio della indipendenza della Magistratura, che trova il limite nella
legge, e soltanto nella legge. Perché, se questo è, bisogna non soltanto ammettere, ma addirittura fare
obbligo al magistrato di ricercare, ogni qual volta applichi o interpreti la norma, il vero pensiero del
legislatore. Taluno confonde spesso la pessima legge con il presupposto conformismo del magistrato;
ma occorre tener presente che, anche quando si ha riguardo al periodo fascista e si fa rimprovero ai
magistrati di essersi conformati alla legge, quel rimprovero e quel processo andrebbero più
rettamente fatti alla pessima legge che si poté emanare durante il fascismo e non al cosiddetto
conformismo del magistrato. Su questo punto, onorevoli colleghi, credo ci si debba fermare e ci si
debba chiaramente intendere, se non si vuole assistere a quello spettacolo poco edificante a cui noi
abbiamo assistito a proposito di certe sentenze che hanno trattato dell'applicazione dei decreti Gullo
prima, e Segni poi. Se si vuol fare questo riferimento alla coscienza del magistrato, lo si mantenga; ma
prima che alla coscienza, si faccia obbligo al magistrato di obbedire al pensiero ed alla volontà del
legislatore. Presidente Terracini. Sullo stesso articolo 94 è stato presentato dagli onorevoli Conti,
Perassi, Bettiol, Leone Giovanni, Reale Vito un emendamento del seguente tenore: «La giustizia è
amministrata in nome del popolo. «I magistrati sono soggetti soltanto alla legge». Si intende così
assorbito l'emendamento dell'onorevole Bettiol del seguente tenore: «Al secondo comma, sopprimere
le parole: che interpretano ed applicano secondo coscienza». L'onorevole Conti ha facoltà di svolgerlo.
Conti. Rinunzio a svolgerlo. Presidente Terracini. L'onorevole Ruini ha facoltà di esprimere il parere
della Commissione sugli emendamenti presentati. Ruini, Presidente della Commissione per la
Costituzione. Il Comitato di redazione ha tenuto conto, uno per uno, dei numerosi emendamenti
presentati; ma mi consentirete che, per impostare la questione, io parta dal testo proposto dalla
Commissione dei 75, il quale dice: «La funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della
Repubblica, è esercitata in nome del popolo». Il Comitato ritiene che si possa sopprimere l'inciso
«espressione della sovranità della Repubblica», perché questa formula non è espressa né a proposito
del Parlamento, né a proposito del potere esecutivo, cioè degli altri poteri a cui è parallelo il potere
giudiziario; il metterla qui non avrebbe significato e valore specifico. Il Comitato mira ad ottenere la
maggiore semplificazione possibile. Questo articolo 94 è come un'epigrafe, come una parola iniziale
di tutto il Titolo; quanto è più breve e lapidario, tanto è certamente migliore. Nel primo comma
abbiamo accolto gli emendamenti presentati dagli onorevoli Targetti, Colitto e Conti. Così questo
primo comma si ridurrebbe all'espressione: «La giustizia è amministrata in nome del popolo». Maffi.
Italiano. Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Nessun dubbio che le sentenze
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continueranno, come già si fa, ad essere emanate in nome del popolo italiano. Ma non è il caso di
specificare qui; poiché abbiamo parlato di popolo tante altre volte, in questo testo costituzionale, e
non abbiamo mai messo l'aggettivo «italiano»; e del resto di quale altro popolo si potrebbe trattare
nelle nostre sentenze? Secondo comma: «I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano
e applicano secondo coscienza». È stato proposto di sostituire alla parola «dipendono» le parole «sono
vincolati» oppure «obbediscono» oppure «sono soggetti». Il Comitato accetta quest'ultima
espressione, che pare migliore, o almeno ha minori inconvenienti, e comunque rientra piuttosto nella
revisione stilistica. Riguardo alla seconda parte del secondo comma, «che interpretano ed applicano
secondo coscienza» si presenta un dilemma: o questa è una dichiarazione generica di ovvio
significato, ed allora possiamo anche abbandonarla, senza molto rincrescimento, o apre la via, e di ciò
si espresse il timore, ad una interpretazione che sarebbe pericolosa, ed allora vi è una ragione di più
per abbandonarla. Io non credo che, parlando di coscienza del giudice, si possa intendere la tendenza e
l'ammissione del cosiddetto «diritto libero», costruzione teorica per me inammissibile; ma non
discara, fra gli altri, all'hitlerismo. Ad ogni modo, poiché è stato manifestato un dubbio; ed il togliere
l'inciso non nuoce — anzi, Dio sia lodato, abbrevia il testo — il Comitato acconsente alla
soppressione. Resta l'ultimo comma, sul divieto di iscrizione a partiti politici o ad associazioni
segrete. D'accordo per la soppressione del cenno alle associazioni segrete. Avevo già sostenuto da
tempo che è un duplicato ed una ripetizione inutile, posto che in un altro articolo v'è già il divieto di
tali associazioni. Quanto all'iscrizione nei partiti politici, non sembra il caso di risolvere la questione
qui, soltanto per i magistrati. Potrebbero esservi per loro maggiori ragioni; ma insomma vi sono altre
categorie di funzionari, pei quali si può esaminare l'opportunità dello stesso divieto ed è opportuno
decidere con una visione d'insieme. Vi è un emendamento che comprende appunto nel divieto altre
categorie, e l'Assemblea ne ha rimandato l'esame complessivo. Ce ne occuperemo fra non molto e
decideremo allora anche pei magistrati. Sopprimiamo intanto l'ultimo comma dell'articolo 94. La
formulazione dell'articolo si riduce così a due brevi commi. Nel primo si tien conto dell'emendamento
degli onorevoli Conti, Perassi e Bettiol e degli altri emendamenti degli onorevoli Colitto e Targetti. Nel
secondo comma si tien conto dell'emendamento Grassi. In complesso il testo che noi proponiamo è
molto breve (Dio sia lodato) ed è questo: «La giustizia è amministrata in nome del popolo. I magistrati
sono soggetti soltanto alla legge». Ghidini. È una sospensiva? Ruini, Presidente della Commissione per
la Costituzione. Onorevole Ghidini, noi chiediamo la soppressione del terzo comma, salvo considerare
poi la questione sotto un altro aspetto, non pei soli magistrati. Non è, dunque, una sospensiva formale,
anche se può averne la portata sostanziale. Laconi. Chiedo di parlare. Presidente Terracini. Ne ha
facoltà. Laconi. Vorrei fare una proposta sull'emendamento presentato dall'onorevole Caroleo.
Domando se egli sarebbe disposto a combinare il suo emendamento con quello accettato dalla
Commissione, e che in questa forma il nostro Gruppo sarebbe disposto a votare: «I magistrati sono
soggetti soltanto alla legge, che interpretano ed applicano secondo la volontà che vi è espressa».
(Commenti). Presidente Terracini. Quale è il suo parere, onorevole Ruini? Ruini, Presidente della
Commissione per la Costituzione. Prego l'onorevole Laconi di non insistere su questa proposta, perché
l'affermare che la legge va interpretata secondo la volontà che vi è espressa è così elementare e
tautologico, che non è davvero il caso di inserirlo in una Costituzione. Ripeto: avrebbe avuto un
significato mettere: «che interpretano ed applicano secondo coscienza»; ma poiché è sorto un dubbio
e non è necessario inserire una tale disposizione, la Commissione ritiene opportuno limitare il
secondo comma alla sola frase: «i magistrati sono soggetti soltanto alla legge». (Approvazioni).
Targetti. Chiedo di parlare. Presidente Terracini. Ne ha facoltà. Targetti. Onorevoli colleghi! A nome
anche di alcuni colleghi, come l'onorevole De Michelis, l'onorevole Costa ed altri, propongo la
soppressione di questo secondo comma presentato dalla Commissione per queste considerazioni. Che
cosa si intende di significare con la frase: «i magistrati sono soggetti soltanto alla legge»?
Evidentemente, si vuole affermare l'indipendenza del magistrato; ma vi sarà modo di affermarla in un
altro articolo e, me lo permetta l'onorevole Ruini e gli altri sostenitori di questa formula, ci sarà anche
modo di esprimerla un po' meno male, un po' meglio, non so come dire. Certamente questa
espressione, per la quale il magistrato si dice soggetto alla legge, non è la più felice per riconoscere ed
affermare la superiorità del magistrato, la sua indipendenza. Tanto peggio poi quando si aggiunge
«che interpreta secondo coscienza». Non già perché io mi preoccupi dell'aggiunta, mentre non
approverei in nessun modo la frase «secondo la volontà che vi è espressa», perché non vi sarà nessun
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magistrato che interpreterà una disposizione di legge secondo una volontà che non vi è espressa o che
è espressa in un'altra disposizione di legge, ma è che mi sembra che vi sia un contrasto fra questi due
concetti. Da una parte si dice che il magistrato sta sotto la legge, che vi è soggetto, e dall'altra si dice
che la interpreta. Cioè interpreta ciò a cui è soggetto. È un insieme di espressioni che non mi
sembrano le più felici. Per queste considerazioni, proponiamo la soppressione di questo comma.
Presidente Terracini. Onorevole Mastino Pietro, mantiene il suo emendamento? Abozzi. L'onorevole
Mastino Pietro non è presente. Faccio mio il suo emendamento e lo mantengo. Presidente Terracini.
Sta bene. Onorevole Targetti, mantiene il suo emendamento? Targetti. Lo mantengo. Presidente
Terracini. Onorevole Caccuri, mantiene il suo emendamento? Caccuri. Lo ritiro. Aderisco in pieno alla
nuova formulazione Conti, Bettiol e altri. Presidente Terracini. Non essendo presente l'onorevole
Castiglia, l'emendamento si intende decaduto. Onorevole Romano, mantiene il suo emendamento?
Romano. Mi associo alla proposta della Commissione. Presidente Terracini. Onorevole Colitto,
mantiene il suo emendamento? Colitto. Non ho nulla da dire, avendo la Commissione accolto il mio
emendamento. Presidente Terracini. Non essendo presenti gli onorevoli Bellavista, Adonnino, Costa e
Ruggiero, i loro emendamenti si intendono decaduti. Onorevole Nobili Tito Oro, mantiene il suo
emendamento? Nobili Tito Oro. Non ho nessuna difficoltà ad accettare, per il primo comma, il nuovo
testo della Commissione, che ha accolto alcuni degli emendamenti da me proposti e, fra questi, la
soppressione dell'inciso; accetto che sia sostituita la locuzione «la giustizia è amministrata» a quella
del progetto. Insisto perché sia inserita l'indicazione della Magistratura come organo
dell'amministrazione della giustizia, e ciò in via di transazione perché ritengo più precisa la formula
complessiva da me proposta. Confermo le ragioni svolte a sostegno dell'aggettivazione del popolo, ma
non insisto nell'emendamento. Relativamente al secondo comma, prendo atto dell'accettazione della
soppressione della seconda proposizione; insisterei per altro nella soppressione totale, trattandosi di
concetto che sarà poi introdotto coll'articolo 97. Prendo atto in fine della accolta proposta di
soppressione dell'ultimo comma. Per quanto poi si riferisce al trasferimento dell'articolo 96, come da
me emendato, all'articolo 94, l'onorevole Presidente della Commissione non ha esposto il suo pensiero.
Io tuttavia vi insisto: perché trasferendo l'articolo 96 all'articolo 94, noi completeremmo la
disposizione relativa alle fonti della giurisdizione. Presidente Terracini. Onorevole Nobili Tito Oro, la
prego, poiché lei mantiene il suo emendamento, non è più necessario che lo motivi ulteriormente,
avendolo già fatto in precedenza. Nobili Tito Oro. Volevo dire solo che in proposito non ho avuto modo
di conoscere il pensiero della Commissione: comunque, non insisterò in questa sede nel proposto
trasferimento dell'articolo 96, ma tornerò ad insistervi quando di questo si discuterà. Ruini,
Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare. Presidente Terracini. Ne ha
facoltà. Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Io prego l'onorevole Nobili Tito Oro
di considerare che il mettere qui questa disposizione significherebbe risolvere incidentalmente una
questione sulla quale ci potremo pronunciare per mezzo di altri emendamenti più chiari. Vi sono altre
formule proposte in questo senso. Ve n'è una dell'onorevole Targetti che dice che il popolo partecipa
alla giustizia direttamente, nei casi stabiliti dalla legge; vi sono altre formulazioni che ammettono che
si possano stabilire presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate con la partecipazione
di elementi estranei alla Magistratura; il che potrebbe dare la possibilità di qualcosa d'analogo alla
giuria. Vedremo allora; non è il caso qui di una risoluzione incidentale e dubbia. E poi non comprendo
perché si dovrebbe, con l'accenno desiderato dall'onorevole Oro Nobili, spezzare la linea semplice e
solenne di un'affermazione che apre l'intero Titolo. Giacché ho la parola, prego l'Assemblea di
conservare il secondo comma, con l'espressione «i magistrati sono soggetti alla legge». Altrimenti
rimarrebbe un solo comma, con una espressione meno completa e più vaga. Noi dobbiamo dirlo, che i
magistrati sono soggetti soltanto alla legge; parleremo in seguito dell'autonomia e dell'indipendenza
dell'ordine giudiziario. Qui dobbiamo parlare della legge. Quando entriamo nelle aule di un tribunale,
vediamo scritto: «La legge è uguale per tutti». Quasi proporrei di mettere nella Costituzione questa
vecchia frase, che ha una bellezza che viene dalla tradizione. In sostanza, credo che, mettendo subito il
concetto della legge, affermiamo ed eleviamo il carattere della funzione del magistrato. Per queste
considerazioni insisto perché resti l'espressione: «I magistrati sono soggetti soltanto alla legge».
(Applausi). Presidente Terracini. L'onorevole Persico ha facoltà di dichiarare se mantiene il suo
emendamento. Persico. Accetterei l'emendamento Conti-Perassi; però proporrei di aggiungere: «in
nome del popolo italiano». (Commenti). Presidente Terracini. L'onorevole Grassi ha facoltà di
68
dichiarare se mantiene i suoi emendamenti. Grassi. Io accetto l'ultimo comma così come è stato
presentato dalla Commissione; però penso che sia opportuno aggiungere, come propone il collega
Nobili Tito Oro: «La giustizia è amministrata dalla Magistratura, in nome del popolo italiano». Perché
altrimenti, dicendo solamente «in nome del popolo», rimarrebbe l'interrogativo: da chi? Ruini,
Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma è il titolo stesso che lo dice. Grassi. Il concetto
generale di Magistratura abbraccia tutti, non parliamo di giudici togati o non togati. Io, per mio
conto, accetterei la proposta dell'onorevole Oro Nobili. Per quello che riguarda il secondo comma,
ringrazio la Commissione di aver accettato la formula da me proposta e ritengo, contrariamente a
quello che ha detto l'onorevole Targetti, che sia utile che sia mantenuto, non solo per le considerazioni
espresse dal Presidente della Commissione, ma anche per quello che ho accennato prima. Non basta
dire che la Magistratura è autonoma e indipendente; bisogna dire anche che il magistrato è
indipendente, e la forma migliore di indipendenza è di riconoscere che egli è soggetto solo alla legge.
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Vorrei pregare l'onorevole Persico di non
insistere sulla proposta di aggiungere la parola «italiano». Si capisce che è il popolo italiano, e non è il
popolo turco! Nobili Tito Oro. Si stanno creando le Cassazioni regionali! Presidente Terracini.
Onorevole Caroleo, mantiene il suo emendamento? Caroleo. Aderisco al testo della Commissione.
Presidente Terracini. L'onorevole De Palma ha facoltà di dichiarare se mantiene il suo emendamento.
De Palma. Aderisco al testo della Commissione. Presidente Terracini. Gli onorevoli Persico, Perrone
Capano e Grassi hanno visto accettata la proposta di sopprimere al terzo comma: «o ad associazioni
segrete». Onorevole Damiani, mantiene il suo? Damiani. Lo mantengo. Presidente Terracini. Sta bene.
Onorevole Rossi Paolo, mantiene il suo emendamento? Rossi Paolo. Sarei disposto a ritirare il mio
emendamento, purché fosse mantenuto quello dell'onorevole Sardiello del seguente tenore: «All'ultimo
comma, aggiungere le parole: chiamati a far parte di commissioni od organi di carattere politico».
Presidente Terracini. Ma l'onorevole Sardiello è assente, e perciò il suo emendamento decade. Lussu.
Lo faccio mio. Presidente Terracini. Onorevoli colleghi, passiamo allora ai voti. Abbiamo innanzitutto
un emendamento sostitutivo integrale di tutto l'articolo, che era stato proposto dall'onorevole Mastino
Pietro e che era stato successivamente fatto proprio dall'onorevole Abozzi. Onorevole Abozzi, lo
mantiene? Abozzi. Lo mantengo. Presidente Terracini. Sta bene. Passiamo alla votazione di questo
emendamento sostitutivo dell'intero articolo 94: «La funzione giurisdizionale è esercitata dai giudici e
dai magistrati del pubblico ministero, che dipendono soltanto dalla legge». Ruini, Presidente della
Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare. Presidente Terracini. Ne ha facoltà. Ruini,
Presidente della Commissione per la Costituzione. La Commissione non accoglie questo emendamento.
Moro. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto. Presidente Terracini. Ne ha facoltà. Moro. Dichiaro
che voteremo per il testo della Commissione e quindi contro tutti gli altri emendamenti. Presidente
Terracini. Pongo in votazione l'emendamento sostitutivo testé letto. (Non è approvato). Passiamo alla
votazione del primo comma della nuova dizione proposta dalla Commissione: «La giustizia è
amministrata in nome del popolo». Targetti. Chiedo di parlare. Presidente Terracini. Ne ha facoltà.
Targetti. Onorevole Presidente, anche il mio emendamento è sostitutivo dell'intero articolo. Presidente
Terracini. Onorevole Targetti, noi, ponendo in votazione la dizione «La giustizia è amministrata in
nome del popolo», veniamo implicitamente a porre in votazione la sua proposta di sopprimere il
secondo comma. Infatti coloro che accettano la sua proposta voteranno contro il comma mirando a
farlo cadere. Mi pare che a questo primo comma non siano stati presentati emendamenti sostitutivi
né aggiuntivi, perché tutti i colleghi hanno accettato la formula della Commissione. Resterebbe la
proposta dell'onorevole Persico di aggiungere la parola «italiano». Persico. La ritiro. Presidente
Terracini. L'onorevole Grassi ha proposto la seguente formula: «La giustizia è amministrata dalla
Magistratura in nome del popolo». Grassi. La ritiro. Presidente Terracini. Resta allora la sola formula
della Commissione: «La giustizia è amministrata in nome del popolo». La pongo in votazione. (È
approvata). Passiamo allora al secondo comma: «I magistrati sono soggetti soltanto alla legge». A
questo comma l'onorevole Laconi ha presentato il seguente emendamento: «I magistrati sono
soggetti soltanto alla legge, che interpretano ed applicano secondo la volontà che vi è espressa». Lo
mantiene, onorevole Laconi? Laconi. Ho chiesto all'onorevole Caroleo se era disposto ad accordare il
suo emendamento aggiuntivo alla proposta della Commissione. Presidente Terracini. L'onorevole
Caroleo aveva presentato il suo emendamento come aggiuntivo alla proposta della Commissione.
Quindi dipende dall'onorevole Caroleo il mantenerlo o meno. Egli vi ha rinunciato. Lei lo fa suo?
69
2.2. IL PRIMO COMMA DELL’ART. 101 COST.: VALORE SIMBOLICO/FORMALE
O “SUBORDINAZIONE STRUTTURALE” DELLA GIURISDIZIONE ALLA
SOVRANITÀ POPOLARE?
Nelle pagine addietro si è visto come l’Assemblea costituente, in sede di
votazione dell’art. 101 Cost., abbia voluto intervenire sul progetto di
Costituzione, modificando l’art. 94 in guisa tale da inserire nella Carta
Laconi. No, vi rinuncio. Presidente Terracini. Sta bene. Allora, pongo in votazione la formula proposta
dalla Commissione, facendo presente che secondo la proposta dell'onorevole Targetti l'articolo 94
dovrebbe essere limitato al primo comma, già votato. Coloro che accedono alla proposta Targetti,
pertanto, voteranno contro questo secondo comma, che pongo ora in votazione: «I magistrati sono
soggetti soltanto alla legge». (È approvato). Vi sono ora due formulazioni aggiuntive, quella
dell'onorevole Sardiello, fatta propria dall'onorevole Lussu, del seguente tenore: «All'ultimo comma
aggiungere le parole: né accettare cariche ed uffici pubblici elettivi». e quella dell'onorevole Damiani:
«All'ultimo comma, dopo la parola: segrete, aggiungere: né far parte di qualsiasi organo estraneo alla
Magistratura». Faccio, però, presente che queste proposte dovrebbero essere coordinate con l'ultimo
comma del primitivo testo della Commissione, che è quello che si riferisce al divieto di iscrizione dei
magistrati a partiti politici e ad associazioni segrete. Poiché la Commissione rinunzia a questo
comma, chiedo all'onorevole Damiani e all'onorevole Lussu se intendono di proporre le formulazioni
come a se stanti, autorizzandomi in questo caso a darvi l'opportuna forma letteraria. Onorevole
Lussu? Lussu. Mi rimetto. Presidente Terracini. Onorevole Damiani? Damiani. Propongo che sia
mantenuta come comma a se stante. Presidente Terracini. Allora in questa formulazione: «I
magistrati non possono far parte di nessun organo estraneo alla Magistratura». Damiani. Sì. Ruini,
Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare. Presidente Terracini. Ne ha
facoltà. Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Vorrei far osservare agli onorevoli
colleghi che hanno proposto questo emendamento aggiuntivo che non v'è nessuna ragione di
metterlo in questo articolo, che apre tutta la materia della giustizia, della Magistratura. Dopo che
abbiamo affermato i principî generali: la giustizia amministrata nel nome del popolo, la soggezione
dei magistrati alla sola legge, dovremmo proprio mettere la questione degli incarichi dei magistrati?
Sarebbe una stonatura; e si rimpiccolirebbe l'intero articolo. La questione sarà riesaminata a suo
luogo. Dichiaro comunque, fin d'ora, che non si dovrebbe inserire nel testo costituzionale la norma
proposta, ma farla, caso mai, oggetto di un ordine del giorno perché se ne tenga conto nella legge per
l'ordinamento giudiziario. Prego intanto l'Assemblea di non accettare questo emendamento.
(Approvazioni). Moro. Chiedo di parlare. Presidente Terracini. Ne ha facoltà. Moro. Dichiaro che
voteremo contro questa proposta di aggiunta dell'onorevole Damiani, attenendoci noi al testo della
Commissione. Infatti, se è una giusta esigenza che il magistrato sia distolto il meno possibile dalle sue
funzioni, non si può non considerare il pericolo insito in una espressione così larga, la quale può essere
tratta a significare cose che vanno, magari, al di là delle intenzioni dei proponenti. Se si vuole, si
presenti un ordine del giorno che manifesti un voto dell'Assemblea ed in termini più precisi e concreti.
Debbo poi confermare che la soppressione dell'ultima parte dell'articolo è da noi intesa come un
rinvio della trattazione della questione in altra sede. Mi pare che vi sia un emendamento apposito che
si estende anche ad altre categorie. In quella sede preciseremo il nostro atteggiamento. Presidente
Terracini. Chiedo all'onorevole Damiani, se accetta la proposta dell'onorevole Moro. Damiani. Io avevo
proposto questo emendamento aggiuntivo per il fatto che nella formulazione originaria dell'articolo
era detto che i magistrati non potevano essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete. Ora,
questa parte è stata esclusa dal nuovo testo elaborato dalla Commissione; quindi riconosco che il mio
emendamento aggiuntivo, rimanendo isolato, verrebbe a costituire un comma non bene armonizzato
con il resto dell'articolo, perciò rinuncio a mantenerlo in questa sede e mi riservo di ripresentarlo in
sede più appropriata. Presidente Terracini. E l'onorevole Lussu? Lussu. Rinunzio alla mia proposta.
Presidente Terracini. Sta bene. Pertanto l'articolo 94 risulta approvato nella seguente formulazione:
«La giustizia è amministrata in nome del popolo. «I magistrati sono soggetti soltanto alla legge»”.
70
costituzionale la dizione “La giustizia è amministrata in nome del popolo”, in
luogo di quella “La funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della
Repubblica, è esercitata in nome del Popolo” 140.
Tale principio, espresso in forma solenne al primo comma dell’art. 101 Cost.,
ha attirato l’interesse della dottrina, che ha tentato, con risultati e metodi
diversi, di analizzare la norma in parola al fine di sondarne il valore funzionale
oltre che il significato intrinseco.
Gli indirizzi interpretativi scaturiti da tale opera sono fondamentalmente tre:
i) ci si troverebbe dinnanzi ad una formula di sostanziale vacuità, provvista
di valore simbolico ma del tutto priva di contenuto prescrittivo così da
costituire una mera proclamazione ideologica141;
ii) la disposizione avrebbe uno scopo formale, in quanto obbligherebbe
all’uso della formula ivi contenuta nell’intestazione delle sentenze142;
iii) la norma avrebbe il pregio di mettere in risalto la stretta connessione tra
sovranità popolare e funzione giurisdizionale (di cui il termine giustizia
sarebbe, in questo caso, un sinonimo), in termini di subordinazione strutturale
della prima rispetto alla seconda, dovuta al vincolo che la legge, espressione dei
140 Nelle pagine addietro si sono riportate per intero le discussioni, in sede costituente, relative
a tale modifica, per il commento delle quali cfr. R. GUASTINI, op. ult. cit., pag. 141 e ss: “Per quanto
concerne il primo comma, si possono fare due osservazioni. In primo luogo, l’espressione tecnica (o
semi-tecnica) della dottrina pubblicistica <<esercizio della funzione giurisdizionale>> è stata
sostituita nel testo definitivo con l’espressione, propria del linguaggio comune, <<amministrazione
della giustizia>>. In verità, le due locuzioni sembrano avere la medesima denotazione, anche se la
seconda è ovviamente portatrice di alcune connotazioni che sono estranee alla prima. In secondo
luogo, l’inciso che qualificava la giurisdizione come <<espressione della sovranità della Repubblica>>
è caduto. Tale locuzione fu ritenuta priva di contenuto normativo e, comunque, pleonastica perché
meramente ripetitiva del principio secondo cui la funzione giurisdizionale <<è esercitata in nome del
popolo>>. Per la verità, le locuzioni <<sovranità della Repubblica>> e <<sovranità del popolo>>
(l’allusione è ovviamente all’art. 1, I comma, cost.) non sono affatto sinonime. La locuzione
<<sovranità della Repubblica>>, se fosse rimasta nel testo definitivo, avrebbe potuto dare occasione a
discussioni dogmatiche – analoghe a quelle che hanno caratterizzato la dottrina francese – intorno al
soggetto titolare della sovranità”.
141 Tra gli altri cfr. G. D’ELIA, L’azione penale popolare nel sistema costituzionale italiano, in Giur.
Cost., 1997, pag. 3110.
142 Si contrapporrebbe pertanto ai progetti degli on.li Calamandrei e Leone i quali auspicavano
l’utilizzo della formula, rispettivamente, “in nome della Repubblica”, “in nome della legge”.
71
rappresentanti del popolo, impone al giudice: in tal senso il primo comma
dell’art. 101 Cost. anticiperebbe il comma successivo143.
I tre indirizzi sopra riportati, a ben vedere, non sono tra loro assolutamente
inconciliabili ma, viceversa, devono essere tra loro combinati proprio per
carpire il senso e la funzione della ridetta norma costituzionale; in tale ottica,
può dirsi che il primo comma dell’art. 101, oltre ad incarnare un evidente
significato ideologico-simbolico, la cui conseguenza, peraltro, è l’utilizzo, in
ogni sentenza, della formula “in nome del popolo italiano”, sottolinea come
l’esercizio della funzione giurisdizionale sia subordinato, e al contempo,
legittimato, dal popolo sovrano. Nell’art. 101 Cost., “il nome speso è, infatti,
quello del popolo, che immediatamente rinvia all’art. 1 Cost. e a tutte le
disposizioni che ad esso sistematicamente fanno capo, tra le quali, per quel che
più specificamente interessa, l’art. 24 Cost.: questo, a sua volta, rappresenta
uno dei punti essenziali di confluenza della soggettività del popolo, uti singuli e
uti cives, rispetto alle istituzioni rappresentative, che si colloca allo snodo
dell’azione statale di selezione e riconoscimento dell’azione ordinante della
collettività popolare” 144.
Ora, è noto che il secondo comma dell’art. 101 Cost., oggetto di analisi nel
prossimo paragrafo, subordina altresì la funzione giurisdizionale, intesa come
applicazione della norma, alla legge che, diversamente dalla prima, è un’attività
originaria primaria del tutto indipendente145.
143 Cfr. A. PIZZORUSSO, L’organizzazione della giustizia in Italia, Torino, 1985, pag. 37 e ss.
Secondo l’Autore la funzione giurisdizionale “appare riconducibile al principio della sovranità
popolare....deve essere considerata come una forma di esercizio della sovranità popolare nella quale la
Costituzione indica la fondamentale fonte di legittimità dei pubblici poteri...ne consegue che l’attività
giurisdizionale deve necessariamente esercitare un ruolo subordinato rispetto a quello degli organi
rappresentativi”.
144 M. ESPOSITO, Iurisdictio in genere sumpta: il rapporto tra legge e giurisdizione nella
propsettiva della domanda giudiziale, in Riv. Dir. Proc., n. 4/2011 pag. 824.
145 Cfr. R. CARRÉ DE MALBERG, La loi, expression de la volonté généralé, Paris, 1931, pag. 43: “Le
puvoir législatif est un puvoir initial, attendu que sa mise en mouvement dépend de la libre supériorité
l’Exécutif et le juge, qui ne peuvent s’écarter d’elle ni la contrarier. Mais encore, surtout, elle este le
statut initial qui règle leur activité ed qui établit leur compétences, en déterminant ce que ces deux
autorités devront ou purront faire”.
72
Ci si potrebbe, a questo punto, domandare se esista e quale sia il nesso tra
subordinazione al popolo e subordinazione alla legge.
Mentre, da un punto di vista squisitamente definitorio, è abbastanza intuitivo
comprendere cosa sia la subordinazione alla legge, si riscontrano diverse
difficoltà a definire la subordinazione della funzione giurisdizionale alla
sovranità popolare e come essa operi.
In dottrina, pertanto, sono stati sviluppati tre distinti “modi” di concepire il
ridetto vincolo di subordinazione146:
a) mediante l’attribuzione della funzione giurisdizionale ad organi elettivi e,
perciò, rappresentativi e politicamente responsabili;
b) attraverso la sottoposizione degli organi giurisdizionali ad un controllo
degli organi legislativi;
c) tramite la subordinazione strutturale della “funzione giurisdizionale a
quella legislativa” che consisterebbe nel “vincolare gli organi giurisdizionali
ad applicare la legge, e null’altro che la legge (in conformità, del resto, alla
nozione classica di funzione giurisdizionale)”147.
I primi due “modi” sono inconciliabili con la nostra Carta costituzionale.
Difatti, se per un verso il punto sub a) si scontra nettamente con quanto previsto
dall’art. 106, co. 1, Cost. (“Le nomine dei magistrati hanno luogo per
concorso”), per altro verso il punto sub b) è in palese contrasto con l’art. 104,
co. 1, Cost. (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente
da ogni altro potere”).
La terza via è, dunque, da preferire, non soltanto perché le altre due sono
inconciliabili con il nostro ordinamento, ma soprattutto perché essa, oltre a
porsi in connessione con il secondo comma dell’art. 101, trova le sue profonde
radici nei concetti di Stato costituzionale di diritto e di ordinamento giuridico,
attestandosi come un imprescindibile principio fondante.
146 R. GUASTINI, op. ult. cit., pag. 167 e ss.
147 R. GUASTINI, op. ult. cit., pag. 168.
73
Come si è accennato nelle pagine precedenti, un ordinamento nasce
dall’esigenza di una data comunità di darsi delle regole comuni per la
convivenza, istituendo, a tal fine, organi dediti al rispetto delle regole
medesime.
Tale opera, sulla falsariga delle teorie contrattualiste, implica che i soggetti
di una determinata comunità rinuncino alla propria sovranità naturale (intesa
come possibilità di porre in essere ogni atto di cui si sia materialmente capaci)
in favore dell’ordinamento giuridico del quale fanno parte.
Nelle teorie esposte da Santi Romano148, l’ordinamento giuridico si compone
di tre elementi: 1) la plurisoggettività, ossia la presenza di più soggetti; 2) la
normazione propria, consistente nell’esistenza di un “ordine” di norme volte a
disciplinare la vita dei soggetti; 3) l’organizzazione, intesa come struttura con il
compito di porre in essere le norme e garantirne il rispetto.
In questa sede, quel che preme, è analizzare in concreto il terzo elemento
nell’ordinamento italiano, ovviamente nei limiti che qui interessano e, dunque,
in riferimento a tre quesiti principali: a chi appartenga la sovranità, come essa
venga esercitata e come la funzione giurisdizionale adempia al proprio “onere”
di amministrare la giustizia in nome del popolo149.
148 S. ROMANO, L'ordinamento giuridico : studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto, Pisa,
1917. “L'ordine sociale che è posto dal diritto non è quello che è dato dalla esistenza, comunque
originata, di norme che disciplinino i rapporti sociali: esso non esclude tali norme, anzi se ne serve e
le comprende nella sua orbita, ma, nel medesimo tempo, le avanza e le supera. Il che vuol dire che il
diritto, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di rapporti
sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce
come unità. (..). Se così è, il concetto che ci sembra necessario e sufficiente per rendere in termini
esatti quello di diritto, come ordinamento giuridico considerato complessivamente e unitariamente, è
il concetto di Istituzione. Ogni ordinamento giuridico è una istituzione e, viceversa, ogni istituzione è
un ordinamento giuridico: l'equazione fra i due concetti è necessaria e assoluta. Cosicchè
l'espressione "diritto" in senso obiettivo, secondo noi, può ricorrere in un doppio significato, può cioè,
designare anzitutto: a) un ordinamento nella sua completezza e unità, cioè una istituzione; in secondo
luogo: b) un precetto o un insieme di precetti (..) che per distinguerli da quelli non giuridici, diciamo
istituzionali, mettendo così in evidenza la connessione che essi hanno con l'ordinamento intero, ossia
con l'istituzione di cui sono elementi, connessione che è necessaria e sufficiente per attribuire loro
carattere giuridico”.
149 M. ESPOSITO, op. ult. cit., pag. 824: “La Costituzione risolve preventivamente il conflitto,
nell’art. 101, comma 1°, Cost., disponendo che la giustizia sia amministrata in nome del popolo e così
introducendo, prima ancora del successivo alinea, un elemento soggettivo estraneo rispetto al giudice
e nei cui confronti il giudice è tenuto ad una contemplatio domini. La <<ricognizione di debito>>
74
Alla prima domanda è agevole rispondere: l’art. 1 della Costituzione
proclama solennemente “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul
lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei
limiti della Costituzione150.
Il medesimo art. 1, poi, getta le basi per poter rispondere al secondo quesito,
laddove sancisce che la sovranità debba essere esercitata nelle forme e nei limiti
della Costituzione. Orbene, la nostra attenzione deve essere incentrata
sull’esercizio della sovranità popolare nel procedimento ordinario di
produzione di norme151, dato che, quel che ora interessa, è capire in che
rapporto siano subordinazione alla sovranità e subordinazione alla legge.
La questione si complica: dato atto che il Parlamento è l’organo a cui
compete, ai sensi dell’art. 70 Cost., la funzione legislativa, da tempo si è
abbandonata l’opinione che esso sia un organo del popolo, ossia strumento
attraverso il quale quest’ultimo esercita la sovranità popolare152.
Non bisogna dimenticare, tuttavia, che i membri del Parlamento vengono
eletti dai cittadini per rappresentare la Nazione (art. 67 Cost.) nell’esercizio
della funzione legislativa.
Si può pertanto ritenere che in questo caso ed in concreto la sovranità
popolare coincida (e al contempo riscontri un limite autoimposto) con il potere
di scegliere quegli individui che andranno a comporre la compagine
significata dalla formula costituzionale, tipica dei rapporti procuratori, rende già di per sé sola edotti
della posizione alinde dei criteri che devono guidare l’amministrazione della giustizia”.
150 Sulla nozione di sovranità popolare, si rinvia a C. ESPOSITO, La Costituzione Italiana,
Padova, 1954; V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in AA. VV., Scritti
Giuridici in memoria di Vittorio Emanuele Orlando, Padova, 1957; C. Mortati, art. 1 Cost., in
Commentario della Costituzione fondato da Giuseppe Branca, Roma.
151 Per ulteriori approfondimenti sull’esercizio della sovranità popolare si rinvia a T. E. FROSINI,
Sovranità popolare e costituzionalismo, Milano, 1997; M.S. GIANNINI, Sovranità (diritto vigente), in
Enc. Dir., XLII, Milano, 1990, pag. 224 e ss.; D. NOCILLO, Popolo (diritto costituzionale), in Enc. Dir.,
XXXIV, Milano, 1985 pag. 341 e ss.
152 Tra gli altri, cfr. V. CRISAFULLI, op. ult. cit., il quale nota che gli atti del Parlamento non sono
atti del popolo ma dello Stato-apparato, tanto ciò è vero che al primo viene attribuita la potestà di
abrogare le leggi mediante lo strumento del referendum abrogativo.
75
parlamentare153, che hanno, come scopo primario, quello di salvaguardare
l’esistenza e il funzionamento dell’ordinamento italiano, mediante l’adozione di
atti che vincolano il popolo medesimo. Ciò in quanto tale è lo strumento ivi
predisposto dalla Carta costituzionale per l’esercizio della sovranità.
Si è, infatti, osservato in dottrina che “La cosiddetta contemplatio domini,
ossia la dichiarazione espressa dell'agire per altri, che caratterizzerebbe la
rappresentanza stricto sensu, si ritrova, infatti, nella disposizione della seconda
parte dell'art. 1 [...] dalla quale si ricava, precisamente, che la sovranità è e
rimane del popolo, e che lo Stato soggetto è dunque soltanto una tra le "forme"
(rectius tra i mezzi) in cui essa viene costituzionalmente esercitata. Ciò che può
considerarsi sufficiente a concretare il requisito della contemplatio domini, in
linea generale, con riferimento, cioè, una volta per tutte, all'intera parte della
potestà di governo il cui esercizio è demandato alla persona giuridica statale.
Per talune manifestazioni, poi, della sovranità, esistono anche ulteriori più
specifiche disposizioni, che ribadiscono tale requisito. Così, per la funzione
giurisdizionale, l'art. 101, a termine del quale, 'la giustizia è amministrata in
nome del popolo'; così, indirettamente, per la funzione legislativa, l'art. 67,
sistematicamente inquadrato nel complesso delle disposizioni concernenti la
formazione della legge” 154.
Si è poi osservato “la disposizione che il popolo è sovrano nelle forme e nei
limiti della Costituzione non significa che la Costituzione sopravvenga per
porre limiti estrinseci all'esercizio di una preesistente sovranità del popolo (e
153 Cfr. A. CERRI, Istituzioni di diritto pubblico, Milano, 2002, pag. 150: “La sovranità del popolo
si esercita, innanzi tutto, attraverso l’esercizio dei diritti politici, del diritto di eleggere i membri del
Parlamento, dei consigli regionali, comunali e provinciali (diritto di elettorato attivo); nel diritto di
essere eletti a tali cariche (elettorato passivo); attraverso i vari tipi di referendum previsti dalla
nostra Costituzione (ed anche, in base all’art. 123 Cost., dagli statuti regionali). Si esercita, inoltre,
attraverso la partecipazione ai partiti politici (art. 49 Cost.) o ad associazioni che, direttamente o
indirettamente, abbiano (anche) fini politici (art. 18 Cost.), a sindacati, ecc. In realtà si esercita
ancora attraverso l’esercizio dei diritti civili che talvolta possono assumere acuta incidenza politica:
attraverso la libera manifestazione del pensiero, ad es.”.
154 V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (note preliminari),
ripubblicato in Stato popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, pag. 143. Cfr.,
anche, G. BERTI, La responabilità pubblica (Costituzione e Amministrazione), Padova, 1994, pag. 60 e
ss.
76
che in sostanza la Costituzione neghi la sovranità popolare per affermare la
propria), ma proprio all'opposto che la sovranità del popolo esiste solo nei
limiti e nelle forme in cui la Costituzione la organizza, la riconosce e la rende
possibile, e fin quando sia esercitata nelle forme e nei limiti del diritto. Fuori
della Costituzione e del diritto non c'è la sovranità, ma l'arbitrio popolare, non
c'è il popolo sovrano, ma la massa con le sue passioni e con la sua
debolezza"155.
Percorrendo tale strada si giunge, quindi, al terzo dei quesiti sopra esposti,
che concerne il significato dell’espressione “La giustizia è amministrata in
nome del popolo” e il valore concreto da dare a tale principio.
Da una breve analisi del testo costituzionale si possono svolgere due
semplici considerazioni:
- da un lato, la norma non fa altro che legittimare espressamente il potere
giurisdizionale, che nasce per rispondere alle esigenze organizzative del popolo.
Dire che la giustizia è amministrata in nome del popolo equivale infatti a dire
che tale compito sorga per volontà del popolo medesimo;
- dall’altro, si noti che la disposizione non individua espressamente in favore
di chi il potere giurisdizionale debba essere esercitato (utilizzando un gergo
civilistico si potrebbe dire che la disposizione “spende il nome” del soggetto
per il quale si pone in essere l’atto, ma non identifica il beneficiario della
prestazione).
Ciò ci porta a ritenere che il potere giurisdizionale non debba curare gli
interessi del popolo in senso lato ma, semmai, un solo specifico interesse di
quest’ultimo, coincidente con l’attuazione delle regole ordinamentali, nei modi
e nei termini sanciti dalla Carta costituzionale.
Da quanto sin qui esposto, allora, si deve ritenere che esercitandosi, in questo
caso, la sovranità popolare mediante l’attribuzione ad un terzo del potere di
155 C. ESPOSITO, Commento al'art. 1 della Costituzione, ripubblicato in La Costituzione italiana Saggi, Padova, 1954, pag. 11
77
risolvere i conflitti dell’ordinamento, amministrare la giustizia in nome del
popolo non vuol dire altro che far rispettare quelle regole che lo stesso
ordinamento istituisce mediante l’utilizzo di quegli schemi costituzionali
previsti dalla nostra Carta.
In tale ottica, il primo e il secondo comma dell’art. 101 Cost., oltre ad essere
in stretta connessione tra loro, costituiscono due facce della stessa medaglia o,
ancor meglio, l’una il principio, l’altra le sue modalità di attuazione scelte in
sede Costituente: la subordinazione della funzione giurisdizionale alla sovranità
popolare, pertanto, è la norma che stabilisce il principio, il quale viene attuato, a
sua volta, mediante l’onere, posto in capo al giudice, di applicare la legge ( atto,
a sua volta soggetto, nei limiti di cui sopra, alla sovranità popolare).
Ne consegue che il giudice è vincolato dalla legge proprio perché soggetto
alla sovranità popolare, o meglio, ad ogni atto che, nel rispettare gli schemi
costituzionali, sia espressione dell’esercizio della sovranità.
78
2.3. IL SECONDO COMMA DELL'ART. 101 COST.: GIUDICI E LEGGE.
Com’è noto, il secondo comma dell’art. 101 recita semplicemente “I giudici
sono soggetti soltanto alla legge”. Tale dizione, che ha evidentemente accolto
gli auspici dell’On. Ruini in sede costituente (ut supra 2.1.), detta il c.d.
principio di legalità nella giurisdizione.
In senso più ampio, il principio di legalità adempie ad una funzione
garantista156, sottoponendo la validità degli atti emanati dai pubblici poteri al
rispetto della legge, relativamente a quelle attività che possono incidere sui
diritti dei cittadini, limitandoli ed estinguendoli157.
Le conseguenze di questo principio sono principalmente tre158:
a) è invalido ogni atto dei pubblici poteri che sia in contrasto con la legge
(principio di preferenza della legge);
b) è invalido ogni atto dei pubblici poteri che non sia espressamente
autorizzato dalla legge (principio di legalità in senso formale);
c) è invalida ogni legge che conferisce un potere senza disciplinarlo
(principio di legalità in senso sostanziale).
Anche la legalità nell’esercizio del potere giurisdizionale, sancita all’art.
101, II comma Cost., ha una funzione garantista, tuttavia essa contiene
specifiche peculiarità, in quanto viene enunciato un principio che, nella sua
semplicità, è “gravido” di ampie ed importanti conseguenze159.
In prima battuta, non si può prescindere da un’analisi letterale della norma,
al fine di comprendere chi siano i giudici ai quali essa si riferisce e, soprattutto,
cosa si intende con il termine legge in tale contesto.
156 L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma, 1989; G. TARELLO, Due
Volti del garantismo: difesa della libertà e conservazione degli assetti economici in S. CASTIGNONE,
L’opera di Giovanni Tarello nella cultura giuridica italiana, Bologna, 1989; G. ZAGREBELSKY, Manuale
di diritto Costituzionale, Torino, 1981.
157 M.S. GANNINI, Diritto Amministrativo, Milano, 1970, pag. 82.
158 S. FOIS, Legalità (principio di), in Enciclopedia del diritto, XXXIX, Milano, 1988, pag. 621 e
ss.; L. CARLASSARE, Legalità (principio di), in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, XVIII, 1990,
pag. 1 e ss; L. CARLASSARE, Regolamenti dell’esecutivo e principio di legalità, Padova, 1966, pag. 113 e
ss.
159 R. GUASTINI, Quindici lezioni di diritto costituzionale, Torino, 1992, pag. 179-180.
79
Sotto il primo aspetto, è noto che la Costituzione, in numerose disposizioni,
utilizza il termine giudice anche per identificare gli organi muniti di potere
requirente ma sprovvisti di funzione giurisdizionale160. Tuttavia, l’art. 101 Cost.
non pare essere indirizzato a tali soggetti161.
Il termine giudice, viceversa, è in questo caso sinonimo dell’espressione
“autorità giurisdizionale” utilizzata dall’art. 23 della legge 87/1953, che ha
chiamato spesso la giurisprudenza a pronunciarsi in merito alla legittimazione
del giudice a quo a sollevare questioni di legittimità costituzionale in via
incidentale162. Nel “colorare” questa espressione la Corte Costituzionale, nella
Sentenza n. 83 del 1966, ha addotto delle motivazioni che l’hanno portata a
“considerare autorità giurisdizionale anche organi che, pur estranei alla
organizzazione della giurisdizione ed istituzionalmente adibiti a compiti di
diversa natura, siano tuttavia investiti, anche in via eccezionale, di funzioni
giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge, ed all’uopo posti in
posizioni super partes e per un’altra a conferire carattere di “giudizio” a
procedimenti che, quale che sia la natura e le modalità di svolgimento, si
compiano però alla presenza e sotto la direzione del titolare di un ufficio
giurisdizionale” 163.
In altri termini, il sostantivo giudici, utilizzato al secondo comma dell’art.
101, si riferisce ad ogni autorità giurisdizionale che sia stabilmente titolare di
una funzione giurisdizionale, ovvero ad ogni soggetto che, seppur non
160 G. U. RESCIGNO, Costituzione italiana e Stato borghese, Roma, 1977, pag. 115: “La
organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, che pure per la Costituzione è un giudice...”.
161 P. GROSSI, Indipendenza del pubblico ministero e soggezione dei giudici alla legge, in Giur.
Cost., Roma, 1964, pag. 179-180. In giurisprudenza, cfr. Corte Cost., sentenza n. 190/1970: “Si deve
riconoscere che il pubblico ministero, in via di principio, non può essere considerato come parte in
senso stretto. Magistrato appartenente all’ordine giudiziario, collocato come tale in posizione di
istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere, egli non fa valere interessi particolari, ma
agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge: pesegue, come si usa
dire, fini di giustizia [...] E tuttavia queste ragioni [...] non sono ovviamente idonee a confondere la
posizione di lui con quella del giudice”. Nello stesso senso, cfr. sentenze Corte Cost. nn. 96/1975 e
463/1993.
162 In proposito: V. ONIDA, M. D’AMICO, Il giudizio di costituzionalità delle leggi. Materiali di
giustizia costituzionale, Torino, 1998, pagg. 23 e ss.
163 In senso conforme cfr. Corte Cost., sentenze nn. 67/1974 e 226/1976.
80
stabilmente chiamato ad esercitare il potere giudiziario, si trovi ad applicare la
legge in una posizione di terzietà ed imparzialità.
Il secondo problema sopra anticipato riguarda la definizione del termine
“legge”.
Orbene, nel linguaggio delle fonti tale vocabolo viene utilizzato per
identificare oggetti diversi. Vi sono, pertanto, almeno tre distinte interpretazioni
attribuibili al termine legge utilizzato nell’art. 101, II comma, Cost.164:
a) in senso di fonte del diritto oggettivo;
b) in senso di legge formale;
c) in senso di legge formale e di atti aventi forza o valore di legge.
Per capire quale di esse sia conferente alla disposizione in esame, si deve
partire dal significato da attribuire al termine soggezione, rivolto ad ogni
autorità giurisdizionale, che costituirebbe in un “dovere incondizionato di
applicazione. In altre parole, l’enunciato <<I giudici sono soggetti [...] alla
legge>> non può non significare almeno questo: che i giudici sono
incondizionatamente obbligati ad applicare la legge, nel senso che non possono
in alcun caso rifiutarne l’applicazione (anche se, come diremo, possono
sospenderla,
qualora
nutrano
dubbi
intorno
alla
sua
legittimità
costituzionale)165.
Si tratta allora di capire se i giudici siano incondizionatamente vincolati
all’applicazione di tutto il diritto o se possano, invece, rifiutarsi di applicare
l’una o l’altra fonte. La questione non è banale ed è anzi molto delicata.
164 R. GUASTINI, art. 101 Cost., in Commentario della Costituzione fondato da Giuseppe Branca,
1994, Roma, pag. 175: “Il termine <<legge>> è astrattamente suscettibile di almeno tre distinte
interpretazioni: (a) in primo luogo, si può ritenere che <<legge>> stia per <<legge (in senso)
materiale>>, e sia dunque sinonimo di <<fonte del diritto oggettivo>>; (b) in secondo luogo, si può
ritenere che <<legge>> si riferisca esclusivamente alla legge in senso formale, e dunque,
nell’ordinamento vigente, alla legge costituzionale, alla legge ordinaria statale, alla legge regionale,
nonché alla legge provinciale (delle province autonome di Trento e Bolzano); (c) in terzo luogo, si può
ritenere che <<legge>> si riferisca congiuntamente alla legge formale e agli atti aventi <<forza>> o
<<valore>> di legge (ordinaria): referendum popolare abrogativo (art. 74 Cost.), decreti legislativi
delegati (art. 77 I° comma e 76 Cost.), decreti-legge (art. 77, 2° comma, Cost.)”.
165 R. GUASTINI, op. ult. cit.
81
In assenza di argomentazioni convincenti, si deve ritenere che il termine
legge indichi, in questo caso, come in gran parte della nostra Carta
costituzionale, legge in senso formale.
Si è, infatti, rilevato che l’intero titolo IV della Sez. I della Costituzione,
quando utilizza il termine legge, intende “legge in senso formale” 166 e non vi
sono ragioni che spingano a darne una diversa interpretazione in tale contesto;
inoltre, si ritiene che quest’impostazione è strettamente collegata (o addirittura
costituisce un corollario) al principio espresso nell’art. 101 Cost., comma 1,
secondo cui la funzione giurisdizionale è subordinata alla sovranità popolare,
tramite il fondamento e la conformità di ogni decisione alla legge167.
A ciò si aggiunga che, mentre i giudici non sono in nessun caso autorizzati a
non applicare la legge (ma semmai a sospenderne l’efficacia sollevando
questione di legittimità costituzionale e fatto salvo il caso di contrasto con la
normativa europea), essi possono sindacare la validità di ogni atto della
pubblica amministrazione (art. 113, I comma, Cost.) e, per di più, oltre al potere
di
annullamento
(proprio
dell’A.G.A.)
essi
possono
disapplicare
incidentalmente i provvedimenti ritenuti illegittimi168.
Non si può ritenere, pertanto, che i giudici siano soggetti a tutte le fonti e che
il termine legge indichi il diritto oggettivo per la semplice, ma decisiva ragione,
che essi possiedono il potere di sindacare gli atti che non siano legge.
Ebbene, sicuramente l’art. 101, II comma, Cost., si riferisce alla legge in
senso formale. E, a fortiori, agli atti gerarchicamente superiori. Rimane da
166 S. FOIS, Op. ult. Cit. pag. 684: “Il riferimento alla legge assume comunque un significato
strettamente tecnico in tutte le norme contenute nel tit. IV sez. I Cost.: sarebbe perciò assurdo ritenere
che proprio nell’art. 101, norma fondamentale di tale titolo, il riferimento alla <<legge>> assuma un
significato diverso e meno rigoroso”.
167 P. GROSSI, Indipendenza del pubblico ministero e soggezione dei giudici alla legge, pag. 564; S.
FOIS, op.ult. cit., pag. 684-685.
168 Per un’analisi approfondita cfr. G. M. BERRUTI, La disapplicazione dell'atto amministrativo
nel giudizio civile, Milano, 1991.
82
vedere se, in tale contesto, siano equiparabili alla legge (e dunque il giudice vi
sia soggetto) gli atti aventi forza e valore di legge169.
Benché spesso dottrina e giurisprudenza siano stati inclini a far rientrare
nella nozione di legge anche gli atti aventi forza o valore di legge, vi è stato chi
ha, viceversa, sostenuto che essi non rientrino nel vincolo di soggezione posto
ai giudici dall’art. 101170.
Si è infatti detto che legge e atti aventi forza di legge, pur avendo la
medesima forza, abbiano diverse sfere materiali di competenza e che quando la
Costituzione vuole equiparare gli atti aventi forza di legge alla legge lo fà in
maniera esplicita171.
Tale dottrina ha, dunque, cercato di analizzare gli atti aventi forza di legge
uno ad uno, per vagliare la loro operatività all’interno dell’art. 101 Cost.,
arrivando ai seguenti risultati:
169 In merito alla distinzione tra i due concetti cfr. A. M. SANDULLI, Legge. Forza di legge. Valore
di Legge, in Riv. trim. di dir. pubbl., 1957, Milano: “La forza giuridica della legge – analogamente alla
forza giuridica degli altri atti dei pubblici poteri – consiste nella particolare potenza che è propria del
provvedimento legislativo: particolare potenza, che consiste nella capacità di innovare nell’ordine
legislativo preesistente (compreso nel concetto di innovazione anche quello di completamento). Forza
innovativa non indifferenziata, dunque, bensì tipica. Non forza di rinnovare in qualche modo nel
mondo dei rapporti giuridici (come spesso è stata definita la capacità innovativa della legge): una
simile forza la possiede non soltanto la legge, ma qualsiasi atto giuridico (l’atto giuridico è infatti, per
definizione, destinato a produrre modificazioni nel mondo dei rapporti giuridici). Bensì forza di
innovare nell’ordine legislativo, vale a dire nel sistema costituito dal complesso degli atti aventi forza
di legge. [...] Il valore giuridico della legge è tutt’altra cosa. Esso non attiene alla potenza dell’atto –
vale a dire a ciò che l’atto è in grado di fare o di non fare -, bensì attiene al regime tipico dell’atto –
vale a dire al trattamento che l’atto riceve in seno all’ordinamento. Come esiste un trattamento
giuridico proprio della sentenza (in virtù del quale questa può essere impugnata se e fin quando non
sia passata in giudicato, e successivamente diventata irrevocabile), e un trattamento giuridico
proprio dell’atto amministrativo (il quale può essere annullato d’ufficio o su ricorso, ma soltanto da
alcune autorità particolarmente qualificate), così esiste un trattamento giuridico proprio della legge
(la quale non può essere sindacata o disapplicata da alcuna autorità, e può venir meno soltanto per
virtù di una legge successiva o di una sentenza della Corte costituzionale). Orbene, il valore giuridico
della legge consiste nell’essere essa sottoposta a questo regime tipico. Appunto con riferimento a esso
la Costituzione, nelle disposizioni sopra richiamate, parla di atti << con valore di legge >>, e con <<
forza di legge >>, intendendo, con entrambe le espressioni, riferirsi al concetto della prima delle due”.
170 R. GUASTINI, op. ult. cit., pag. 178 e ss.
171 V. CRISAFULLI, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. trim. dir.
pubb., 1996; G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, I, pag. 62 e ss.
83
- il referendum abrogativo, essendo espressione diretta della sovranità
popolare, vincola il giudice in quanto collocabile nel primo comma dell’art. 101
Cost.;
- diversamente, i decreti governativi aventi forza di legge, essendo atti
dell’esecutivo e non atti che esprimerebbero la sovranità popolare, non
vincolerebbero i giudici che, quindi, su di essi potrebbero porre un sindacato
formale di validità.
A tale encomiabile tesi, tuttavia, non ci si sente di aderire, per due diversi
ordini di ragioni.
Il primo, accennato dalla medesima dottrina sopra riportata, concerne
l’eventuale conflitto che si creerebbe con l’art. 134 Cost., secondo il quale è
affidato alla Corte costituzionale il giudizio “sulle controversie relative alla
legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello
Stato e delle Regioni”. Se il giudice non fosse vincolato dagli atti aventi forza di
legge potrebbe non applicarli, rendendo del tutto superfluo il sindacato di
legittimità costituzionale della Consulta alla quale, viceversa, viene attribuito in
via esclusiva tale potere.
Il secondo, muove dall’interpretazione sopra esposta in ordine al combinato
disposto degli artt. 1 Cost. e 101, I comma, Cost (ut supra 2.2.).
Si è, infatti, accennato che l’art. 1 Cost. nel mentre affida al popolo la
sovranità, costituisce per esso un limite invalicabile, ovvero l’esercizio di tale
sovranità nelle forme e nei modi stabilite dalla legge (e, ancor prima, dalla
Carta costituzionale).
Ciò implica, come sopra si è accennato, che le strutture e i meccanismi
predisposti dalla Costituzione siano un mezzo con cui viene esercitata la
sovranità popolare, indipendentemente dalla partecipazione popolare al
procedimento interessato.
84
Ne consegue, che tutti gli atti che formalmente e sostanzialmente rispettano
la Carta costituzionale devono considerarsi una promanazione della sovranità
popolare e, come tali, rientrano nel primo comma dell’art. 101 Cost.
Alla luce di tali considerazioni, si deve ritenere che anche gli atti aventi forza
di legge rientrino nella copertura dell’art. 101 Cost.: d’altro canto, come a breve
si vedrà, il giudice è vincolato anche alle fonti di grado inferiore e ai
provvedimenti amministrativi, quand’essi trovano la propria legittimazione
nella Costituzione e nella legge, anche e proprio alla stregua dell’art. 101 Cost.
85
2.4. SEGUE: SOGGEZIONE ALLA LEGGE. L'AVVERBIO “SOLTANTO” E LA SUA
RILEVANZA NEL PRINCIPIO DI “STRETTA” LEGALITÀ NELLA
GIURISDIZIONE.
La norma contenuta al secondo comma dell’art. 101 Cost., se per un verso
rimarca il principio di indipendenza ed autonomia del giudice, espressamente
sancito all’art. 104, I comma, Cost., alla stregua del quale “la magistratura
costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”
172
, per
altro verso si perita di porre, nei confronti dell’organo giurisdizionale, un
preciso vincolo, consistente nell’applicazione incondizionata della legge.
Sotto il primo profilo, si è accennato come la formulazione del secondo
comma dell’articolo in parola “escluderebbe ogni equivalenza tra
indipendenza funzionale ed arbitrio: il giudice – a pena di un pregiudizio
irreparabile della sua indipendenza ed a prescindere da ogni parvenza di
giurisdizionalità – deve infatti operare esclusivamente nell’ambito di ciò che
la legge prevede, in modo tale che la regola di diritto sia << al tempo stesso,
il fondamento ed il limite >> della sua indipendenza”173.
Sotto il secondo profilo, la dottrina alla quale si aderisce, nell’analizzare
gli effetti dell’art. 101 Cost., secondo comma, ha studiato e isolato numerosi
corollari della norma in parola174.
Innanzitutto, l’art. 101 Cost., implica che ogni provvedimento
giurisdizionale sia fondato su una specifica norma di legge175 o, in ogni caso,
172 In questa prospettiva cfr. C. LAVAGNA, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1985 pag. 913:
“L’indipendenza del giudice è affermata dall’art. 101 2° comma, della Costituzione, laddove esso
dichiara che i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Questa regola sta a significare che il giudice
deve operare in conformità al diritto positivo [...] senza subire influenze di sorta nell’esercizio delle
proprie funzioni”; C. GIANNATTASIO, La magistratura, in Commentario sistematico alla costituzione
italiana, (a cura di) CALAMANDREI-LEVI, Firenze, 1950, pag. 174 “la più solenne affermazione
dell’indipendenza della Magistratura [...] è quella secondo la quale i giudici sono soggetti soltanto alla
legge. [...] Con essa si vuole intendere che i magistrati sono sottratti ad ogni ingerenza degli organi del
potere esecutivo”.
173 N. ZANON – L. PANZERI, art. 101 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di R. BIFULCO, A.
CELOTTO, M. OLIVETTI, 2006, pag. 1962.
174 R. GUASTINI, Il giudice e la legge, Milano, 1995, pag. 120 e ss.
175 D’altronde, l’art. 111, comma I, Cost., obbliga gli organi giurisdizionali a motivare i
provvedimenti e gli artt. 118, II comma, disp. att. c.p.c. e 546, I comma, lett. f, c.p.p., obbligano gli
86
su una fonte alla quale la stessa legge abbia rimandato la disciplina di quella
determinata materia 176.
Implica, poi, che i provvedimenti giurisdizionali siano conformi alla
legge, ovvero logicamente deducibili da essa177.
Dalla norma in esame discende, ancora, che i giudici sono tenuti a dare
applicazione alla legge e, al contempo, non possono creare norme generali ed
astratte.
Gli effetti della disposizione anzidetta, tuttavia, non terminano qui: vi è
infatti da rilevare che l’art. 101, II comma, Cost., non stabilisce che i giudici
sono soggetti alla legge, ma, più precisamente, che i giudici sono soggetti
“soltanto” alla legge: tale avverbio, pertanto, costituisce inequivocabilmente
un principio peculiare dell’ordinamento italiano, al quale in dottrina è stato
attribuito il nome di “principio di stretta legalità nella giurisdizione” 178.
In base ad esso, sono state formulate quattro ulteriori implicazioni dell’art.
101, II comma, Cost.:
I) Poiché i giudici sono soggetti alla legislazione ordinaria lo sono a
fortiori anche alle norme costituzionali. Non possono giudicare la legittimità
costituzionale delle leggi, ma “dove la struttura della norma costituzionale è
sufficientemente completa per poter valere come regola sui casi concreti,
essa deve essere utilizzata direttamente da tutti i soggetti dell’ordinamento
giuridico, siano essi giudici, la pubblica amministrazione, i privati. La
Costituzione è insomma fonte diretta di posizioni soggettive per i soggetti
organi giurisdizionali ad indicare in motivazione le norme di legge applicate nella fattispecie
esaminata.
176 In proposito cfr. Corte Cost., sent. n. 40/1964 (e, conformemente, Corte Cost. sentenze
nn. 8/1962, 50/1970, 200/1970, 71/1971, 142/1971, 32/1974, 215/1975, 234/1976): “Il
fenomeno che la regola del giudizio sia contenuta in un atto non avente valore di legge è tutt’altro che
raro nel nostro ordinamento, né contrasta con la riferita disposizione dell’art. 101, Cost. [...] Non
ricadono nel campo dell’art. 101 Cost. le leggi che, senza portar deroga al principio per cui il giudice
non è tenuto ad applicare gli atti amministrativi illegittimi, assegnano al giudice civile, come regole
del giudizio, norme di carattere generale (e perciò non adottate in vista di un singolo giudizio),
emanate – sulla base di una legge – da autorità appartenenti alla pubblica amministrazione”.
177 C. EISENMANN, le droit administratif et le principe de légalité, in Etudes et documents du
Conseil d’Etat, II, 1957, pag. 25 e ss.
178 R. GUASTINI, op. ult. cit, pag. 120.
87
dell’ordinamento, in tutti i tipi di rapporto in cui essi possono entrare. [...]
Oggi la Costituzione si dirige anche, direttamente, ai rapporti tra i singoli ed
ai rapporti sociali. Perciò le norme costituzionali possono essere invocate,
dove sia possibile, come regola, ad esempio, dei rapporti familiari, dei
rapporti nelle imprese, nelle assicurazioni e così via” 179.
II) I giudici non sono soggetti al precedente giurisprudenziale, né tanto
meno alle considerazioni svolte dalla dottrina. E’ vero che nel nostro
ordinamento la Cassazione, in funzione del ruolo nomofilattico attribuitogli,
di fatto, ha un’enorme influenza, ma il giudice se ne può discostare, tant’è
vero che, qualora abbia dei dubbi di costituzionalità dell’interpretazione del
punto di diritto fornito dalla Corte in sede di rinvio, può sollevare questione
di legittimità costituzionale dinanzi alla Consulta180.
III) I giudici godono di autonomia di giudizio e non sono soggetti a ordini
o direttive di natura politica, né tantomeno di altri giudici. Ciò vuol dire che
da un lato essi “sono indipendenti” 181 dagli altri poteri, dall’altro non vi è,
tra loro, alcun vincolo di gerarchia182; 183.
IV) I giudici non sono obbligati ad applicare atti che siano contrari alla
legge. In conformità, anche, del principio di gerarchia delle fonti184, i giudici
179 G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, I, Torino, 1987, pag. 105. In
giurisprudenza Cfr. Sent. C. Cost. nn. 122/1970; 156/1971; 88/1979, 177/1984.
180 Ampia la giurisprudenza costituzionale in tal senso. Cfr. Sentenze nn. 78/2007) nn.
21/959; 39 /1961; 19 /1988; 130/1993; 58 del 1995; 118/1999; 78/2007; 305/2008. In dottrina
A. CERRI, Corso di Giustizia Costituzionale, Milano, 2004.
181 Ciò è espressamente previsto all’art. 104, comma 1: “La magistratura costituisce un ordine
autonomo ed indipendente da ogni altro potere”.
182 Art. 107, comma 3: “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.
183 In Giurisprudenza cfr. Corte Cost., sent. n. 40/1964: “Ma con altrettanta sicurezza bisogna
affermare che non ricadono nel campo dell’art. 101 Cost., le leggi che, senza portar deroga al
principio per cui il giudice non è tenuto ad applicare gli atti amministrativi illegittimi, assegnano al
giudice civile, come regole del giudizio, norme di carattere generale (e perciò non adottate in vista di
un singolo giudizio), emanate – sulla base di una legge – da autorità appartenenti alla pubblica
amministrazione. Sotto altri profili cfr. Corte Cost., sentenze nn. 234/1976 e 168/1963.
184 Sul punto, cfr. F. MODUGNO, Appunti per una teoria generale del diritto. La teoria del diritto
oggettivo, Torino, 2000, pag. 107: “Nell’ordinamento italiano si sostiene generalmente che vi sia un
rapporto gradualistico tra norme costituzionali e norme legislative ordinarie, tra norme legislative e
norme regolamentari, tra norme del <<diritto oggettivo>> e prescrizioni giurisdizionali e
amministrative. La soluzione dell’antinomia, attraverso il criterio gradualistico o gerarchico, è
esercitata in concreto dai soggetti attributari della potestà di dichiarare l’invalidità della norma o
88
possono negare applicazione agli atti di normazione secondaria contra
legem. Ma vi è di più. Essi non devono dare applicazione neanche agli atti
dell’esecutivo, di qualsiasi natura, e ai provvedimenti amministrativi, qualora
non siano formalmente fondati sulla legge e non siano conformi ad essa185.
Si può allora affermare che l’unico vincolo posto al giudice nell’esercizio
del proprio potere di jus dicere è il rispetto della legge, e solo quando le fonti
secondarie o i provvedimenti amministrativi siano conformi ad essa, e sia la
stessa a farne richiamo, se ne deve dare applicazione: dire che il giudice è
soggetto “soltanto alla legge”, equivale a negare ogni altro vincolo che non
sia dalla stessa richiamato.
Quest’impostazione mette in risalto la vera “anima” del potere di jus
dicere come oggi deve essere inteso. La terzietà e l’imparzialità di un
organo, pregno della sovranità concessagli dal (nel nostro caso) popolo,
risponde ad un’esigenza ben precisa: la creazione di uno Stato costituzionale
di diritto che non solo riconosca diritti ed interessi, ma predisponga un
sistema giurisdizionale nel quale l’Autorità sia funzionale alla difesa degli
stessi. È per questo che ci si rivolge ad un’Autorità giurisdizionale; non
perché essa formuli un giudizio morale, politico, o checchessia, ma affinché
effettui un giudizio legale (nel senso di “basato sulla legge”).
Garantire il diritto di azione/difesa dei diritti soggettivi e degli interessi
legittimi vuol dire, come si vedrà nel prossimo capitolo, darne una
protezione legislativa, nel senso di non permettere che null’altro al di fuori
prescrizione inferiore, con le diverse conseguenze positivamente prefigurate, dell’annullamento, della
cassazione, della disapplicazione”.
185 R. GUASTINI, op. ult. cit.: “Ciò non vuol dire che i giudici possano, a loro discrezione, negare
applicazione agli atti della pubblica amministrazione. Si vuole dire, però, che i giudici non sono
obbligati ad applicare sempre e comunque gli atti (regolamenti e provvedimenti) del potere
esecutivo. Gli atti dell’esecutivo sono vincolanti per i giudici se, e solo se, risultano fondati sulla legge e,
al tempo stesso, materialmente conformi ad essa. Come l’obbligo di applicare la legge implica
l’obbligo di applicare anche gli atti cui la legge faccia rinvio, così l’obbligo di applicare solo la legge
implica l’obbligo di negare applicazione ad ogni atto, diverso dalla legge, cui la legge non faccia
rinvio. D’altro canto, l’obbligo di applicare solo la legge implica altresì l’obbligo di negare
applicazione ad ogni atto che, sebbene formalmente fondato sulla legge, sia tuttavia materialmente
incompatibile con la legge, o difforme da essa”.
89
della legge, o nei modi previsti dalla legge, possa restringerli. L’art. 24 della
nostra Carta, nel contesto di cui ora si vuole trattare, risulta fondamentale in
quanto, indipendentemente dal giudizio che si instauri, bisogna garantire la
tutela e, dunque, il sindacato giurisdizionale, di ogni situazione giuridica
soggettiva186; ed il giudice, in forza di quanto disposto dall’art. 101 della
Costituzione, è soggetto soltanto alla legge, ed è essa che gli pone un vincolo
invalicabile potendo, dunque, in ragione di una corretta applicazione della
norma, non considerare gli atti amministrativi che contrastino con la
stessa187.
Difatti, se i limiti posti in capo ai poteri dei giudici, nei confronti dei
provvedimenti, si concretizzassero nel lasciare i privati sprovvisti della
necessaria tutela giudiziaria, si andrebbe palesemente ad instaurare un
sistema in conflitto con quanto previsto dall’art. 113 della Costituzione,
secondo comma, che non permette l’esclusione o la limitazione della tutela
giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione a particolari
mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti188.
186 Sul punto cfr. L. P. COMOGLIO, Art. 24 Cost., in Commentario alla Costituzione Branca, 1981:
“Nell’ottica dello Stato che ha il dovere primario di amministrare la giustizia, esso si colloca, invece, in
una dimensione più ampia, contribuendo, con altre guarentigie, a delineare il “diritto alla
giurisdizione”, ovvero il “diritto al giudizio” avanti ad organi indipendenti ed imparziali, per
qualsiasi controversia riguardante diritti soggettivi od interessi legittimi, e così precludendo
l’attribuzione di funzioni materialmente giurisdizionali ad organi non compresi con il potere
giudiziario”.
187 Il principio di legalità della giurisdizione, calato in questo contesto, impone al giudice di
negare applicazione ad ogni atto diverso dalla legge a cui la legge non faccia rinvio, e, dunque, come
rilevato da R. GUASTINI, Art. 101, Ordinamento Giurisdizionale, in Commentario alla Costituzione
Branca, Bologna, 1981: “l’obbligo di applicare solo la legge implica altresì l’obbligo di negare
applicazione ad ogni atto che, sebbene formalmente fondato sulla legge, sia tuttavia materialmente
incompatibile con la legge o difforme da essa”.
188 Occorre precisare sin da subito quanto più ampiamente si tratterà nel prossimo capitolo:
gli artt. 101, 113 e 24 Cost. costituiscono una vera presa di posizione da parte della nostra
Costituzione, relativamente al nostro assetto giurisdizionale, in quanto pongono l’accento
sull’individuo leso, distaccandosi dalla visione assolutistica dei poteri della pubblica
amministrazione, tipica del XIX secolo. Cfr. G. BERTI, Art. 113 Cost, in Commentario alla Costituzione
Branca, Bologna, 1981, pag. 87 e ss. “Il Costituente […] ha voluto propriamente porre l’accento
sulla totalità della garanzia nei confronti del potere pubblico, e si direbbe sulla normalità della difesa
del cittadino verso questo potere ogni volta che un provvedimento ne violi un diritto o un interesse
legittimo”.
90
Un’ultima questione deve, a questo punto, essere affrontata, concernente i
rapporti tra potere giurisdizionale e legge, in quei casi in cui quest’ultima
possa incidere oltremodo sull’attività del giudice.
Vien da chiedersi, innanzitutto, se le leggi di interpretazione autentica,
vincolando il giudice nella lettura di una norma, rientrino o meno sotto il
meccanismo di soggezione sancito all’art. 101 Cost., ovvero se esse ne siano
fuori,
in
quanto
incidenti
direttamente
sull’esercizio
dell’attività
giurisdizionale nella sua fase più intima, ossia l’interpretazione.
La Corte costituzionale, che in passato si è trovata a criticare l’uso distorto
dell’interpretazione autentica189, nell’escludere, in via generale, che norme di
tal portata ledano, di per sé, le prerogative del giudice, ha precisato che esse
non devono, tuttavia, ledere giudicati già formatisi ovvero incidere su giudizi
già in corso o, ancora, creare una nuova norma190. Dello stesso avviso la
dottrina, la quale sostiene che le leggi di interpretazione autentica sono
legittime nei casi in cui la norma interpretata continui a muoversi nel piano
che le è proprio191.
Similmente a quanto sopra può dirsi per le leggi-provvedimento, le quali
sono potenzialmente idonee a sottrarre al sindacato giurisdizionale del
giudice il controllo sull’attività dell’amministrazione. Anche in questo caso,
la Corte Costituzionale ha ritenuto legittime tali leggi, salvo però che esse
non incidano sulla decisione delle cause in corso e che rispettino il “limite
generale costituito dal principio di ragionevolezza” 192.
189 Cfr. Corte Cost., sent. n. 187/1981: “Non può, però, dirsi che faccia egualmente buon uso
della sua potestà il legislatore che si sostituisca al potere cui è riservato il compito istituzionale di
interpretare la legge, dichiarandone mediante altra legge l'autentico significato con valore
obbligatorio per tutti e, quindi, vincolante anche per il giudice, quando non ricorrano quei casi in cui
la legge anteriore riveli gravi ed insuperabili anfibologie o abbia dato luogo a contrastanti
applicazioni, specie in sede giurisprudenziale”.
190 Cfr., tra le altre, Corte Cost., sent. n. 374/2000 laddove viene precisato, peraltro, che la legge
interpretativa “non lede la funzione giurisdizionale, solo ove risulti che l’intento legislativo non è la
“correzione” concreta dell’attività giurisdizionale, ma piuttosto la creazione di una regola astratta”.
191 ZANON-BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2006, pag. 62.
192 Cfr. Corte Cost., sent. n. 346/1991.
91
Nei limiti di cui sopra, pertanto, anche tali provvedimenti normativi
vincolano il giudice ai sensi dell’art. 101, II comma, Cost.
92
2.5. PRINCIPIO DI STRETTA LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE E CORTE
COSTITUZIONALE (BREVI CENNI).
Sin qui si è trattato del principio di stretta legalità nella giurisdizione in
riferimento a tutti quei soggetti che esercitano, nella nostra Repubblica,
l’attività giurisdizionale. E’ da chiedersi, però, se al disposto di cui all’art. 101
Cost. soggiace anche la Consulta.
Negli anni, infatti, numerose sono state le riflessioni dei giuristi sulla natura
della Corte costituzionale, sorte già prima del suo insediamento e,
precisamente, sin dal momento in cui si preferì, in sede Costituente, un sistema
accentrato di controllo della costituzionalità delle leggi, anziché il
riconoscimento di un simile potere a tutti i giudici, in maniera diffusa193.
Sul punto si sono formati due diversi indirizzi interpretativi:
I) Da un lato, si è negato che la Corte costituzionale abbia natura
giurisdizionale e che le sue pronunce abbiano natura di sentenze. Alcuni hanno
pertanto concluso sulla natura legislativa di tale organo194; altri hanno ritenuto
che non sia possibile definire la natura della Consulta in base alla classica
tripartizione dei poteri195.
II) Dall’altro, la dottrina maggioritaria, sebbene abbia negato che la Corte
costituzionale faccia parte dell’ordine giudiziario, ha affermato la natura
giurisdizionale della Consulta196, osservando come tale natura non sia esclusa
193 Per approfondire il tema cfr., tra gli altri: A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, Milano,
2008, pag. 24 e ss.; B. BACCARI, Natura giuridica delle pronunzie della Corte costituzionale nei giudizi
di legittimità costituzionale, in La Corte costituzionale, Rassegna di studi promossa dall’Avvocatura
dello stato, Roma, 1957, pag. 192 e ss.; A. PIZZORUSSO, La Corte costituzionale tra giurisdizione e
legislazione, in Foro italiano, 1980, V, pag. 117 e ss.; A. M. SANDULLI, Natura, funzione ed effetti delle
pronunce della Corte costituzionale sulla legittimità delle leggi, in riv. trim. dir. pubb., 1959, pag. 23 e
ss.
194 P. CALAMANDREI, La illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile, Padova, 1950.
195 G. ABBAMONTE, Il processo costituzionale italiano, Napoli, 1962
196 Sul punto, cfr. G. AZZARITI, Considerazioni sulla nuova disciplina del sindacato sulla
costituzionalità delle leggi, in Problemi attuali di diritto costituzionale, Milano, 1951, pag. 127 ss.; C.
ESPOSITO, Il controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia, in La Costituzione
italiana. Saggi, Padova, 1954, 269 ss.; F. PIERANDREI, Le decisioni degli organi della giustizia
costituzionale (natura-efficacia-esecuzione), in Scritti di diritto costituzionale, Torino, 1964, III, 85
ss.
93
né dalla scelta di un sistema improntato sul controllo accentrato, né dalle
connotazioni politiche dell’oggetto del proprio giudizio, pur precisando che
sarebbe più corretto utilizzare la dizione di Corte a “carattere giurisdizionale” data la mancanza di una lite in senso proprio197 - o di “giurisdizione di
annullamento” 198.
Orbene, anche la Corte costituzionale si è direttamente occupata del proprio
ruolo istituzionale199, arrivando a definirsi quale organo esercente una funzione
di controllo costituzionale, di suprema garanzia dell’osservanza della
Costituzione da parte degli altri organi costituzionali dello Stato e delle
Regioni. In tale prospettiva, la “Corte non può essere inclusa fra gli organi
giudiziari, ordinari o speciali che siano, tante sono, e profonde, le differenze tra
il compito affidato alla prima […] e quelli […] propri degli organi
giurisdizionali” . Il Giudice delle leggi, infatti, esercita essenzialmente una
funzione di controllo costituzionale, di suprema garanzia dell’osservanza della
Costituzione della Repubblica ” 200.
A prescindere dalle superiori considerazioni in merito alla natura della Corte
costituzionale, si può in ogni caso rispondere al quesito sopra posto,
concernente la soggezione, o meno, della Consulta al principio di cui all’art.
101, II comma, Cost., mediante un ragionamento logico-induttivo sulle sue
funzioni.
Vi è da rilevare, innanzitutto, che la Consulta, non ha l’obbligo
incondizionato e generale di applicazione della legge essendole affidato,
viceversa, il compito di vagliare la legittimità costituzionale di una legge o di
un atto ad essa equiparata.
197 M. CAPPELLETTI, Pronunce di rigetto nel processo costituzionale delle libertà e cosa giudicata,
in Riv. dir. proc., 1956, 135 ss.
198 M. S. GIANNINI, Alcuni caratteri della giurisdizione di legittimità delle norme, in Giur. cost.,
1956, 902 ss.
199 Cfr. ad es. Corte Cost., sent. n. 13/1960.
200 Così Corte cost., Ord. n. 536 del 1995, che richiama la Sentenza n. 13 del 1960.
94
Essa, in altri termini, ove ne ricorrano i presupposti, ha il potere di dichiarare
incostituzionale una legge. Non si può, pertanto, ritenere, per ovvie ragioni,
che la Corte costituzionale sia vincolata, nell’esercizio delle proprie funzioni,
all’applicazione delle leggi oggetto del proprio scrutinio, in quanto, ciò è
ineludibilmente inconciliabile con il principio di cui all’art. 101, II comma,
Cost.
Tuttavia, allorquando la norma non costituisca oggetto del giudizio di
costituzionalità, si deve ritenere che la Consulta sia vincolata alla sua
applicazione: l’indice manifesto di tale conclusione è racchiuso nella stessa
giurisprudenza della Corte costituzionale in ordine alla vexata quaestio della
Consulta come giudice a quo 201.
Se, infatti, la Corte costituzionale non fosse vincolata all’applicazione delle
norme non sottoposte al suo scrutinio, Essa potrebbe prescinderne, soprattutto
nei casi in cui ritenga le ridette norme contrastanti con la Costituzione.
Viceversa, quando la Consulta ravvisa la necessità di applicare nel proprio
giudizio una norma ipoteticamente incostituzionale, non sottoposta al suo
scrutinio, “la Corte medesima si ritiene legittimata a sollevare q. di l. c.
nell’esercizio di tutte le sue funzioni a carattere giurisdizionale”
202
: in altri
termini, l’applicazione, anche alla Consulta, dei principi propri del giudizio
incidentale, porta a ritenere che Essa sia pienamente soggetta al secondo
comma dell’art. 101 Cost.: non può negarsi, infatti, che il potere di sollevare
questione di legittimità costituzionale trova il suo presupposto nella
impossibilità di procedere senza tener conto di una determinata norma, alla
quale, pertanto, si è vincolati.
201 Cfr., ex multis, Corte cost., Ord. nn. 22/1960, 57/1961, 73/1965, 2/1977; sent. nn.
259/1974, 125/1977, 68/1978.
202 Per un quadro completo in ordine alla vexata quaestio della Corte Costituzionale come
giudice a quo, cfr. A. CERRI, Corso di Giustizia Costituzionale, 2008, Milano, pag. 151 e ss..
95
CAPITOLO 3: IL PRINCIPIO DI STRETTA LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE E IL
RAPPORTO CON LE ALTRE NORME COSTITUZIONALI: TRA DIRITTO DI
AGIRE, GIUSTO PROCESSO E GIUDIZIO AMMINISTRATIVO.
3.1. INTRODUZIONE.
“Oggi più che mai, nel momento in cui la credibilità di molte istituzioni
statali è posta in crisi da violente spinte eversive, la Costituzione repubblicana
rivela intatto, a più di trent’anni dalla sua promulgazione, il significato politico
e storico degli eventi che ne determinarono la genesi. La reazione al recente
passato autoritario e la condanna delle aberranti discriminazioni, che avevano
soppresso o gravemente menomato i diritti civili dell’individuo, forniscono la
chiave interpretativa, per così dire obbligata, delle più importanti norme di
struttura. [...] L’espressa <<costituzionalizzazione>> del <<diritto alla tutela
giudiziaria dei diritti>>, per quanto sia formalmente un’eccezione nel
panorama comparatistico moderno, sviluppa in realtà un’idea dominante nelle
Costituzioni nate dalle tragiche esperienze del conflitto mondiale. [...]
Nell’ottica dello Stato che ha il dovere primario di amministrare la giustizia,
esso si colloca, invece, in una dimensione più ampia, contribuendo, con altre
guarentigie, a delineare il <<diritto alla giurisdizione >>, ovvero il <<diritto
al giudizio> > avanti ad organi indipendenti ed imparziali, per qualsiasi
controversia riguardante diritti soggettivi od interessi legittimi, e così
precludendo l’attribuzione di funzioni materialmente giurisdizionali ad organi
non compresi nel potere giudiziario” 203.
Con queste parole, di vivissima attualità, Comoglio introduce il proprio
saggio sull’art. 24 della Carta costituzionale, ove viene messo brillantemente in
risalto il valore combinatorio delle norme costituzionali poste a base del
sistema giurisdizionale italiano: a tale rapporto normativo, egli dà il nome di
“diritto alla giurisdizione”, ovvero quello di “diritto al giudizio”, esaltando il
203 L. P. COMOGLIO, Art. 24 Cost., in Commentario alla Costituzione Branca, 1981, pag. 1 e ss.
96
ruolo, nella Carta costituzionale, del diritto alla difesa in giudizio quale
principio ispiratore dell’intero sistema.
Saitta, nel condividere il pensiero di Abbamonte204 in ordine alle disposizioni
dell’art. 113 Cost., quali norme che introducono un principio costituzionale di
carattere fondamentale, consistente nell’attribuzione al giudice della “ultima
parola nei rapporti tra cittadini e potere”, valorizza lo stretto rapporto
intercorrente tra gli artt. 24 e 113 Cost.: “ci sembra non possa dubitarsi del
fatto che gli artt. 24 e 113 debbano essere letti come strettamente connessi,
essendo entrambi diretti ad adeguare la difesa del cittadino nei confronti della
pubblica amministrazione ai principi propri dello Stato democratico e
pluralista. Di questo avviso sembra essere anche la Corte costituzionale, che
ha recentemente ritenuto <<il parametro di cui all’art. 113 Cost. privo di
autonomia rispetto all’art. 24 Cost.>>. Più precisamente, il rapporto che corre
tra le due disposizioni pare quello tra genus e species, nel senso che l’art. 113
esprime, con riguardo alle pretese del cittadino nei confronti della pubblica
amministrazione, la specificità della garanzia costituzionale di tutela
giurisdizionale generale ed indifferenziata accordata dal 1° co. dell’art. 24; in
sostanza, l’art. 113 esemplifica, rincarnandone e rafforzandone l’assunto, il
carattere sostanziale della garanzia giurisdizionale sancita dall’art. 24 con
specifico riferimento alle questioni concernenti i pubblici poteri” 205.
Alla combinazione delle norme costituzionali sulla giurisdizione, Denti
fornisce una pari rilevanza, seppure sotto la penetrante luce dell’art. 111 Cost.;
L’Autore, nell’esordio del proprio lavoro sull’art. 111 Cost., afferma: “L’art.
111 costituisce, nel sistema costituzionale, la chiave di volta di tutta la
costruzione della funzione giurisdizionale, anche per i riferimenti impliciti ad
una serie di altri principi, da quello di legalità (art. 101 II comma) a quello
204 G. ABBAMONTE, Completezza ed effettività della tutela giudiziaria secondo gli articoli 3, 24, 103
e 113 della Costituzione, in Studi in onore di F. Benvenuti, Modena, 1996, pagg. 37 e ss.
205 F. SAITTA, art. 113 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M.
OLIVETTI, 2006, pag. 2142.
97
della partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia (art. 102 III
comma), allo stesso diritto di azione e di difesa (art. 24)” 206.
Rigano, infine, ma si potrebbero fare ancora numerosissimi esempi sulle
altre norme costituzionali che di seguito verranno trattate, nella sua analisi
dell’art. 106 Cost., sostiene che: “la dottrina inquadra la regola costituzionale
della selezione per concorso nel rapporto esistente tra legittimazione
all’esercizio della giurisdizione e la qualificazione tecnica dei titolari della
funzione. In particolare, la lettura del sistema degli artt. 101, 102 e 106
convince che nel nostro modello costituzionale, ispirato al principio di legalità,
il magistrato sia estraneo al circuito della formazione dell’indirizzo politico e
che la legittimazione democratica all’esercizio della giurisdizione rinvenga
dall’imparzialità e dall’indipendenza, garantite (anche) attraverso la selezione
sulla base unicamente di requisiti tecnici” 207.
Si è scelto di introdurre in tal modo il presente capitolo poiché si è certi che
il principio di stretta legalità nella giurisdizione, inteso come vincolo
ineludibile per il giudice di dare applicazione alla legge, agli atti aventi forza di
legge e agli altri provvedimenti normativi che siano espressamente e all’un
tempo richiamati e conformi alla norma primaria, non avrebbe alcun senso
all’interno di un sistema sprovvisto delle necessarie guarentigie, quali, ad
esempio, il diritto di agire e difendersi in giudizio, volte a tutelare, in primis, la
persona e la dignità umana; al contempo, il ridetto sistema sarebbe altresì privo
di significato se fosse carente di quelle norme sulla giurisdizione che hanno il
ruolo, all’interno del nostro ordinamento, di aggiungere quel valore strutturale
proprio di un Paese democratico, basato sulla terzietà e imparzialità del giudizio
e sulla predeterminazione di procedure, principi, oneri, vincoli e diritti.
206 V. DENTI, Art. 111 Cost., in Commentario alla Costituzione Branca, 1987, pag. V e ss.: in tale
monografia, in particolar modo, l’Autore esamina i profili del sistema costituzionale di giurisdizione,
secondo la luce dell’art. 111 Cost., in rapporto ai poteri e ai doveri della Corte di Cassazione.
207 F. RIGANO, art. 106 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO,
M. OLIVETTI, 2006, pag. 2046.
98
Numerose, difatti, sono le disposizioni che il legislatore costituente ha inteso
dedicare al potere giurisdizionale - ai suoi presupposti, ai suoi effetti - sotto
molteplici, diversi, ma al contempo tra loro necessariamente collegati, aspetti.
Non può intendersi realmente la portata del principio di stretta legalità nella
giurisdizione, insomma, senza che esso venga prospettato nel contesto
costituzionale a lui proprio, in quanto l’art. 101, II co., Cost., considerato al
netto delle altre disposizioni costituzionali, verrebbe snaturato e privato dei
propri indispensabili contenuti.
In quest’ottica, tenendo in disparte l’analisi delle, seppur fondamentali,
ragioni storico-sociali che hanno portato al concepimento di un sistema di tale
portata, che verranno solo rapidissimamente richiamate, appare necessario,
prima di affrontare il capitolo conclusivo del presente lavoro, soffermarsi sulle
disposizioni costituzionali che, nell’intrecciarsi con l’art. 101, II co. Cost., lo
riempiono e ne traggono valore, tratteggiando il quadro dell’impianto
giurisdizionale italiano.
99
3.2. ART. 101 COST. E DIRITTO DI AGIRE E DIFENDERSI IN GIUDIZIO: “IL
DIRITTO ALLA GIURISDIZIONE”.
I primi due commi dell’art. 24 della Costituzione, collocato nella prima parte
della Carta costituzionale “Diritti e doveri dei cittadini”, al Titolo I, rubricato
“Rapporti civili”, dispongono testualmente: “Tutti possono agire in giudizio per
la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in
ogni stato e grado del procedimento” 208.
Il diritto di agire e difendersi in giudizio è riconosciuto come principio
supremo dell’ordinamento costituzionale italiano209, sul presupposto – già
esposto nelle teorie kantiane – che l’uomo è il fine al quale tende tutto il
208 La primissima dimostrazione di quanto i precetti contenuti nei commi 1 e 2 dell’Art. 24
Cost. fossero ampiamente condivisi e diffusi in seno all’Assemblea costituente – benché numerose
e accese furono le discussioni al riguardo – è resa dall’iter con il quale le suddette norme sono state
approvate: gli è, infatti, che i primi due commi dell’art. 24 Cost. riproducono, senza alcun
emendamento, l’art. 19 del progetto di Costituzione. Le disposizioni in esame sono state, infatti, fin
da subito sentite come fondamentali nel nuovo contesto costituzionale che si andava creando, come
emerge dalla relazione dell’On Meuccio Ruini che accompagnava il progetto di Costituzione:
“L'enunciazione dei diritti civili è completata da principi, alcuni dei quali potevano sembrare
indiscutibili; ma l'esperienza amara ammonisce di trincerarli nella Costituzione: il diritto di agire e
difendersi in giudizio, di non essere distolti dal giudice naturale o puniti con legge retroattiva. Vietate
le pene crudeli e disumane, la prima Costituzione repubblicana d'Italia sancisce il principio
dell'abolizione della pena di morte, che in molti sensi può dirsi italiano, e che, ribadito nelle fasi e nei
regimi di libertà del nostro paese, è stato rimosso nei periodi di reazione e di violenza”. Certo, anche
in tale sede, non sono mancate opinioni di segno opposto volte a sostenere l’essenziale inutilità del
riconoscimento, nella Carta costituzionale, del diritto di agire e difendersi in giudizio: cfr.
l’intervento dell’On. Pietro Mastino nella seduta del 27 marzo 1947 “Sopprimerei l'articolo che
stabilisce la libertà di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi; nessuno ha
mai pensato a negare la possibilità di agire in giudizio. Nessuna delle disposizioni fasciste ha
nemmeno mai pensato a ciò. Importante sarebbe, invece, rendere veramente pratico ed attuabile il
contenuto del capoverso dello stesso articolo; secondo il quale: «La difesa è diritto inviolabile in ogni
stato e grado del procedimento»; intendendo questo non nel senso che ciascuno abbia diritto ad
essere assistito e difeso, ma che anche il povero abbia la possibilità di essere effettivamente assistito e
veramente difeso. Le attuali norme in materia di gratuito patrocinio non ci danno questa garanzia; e
lo scrivere «tutti possono agire in giudizio» potrebbe avere quindi un sapore, direi, di amara ironia;
non ultimo motivo, questo, perché l'articolo 19 venga eliminato dal progetto della nuova Costituzione”.
209 La Consulta ha precisato che l’art. 24 Cost. enuncia il diritto alla tutela giurisdizionale
“diritto, questo, che la Corte ha già annoverato fra quelli inviolabili dell’uomo, che la Costituzione
garantisce all’art. 2 (sent. n. 98 del 1965), che non esita ad ascrivere tra i principi supremi del nostro
ordinamento costituzionale, cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia,
l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice ed un giudizio”. Cfr. Corte Cost.,
sent. n. 18 del 1982.
100
sistema di valori e principi costituzionali che prevedono gli strumenti ed i
mezzi per garantire l’uguaglianza, le libertà e via discorrendo210.
La disposizione, per rispondere a tale fine, “contiene una norma di carattere
generale, intesa a garantire indefettibilmente l’esercizio della difesa in ogni
stato e grado di qualunque procedimento giurisdizionale”. Essa, infatti, è stata
redatta “tenuto conto degli abusi, delle incertezze e delle deficienze che hanno
vulnerato nel passato l’istituto della difesa, specie per quanto attiene alla sua
esclusione dai vari stati e gradi del processo giurisdizionale” cosicché “si volle
con una norma chiara, assoluta, garantirne la presenza e l’esperimento attivo
in tutti gli stati del giudizio e davanti a qualunque magistratura” 211.
In altri termini, l'Assemblea costituente ha scelto di collocare il diritto
d'azione tra i diritti della personalità per porre un sigillo ai “mezzi di garanzia
dei diritti” e alle norme sistematiche “destinate a dare concretezza alla tutela
delle libertà”212.
All'interno del sistema costituzionale, e ai fini che qui interessano
maggiormente, la disposizione in esame può essere letta sotto tre diversi, ma tra
loro concorrenti, profili:

sotto il profilo della “aspettativa” del titolare del diritto di agire e
difendersi in giudizio, la disposizione intende ricalcare lo schema tipico del
diritto di libertà, attribuendo al soggetto interessato il potere di servirsi degli
strumenti previsti dall'ordinamento al fine di far valere la propria pretesa che,
per essere accolta, deve essere fondata su una norma dell’ordinamento.
In tale ottica, il rapporto tra art. 24 e 101 Cost. si configura come garanzia
e, al contempo, come limite per gli interessi del singolo individuo nei confronti
della comunità: tutti possono agire in giudizio indipendentemente dalla
210 “Agisci in modo da considerare l'umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni
altro, sempre anche come scopo, e mai come semplice mezzo. Agisci in modo da considerare l'umanità
in te e negli altri sempre come fine, mai come mezzo”. Citazione tratta da W. BOYD, Storia
dell'educazione occidentale, trad. di L. PICONE, Roma, 1966.
211 Così testualmente, Corte Cost., sent. n. 125 del 1979.
212 Cfr. C. MORTATI, Relazione all'Assemblea costituente, pag. 92 e ss.
101
fondatezza della propria pretesa, semplicemente postulando di essere titolari di
un diritto sostanziale; la domanda giudiziale, tuttavia, sarà accolta o rigettata
nel momento in cui, e nei limiti in cui, un organo giurisdizionale – incardinato
secondo le altre guarentigie di cui a breve si discuterà – accerti che la legge, o
gli atti ad essa equiparati o da essa richiamati, facciano discendere dalla
fattispecie scrutinata gli effetti che, all'interno del giudizio, sono stati postulati
dal soggetto agente ovvero dal suo contraddittore213;

sotto il secondo aspetto, ossia quello dell’organo statale chiamato ad
esercitare la funzione giurisdizionale, dall’art. 24 Cost. si ricava, a contrario,
un principio secondo il quale il giudice non può “porre ai cittadini limitazioni
od ostacoli alla loro difesa nel processo”214, neanche ove, in ipotesi, una norma
di legge lo preveda espressamente, giacché quest’ultima violerebbe
palesemente la norma costituzionale in esame oltre che numerose altre e il
giudice potrebbe (e dovrebbe) sollevare questione di legittimità costituzionale.
Prendendo, pertanto, in considerazione anche quanto sancito dall’art. 101 Cost.,
l’organo preposto all’esercizio della funzione giurisdizionale deve ritenersi
vincolato a conoscere l’azione indipendentemente, addirittura, dal fatto che
l’agente disponga, o meno, del titolo fatto valere in giudizio e, nell’esercizio
delle proprie funzioni, egli deve ritenersi strettamente vincolato all’applicazione
della legge e delle altre regole da essa richiamate, non potendo, nella decisione
213 Quasi infinite la dottrina e la giurisprudenza che, in un certo qual modo, si sono impegnate
ad esaminare la genesi, il contenuto ed i limiti del diritto d’azione. E’ chiaro che in tale contesto non
si può approfondire più di tanto neanche uno degli aspetti concernenti l’istituto de qua ma si può,
in ogni caso, accennare che per parte della dottrina il diritto di agire è una manifestazione del
generale diritto di personalità e libertà spettante ad ogni uomo (KHOLER, Prozess als
Rechtsverhältniss, Mannheim, 1888), finanche una facoltà giuridica spettante a chiunque,
indipendentemente dalla reale lesione di un diritto o di un interesse (DEGENKOLB, Einlassungszwang
und Urteilsnorm, Lipsia, 1877). Sarebbe, quindi, un diritto pubblico indeterminato senza particolari
rapporti con una fattispecie concreta (ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1958) ; per
altri, il diritto di azione nascerebbe insieme al diritto sostanziale che si vuole azionare (WINDSHEID,
<<Die Actio>> des röm. Civilrechts vom Standpunkte des heutigen Rechts, DÜsseldorf, 1856); per altri
ancora è un diritto che nasce dalla lesione di un diritto soggettivo (CHIOVENDA, Principi di diritto
processuale civile, Napoli, 1906), dalla violazione di un diritto obiettivo (DUGUIT, in VIZIOS, Etudes de
procédurem Bordeaux, 1956) o, infine, con la proposizione di una domanda (BÜLOW, Die Lehre von
den Processeinreden un die Processvoraussetzungen, Giessen, 1868).
214 Cfr. Il principio costituzionale della terzietà del Giudice in http://www.csm.it/pages/funzionamento/principio.html
102
di una controversia, basarsi su null’altro parametro che non sia quello dettato
dalle norme dell’ordinamento di cui fa parte.
“Infatti, se dal punto di vista positivo il rispetto delle situazioni
sostanziali riconosciute ai singoli rende impossibili limitazioni di qualsiasi
genere alla loro tutelabilità nel processo, dal punto di vista negativo (ecco
l’altra faccia dell’art. 24) eguale rispetto impone che soltanto chi si afferma
portatore della situazione sostanziale possa decidere se ricorrere o non alla
tutela giurisdizionale”215. La conseguenza di ciò è che nel sistema
costituzionale italiano il giudice deve sempre rispondere, ex art. 24 Cost., alla
domanda giudiziale dinanzi a lui promossa, mediante una pronuncia che, nel
rispetto dell’art. 101 Cost., dovrà accertare se da quella determinata fattispecie
concreta discendano gli effetti di quelle determinate norme: il principio di non
liquet, insomma, sancito dall’art. 12 delle “preleggi” 216, discende (anche) dalle
norme costituzionali di cui si è detto, poiché è la necessaria conseguenza di un
sistema che si obbliga a dare concretamente risposta all’esercizio del diritto
d’agire, una risposta che è legittima solo se basata sulla legge, cui l’organo
giurisdizionale è soggetto, nei modi che questa prevede217;
215 L.P. COMOGLIO, op. ult. cit.
216 Sul punto si rimanda a R. BIN, La costituzione tra testo e applicazione, in Ars interpretandi.
Annuario di ermeneutica giuridica, 2009: “E tuttavia se le costituzioni sono leggi, come leggi devono
essere applicate dai giudici e dalle corti costituzionali. Scritti o no che siano i canoni
dell’interpretazione, i giudici seguono un codice deontologico che guida la loro funzione: sono regole
stratificate nell’esperienza storica, alcune delle quali, guarda caso, risalgono alla codificazione. Il
divieto di non liquet, l’obbligo di non fermarsi alla ricerca del casus legis ma di procedere con
ragionamento analogico o traendo dai principi generali la regola del caso - l’unica regola coerente
con un “sistema” che dev’esser comunque completo e quindi in grado di fornire una risposta univoca
alla domanda di giustizia – sono norme di comportamento professionale del giudice e dell’organo
giurisdizionale, che ne rispecchiano il ruolo costituzionale. I giudici – Corte costituzionale inclusa –
hanno il potere-dovere di decidere il caso, anche quando manchi il casus legis. Questo è il significato
della prescrizione dell’art. 12 delle “Preleggi”, che ha l’obiettivo di definire i poteri-doveri del giudice,
ponendo a suo carico l’obbligo di risolvere sempre e comunque il “caso” in termini di diritto”. Cfr.
anche S. BARTOLE, Costituzione (dottrine generali e diritto costituzionale) in Dig. disc. pubbl. IV, 288
ss.
217 Tale compito, ovviamente, è molto delicato cfr. M. ESPOSITO, Iurisdictio in genere sumpta: il
rapportro tra legge e giurisdizione nella prospettiva della domanda giudiziale, in Riv. Dir. Proc., n. 4,
2011, pag. 823 e ss.: “E’ di intuitiva evidenza – quantunque oggi si sia meno adusi a tale
considerazione – che la premessa maggiore del sillogismo giudiziale esprime in massimo grado il
nocciolo di autorità ovviamente presente nell’amministrazione della giustizia: allorché essa sia
formata prima del giudizio, si presenti cioè quale iurisdictio in genere sumpta, si determina il grave
103

infine, “nell’ottica dello Stato che ha il dovere primario di amministrare
la giustizia, essa si colloca, invece, in una dimensione più ampia, contribunedo,
con altre guarentigie, a delineare il <<diritto alla giurisdizione>>, ovvero il
<<diritto al giudizio>> avanti ad organi indipendenti ed imparziali, per
qualsiasi controversia riguardante diritti soggettivi od interessi legittimi, e così
precludendo l’attribuzione di funzioni materialmente giurisdizionali ad organi
non compresi nel potere giudiziario” 218.
Il collegamento viscerale tra art. 24 e 101 Cost., allora, si concretizza in una
norma imperativa fondante l’ordinamento stesso: non solo non viene
consentito, salvo i casi previsti dalla legge e nei limiti da essa concessi, che la
funzione giurisdizionale sia esercitata da soggetti non incardinati nella struttura
statale secondo i presupposti e le modalità sanciti in Costituzione ma, per di
più, viene stabilito che questi individui, nell’esercizio della funzione cui sono
preposti, debbano necessariamente soggiacere alle regole ordinamentali sancite
dalla legge, di tal che l’applicazione della norma coincide con l’attuazione
dell’ordinamento stesso219, secondo l’organizzazione che si è dato220.
problema della conciliazione tra due distinte autorità. La storia degli ordinamenti giuridici
occidentali – per quanto qui possa assumere rilievo uno sguardo retrospettivo – mostra che il rendere
giustizia può prescindere e, anzi, tende a prescindere dalla esistenza di un criterio di decisione
eteronomo rispetto al convincimento del giudice. Il conflitto potenziale si prospetta, quindi, non in
quanto la legge tenda a farsi precetto concreto – tensione, peraltro, nota all’ordinamento italiano e
tuttavia affievolita, quanto alla sua effettiva capacità di realizzazione, perché l’affermazione
individuale è propria soltanto del giudizio – ma in quanto il giudice tenda, viceversa, a compiere
affermazioni generali, dismettendo la funzione giurisdizionale per il rinvenire alla pura
amministrazione della giustizia e assecondare così una sua naturale <<vocazione>>.
218 L. P. COMOGLIO, op. ult. cit., pag. 1 e ss.
219 La parte, insomma, “si fa ordinamento, assume di essere lei, in concreto, l’ordinamento, ne
fissa i termini invalicabili” così S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959,
pag. 17.
220 In questo senso, sempre attuale il pensiero di SANTI ROMANO, L’ordinamento giuridico,
Firenze, 1917: "L'ordine sociale che è posto dal diritto non è quello che è dato dalla esistenza,
comunque originata, di norme che disciplinino i rapporti sociali: esso non esclude tali norme, anzi se
ne serve e le comprende nella sua orbita, ma, nel medesimo tempo, le avanza e le supera. Il che vuol
dire che il diritto, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di
rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso
costituisce come unità. (…). Se così è, il concetto che ci sembra necessario e sufficiente per rendere in
termini esatti quello di diritto, come ordinamento giuridico considerato complessivamente e
unitariamente, è il concetto di Istituzione. Ogni ordinamento giuridico è una istituzione e, viceversa,
ogni istituzione è un ordinamento giuridico: l'equazione fra i due concetti è necessaria e assoluta.
Cosicchè l'espressione "diritto" in senso obiettivo, secondo noi, può ricorrere in un doppio significato,
104
In realtà, tutti i profili sopra delineati contribuiscono a comprendere le varie
sfaccettature del “diritto alla giurisdizione”: la questione è, allora, identificare,
con un certo margine di precisione, il quid pluris di tale nozione rispetto a
quella canonica di diritto di agire e difendersi in giudizio.
Una buona parte della dottrina tende a ridurre il contenuto specifico della
garanzia di cui all’art. 24 Cost. ad una pura “forma contenente”, capace di
assorbire i profili tecnici del diritto processuale senza immutarne la natura, al
fine di estendere a questi la rigidità delle norme costituzionali sostanziali221.
Altra parte della dottrina, viceversa, ritiene che la costituzionalizzazione dei
principi processuali contribuisca a conferire maggiore peso alle libertà
sostanziali mediante l’attribuzione dell’eguaglianza delle parti nel processo222.
Quel che comunque appare certo è che “l’individuo, uti civis, è titolare di
una situazione soggettiva statica che lo legittima a domandare e ad ottenere
giustizia dagli organi giurisdizionali dello Stato; il diritto che ne deriva ha per
oggetto la pronuncia di un provvedimento decisorio sulla domanda di giustizia
ed è garantito dal contrapposto dovere statuale di non rifiutare indebitamente
la prestazione del servizio giudiziario, ma non si confonde con l’azione come
res merae facultatis, ovvero con la possibilità di fatto illimitata e
insopprimibile, di provocare, con la proposizione della domanda, l’esercizio
della funzione giurisdizionale”223. Certo, in tale contesto, non bisogna
dimenticare, da un lato, che in ogni processo è prevista una disciplina volta a
condannare la parte soccombente alla refusione delle spese e, dall’altro, che
può cioè, designare anzitutto: a) un ordinamento nella sua completezza e unità, cioè una istituzione;
in secondo luogo: b) un precetto o un insieme di precetti (...) che per distinguerli da quelli non
giuridici, diciamo istituzionali, mettendo così in evidenza la connessione che essi hanno con
l'ordinamento intero, ossia con l'istituzione di cui sono elementi, connessione che è necessaria e
sufficiente per attribuire loro carattere giuridico".
221 R. PROVINCIALI, Norme di diritto processuale nella Costituzione, Milano, 1959, pag. 51 e ss,
164 e ss; L.P. COMOGLIO, Garanzia costituzionale dell’azione, Torino, 1970, pag. 36-37; G. BASCHIERI, L.
BIANCHI D’ESPINOSA, C. GIANNATTASIO, La Costituzione it., Firenze, 1949, pag. 157-158; E.T. LIEBMAN,
Manuale di Dir. Proc. Civ., I, pag. 116, Milano, 1970.
222 P. CALAMANDREI, Processo e democrazia, Firenze, 1954, pag. 147 e ss.
223 L. P. COMOGLIO, Art. 24 Cost., in Commentario alla Costituzione Branca, 1981, pag. 7; cfr.
anche id., Garanzia costituzionale dell’azione, Torino, 1970, pag. 44 e ss.
105
tutte le parti del processo devono evitare di porre in essere attività meramente
dilatorie che, condizionando negativamente la durata dei processi, possono
essere alla base della condanna alle spese, almeno in parte, del vincitore, ovvero
di una decisione di compensazione delle spese di lite tra le parti224.
Il diritto alla giurisdizione, insomma, nasce da una lettura sistematica
dell’art. 24 Cost. che, calato nell’ordinamento costituzionale italiano, assume
un maggior valore rispetto alla semplice facultas garantita dalla ridetta
disposizione: tale valore si misura su tutte quelle norme costituzionali che
incidono direttamente e indirettamente sull’assetto processuale del sistema
italiano, attribuendo numerose ed eterogenee guarentigie che mirano alla
effettività della tutela giudiziaria225.
La sua forza primaria di rango costituzionale è, pertanto, in grado di
condizionare l’organizzazione tecnica del processo, influendo sulla disciplina
positiva (sub-costituzionale) del suo svolgimento.
“A questo scopo, ovviamente, è necessario e doveroso che la lettura della
disposizione in parola non sia vincolata da criteri formalistici e risulti
costantemente ispirata, invece, al principio di effettività, il quale, favorendo
l’estrinsecazione e lo sviluppo di tutte le potenzialità garantistiche latenti nelle
norme costituzionali, consente di ascrivere a quelle norme un significato
224 Per approfondimenti sul tema cfr. A. ANCESCHI, Le spese legali. In sede civile, penale,
amministrativa e nelle giurisdizioni speciali, 2010, Milano.
225 L. P. COMOGLIO, Op. ult. Cit., pag. 10 e ss.: “Al di là di ogni diatriba teorica, il problema cruciale
dell’accesso alla giustizia sta, in unltima analisi, nell’<<effettività>> della tutela giudiziaria. Non basta
riconoscere, in astratto, la <<libertà di agire>> e garantire a <<tutti>>, almeno formalmente,
l’occasione di esercitarla, proponendo al giudice la domanda di tutela. Limitarsi a tale configurazione,
nel catalogo tradizionale delle libertà civili, significa disconoscere il senso profondamente innovativo
dei diritti <<sociali>> di libertà (ed, in particolare, di quello attribuito ai non abbienti dal 3° comma
della norma in esame), nei loro inevitabili riflessi sull’amministrazione della giustizia. Occorre,
dunque, assicurare a qualsiasi individuo, indipendentemente dalla sua abbienza o dalle condizioni
personali e sociali, non certo la possibilità, seria e reale, di ottenere adeguata tutela dall’organo
giurisdizionale adito. S’impone, a tal fine, una scelta ch’è anzitutto d’ordine pratico, fra i differenti
modi di interpretare la norma, nello sforzo di individuare, anche al di fuori degli schemi dogmatici
consueti, quello che sappia svilupparne al meglio il potenziale garantistico, sfruttando gli strumenti
positivi di controllo di costituzionalità delle leggi”.
106
<<forte>>, che possa avere un’incidenza concreta e diretta sul progresso
evolutivo delle istituzioni processuali” 226.
In tale prospettiva la dottrina ritiene che la protezione giurisdizionale di
una situazione giuridica di vantaggio può essere pienamente ed effettivamente
conseguita solo se al suo titolare vengono riconosciuti, tra gli altri227:
a) il potere di “sterilizzare” gli effetti di una condotta pregiudizievole per
l’arco di tempo necessario alla piena cognizione dei presupposti (di fatto e di
diritto) postulati in giudizio, mediante l’adozione di quelle misure cautelari
idonee a garantire la salvaguardia del diritto (c.d. diritto alle misure cautelari);
b) il diritto alla decisione sul merito della propria domanda giudiziale;
c) il potere di influire sulla formazione del convincimento del giudice circa
la sussistenza dei presupposti del provvedimento da emanare (c.d. diritto alla
prova);
d) il diritto alla tempestività della protezione giurisdizionale richiesta;
e) il diritto ad un giudice naturale, terzo ed imparziale;
f) il diritto alla difesa tecnica in giudizio.
Ebbene, da quanto sopra esposto si può arrivare ad affermare che il principio
di stretta legalità nella giurisdizione e il diritto alla giurisdizione – inteso come
effettività della tutela giudiziaria – sono due facce della stessa medaglia,
coniata per essere appesa al collo di un ordinamento che riconosce il ruolo
primario dell’individuo all’interno di una società in cui il principio democratico
costituisce il primo presupposto fondante.
Infatti, così come si è già discusso dello stretto collegamento tra art. 101
Cost. e il principio di democrazia, così è stato affermato che “il diritto alla
tutela giurisdizionale va ascritto tra i principi supremi del nostro ordinamento
costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di
226 G. VIGNERA, Garanzie costituzionali del diritto alla tutela giurisdizionale e durata del processo,
in htttp://www.ambientediritto.it.
227 V. ANDOLINA – G. VIGNERA, I fondamenti costituzionali della giustizia civile, Torino, 1997, 66 ss.
107
democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice
e un giudizio ... in senso proprio” 228.
Le profonde ragioni che richiedono, nell’ordinamento italiano, la necessaria
presenza del principio di stretta legalità nella giurisdizione e del diritto alla
giurisdizione, allora, vanno ricercate in quel patto sociale, tanto caro alla
dottrina classica, di cui si è ampiamente discusso nelle pagine addietro: nel
difficile contesto storico-sociale in cui viviamo, in cui si assiste ad una
profonda crisi del sistema istituzionale e delle sue fondamenta, non bisogna
perdere di vista il senso intimo della nascita e dell’evoluzione del nostro
ordinamento in cui, similmente ad altri, la concessione, da parte di una
comunità, della sovranità ad uno Stato, che gestisce le regole in un determinato
territorio, nasce dall’esigenza di porre dei limiti all’arbitrio dell’uomo, per
scongiurare un sistema in cui prevalga la legge del più forte229. L’ordine
giuridico, insomma, nasce per limare e correggere l’ordine naturale delle cose,
sì da rendere geneticamente iniscindibile un fatto dal suo effetto giuridico e
dalla sua collocazione ordinamentale230.
Ma tale ordinamento, tuttavia, può sopravvivere soltanto se esso stesso
soggiace, e con lui i suoi funzionari, alle regole del sistema dato, rispettando
l’unione tra fatto naturale ed effetto giuridico, in guisa tale che qualora il
singolo voglia adire le competenti autorità giurisdizionali ad egli sia garantita
un’effettiva tutela processuale e il giudizio si concluda con una pronuncia che
228 Così Corte Cost., 2 febbraio 1982 n. 18, in Foro it., 1982, I, 934
229 C. CAPOGRASSI, Analisi dell’esperienza Comune, in Opere, Milano, 1959: secondo l’Autore quel
che distingue gli uomini dagli animali è la libertà di poter non seguire l’istinto sicché l'azione
giuridica è “l'azione umana rivelata nella sua sostanza” e sviluppata “in tutto il movimento delle sue
esigenze e dei suoi fini vitali, in tutta quella perenne spinta del soggetto verso la comunione e l'unione
con tutte le realtà, che la coscienza ha scoperto con la conoscenza concreta. La vera opera
dell'imperativo giuridico è proprio questa formazione di esperienza”.
230 S. SATTA, Voce Giurisdizione (nozioni generali), in Enciclopedia del diritto, XIX, Milano, 1970:
“diritto e fatto sono oggetto di giudizio, e quindi esistono solo attraverso il giudizio, e non possono
essere riportati ad una anteriore, neppure ipotizzata, esistenza: diritto e fatto che sono indissociabili
nel momento del giudizio perché l’accertamento del fatto è già il diritto, o se si vuole il fatto è
intrinsecamente giuridico”.
108
sia fondata su una legge, conforme alla Costituzione, approvata dai
rappresentanti designati dal popolo sovrano.
109
3.3. IL GIUSTO PROCESSO TRA DIRITTO ALLA GIURISDIZIONE E PRINCIPIO DI
STRETTA LEGALITÀ NELLA GIURISDIZIONE.
La soggezione del giudice alla legge, sancita dall’art. 101 Cost., si ridurrebbe
ad un puro e rigido formalismo giuridico, svuotato di profondi contenuti, se il
raggiungimento della pronuncia giudiziale non fosse costellato di norme poste a
garanzia dell’effettività del processo, sotto i profili sopra delineati.
Anche a tali norme, pertanto, è soggetto il giudice.
Si è appena visto che, in tale ottica, l’art. 24 Cost. e l’art. 101 Cost. fanno
parte di un medesimo disegno ordinamentale, volto a porre l’individuo in una
posizione primaria e di piena tutela rispetto alle leggi che deve osservare nel
territorio italiano, al fine di scongiurare che le norme medesime possano
influire negativamente sulle libertà inviolabili che l’ordinamento italiano
riconosce ai singoli anche nelle formazioni sociali. Ma il diritto alla
giurisdizione, come sopra definito e descritto, non sarebbe pieno laddove non
fossero previste quelle norme di diritto oggettivo che, già prima della riforma
dell’art. 111 Cost., venivano raggruppate nella nozione di giusto processo: tale
concetto ha avuto, nella storia repubblicana italiana, una fortuna ed una
evoluzione storica non di poco conto, tale da rendere impensabile
l’instaurazione, la prosecuzione e la decisione di un giudizio senza che esso
rispetti tali caratteri.
Eppure, vi è da considerare che lo Statuto Albertino non conteneva alcuna
disposizione simile all’attuale disposto dell’art. 111 della Carta costituzionale
ma si limitava a sancire l’obbligo di motivazione delle sentenze231.
231 Lo Statuto fondamentale della Monarchia di Savoia, noto comunemente come Statuto
Albertino, dal nome del Re Carlo Alberto di Savoia-Carignano che lo promulgò, fu adottato nel
Regno sardo-piemontese il 4 Marzo del 1848. Divenne il 17 Marzo del 1861 la Carta
costituzionale italiana, a seguito della fondazione del nuovo Regno D’Italia. Era una Costituzione
breve e flessibile, passata alla Storia come Costituzione “concessa” dal sovrano, tipica di uno Stato
assoluto. Per maggiori approfondimenti cfr. A. PACE, La causa della rigidità costituzionale: una
rilettura di Bryce, dello Statuto albertino e di qualche altra Costituzione, Padova, 1996.
110
Per la verità, poi, un compendio normativo simile all’attuale art. 111 Cost.
non fu esplicitamente previsto neanche dall’Assemblea costituente, che formulò
un art. 111 Cost. che fu ragionato e scritto per affermare principi prerepubblicani che erano particolarmente sentiti dal popolo dell’insedianda
Repubblica costituzionale232.
Tale norma, però, ebbe una spinta ed una portata molto più forti di quello che
i compilatori della Carta potessero mai attendersi233, tanto ciò è vero che il
legislatore costituente, più che mai incalzato dall’opera della dottrina e della
232 Il dibattito che maggiormente impegnò i lavori preparatori della Costituente fu quello
sulla motivazione delle sentenze e sulla garanzia del ricorso in Cassazione, Cfr. A. ANDRONIO, Art.
111 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, vol. III, 2006, pag.
2102 e ss.: “L’analisi dei lavori preparatori in Assemblea Costituente sull’obbligo di motivazione e
sulla garanzia del ricorso in cassazione fornisce, peraltro, un contributo soltanto parziale al
chiarimento della portata attuale di tali principi. Il dibattito sull’obbligo di motivazione dei
provvedimenti giurisdizionali si concentrò soprattutto sulla compatibilità di tale obbligo con un
eventuale ripristino, per il settore penale, di giurie popolari, che rendessero un verdetto non
motivato e si concluse, semplicemente, con la scelta della generalizzazione dell’obbligo di
motivazione, incompatibile con il verdetto immotivato. Ai margini della discussione rimase, invece,
la questione dell’estensione dell’obbligo di motivazione ai diversi tipi di provvedimenti
giurisdizionali in relazione alla quale emersero equivoci terminologici sul concetto di
provvedimento, che secondo alcuni non comprendeva la sentenza, secondo altri i decreti. La
sinteticità del dibattito in Assemblea Costituente sul punto si spiega, probabilmente, con il fatto che
l’obbligo di motivazione era considerato un corollario del principio di soggezione del giudice alla
legge e della garanzia del ricorso in cassazione ed era concepito in funzione endoprocessuale,
nell’ambito di un ordinamento giudiziario che restava sostanzialmente immutato e fondato su una
struttura burocratico-verticistica. Estranea a tale dibattito rimase, invece, l’idea della motivazione
in funzione extraprocessuale, finalizzata, cioè, a consentire il controllo popolare sulla giustizia. La
discussione dei Costituenti sulla garanzia del ricorso in Cassazione fu più ricca e si concentro
essenzialmente su tre argomenti. Un primo tema di dibattito fu l’unicità della Cassazione. […]. Un
secondo tema di dibattito fu la formulazione letterale del comma. […]. Un terzo tema di dibattito fu
il sindacato di legittimità sulle sentenze dei giudici speciali. Tentando, in conclusione, una
valutazione complessiva dei lavori preparatori, si deve rilevare che l’Assemblea Costituente ha più
che altro inteso consolidare principi già sostanzialmente presenti nell’ordinamento prerepubblicano, senza mostrare, in generale, grande consapevolezza della portata innovativa che l’art.
111 avrebbe con il tempo assunto e specialmente senza fornire elementi chiarificatori sulle nozioni
costituzionali di provvedimento giurisdizionale e di sentenza.
233 Recitava l’originale art. 111, inserito nella sezione II, del Titolo IV intitolato La Magistratura:
“Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i
provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è
sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto
per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e
della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
111
giurisprudenza, nonché dalle norme internazionali recepite negli anni ‘50234, ha
modificato con la legge cost. n. 2 del 1999 l’art. 111 Cost. 235, introducendo in
Italia, anche formalmente, la nozione di giusto processo, nozione di cui dottrina
e giurisprudenza costituzionale avevano già ricostruito contorni e caratteri
essenziali, tanto da inserirla come presupposto della legittimità di ogni processo
giurisdizionale236.
Secondo la dottrina maggioritaria la riforma, pertanto, non ha fatto altro che
cristallizzare principi già ritenuti essenziali nel nostro ordinamento237, salvo
quanto disposto per il procedimento penale, per il quale si è proceduto ad
inserire dei principi che prima non erano direttamente riconducibili alla norma
in parola.
Il primo Autore che, prima della riforma, aveva studiato tali problematiche è
Calamandrei, il quale partendo dal famoso ammonimento secondo cui lo scopo
del processo “è il più alto che possa esservi nella vita: e si chiama giustizia”238,
arrivò ad affermare che “il procedimento deve essere strutturato per questa sua
234 A.ANDRONIO, op. ult. Cit.: “Il <<modello internazionale>> di giusto processo trova i propri
principali fondamenti, come è noto, negli artt. 10 e 11 della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, negli artt. 5 e
6 della Convenzione europea per la salvaguadia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
sottoscritta a Roma il 4 dicembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848,
nonché nell’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici approvato dall’Assemblea
generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1996 e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre
1977, n. 881”.
235 La legge è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 300 del 23 dicembre 1999 cfr. A.
ANDRONIO, op. ult. cit.: “Sul piano dei contenuti della riforma, il dibattito è caratterizzato, in primo
luogo, dalla consapevolezza dell’assoluta centralità del processo penale, anche se emerge
espressamente la volontà di riferire i caratteri essenziali del <<giusto processo>> all’esercizio di tutte
le giurisdizioni. In secondo luogo, emerge la consapevolezza che le nuove disposizioni dell’art. 111
servono ad esplicitare, con rango di norma costituzionale, alcuni principi già impliciti nella
Costituzione del 1947 o, comunque, già vigenti nell’ordinamento, grazie alle leggi di esecuzione delle
convenzioni internazionali sui diritti umani. In terzo luogo, emerge la necessità di adeguare in tempi
rapidi alla riforma costituzionale il codice di procedura penale e si afferma l’indispensabilità di un
regime transitorio che consenta di ammortizzare l’impatto innovativo delle nuove norme
costituzionali sui procedimenti penali in corso”.
236 In tal senso FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, 1996, Padova.
237 Di questo avviso ANDRONIO in Commentario alla costituzione a cura di Bifulco, Celotto,
Olivetti, vol. III, pag. 2110, Milano, 2006.
238 P. CALAMANDREI, Processo e Giustizia, In Rivista di Diritto Processuale, 1950, I, pag. 282 e ss.
112
giustificazione, deve essere un giusto processo”239. Sulla stessa linea di pensiero
si è collocato uno dei suoi allievi, Cappelletti, il quale ha sottolineato come
l’art. 24 della nostra Costituzione sia ricollegabile a quello che nei sistemi
anglosassoni viene chiamato “due process of law”240, secondo il quale non è
sufficiente che tutti possano agire e difendersi in giudizio, ma occorre che il
giudizio si svolga con tutte quelle garanzie processuali insite nello spirito di una
Costituzione moderna.
Negli anni successivi, ma precedenti alla riforma dell’art. 111 Cost., molti
altri autori avevano affrontato il problema, cercando di delineare, di volta in
volta, i caratteri di un processo giusto, spinti dal mettere in risalto principi che
in quel momento storico venivano ritenuti di più pressante attuazione241 e che
avevano bisogno, secondo la maggior parte degli autori, di un ingresso
“formale” nella Carta costituzionale.
Molto attenta, in tal senso, fu l’opera della Corte Costituzionale che prese in
considerazione la questione già con la sentenza n. 86 del 1968, in cui si fa
esplicito riferimento ad un interesse al giusto procedimento242.
Sul tema, comunque, vi sono stati due periodi storici di maggior fioritura: il
primo, a cavallo tra gli anni 1984-1986 nel quale vennero emesse alcune
sentenze243, tutte redatte significativamente dal giudice Andrioli; il secondo, tra
239 Di questo avviso N. TROCKER, Il rapporto processo-giudizio nel pensiero di Piero
Calamandrei, in Rivista di Diritto Processuale, pag 968 e ss, q989, Padova. In questo saggio L’A.,
prendendo le mosse dal pensiero di Calamandrei, sottolinea come la giustizia per essere attuata
abbisogni di principi e cautele che la legge deve garantire, in quello che fin da allora veniva
chiamato giusto processo.
240 Sul tema è ampia la letteratura, tra tutti E. J. COUTURE, La garanzia costituzionale del <<dovuto
processo legale>>, in Rivista di Diritto Processuale, I, pag. 81 e ss, 1954; L.P. COMOGLIO, La garanzia
dell’azione ed il processo civile, Padova, 1970; VIGORITI, Garanzie Costituzionali del processo civile.
<<Due process of Law>> e art. 24 cost., Milano, 1970.
241 Tra i vari ricordiamo L.P. COMOGLIO, La garanzia costituzionale, Torino, 1970, pag. 155 e SS.;
P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, pag. 287, Bologna, 1984.
242 C.Cost. 5 luglio 1968 n. 86 in Giur. Cost. pag. 1430.
243 C.Cost. Sentenze n. 282 del 1984, n.41 del 1985, n. 156 del 1986, n. 189 del 1988.
113
il 1995 e la riforma del 1999244, in cui il concetto di giusto processo sembrava
aver raggiunto una maggiore e definitiva maturità.
Tratto comune delle decisioni citate è che esse non solo prendono posizione
sull’esistenza dei principi del giusto processo, ma considerano tali principi di
rango costituzionale, individuandone spesso il significato e le implicazioni sul
piano normativo245.
244 C. Cost. Sentenze n. 131 del 1996, n. 371 del 1996, n. 66 del 1997, n. 306 del 1997, n. 307
del 1997, n. 290 del 1998, n. 105 del 1999, n.106 del 1999, n. 178 del 1999, n.241 del 1999.
245 Uno dei profili del giusto processo su cui la Consulta è intervenuta maggiormente prima
della riforma, influenzata dalla Corte di Strasburgo, dai trattati internazionali e da altri fattori, è
quello della ragionevole durata del processo. La prima sentenza che si annovera,in quanto
paradigmatica, è sicuramente la n. 138 del 1975, ove il giudice costituzionale, trovandosi a decidere
tra un bilanciamento effettuato dal legislatore in tema di termini di comparizione, sollevato e
dichiarato infondato in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., si sofferma non solo nel caso specifico ad
evidenziare come ci sia una “ragionevole giustificazione della disciplina”, ma va avanti con un obiter
dictum considerando che “la lesione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito, si ha solo
quando l’irrazionalità del termine di preclusione o decadenza renda meramente apparente o
estremamente difficile la possibilità del suo stesso esercizio”. Nonostante questo notevole precedente
la stessa Consulta, nel 1982, con la sentenza n. 15 ebbe, quanto meno da un punto di vista
sostanziale, una battuta di arresto, in quanto in un caso di carcerazione preventiva, dichiarò
infondata la questione sostenendo che la previsione dell’art. 6 del trattato di Roma fosse “vaga ed
elastica” e “non indicativa di un criterio concreto” . Tuttavia, nel 1985 la Corte, con la sentenza n.
190, nel dichiarare incostituzionale l’art. 21 ultimo comma della legge n.1034 del 1971, motivava la
propria decisione sottolineando che “esige rispetto il principio per il quale la durata del processo non
deve andare a danno dell’attore che ha ragione, di cui la dottrina non solo italiana fin dagli inizi del
corrente secolo ha dimostrato la validità desumendola e al contempo confortandola con richiami di
disposizioni normative” . A ridosso, poi, della riforma, tre pronunce sposarono tali principi. Le prime
due, nn. 62 e 81 del 1998, hanno un tratto comune, in quanto in esse la Corte stabilisce che
l’obbligatorietà del ricorso amministrativo, elemento pregiudiziale prima di adire il giudice
competente, non possa essere giustificata se non da esigenze di carattere generale, non presenti in
questi due casi, in quanto lesive del diritto di difesa, compresso dal dilungamento ingiustificato dei
tempi processuali. L’altra sentenza è la n. 388 del 1999 nella quale la Consulta dichiara
espressamente: “l’effettività della tutela dei propri diritti cui è preordinata l’azione, ed in definitiva la
stessa efficacia della giurisdizione, si combina con la durata ragionevole del processo. Garanzia,
quest’ultima, la cui fonte il giudice rimettente individua nell’art. 6 della convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, alla quale, pur se resa esecutiva in
Italia con legge ordinaria, egli attribuisce un valore obbligante per il legislatore nazionale in forza
dell’art. 11 della Costituzione” e ancora “accade per il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri
diritti ed interessi, garantito dall’art. 24 della Costituzione, che implica una ragionevole durata del
processo, perché la decisione giurisdizionale alla quale è preordinata l’azione, promossa a tutela del
diritto, assicuri l’efficace protezione di questo e, in definitiva, la realizzazione della giustizia” .
114
E’ stato, pertanto, affermato che il giusto processo, introdotto dalla novella
costituzionale del 1999, è “un allineamento anche lessicale ad un modello
processuale tendenzialmente unitario che a partire dalla Dichiarazione
universale delle Nazioni Unite del 1948 si è venuto sempre più diffondendo e
radicando a tutela dei diritti, recepito o in via di ricezione in tutti i Paesi,
finalizzato alla massima tutela dei diritti ed ad hoc strutturato nelle forme e nei
termini” 246.
In cosa consiste, dunque, il giusto processo? Secondo la dottrina
maggioritaria esso rappresenta una fomula aperta che raggruppa le garanzie
specificamente previste dall’art. 111 Cost., quanto quelle previste dalle altre
norme costituzionali in chiave processuale247. In altri termini “il giusto processo
può essere considerato, in chiave giuspositivistica, come formula aperta, che
comprende in sé e collega tra loro, sintetizzandole, tutte le singole garanzie
specificate nell’art. 111, ma non si esaurisce in esse”248: ogni processo,
pertanto, deve seguire i canoni imposti dalla norma per essere considerato
“giusto”.
Se di tali premesse ideologiche si vuole, così come si deve, tenere conto, è
facile constatare che il giudice è soggetto anche a tali principi e alle fonti che ne
danno attuazione, sicché, dire che il giudice è soggetto soltanto alla legge,
equivale a dire che egli è soggetto anche alle norme che presidiano l’attuazione
del diritto postulato in giudizio.
Quel che però, in questa sede, risulta di maggiore interesse, è stabilire se il
giusto processo condivide una matrice comune oltre che con il diritto alla
giurisdizione, con il quale le affinità appaiono ictu oculi, anche con il principio
246 L. LANFRANCHI, Voce Giusto Processo, Enciclopedia Giuridica Treccani pag. 7, Roma, 2001. Nel
darne questa sintetica quanto magistrale delineazione l’A. ricorda il pensiero di quella dottrina e di
quella giurisprudenza che hanno contribuito all’evolversi di tale nozione e alla sensibilizzazione del
legislatore sul punto. Tra gli altri si menzionano i giudici costituzionali Andrioli e Conso (sull’art. 24
cost. letto alla luce del giusto processo) e ancora Trocker, Comoglio, Ferri, Taruffo.
247 M. CECCHETTI, Giusto Processo (diritto costituzionale), in Enc. Dir., Milano, 2001.
248 A. ANDRONIO, op. ult. cit., pag. 2111.
115
di stretta legalità nella giurisdizione: la risposta a tale domanda non può che
essere affermativa.
Il primo spunto offerto dalla norma in esame per addivenire a tale
conclusione è contenuto proprio al primo comma dell’art. 111 Cost., laddove,
con la dizione “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato
dalla legge”, il legislatore costituzionale ha intesto porre un vincolo all’attività
normativa in tale materia, concretizzatosi in una riserva di legge249, la cui
previsione muove dalle stesse profonde ragioni che hanno spinto l’Assemblea
costituente a codificare il principio di stretta legalità nella giurisdizione.
Ed invero, la scelta di demandare le modalità di attuazione del giusto
processo alla fonte che deriva dai rappresentanti del popolo sovrano è ispirata,
similmente a quanto detto per il principio di stretta legalità nella giurisdizione,
al ruolo primario che, in un sistema democratico, la Costituzione italiana ha
inteso riservare alla persona umana, in quanto il soggetto sceglie sì, in ogni
momento della propria esistenza, di limitare le proprie capacità naturali per
249 La riserva di legge contenuta nell’art. 111 Cost. costituisce una novità rispetto alle norme
internazionali di cui si è poc’anzi discusso. Per quel che riguarda il “valore” della riserva, si
preferisce aderire a quella parte della dottrina che la ritiene assoluta, sicché in detta materia oltre
alla legge e agli atti aventi forza di legge è possibile l’intervento di norme secondarie regolamentari
soltanto qualora siano di stretta esecuzione del disposto normativo primario. D’altro canto, da un
lato la giurisprudenza, prima della riforma del 1999, aveva fondato il carattere assoluto della riserva
di legge contenuta nell’art. 108 Cost. (cfr., ex pluribus, Corte Cost., sent. nn. 767/1988, 303/1994,
459/1995, 133/1998) in base ad un ragionamento teleologico applicabile anche all’art. 111 Cost.;
dall’altro, sempre estremamente rilevanti risultano le considerazioni di L. CARLASSARE, Legge (riserva
di), in Enc. Giur., XVIII, Roma, 1990, pag. 11, secondo il quale: “La riserva di legge relativa, creazione
dottrinaria e giurisprudenziale, è stata lo strumento indispensabile per consentire che, all’interno di
precise direttrici fissate dal Parlamento, potesse esercitarsi, con l’emanazione di atti normativi e non
normativi, la necessaria discrezionalità degli altri organi investiti di potere. Discrezionalità che,
certo, in uno Stato di diritto, non può essere assoluta e trasformarsi in arbitrio, ma deve essere
previamente disciplinata dalla norma legislativa per garantire ai singoli un eguale trattamento e per
assicurare l’effettività del controllo giurisdizionale sugli atti emanatio. Ma ciò è quanto,
precisamente, richiede il generale principio di legalità cui, in uno Stato democratico di diritto, non
può non risconoscersi valore generale. Quindi in definitiva la riserva di legge – limitata a pochi, più
delicati e significativi oggetti – sarebbe forse da intendersi, come ritiene la migliore dottrina, sempre
assoluta: solo – e computamente – dalla legge quegli oggetti hanno da essere disciplinati”. Cfr. anche
V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, 1, L’ordinamento costituzionale italiano (Le fonti),
Padova, 1975, pag. 52 e ss.
116
rispettare delle regole comuni “decise” dai propri rappresentanti, ma soltanto a
patto che siano effettivamente (e processualmente) rispettate le libertà
fondamentali riconosciute dalla nostra Carta250.
In tale prospettiva, la riserva di legge in materia giurisdizionale contenuta
nell’art. 111 Cost. si collega, anch’essa inscindibilmente, con il principio di
stretta legalità nella giurisdizione, poiché non fa altro che imporre al legislatore
di restringere, ovviamente in modo ragionevole, il potere e la discrezionalità del
giudice nella conduzione e nella regolazione del procedimento giurisdizionale,
affinché la risposta dell’ordinamento all’azione giudiziale mossa dal singolo
sia, nel senso visto nei paragrafi precedenti, basata sulla legge in ogni sua
sfaccettatura e, dunque, anche sotto il profilo del rispetto delle guarentigie poste
a presidio dell’azione giudiziale e del suo svolgimento.
Ovviamente il legislatore non è “libero” di determinare arbitriariamente le
norme attuative del giusto processo, ma è vincolato da tutte le disposizioni
costituzionali che impediscono la sua intromissione in determinate sfere di
libertà e, ancora, da quelle che dettano, così come l’art. 111 Cost., dei principi
da seguire imprescindibilmente, quali, per esempio:
- il rispetto del contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità251;
- l’attribuzione di un giudice terzo ed imparziale252;
- la creazione di un sistema giurisdizionale che, per non vanificare l’attualità
del diritto, porti ad una decisione definitiva in tempi ragionevoli253;
250 Ne consegue, allora, come rilevato da G. BERTI, Interpretazione costituzionale, IV ed., Padova,
2001, pag. 584 e ss. che “la norma giuridica non è pertanto il contenuto di un comando legislativo o
politico, anche se ne ha tutte le apparenze, ma è la definizione, attraverso il linguaggio giuridico, del
convergere delle libertà un una affermazione comune di un comportamento o di uno scopo e quindi
di un dovere. Come si vedrà subito, l’aspetto coercitivo e sanzionatorio del diritto si diluisce e in un
certo senso perde efficacia caratterizzante nel momento in cui si pone nella libertà il principio di
esistenza e quindi di riconoscimento dell’ordine giuridico”.
251 Per approfondimenti cfr. F. CARNELUTTI, Diritto e Processo, Napoli, 1958, pag. 98 e ss.; G.
FERRARA, Garanzie processuali dei diritti costituzionali e giusto processo, in Rass. Parl., 1999, pag.
539 e ss.
252 Tra gli altri, S. FOIS, Il modello costituzionale del giusto processo, in Rass. Parl., 2000, pag. 569
e ss.
117
- il diritto ad impugnare ogni sentenza ed ogni provvedimento incidenti sulla
libertà personale mediante ricorso in Cassazione per violazione di legge254.
La scelta operata all’interno del nostro sistema costituzionale appare,
pertanto, chiara ed univoca e consiste nella combinazione sistematica di
principi fondamentali che, salvo gli ovvi limiti dovuti all’applicazione del
sistema medesimo, mirano a rendere effettivo in Italia uno Stato costituzionale
di diritto ove la sovranità del popolo ed il principio democratico costituiscono
le basi dell’ordinamento sulle quali il singolo può pretendere di far valere le
proprie ragioni: ed infatti, “laddove il principio di legalità vale nei confronti dei
poteri esecutivo e giurisdizionale, abbiamo a che fare con uno Stato di diritto
(senza ulteriori specificazioni); laddove il principio di legalità si estende anche
al potere legislativo abbiamo a che fare con uno Stato costituzionale di
diritto”255.
Com’è stato autorevolmente rilevato, non bisogna dimenticare, però, che “in
siffatto contesto, l’ordine giuridico si regge sull’autonomia dei singoli che
compongono la collettività, ai quali spetta, pertanto, autonoma potestà di darsi
ordinamento, con un significativo rovesciamento di prospettiva – dovuto, com’è
noto, al costituzionalismo, innanzitutto quale fenomeno ideale – rispetto alla
raffigurazione dell’ordine medesimo quale espressione di un’autorità
<<naturalmente>> sovraordinata: rovesciamento che coinvolge, fatalmente, il
sistema delle fonti del diritto, che ne risulta costruito a partire proprio dalla
norma autonoma, manifestazione di autoregolamentazione di ciascuno in re
ipsa ovvero di accordo reciproco, allorché si tratti di mutua regolamentazione
in re aliena, ascendendo alle disposizioni eteronome, la cui capacità obbligante
253 Per approfondimenti v. FERRUA, Garanzia del contraddittorio e ragionevole durata del
processo in Questione Giustizia, 2003, pag. 7; GAETA, Durata ragionevole del processo e
giurisprudenza della Corte costituzionale, in Questione Giustizia, 2003, pag. 1137 e ss.
254 Cfr. F. CIPRIANI, La riforma del giudizio di Cassazione, Padova, 2009, pag. 141 e ss.
255 R. GUASTINI, Legalità (principio di), in Digesto civ., X, Torino, 1993, pag. 497.
118
risiede, però, in principio, nel nesso, che deve quindi esistere, tra il soggetto
che la emana e quanti vi siano assoggettati” 256.
256 M. ESPOSITO, op. ult. cit., pag. 828.
119
3.4. LA DISCIPLINA COSTITUZIONALE DE “LA MAGISTRATURA”. BREVI
CENNI.
Sin dall’inizio del presente capitolo, si è avuto modo di rilevare, seppur
incidentalmente, che la disciplina strutturale della Magistratura257 contribuisce a
rendere ancor più incisivo il principio di legalità nella giurisdizione stabilito
all’art. 101, II comma, Cost., giacché le numerose norme costituzionali dedicate
ai soggetti che fanno parte di tale ordine non soltanto mirano ad elevarne il
grado di professionalità e di affidabilità ma, per di più, contribuiscono a
scolpire un sistema in cui l’unico vincolo posto all’esercizio della funzione
giurisdizionale è il rispetto delle norme primarie e degli atti ad esse conformi e
da esse richiamate.
D’altro canto, nell’equazione prevista dall’art. 101 Cost., il giudice,
soggetto mediante il quale l’ordinamento trova la sua attuazione concreta,
assume il rilievo primario di cui si è ampiamente discusso, di talché la sua
collocazione all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano non è stata
lasciata, dalla nostra Carta, alla libera determinazione del legislatore ordinario,
se non per aspetti secondari e con limiti ben determinati.
E’ chiaro che, in questa sede, non è possibile esperire un’analisi
approfondita di tali complesse problematiche, tuttavia appare utile provare a
dipingere un breve quadro delle norme costituzionali che incidono sulla
“formazione” del giudice e ne rivelano la “natura”.
Innanzitutto, la Carta costituzionale, al primo alinea dell’art. 104 Cost.,
stabilisce, quasi perentoriamente, che “La Magistratura è un ordine autonomo e
indipendente da ogni altro potere”.
257 L’espressione Magistratura comprende una molteplicità di significati, come peraltro emerge
dalla eterogeneità delle norme costituzionali del titolo IV della Carta fondamentale. Per
approfondimenti sul punto si rimanda a S. LESSONA, La funzione giurisdizionale, in Commentario
Calamandrei e Levi, II, Firenze, 1950, pag. 199 e ss.; C. GIANNATTASIO, La Magistratura, ibid., pag. 169
e ss.; F. GABRIELE, Giudici ordinari, giudici amministrativi e garanzie costituzionali di indipendenza,
in Giur. Cost., 1978, I, pag. 124.
120
Il primo problema, pertanto, che la dottrina ha dovuto affrontare, è stato
quello di comprendere il motivo (e i conseguenti effetti) per il quale sia stata
utilizzata l’espressione ordine, in luogo di quella di potere, questione che, già in
sede costituente, aveva creato numerosi dibattiti258: sul punto, si ritiene che sia
stata privilegiata tale dizione in virtù di una visione tradizionalistica del
sistema, secondo la quale il potere giurisdizionale è un potere nullo, sicché il
giudice non esperisce alcuna attività volitiva ma è vincolato, ai sensi dell’art.
101, II comma, Cost., all’applicazione della “volontà politica” espressa dalla
legge259.
L’espressione ordine, insomma, mira a qualificare l’organizzazione
giudiziaria sotto un mero aspetto strutturale, “nell’ambito dell’esercizio di
competenze derivate, nel presupposto che, in senso proprio, al termine potere si
volesse attribuire il connotato di sovranità” che non veniva riconosciuto, nei
ridetti termini, alla magistratura; nell’ambito della funzione esercitata dal
giudice, però, “non sembra possa essere negato che la giurisdizione sia un
potere dello Stato e, concretamente, cotesto effetto risulta ampiamente
affermato allorché si è proposta la tematica dei conflitti di attribuzionie tra
poteri dello Stato”260; per di più, non può tacersi che la norma stessa
implicitamente riconosce che la magistratura, oltre ad essere un ordine, è anche
un potere, laddove espressamente la dichiara autonoma ed indipendente rispetto
agli altri.
Orbene, chiarita tale questione, occorre stabilire, quanto meno da un punto
di vista definitorio, cosa si intenda in questo contesto per autonomia e cosa per
indipendenza, giacché i ridetti termini nelle scienze giuridiche e nei testi
258 Cfr. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori della Assemblea
Costituente, VIII, pag. 1973 e ss.
259 C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1972, pag. 1279 e ss.
260 F. BONIFACIO, G. GIACOBBE, Ordinamento Giurisdizionale, in Commentario della Costituzione a
cura di Giuseppe Branca, Bologna, 1986, pag. 16; C. MEZZANOTTE, Le nozioni di potere e di conflitto
nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Giur Cost., Roma, 1979, pag. 110. In
giurisprudenza cfr. sent. n. 132 del 10 luglio 1981.
121
legislativi a volte vengono utilizzati come sinonimi, altre volte definiscono
concetti molto diversi tra loro.
Per quel che qui interessa, basti rilevare che mentre il termine autonomia
si riferisce alla magistratura tout court sotto l’aspetto organizzativo (in quanto
ordine) ed è quindi volto ad esprimere come la sua organizzazione sia distinta
da quella degli altri poteri dello Stato, l’indipendenza si riferisce, più
specificamente, alla posizione del singolo magistrato che, nell’esercizio delle
sue funzioni, deve essere libero da ingerenze esterne e “dipendere” dalla sola
applicazione della legge261.
Quel che, però, interessa maggiormente rilevare in questa sede, è il
legame intercorrente tra l’art. 104 Cost. e l’art. 101 Cost., la cui ricostruzione è
stata brillantemente enucleata dalla dottrina nel seguente, testuale passo: “…
sembra necessario precisare – per meglio definire la portata del principio di
autonomia ed indipendenza – che l’affermata soggezione del giudice soltanto
alla legge, assume un duplice significato normativo – nella pacifica
acquisizione che i precetti della Costituzione, anche quelli apparentemente a
contenuto programmatico, hanno immediata efficacia precettiva - nella misura
in cui, per un verso, pone un rigoroso limite al(l’esercizio del) potere
giurisdizionale del giudice; per altro verso, garantisce lo stesso giudice da
qualsiasi ingerenza esterna. Da cotesto principio consegue, dunque, che il
singolo giudice – nell’atto del giudicare – si pone in un rapporto dialettico con
la norma – dalla cui applicazione deriva la legittimazione all’esercizio della
funzione in nome del popolo ( art. 101 comma 1°), unico titolare della
sovranità popolare ( art. 1 comma 2° ) e quindi anche del potere
giurisdizionale che della prima è espressione – nel senso che di essa deve
ricercare il contenuto precettivo, e rispetto ad essa deve operare in posizione di
piena ed assoluta indipendenza: si tratta, per altro, di una posizione che lungi
261 Per maggiori approfondimenti sul tema si rimanda comunque a S. BARTOLE, Autonomia e
indipendenza dell’ordine giudiziario, Padova, 1964.
122
dal legittimare << arbitrii >> interpretativi, impone il rigoroso rispetto delle
linee di sviluppo dell’ordinamento e consente di valutare se, nella concretezza
di ogni rapporto, la correlazione tra atto giurisdizionale ed atto normativo –
espressione quest’ultimo, in via diretta, il primo, in via indiretta, della
sovranità popolare – risulti rispettata. Sotto questo profilo, mentre il connotato
della sovranità può – e deve – essere riscontrato nell’atto legislativo, lo stesso
connotato non ricorre allorché si qualifichi l’attività giurisdizionale: la quale,
come già osservato, si pone come esercizio mediato di sovranità, e quindi, non
può essere definita sovrana.
Secondo la indicata impostazione – che sembra corrispondere ad
orientamenti quanto meno prevalenti di giurisprudenza e dottrina – sembra
potersi chiarire, nel senso sopra precisato, il rapporto tra autonomia ed
indipendenza” 262.
Il rapporto tra autonomia ed indipendenza, sotto la penetrante luce del
principio di stretta legalità nella giurisdizione, viene reso, allora, ancora più
efficiente mediante l’istituzione – sancita dall’art. 104 Cost. – del Consiglio
Superiore della Magistratura263, organo al quale, con un netto taglio rispetto
all’ordinamento pre-repubblicano, sono state demandate tutte le funzioni
attinenti lo stato giuridico dei magistrati, un tempo esercitate dal Ministro della
Giustizia264.
262 F. BONIFACIO, G. GIACOBBE, Op. ult. cit. pag. 5-6. Nel delineare in poche battute l’importanza
dell’autonomia e della indipendenza della magistratura rispetto al vincolo di soggezione del giudice
alla legge, l’Autore non manca di citare folta e nutrita dottrina. Tra questi: C. MORTATI, Istituzioni di
diritto pubblico, Padova, 1972; A. GUARINO, L’autonomia della funzione giurisdizionale nella
Costituzione Italiana in Annali Univ. di Catania, 1947/1948; F. BONIFACIO, La magistratura e gli altri
poteri dello Stato in Rass. Dir. Pubbl., 1968; D. NOCILLA, Popolo (Dir. Cost.), in Enc. del Dir., pag. 341; S.
BARTOLE, Il Potere giudiziario, Bologna, 2008; P. BARILE, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1987;
E. CAPACCIOLI, Forme e sostanza dei provvedimenti relativi ai magistrati in Riv. It. Dir. Proc. Pen.,1962,
pag. 272.
263 L. DAGA, Il Consiglio Superiore della magistratura, Napoli, 1974, pag. 284.
264 N. ZANON, F. BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2008, pag. 7: ivi
viene analizzata la struttura del CSM da un punto di vista funzionale al proprio ruolo, in un
complesso equilibrio in cui “ la presenza nel C.S.M. di membri non tratti dall’ordine giudiziario e la
particolare disciplina costituzionale dettata quanto alla presidenza di esso rispondono all’esigenza
123
Le altre norme costituzionali, poi, che in questa sede non possono essere
tralasciate, sono contenute nel primo comma dell’art. 108 Cost. secondo il
quale “le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni altra magistratura sono
stabilite con legge” 265 e nel primo comma dell’art. 102 Cost. il quale dispone
che “la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e
regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario” 266.
La prima disposizione succitata contiene, all’evidenza, una riserva di
legge per la quale valgono le medesime considerazioni sopra esposte in
riferimento al primo comma dell’art. 111 Cost.: riservare alla legge la disciplina
di tale materia è una scelta vincolata dal principio democratico e dalla
istituzione di uno Stato costituzionale di diritto; per tali ragioni si aderisce alla
tesi che riconosce natura assoluta alla ridetta riserva anche in considerazione di
ciò, che essa mira a consolidare l’indipendenza del singolo magistrato tanto nei
confronti degli altri poteri statuali quanto nei confronti dello stesso CSM, “la
(che fu avvertita dai costituenti) di evitare che l’ordine giudiziario abbia a porsi come un corpo
separato (C. Cost., sentenza 142 del 1973). La composizione del C.S.M. costituisce dunque uno degli
accorgimenti idonei ad attuarne e a mantenerne una costante saldatura con l’apparato unitario dello
Stato, pur senza intaccarne le proclamate e garantite autonomia e indipendenza”. L’Autore non
manca però di criticare il sistema rilevando “sotto un profilo diverso e in una prospettiva di
eventuale riforma, vi è però chi ha osservato come alcune funzioni affidate al C.S.M., in particolare
l’irrogazione di provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, sarebbero svolte in modo più
efficace ed imparziale se affidate ad un organismo realmente << terzo>> rispetto ai destinatari dei
provvedimenti stessi: e in talune prospettive di riforma costituzionale, per ora non tradottesi in atto,
si è pensato di costruire, quanto meno ai fini disciplinari, un C.S.M. interamente esterno alla
magistratura, secondo una logica del tutto diversa da quella accolta dalla Costituzione vigente”.
265 Anche lo Statuto Albertino all’art. 70 riservava alla legge l’organizzazione giudiziaria, legge
che consisteva nel R.D. 2626/1865, il quale, evidentemente con il fine di accentuare il controllo del
potere esecutivo sull’ordine giudiziario, poneva il Ministro della Giustizia quale vertice avente
funzioni e poteri incisivi sulla carriera del magistato, quali la nomina, il trasferimento, le
promozioni, le sanzioni disciplinari etc.: sul punto cfr. L. CHIEFFI, Origine del modello costituzionale e
prospettive di riforma, Napoli, 1998.
266 A. POGGI, Art. 102 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M.
OLIVETTI, 2006, pag. 1969: “le norme dello StatutoAlbertino relative all’ordine giudiziario ricalcavano
quelle della Carta francese del 1814. Cardini del sistema erano: la statualità della giurisdizione in capo
al Re (art. 68), la riserva di legge in tema di organizzazione giudiziaria (art. 70), il divieto di
distrazione dal giudice naturale (art. 71), l’affermazione della sola interpretazione autentica (art.
73)”.
124
cui attività amministrativa deve trovare fondamento e parametro nella legge e
non, come è frequentemente accaduto in una semplice circolare” 267.
Per quel che riguarda, poi, il primo comma dell’art. 102 Cost., esso, com’è
noto, ha sancito, con gli evidenti limiti posti dal successivo art. 103 Cost., un
principio imperfetto di unicità della giurisdizione268, laddove ha attribuito, fatti
salvi i casi dei giudici speciali esistenti già prima della formazione della Carta,
l’espletamento della funzione giurisdizionale ai magistrati ordinari, istituiti e
regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario e, quindi, per quanto sopra
esposto, dalla fonte primaria269.
Ora, in disparte le seppur interessantissime riflessioni sulle ragioni
storico-sociali e sulle conseguenze che, nel nostro ordinamento, ha avuto l’art.
102 Cost. nel suo complesso270, sulle quali ci si soffermerà brevemente nel
prosieguo, quel che preme rilevare è che la costituzionalizzazione del concetto
di giurisdizione ha fatto in modo, tra l’altro, che fosse riferibile “a tutte le
giurisdizioni la regola affermata dall’art. 101, 2° co., per cui <<i giudici sono
soggetti soltanto alla legge>>”271: ed infatti è sin da subito risultato chiaro che
l’esercizio della funzione giurisdizionale, qualunque sia la giurisdizione
267 H. SIMONETTI, Art. 108 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO,
M. OLIVETTI, 2006, pag. 2063. La tesi è stata sviluppata da S. BARTOLE, op. ult. cit., pag. 248 e ss. e
ripresa da F. SORRENTINO, I poteri normativi del CSM, in Magistratura, Csm e principi costituzonali, a
cura di CARAVITA, Roma-Bari, 1994, pag. 36 e V. ONIDA, La posizione costituzionale del CSM e i
rapporti con gli altri poteri in Magistratura, Csm e principi costituzonali, a cura di CARAVITA, RomaBari, 1994, pag. 34.
268 A. POGGI, op. ult. cit. pag. 1972 e ss.
269 Per maggiori approfondimenti, anche sui motivi storici che hanno condotto a tale scelta, si
rimanda a G. D’ALESSIO, Alle origini della Costituzione italiana. I lavori preparatori della Commissione
per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato (1945-1946), Bologna, 1980.
270 Come rilevato dalla dottrina di seguito citata, l’Assemblea Costituente ha confezionato un
articolo 102 Cost. che ha sancito il principio di unicità della giurisdizione in maniera imperfetta,
laddove ha, da un lato, conferito alla magistratura ordinaria un ruolo centrale, e, dall’altro,
salvaguardato la giurisdizione del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e dei Tribunali Militari, cfr.
V. FALZONE, F. PALERMO, F. COSENTINO, La Costituzione della Repubblica italiana, 1980, pag. 327 e ss..
271 Lo rileva A. POGGI, Art. 102, in Commentario alla Costituzione a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO,
M. OLIVETTI, 2006, pag. 1972 sulla base delle sentenze della Corte Costituzionale nn. 55/1966,
60/1969 e 128/1968.
125
(ordinaria o speciale), debba strettamente dipendere dall’applicazione della
norma approvata dai rappresentanti del popolo.
Ulteriore aspetto, allora, che occorre tenere in considerazione a fini del
presente lavoro, concerne la selezione dei soggetti a cui l’ordinamento demanda
la funzione giurisdizionale che, nel sistema pre-repubblicano, venivano
nominati dal Sovrano272: fino al 1865, infatti, anno in cui fu introdotta la regola
del reclutamento dei giudici tramite concorso273, il Re era “libero” di nominare i
soggetti
che
avrebbero
dovuto
applicare
nel
territorio
le
regole
dell’ordinamento statuale274.
Con l’avvento della Carta costituzionale, all’art. 106, è stata introdotta la
regola generale per cui “Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso”,
regola che, coerentemente con quanto fin qui esposto, contribuisce, come
rilevato dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale, a salvaguardare
l’autonomia e l’indipendenza dei giudici e, soprattutto, a garantire che essi,
nell’esercizio
delle
proprie
funzioni,
siano
soggetti,
unicamente,
all’applicazione della legge. La Consulta, in un proprio obiter dictum, ha infatti
osservato che il reclutamento per concorso “non è di per sé una norma di
garanzia di indipendenza….sebbene di idoneità a ricoprire l’ufficio” la quale
“concorre a rafforzare e a integrare l’indipendenza dei magistrati”
275
; nello
stesso senso, la dottrina ha inquadrato tale norma nel rapporto tra esercizio
legittimo della funzione giurisdizionale e qualificazione tecnica dei titolari della
funzione276, sicché “la lettura del sistema degli artt. 101, 102 e 106 convince
272 Per maggiori approfondimenti si rimanda a F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento allo Statuto
del regno, III, Torino, 1909.
273 Per essere ammessi al tirocinio di uditore bisognava superare un concorso riservato ai
laureati in giurisprudenza e godere dei diritti civili e politici: la prova si svolgeva per iscritto
dinnanzi ad una Commissione nominata dal Ministro. Cfr. P. MAROVELLI, L’indipendenza e
l’autonomia della magistratura italiana dal 1848 al 1923, Milano, 1967.
274 N. PICARDI, A. GIULIANI, L’ordinamento giudiziario, I-III, 1983-1985.
275 Corte Cost., sent. n. 1/1967
276 E. SPAGNA MUSSO, Giudice (nozione), In Enc. Dir. XVIII, 1970, pag. 947; R. GUASTINI, art. 101
Cost., in Commentario della Costituzione fondato da Giuseppe Branca, Roma, 1994; F. BONIFACIO, G.
GIACOBBE, art. 106 Cost., in Commentario della Costituzione fondato da Giuseppe Branca, Roma, 1986.
126
che nel nostro modello costituzionale, ispirato al principio di legalità, il
magistrato sia estraneo al circuito della formazione dell’indirizzo politico e che
la legittimazione democratica all’esercizio della giurisdizione rinvenga
dall’imparzialità e dall’indipendenza, garantite (anche) attraverso la selezione
sulla base unicamente di requisiti tecnici” 277.
Vi è da rilevare, per completezza, che tale regola subisce due deroghe
dalla stessa Carta costituzionale, che riguardano il reclutamento dei magistrati
posti alla base e all’apice dell’ordinamento giudiziale: al primo gruppo
appartengono i c.d. giudici onorari, istituiti al fine di alleggerire il lavoro del
magistrato ordinario, le cui nomine, per espressa riserva, possono avvenire
soltanto sulla base della legge sull’ordinamento giudiziario (art. 106, II co.
Cost.: “La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche
elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli”);
al secondo gruppo appartengono i Consiglieri della Corte di Cassazione che,
per meriti insigni, possono essere designati dal Consiglio Superiore della
Magistratura, sibbene debbano aver ricoperto il ruolo di professore ordinario di
università in materie giuridiche o essere stati avvocati, con quindici anni
d’esercizio, iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori (Art. 106, II
co., Cost.: “Su designazione del Consiglio superiore della magistratura
possono essere chiamati all'ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti
insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che
abbiano quindici anni d'esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le
giurisdizioni superiori) 278.
Una volta esperite con successo le procedure previste dall’ordinamento
giudiziale, “i magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o
sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a
277 F. RIGANO, Art. 106 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M.
OLIVETTI, 2006, pag. 2044.
278 Per approfondimenti cfr. G. DI FEDERICO, La giustizia come organizzazione. Il reclutamento
dei magistrati, Bari, 1968.
127
decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e
con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro
consenso”. Essi, inoltre, “si distinguono tra loro soltanto per diversità di
funzioni” (art. 107 Cost.).
L’inamovibilità, si aggiunge, per così dire “alla riserva di competenza,
dettata dall’art. 105 Cost. in favore del CSM”, al fine di realizzare una
maggiore indipendenza del magistrato, non solo nei confronti di tutti gli altri
poteri statuali (c.d. indipendenza esterna) ma, per di più, anche nei confronti del
Consiglio Superiore della Magistratura (c.d. indipendenza interna), mediante la
previsione di un particolare modus procedendi nell’adozione dei provvedimenti
che incidono nella carriera del singolo magistrato (inamovibilità dalla sede e
dalle funzioni, se non per certe ragioni)279.
Tale norma, se da un lato integra pienamente il principio di buon
andamento
dell’amministrazione
della
giustizia,
ex
art.
97
Cost.280,
sembrerebbe, dall’altro, porsi in contrasto con il principio di precostituzione del
giudice (ex art. 25 della nostra Carta) per quel che riguarda la copertura
costituzionale dei provvedimenti infradistrettuali di mobilità temporanea o dei
provvedimenti di supplenza vagliati dal CSM281. Com’è noto, infatti, la
garanzia prevista dall’art. 25 della Costituzione si fonda, innanzitutto, sulla
necessità di garantire effettività alla terzietà e all’indipendenza del giudice282, sì
da assicurare al cittadino, che si rivolge al servizio giustizia, la sua
imparzialità283: la mera possibilità che un organo possa, anche solo
279 G. D’ELIA, Art. 107 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M.
OLIVETTI, 2006, pag. 2052.
280 Cfr. Corte Cost., sent. nn. 18/1989 e 86/1982.
281 Cfr. artt. 110 e 97 del R.D. 12/1941 e la l. n. 48 del 13 febbraio 2001.
282 V. ANDRIOLI, La precostituzione del giudice, in Riv. dir. proc., 1964, 325 e ss.; R. DE LISO,
Naturalità e precostituzione del giudice nell’art. 25, Costituzione, in Giur. Cost., 1969, 2671 e ss.; E.T.
LIEBMAN, Giudice naturale e costituzione del giudice, in Riv. Dir. Proc., 1964, 331.
283 Corte Cost., sent. n. 127 del 1979 e n. 460 del 1994.
128
temporaneamente, modificare la struttura dell’ordine giudiziario, minerebbe
tale principio284.
La Corte costituzionale, tuttavia, ha risolto tale conflitto “facendo leva
sull’esigenza di continuità e prontezza della funzione giurisdizionale,
riconoscendo come non si possa pretendere che la legge determini, a tal fine,
procedimenti automatici, che escludano qualsiasi discrezionalità di scelta del
magistrato designando, sottolineando come tali provvedimenti siano esercitati
solo al fine di una efficiente organizzazione dell’ufficio e di razionale
distribuzione del lavoro giudiziario” 285.
In definitiva, dalla brevissima analisi delle norme sopra citate, emerge un
quadro costituzionale volto a formare e istruire il soggetto avente funzioni
giurisdizionali ad una incondizionata applicazione della volontà della legge, il
284 Corte Cost., sent. n. 127 del 1979 e n. 460 del 1994.
285 Occorre precisare che un tema molto discusso è proprio quello relativo al soggetto a cui si
riferirebbe il principio di precostituzione: ci si è chiesto, infatti, se esso riguardasse il giudice
persona fisica, ovvero l’ufficio giudiziario nel suo complesso. Già nel 1962, con la sentenza n. 88, la
Corte costituzionale ha tentato di conciliare le due impostazioni, precisando che tale principio
consiste nella “previa determinazione della competenza, con riferimento a fattispecie astratte
realizzabili in futuro, non già, a posteriori, in relazione, come si dice, a una regiudicanda già insorta
[…] una competenza fissata, senza alternative, immediatamente ed esclusivamente dalla legge”. Di
recente, richiamando la suddetta sentenza, la Corta ha osservato “che la giurisprudenza
costituzionale è costante nel ritenere che il principio di certezza del giudice, di cui all’art. 25, primo
comma, Cost., è efficacemente espresso nel concetto di «pre-costituzione del giudice», «vale a dire
nella previa determinazione della competenza, con riferimento a fattispecie astratte realizzabili in
futuro, non già, a posteriori, in relazione, come si dice, a una regiudicanda già insorta». In altri
termini, «il principio della precostituzione del giudice tutela nel cittadino il diritto a una previa non
dubbia conoscenza del giudice competente a decidere, o, ancora più nettamente, il diritto alla
certezza che a giudicare non sarà un giudice creato a posteriori in relazione a un fatto già
verificatosi» (sentenza n. 88 del 1962). Il principio in esame è osservato «purchè l’organo giudicante
sia stato istituito dalla legge sulla base di criteri generali fissati in anticipo e non in vista di singole
controversie» (sentenza n. 452 del 1997). Inoltre, la Corte ha chiarito che l’art. 25 Cost. non viene
violato allorché «la legge, sia pure con effetto anche sui processi in corso, modifica in generale i
presupposti o i criteri in base ai quali deve essere individuato il giudice competente: in questo caso,
infatti, lo spostamento della competenza dall’uno all’altro ufficio giudiziario non avviene in
conseguenza di una deroga alla disciplina generale, che sia adottata in vista di una determinata o di
determinate controversie, ma per effetto di un nuovo ordinamento – e, dunque, della designazione di
un nuovo giudice “naturale” – che il legislatore, nell’esercizio del suo insindacabile potere di merito,
sostituisce a quello vigente» (così, da ultimo, la sentenza n. 237 del 2007)”. In dottrina, sul punto, si
rinvia a A. PIZZORUSSO, Giudice naturale, in Enc. giur., XV, 1988: id., Il principio del giudice naturale nel
suo aspetto di norma sostanziale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, 1 ss.
129
che resta, come si è più volte ribadito, l’unico vincolo alla sua attività, dal
quale, a cascata, discendono tutti gli altri.
130
3.5. LA GARANZIA COSTITUZIONALE DELLA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE
AMMINISTRATIVO: ARTT. 103 E 113 COST.
E’ giunto il momento, prima di arrivare alla fase conclusiva del presente
lavoro, di esaminare, più nello specifico e in riferimento all’art. 101 Cost., le
norme che sono state dedicate dall’Assemblea costituente alla giurisdizione del
giudice amministrativo286 e, in particolare, quelle contenute negli artt. 103 e 113
Cost.: tali disposizioni sono essenziali ai nostri fini giacché, com’è stato
autorevolmente rilevato, “si possono apprezzare come se liberassero tutta
l’energia che è dentro al principio di legalità e di garanzia delle libertà e dei
diritti” con il limite implicito di mantenere “sempre il presupposto tipico dello
Stato di diritto, e cioè che le libertà e le garanzie sono solamente quelle
positivamente disegnate e quindi concesse dal legislatore politico” 287.
286 Occorre sottolineare che la Carta costituzionale italiana è unica nel suo genere in Europa,
giacché, come rilevato da V. CERULLI IRELLI, La giurisdizione amministrativa nella Costituzione, 2009,
in http://www.astrid.eu “La nostra Costituzione, unica tra le principali Costituzioni europee, contiene
molteplici norme sulla giurisdizione amministrativa. La Costituzione tedesca, all’art. 19, 4° co.,
stabilisce, com’è noto, il principio generale che chiunque venga leso “nei suoi diritti dal potere
pubblico” possa “adire l’autorità giudiziaria”, senza specificare di quale autorità giudiziaria si tratti.
E la norma aggiunge, come una sorta di clausola di chiusura, che laddove “non vi sia una diversa
competenza” (cioè la competenza di un’altra autorità giudiziaria, come appunto quella
amministrativa) “è competente l’autorità giudiziaria ordinaria”. E al successivo art. 95 stabilisce il
principio dell’unità delle giurisdizioni. Analogamente, la Costituzione spagnola, all’art. 106, dispone
che “i tribunali controllano il potere regolamentare e la legalità dell’azione amministrativa, come la
sottoposizione di essa ai fini che la giustificano”. Anche qui il riferimento è generico e non specifico a
un tipo di giurisdizione. E agli artt. 117 ss., stabilisce il principio dell’unità della giurisdizione “come
principio base dell’organizzazione e del funzionamento dei tribunali”. La Costituzione spagnola,
chiaramente echeggiando quella italiana, afferma il principio che ogni persona abbia “il diritto di
ottenere protezione effettiva dei tribunali per esercitare i suoi diritti e interessi legittimi, senza che in
alcun caso questa protezione gli possa essere rifiutata” (art. 24): principio generale sulla tutela
giurisdizionale, del tutto analogo al nostro, dove il riferimento agli interessi legittimi, chiaramente
indica la protezione anche nei confronti dell’azione amministrativa. La Costituzione francese tace poi
del tutto sul punto, e non contiene neppure questi principi generali. Per cui, il Conseil constitutionnel,
nel Paese d’origine del contenzioso amministrativo, ha dovuto espressamente affermare come
rientrante tra i «principes fondamentaux reconnus par les lois de la Republique» (sulla base del
Preambolo), quello secondo il quale appartiene alla giurisdizione amministrativa «l’annullation ou la
réformation des décisiones prises, dans l’exercise des prérogatives de puissance publique, par les
autorités administratives» (Cons. const. 23.1.1987, successivamente confermata)”.
287 G. BERTI, art. 113 [e 103, 1° e 2° comma c.], in Commentario della Costituzione a cura di G.
Branca, tomo IV, La Magistratura, Milano, 1987, pag. 85.
131
Innanzitutto, occorre rilevare che ad entrambe le norme in esame viene
generalmente conferito il merito di collocare, nel sistema costituzionale
italiano, la giustizia amministrativa: mentre, però, l’art. 103 Cost. si preoccupa
di definire la giurisdizione del Consiglio di Stato e degli altri organi della
giustizia amministrativa mediante l’indicazione delle situazioni giuridiche
soggettive che dinnanzi a loro devono essere tutelate e, quindi, da un punto di
vista squisitamente soggettivo288, l’art. 113 Cost. pone in risalto, da un punto di
vista oggettivo, la pienezza della garanzia giurisdizionale che è stata attribuita
al cittadino nei confronti degli atti amministrativi con cui viene esercitato il
pubblico potere: ciò si evince facilmente dal combinato disposto dei primi due
commi di tale disposizione.
Arrivati a tale punto della trattazione, non ci si può esimere dal soffermarsi
sul difficile e complesso rapporto sistematico che il Costituente ha deciso di
instaurare tra tali disposizioni e l’art. 102 Cost. il quale, com’è si è accennato,
ha attribuito, in linea di principio, la funzione giurisdizionale ai giudici ordinari,
pur mantenendo, per quel che qui interessa, la giurisdizone del Consiglio di
Stato e istituendo i Tribunali amministrativi di prime cure (art. 125 Cost., II
co.).
Tale rapporto trova le sue radici nella travagliata genesi della giustizia
amministrativa, un percorso che, dal 1865 in poi, ha avuto delle linee di
evoluzione talmente importanti da penetrare nelle idee dell’Assemblea
costituente in modo così pregnante da influenzarne, inevitabilmente, le
deteminazioni.
Nel rimandare ad autorevole dottrina le riflessioni sull’evoluzione del
sistema di giustizia amministrativa nel periodo precedente alla redazione della
Carta costituzionale289, appare utile esaminare brevemente le posizioni assunte
288 E quindi, in tal senso, nella norma prevarrebbe la figura del giudice “e la caratterizzazione
della tutela appare quindi strumentale alla configurazione dell’immagine di una giurisdizione e di un
ordine di giudici”, G. BERTI, op. ult. cit., pag. 86.
289 A. ANGELETTI, Alle origini della giustizia amministrativa, in Giur. It., 2011, pag. 4.
132
in Assemblea costituente nel momento in cui si discusse dell’opportunità di
affermare un pieno principio di unicità della giurisdizione o meno: la giustizia
amministrativa, quanto meno in astratto, poteva infatti essere affidata alla stessa
amministrazione, ad un giudice ad hoc ovvero al giudice ordinario.
Le prime due esperienze erano state già conosciute dall’ordinamento
italiano290: ci si trovava, però, nel momento in cui, a seguito dell’Unità d’Italia
e all’indomani dei lavori della Costituente, l’abolizione del contenzioso
amministrativo (l. n. 2248/1865, All. E) e l’istituzione della IV Sezione del
Consiglio di Stato (l. n. 5992/1889), avevano solcato la strada verso la divisione
di competenze291 – in senso atecnico – tra giudice ordinario e giudice
amministrativo, basata sulla distinzione tra diritto soggettivo ed interesse
legittimo, secondo il criterio della causa petendi292.
In sede costituente, pertanto, le posizioni fuono molto differenti: l’On.
Mortati, per esempio, propose non soltanto il mantenimento del Consiglio di
Stato e della Corte dei Conti, ma anche la possibilità che il legislatore potesse
essere libero di istituire giurisdizioni speciali nelle controversie tra Pubblica
Amministrazione e privati secondo le esigenze che, nel tempo, si potevano
creare; l’On. Calamandrei, viceversa, si pose in una posizione diametralmente
opposta, giacché formulò la soppressione della giurisdizone dei giudici speciali
in favore di un modello unitario di giurisdizione, in cui la funzione
290 G. BERTI, La tutela giudiziaria del cittadino verso la pubblica amministrazione, Milano, 1964.
291 Sino alla l. n. 62/1907, con la quale venne istituita la V sezione del Consiglio di Stato, non era
ancora del tutto chiara la natura giurisdizionale del giudice amministrativo.
292 F. CARINGELLA, Il riparto di giurisdizione, in www.giustizia-amministrativa.it, “Il criterio della
causa petendi si affermò grazie al c.d. concordato giurisdizionale del 1929 raggiunto tra la
Cassazione ed il Consiglio di Stato e tradottosi nelle note sentenze dell’Adunanza Pleanria del
Consiglio di Stato, nn. 1 e 2 del 1930 e delle Sezioni Unite della Cassazione n. 2680 del 1930. Pronunce
sorrette dall’idea, poi meglio sviluppata, che la ripartizione si basa sulla valutazione, da parte del
Giudice, della consistenza sostanziale della posizione in base alla qualificazione che ne dà
l’ordinamento e non sulla prospettazione che della posizione offre il ricorrente in giudizio. Il nuovo
equilibrio poggia, in definitiva, sulla natura della posizione giuridica azionata ed implicita che la
richiesta di annullamento dinnanzi al giudice amministrativo possa essere avanzata solo dal titolare
di una posizione giuridica effettivamente qualificabile, e non meramente prospettata dalla parte
secondo quanto proponeva una teoria ormai superata, come interesse legittimo”.
133
giurisdizionale veniva demandata in via esclusiva ed integrale al giudice
ordinario293; in una posizione intermedia l’On. Ruini che, sulla base di una
visione binaria dela giurisdizione, propose di introdurre gli organi locali di
giustizia amministrativa e di evitare la moltiplicazione delle altre giurisdizioni
speciali, istituendo sezioni specializzate della magistratura ordinaria.
Egli, infatti, mostrò le proprie perplessità sull’idea che “ogni autorità
giudiziaria,
anche
un
Pretore,
potesse
annullare
gli
atti
della
Amministrazione”, ma restava in lui ferma la convinzione per la quale “non si
può escludere l’annullamento per violazione dei diritti….nei casi e con gli
effetti previsti dalla legge” 294.
La maggior parte dei Costituenti, in ogni caso, si determinò ad istituire (e a
mantenere) un sistema fondato sulla duplicità delle giurisdizioni (ordinaria e
amministrativa), in cui venne innegabilmente (e, per alcuni versi, anche
inconsciamente) rafforzata la tutela della persona295, mediante il riconoscimento
costituzionale di situazioni giuridiche soggettive che, storicamente, avevano
difficoltà ad essere tutelate: i c.d. interessi legittimi296.
“Forse l’aspetto più importante del dibattito e della soluzione finale è da
rinvenirsi nell’implicito richiamo della giurisdizione esclusiva del Consiglio di
Stato, nel senso che questo era ed è il ramo più fertile, e cioè più proiettato nel
futuro, della giurisdizione amministrativa, il cui oggetto, alla lunga, e
soprattutto di fronte all’affermarsi successivo dei diritti assoluti, degli interessi
diffusi e comunque di situazioni non condizionabili nella loro ampiezza e nella
noro intensità dal potere amministrativo, non avrebbe più sopportato una
293 cfr. Atti Ass. Cost., pag. 2323 e 2596.
294 cfr. Atti Ass. Cost., pag. 3572.
295 G. ABBAMONTE, Completezza ed effettività della tutela giudiziaria secondo gli articoli 3, 24,
103 e 113 della Costituzione, in Studi in onore di F. Benvenuti, Modena, 1966, pag. 37 e ss.
296 per la cui trattazione si rimanda a F. G. SCOCA, Contributo sulla figura dell'interesse legittimo,
Milano, 1999.
134
caratterizzazione in termini di interessi legittimi contrapposti ai diritti
soggettivi” 297.
Quel che viene da chiedersi, allora, è quale sia il risultato del sistema
disciplinato dagli artt. 103 e 113 della Carta costituzionale, al fine di poter
affermare, o meno, la soggezione del giudice amministrativo ai principi esposti
nell’art. 101, II co. Cost.: si tratta di capire, insomma, se il principio di stretta
legalità nella giurisdizione, secondo i termini sopra esposti, sia applicabile in
toto alla funzione giurisdizionale esercitata dal giudice amministrativo.
La risposta non può che essere affermativa, già solo per il fatto che l’art. 101
Cost., nella sua formulazione, non distingue tra giudice ordinario e
amministrativo.
Ma a prescindere da tale considerazione, è la struttura del sistema
costituzionale amministrativo, come brillantemente esaminato dalla Corte
Costituzionale, a far addivenire, senza ombra di dubbio, a tale conclusione: ed
infatti, non si potrebbe ritenere che ad un giudice non soggetto alla legge possa
essere demandata in via esclusiva, con conseguente sottrazione di “potere” al
giudice ordinario, la risoluzione di determinate controversie riguardanti non già
gli interessi legittimi ma i diritti soggettivi.
In tal senso, il passo di seguito riportato, contenuto nella sentenza n. 204 del
6 luglio 2004, non solo riesce a penetrare nell’intima volontà del legislatore
costituente ma, nella sua semplicità, appare del tutto risolutivo: “La
Costituzione, attribuendo al giudice ordinario «il ruolo di giudice naturale dei
diritti soggettivi tra privati e pubblica amministrazione», avrebbe recepito e
fatto propri i principi ispiratori della legge n. 2248 del 1865, All. E, così
conferendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo un carattere
residuale, che può giustificare «eccezioni ma non stravolgimenti» rispetto alla
«tendenziale generalità ed illimitatezza delle attribuzioni del giudice
ordinario».
297 G. BERTI, op. ult. cit., pag. 93.
135
Anche a voler prescindere dall'irragionevolezza della scelta legislativa di
esaltare il ruolo del giudice amministrativo nel momento in cui al c.d. modello
autoritativo dei rapporti cittadino-pubblica amministrazione viene sempre più
sostituito il c.d. modello negoziale, tale scelta - unita al conferimento al giudice
amministrativo di «pienezza di poteri decisori» e quindi anche risarcitori,
perfino «al di fuori della giurisdizione esclusiva e nell'ambito della sua
giurisdizione generale di legittimità» - farebbe sì che «il giudice amministrativo
sia ormai proiettato in una dimensione civilistica che fino a ieri costituiva
territorio esclusivo del giudice ordinario», per giunta senza sottostare al
controllo nomofilattico, che costituisce anche garanzia di parità di trattamento,
della Corte di cassazione.
Del tutto correttamente i rimettenti osservano che la Carta costituzionale ha
recepito - non senza conservare traccia nell'art. 102, primo comma,
dell'orientamento favorevole all'unicità della giurisdizione - il nucleo dei
principi in materia di giustizia amministrativa quali evolutisi a partire dalla
legge abolitrice del contenzioso amministrativo del 1865: ed i lavori della
Costituente
documentano
come
«l'indispensabile
riassorbimento
nella
Costituzione dei principi fondamentali della legge 20 marzo 1865» conducesse,
da un lato, alla proposta di Calamandrei per cui «l'esercizio del potere
giudiziario
in
materia
civile,
penale
e
amministrativa
appartiene
esclusivamente ai giudici ordinari» (art. 12, discusso dalla seconda
Sottocommissione il 17 dicembre 1946) e, dall'altro lato, al testo (proposto
dagli on.li Conti, Bettiol, Perassi, Fabbri e Vito Reale) approvato
dall'Assemblea costituente nella seduta pomeridiana del 21 novembre 1947,
corrispondente agli attuali artt. 102 e 103 Cost.; e conducesse, inoltre, alla
esclusione della soggezione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte
dei conti al controllo di legittimità della Corte di cassazione, limitandolo al
solo «eccesso di potere giudiziario», coerentemente alla «unità non organica,
ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica, una divisione dei
136
vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa
parte a sé» (così Mortati, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947).
In realtà, come la dottrina ha da tempo chiarito, la legge n. 2248 del 1865,
All. E, nel momento stesso in cui assicurava tutela al cittadino davanti al
giudice ordinario per «tutte le materie nelle quali si faccia questione di un
diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica
amministrazione» (art. 2), sanciva in ogni altro caso (per «gli affari non
compresi nell'articolo precedente») la totale sottrazione a qualsiasi controllo
giurisdizionale della sfera della c.d. amministrazione pura (art. 3): in tal modo
-
anche
grazie
all'ampiezza
con
la
quale
questa
zona
"franca"
dell'amministrazione fu intesa dalla giurisprudenza, in ciò incoraggiata
dall'allora giudice dei conflitti, il Consiglio di Stato, e dal successivo giudice ex
legge 31 marzo 1877 n. 3761, le sezioni unite della Cassazione romana - la
legge del 1865 creava le premesse della legislazione successiva volta a colmare
il sempre più grave vuoto di tutela giurisdizionale da essa lasciato con il puro e
semplice ignorare tale esigenza negli «affari non compresi» nell'art. 2.
La relazione Crispi al disegno di legge, divenuto la legge (istitutiva della IV
Sezione) 31 marzo 1889, n. 5992, chiarisce infatti che «la legge 20 marzo 1865,
All. E, proclamò l'unità della giurisdizione, ma nulla avendo sostituito al
contenzioso amministrativo che abolì, rimase abbandonata alla potestà
amministrativa l'immensa somma di interessi onde lo Stato è depositario»; e
pur se soltanto la legge 7 marzo 1907, n. 62, istitutiva della V Sezione, definì
"giurisdizionale" questa e la IV Sezione, riconoscendo alle loro decisioni
l'efficacia del giudicato, la funzione giurisdizionale dell'organo, che sarebbe
stato chiamato a colmare il vuoto di tutela da essa lasciato, era già insita nella
legge abolitrice del contenzioso amministrativo.
E' evidente, quindi, l'ambivalenza del richiamo - operato così da
Calamandrei come
dai suoi oppositori
nell'Assemblea
costituente
-
all'«indispensabile riassorbimento nella Costituzione dei principi fondamentali
137
della legge 20 marzo 1865, All. E»: richiamo, che potrebbe dirsi "statico", da
parte di chi voleva colmare, nel 1947, con il giudice ordinario (eventualmente
attraverso sue sezioni specializzate), il vuoto di tutela lasciato nel 1865 ed
"abusivamente" (rispetto ai principi proclamati nell'art. 2) poi riempito da un
Consiglio di Stato che aveva, ormai, «esaurito storicamente» il suo compito
(Calamandrei, II Sottocommissione, seduta pomeridiana del 9 gennaio 1947);
richiamo, che potrebbe dirsi "dinamico", da parte di chi sottolineava che «il
Consiglio di Stato non ha mai tolto nulla al giudice ordinario» (così Bozzi, ivi)
in quanto la giurisdizione amministrativa è sorta «non come usurpazione al
giudice ordinario di particolari attribuzioni, ma come conquista di una tutela
giurisdizionale da parte del cittadino nei confronti della pubblica
amministrazione; quindi non si tratta di ristabilire la tutela giudiziaria
ordinaria del cittadino che sia stata usurpata da questa giurisdizione
amministrativa, ma di riconsacrare la perfetta tradizione di una conquista
particolare di tutela da parte del cittadino» (Leone, Assemblea, seduta
pomeridiana del 21 novembre 1947).
Sembra allora chiaro che il Costituente, accogliendo quest'ultima
impostazione, ha riconosciuto al giudice amministrativo piena dignità di
giudice ordinario per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione,
delle situazioni soggettive non contemplate dal (modo in cui era stato inteso)
l'art. 2 della legge del 1865; così come di questa legge ha, con quello che
sarebbe diventato l'art. 113 Cost., recepito il principio - «e fu per questo
ritenuta una conquista liberale di grande importanza» - «per il quale, quando
un diritto civile o politico viene leso da un atto della pubblica amministrazione,
questo diritto si può far valere di fronte all'Autorità giudiziaria ordinaria, in
modo che la pubblica amministrazione davanti ai giudici ordinari viene a
trovarsi, in questi casi, come un qualsiasi litigante privato soggetto alla
giurisdizione ... principio fondamentale che è stato completato poi con
l'istituzione delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato ... dell'unicità
138
della
giurisdizione
nei
confronti
della
pubblica
amministrazione»
(Calamandrei, Assemblea, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947)” 298.
In definitiva, si può affermare senza indugio alcuno che gli organi a cui è
affidato
l’esercizio
della
funzione
giurisdizionale,
nelle
controversie
amministrative aventi ad oggetto l’espressione di pubblici poteri, sono
vincolati, ex art. 101, II co., Cost., all’applicazione incondizionata della fonte
primaria e degli atti da essa richiamati e ad essa conformi.
Nonostante tale principio appaia pacifico e di facile comprensione, si può
anticipare che l’andamento giurisprudenziale degli ultimi anni e, non di meno,
il modello processuale recentemente introdotto dal legislatore ordinario per la
risoluzione delle controversie di diritto amministrativo, sembrino discostarsi da
tali linee, giacché in troppi casi si assiste ad un esercizio della funzione
giurisdizionale che tende a discostarsi da parametri legislativi preordinati e ad
affidarsi al puro e semplice “gioco delle parti”, il che sembrerebbe contrastare
con quanto stabilito dall’art. 101 Cost.
E’ su alcuni esempi di quanto appena detto che si concentrerà la fase finale
del presente lavoro.
298 Si cfr., inoltre, anche con riguardo al limite, imposto al legislatore, di affidare alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo situazioni giuridiche soggettive riconducibili a
diritti soggettivi, Corte Cost., sent. n. 191/2006 e n. 140/2007, ove viene affermata la legittimità di
quelle disposizione legislative volte a concentrare innanzi al giudice amministrativo “l’intera
protezione del cittadino avverso le modalità di esercizione della funzione pubblica”, in quanto giudice
pienamente “idoneo ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti,
coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa”.
139
CAPITOLO 4: LA SOGGEZIONE DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO ALLA SOLA
LEGGE E IL PROCESSO AMMINISTRATIVO: ANALISI E CRITICA.
4.1. UNA BREVE INTRODUZIONE.
Nelle pagine addietro si è tentato di analizzare il rapporto intercorrente tra
potere legislativo e potere giudiziario in un preciso e delimitato ambito
dell’ordinamento, ovvero quello denominato giudizio, in cui i suddetti poteri si
integrano e “collaborano” tra loro, al fine di addivenire alla soluzione di una
fattispecie concreta.
La “chiave” per attuare tale dinamica o, forse ancor meglio, il “metro”
mediante il quale mirare al suddetto fine, risiede in un principio, dettato dal
legislatore costituente all’art. 101, II co., Cost., di stretta legalità nella
giurisdizione, per i motivi e con gli effetti sistematici che si confida di aver
ampiamente illustrato.
Arrivati a tale punto della trattazione, forse influenzati dalla lettura delle
pagine di Montesquieu, non si è resistito all’idea, nel volgere lo sguardo alla
concreta applicazione del suddetto principio, di esaminare alcuni casi
riguardanti il processo amministrativo: il fascino di cimentarsi con tali
problematiche deriva dal complesso e faticoso iter con cui la giurisdizione
amministrativa si è affermata in Italia, nonostante ad essa siano stati affidati
quei conflitti che sorgono nell’ambito del delicato ruolo attribuito allo Statoamministrazione, concernente la cura “[de]gli interessi concreti che
l’ordinamento giuridico, espressione dello Stato-comunità, riconosce (in base
alle scelte politiche) come proprie dello Stato-soggetto in un certo momento
storico” 299.
Non bisogna, infatti, dimenticare l’importanza dell’attività amministrativa,
che deve “provvedere alla soddisfazione dei bisogni, vuoi della vita dello Stato,
come unità a sé, vuoi collettivi popolari, di cui lo Stato assume la difesa o la
299 A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1982, pag. 7.
140
cura. Bisogni dello Stato, come di essere garantito nella sua esistenza e
integrità nei rapporti interni e internazionali (preparazione della forza armata,
costruzione di fortezze, in genere preparazione di tutti i beni e mezzi necessari
alla difesa nei rapporti con l’estero, ecc.); di porre e mantenere al suo servizio
le persone necessarie per i suoi uffici; di avere e disporre dei beni occorrenti
per l’attuazione dei suoi compiti; e così via. Bisogni collettivi popolari, quali la
tutela della libertà individuale, dell’ordine, della pace, della giustizia nella
coesistenza e nella cooperazione sociale; la prestazione dell’assistenza a favore
delle nuove generazioni, per la loro formazione fisica e spirituale; la
prestazione dell’assistenza agli adulti, che non siano in condizione di
provvedere da sé ai propri bisogni per malattia, vecchiaia, disoccupazione
involontaria, ecc.; la prestazione dei servizi pubblici, che valgono a realizzare
nella vita sociale le condizioni esterne necessarie per lo svolgimento della vita
stessa (costruzione e manutenzione di strade ordinarie; costruzione ed esercizio
di strade ferroviarie; impianto ed esercizio di servizi postali, telegrafici, ecc.).
Tutta questa attività che ha per compito di provvedere alla soddisfazione dei
bisogni sia dello Stato, come unità a sé, sia del popolo, cioè in genere
soddisfare i bisogni collettivi, che sono nei fini dello Stato, è amministrazione
in senso materiale o obiettivo. E atto amministrativo, in senso materiale o
obiettivo, è la dichiarazione di una volontà, di un giudizio, ecc., di un organo
dello Stato (legislativo, giurisdizionale o amministrativo) o di altro ente
pubblico, che sia esplicamento dell’attività di amministrazione” 300.
300 O. RANELLETTI, Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, IV Ed., Milano,
1934, pag. 24 e ss. Aggiunge ancora che “l’amministrazione cura la soddisfazione dei bisogni e
interessi pubblici, cioè l’attuazione concreta delle finalità, che lo Stato si propone. Amministrazione in
generale, e in ogni campo, è maneggio di affari, cura di interessi. Non si può, quindi, con proprietà
dire che la legislazione e la giurisdizione soddisfano anch’esse bisogni dello Stato e del popolo. Il
bisogno esprime una esigenza della vita, ed è dato dalla mancanza di ciò che per la vita ci è necessario
o utile, cioè di un bene. E soddisfare un bisogno vuol dire procurare, prestare questo bene. Ora, col
regolare i rapporti tra subbietti di diritto, col risolvere questioni giuridiche tra essi, non si soddisfano
i loro bisogni, ma solo si pongono le condizioni perché i bisogni siano soddisfatti, con le prestazioni a
ciò necessarie. Queste prestazioni, per la soddisfazione dei bisogni pubblici, fa lo Stato nell’attività
amministrativa”.
141
Ed è proprio sull’atto amministrativo, prescindendo in questo momento dalla
vexata quaestio sul riparto di giurisdizione secondo il criterio della causa
petendi o del petitum e dai giudizi concernenti il risarcimento del danno subito
dal privato a seguito dell’esercizio del pubblico potere, che il giudice esercita la
propria funzione, con la conseguenza che il ruolo a questo attribuito nel sistema
costituzionale italiano non ha soltanto un enorme rilievo giuridico ma, per i fini
che qui interessano, si contraddistingue per una innegabile importanza sociale,
che deriva, specularmente, da quella affidata all’amministrazione dello Stato,
volta ad incidere sull’interesse generale di tutta la comunità, consentendone la
permanenza e l’evoluzione.
In questo senso, allora, il principio di stretta legalità nell’ambito della
giurisdizione amministrativa parrebbe assumere un quid pluris: se, come ci si
perita di sostenere e di credere, lo Stato costituzionale di diritto, in Italia come
in altri Paesi, nasce dall’esigenza di dare preminenza alla dignità umana,
mediante l’attuazione di una pacifica convivenza basata sul principio
democratico e sul principio di uguaglianza, allora l’ordinamento trova la sua
naturale estrinsecazione soltanto nel momento in cui la legittimità dell’attività
amministrativa – che deve esercitare il pubblico potere allo scopo primario di
raggiungere obiettivi comuni, pur tutelando gli interessi dei singoli – venga
vagliata
da
un
soggetto
che,
nell’esercizio
della
propria
funzione
giurisdizionale, sia strettamente vincolato all’applicazione della norma
approvata dai rappresentanti del popolo sovrano.
Il rispetto della fonte primaria da parte del giudice amministrativo, insomma,
assume forse un rilievo maggiore – quanto meno, lo si ripete, da un punto di
vista sociale – proprio perché il sindacato di questi incide su una funzione
pubblica, quella di amministrare, estremamente importante per il cittadino, il
quale pretende, così come vuole la Costituzione, che venga applicata la norma
approvata dai propri rappresentanti: in altra sede, quella elettiva, egli esperirà le
proprie valutazioni sulla volontà politica della norma.
142
E’ partendo da queste considerazioni che, nei passi successivi, saranno
analizzate due questioni: la prima concerne i limiti “interni” posti al sindacato
del giudice amministrativo in un processo; la seconda, riguarda i limiti esterni
della giurisdizione amministrativa.
143
4.2 DIRITTO AMMINISTRATIVO E PROCESSO AMMINISTRATIVO SOTTO
LA LUCE DEL DIRITTO OGGETTIVO. I LIMITI INTERNI ALLA
GIURISDIZIONE.
Per poter intendere in modo completo come l’art. 101, II co. Cost., si
inserisca nel contesto di cui si discute, occorre preliminarmente fare alcune
brevissime osservazioni in ordine ai concetti di diritto amministrativo e di
processo amministrativo, per poi volgere lo sguardo verso i poteri attribuiti al
giudice amministrativo rispetto alla res iudicanda e, infine, trattare la nota
questione della violazione dei limiti esterni della giurisdizione.
Innanzitutto, occorre precisare che i concetti di amministrazione,
organizzazione amministrativa, azione amministrativa e via dicendo, sono
apparsi nei vari ordinamenti giuridici alla fine del XVIII secolo, per poi
diffondersi in quelli successivi.
Certo, già da molto tempo prima si assisteva a fenomeni sociali in cui
determinate popolazioni si erano organizzate per dar vita ad un apparato
strutturale avente il compito di amministrare il territorio (si pensi, per esempio,
all’impero faraonico, a quello persiano, a quello romano, a quello bizantinto
etc.)
301
: tuttavia, se tali organizzazioni risultano di elevata importanza da un
punto di vista sociologico, non può negarsi che ad esse non può essere attribuito
alcun valore di amministrazione pubblica in senso giuridico, giacché la loro
esistenza non era disciplinata da norme ad esse proprie, ma da quelle di diritto
privato302.
301 Per un interessante compendio delle organizzazioni sorte prima del XVIII secolo al fine di
amministrare il territorio, si rinvia a M. S. GIANNINI, Corso di diritto amministrativo. Dispense anno
accademico 1964-1965, Milano, 1965, pag. 2 e ss.
302 M. S. GIANNINI, voce Amministrazione pubblica, in Enc. del diritto, Milano, 1958, pag. 231 e
ss.: “Una storia degli apparati amministrativi, e della disciplina delle attività ad essi attribuite, è
possibile solamente come narrativa episodica e sezionale: altrimenti essa coincide senza residui con la
storia del diritto pubblico. Sino a quando infatti non si verifica l’evento per cui l’apparato
amministrativo, assumendo rilevanza giuridica separata, diviene pubblica amministrazione,
l’organizzazione costituzionale dei pubblici poteri è tutt’uno con l’organizzazione amministrativa e
con quella giudiziaria, e l’attività dei pubblici poteri conosce delle partizioni, che si pongono come
articolazioni di un’attività unitaria, e non invece come attività separate legate da rapporti
144
E’ mancata, insomma, sino alla seconda metà del XVIII secolo, una
disciplina giuridica, una scienza giuridica che si occupasse dello Stato e dei
rapporti tra esso e i cittadini, tenendo in considerazione i diritti fondamentali di
questi ultimi303: affermava Garelli, già nel 1872, che “i governi liberi sono
ancora recenti, e il diritto amministrativo non poteva spiegarsi nel suo
razionale concetto, finché dall’ordine naturale della libertà non sorgessero le
giuste nozioni di cittadino e dello Stato” 304.
Generalmente, allora, la genesi del diritto amministrativo viene attribuita
dalla dottrina ad un percorso formatosi a partire dalla rivoluzione francese,
allorché in Europa, insieme alla nascita dello Stato di diritto e dello Stato
costituzionale di diritto305, si è affacciata l’idea di un modello di
amministrazione stabile e giuridicamente disciplinato306, sorto a seguito di
organizzativi preordinati. […] Il momento dell’assunzione della rilevanza giuridica di questo
complesso organizzativo si avrà quando esso comincerà ad usare un corpo di norme giuridiche
proprie, le quali potranno essere indifferentemente tanto un ramo speciale del diritto comune ai
privati e ai pubblici poteri, quanto un corpo di norme separate, che col tempo daranno origine al
diritto amministrativo: la prima esperienza – diritto privato speciale – sarà quella dei Paesi di tipo
anglosassone, la seconda quella dell’Europa continentale”.
303 L. MEUCCI, Instituzioni di diritto amministrativo, Torino, 1892, pag. 10: “La scienza del diritto
amministrativo comincia solo allora che gli istituti stessi sono animati da principi dedotti dalla natura
stessa dell’uomo e della società; e ciò avviene quando nello spirito di un popolo nasce e vige l’opera
della riflessione filosofica e questa si applica a’ rapporti della vita sociale. Allora appunto sorge un
vero diritto pubblico, fondato principalmente sul concetto dello Stato e de’ suoi naturali rapporti co’
cittadini. Ma perché poi lo studio del diritto pubblico si volga separatamente all’amministrazione, è
necessario che si formi innanzi agli occhi del giureconsulto un modello reale di Stato nel quale la
distinzione di poteri, di ordini, di uffici da un lato, e di libertà costituzionali dall’altro facciano
nascere questioni, indagini e rapporti che richiamino per la loro importanza l’attenzione sua”.
304 G.. E. GARELLI, Il diritto amministrativo italiano, Torino, 1872, pag. 3.
305 G. JELLINEK, Verwaltungsrecht, Berlino, 1931, pag. 88; F. FLEINER, Institutionen des deutschen
Verwaltungsrecht, Tubingen, 1928, pag. 35.: entrambi gli autori fondano l’esistenza del diritto
amministrativo nello Stato costituzionale di diritto.
306 M. S. GIANNINI, op. ult cit., pag. 31 e ss.: “Il tipo strutturale a diritto amministrativo è il
risultato di una sintesi, che fu compiuta, tra appassionati e talor drammatici contrasti, da un gruppo
abbastanza cospicuo di uomini, di ogni parte d’Europa, in particolare francesi e italiani, che si
occupavano di diritto, ma erano insieme filosofi, politici, economisti ed educatori: nell’Italia del sud si
chiamavano legisti, nome che l’autorità di Salvemini ha diffuso e generalizzato. Uomini tutti
fortemente impegnati, che furono formatori di pubblica opinione ed elaboratori di nuove idee
costruttive”.
145
numerose fasi che, con tempi relativamente diversi, si sono avute in numerosi
Paesi europei, come Francia, Inghilterra, Spagna ed Italia307.
Tale modello ebbe sin dall’inizio il pregio di attirare su di sé quei principi
che le esperienze di tutta Europa avevano, sino a quel momento, maturato, e
che avevano contribuito a creare, nei vari Paesi, un nuovo ramo del diritto
pubblico: “il diritto amministrativo deriva quindi dal confluire delle tre
maggiori esperienze politico giuridiche europee dell’epoca (inglese, francese,
austriaca), e dà vita ad un’esperienza nuova, fondata sul concetto centrale
dell’autorità dello Stato, a cui adatta quanto delle esprienze matrici conserva:
il funzionario della corona diviene così funzionario dello Stato, l’organo della
corona organo dello Stato, la gerarchia degli ufficiali pubblici gerarchia degli
uffici, l’atto del principe provvedimento amministrativo, la forza dell’atto
diviene imperatività del provvedimento, la coercibilità dell’osservanza dell’atto
del principe dà vita all’autotutela, e si potrebbe ancora a lungo proseguire”308.
Gli storici ritengono che la “pietra angolare” che ha definitivamente fondato
il diritto amministrativo in questa sua nuova concezione sia stata posta allorché,
per la prima volta, la magistratura d’oltralpe iniziò a distinguere il diritto
applicabile ai rapporti tra privati da quello applicabile ai rapporti tra pubblica
307 S. CASSESE, Le basi del diritto Amministrativo, Milano, 2000, pag. 2: “La fase preparatoria
della storia dell’amministrazione si svolge, nel mondo occidentale, nel periotdo tra il XIV ed il XVIII
secolo. Si comincia in Francia ed Inghilterra, seguite dalla Spagna; Germania ed Italia arriveranno
successivamente. La fase preparatoria è composta di varie fasi: 1) unificazione nazionale mediante
coalizione; 2) legittimazione originale e non derivata dei governanti (re); 3) in periferia, sostituzione
dei nobili con i funzionari; 4) vendita degli uffici; 5) combinazione tra interessi pubblici e privati; 6)
costituzione di una burocrazia stabile (il motto era l’imperatore passa, i generali restano)”.
308 M. S. GIANNINI, op. ult. cit., pag. 32: “Il tipo strutturale a diritto amministrativo assume:
- da quello inglese il principio costituzionale di divisione dei poteri, nella forma che allora era più
diffusa (separazione necessaria e controllo reciproco di organizzazione); l’organizzazione
amministrativa fa parte del potere esecutivo;
- dalla stessa fonte assume l’idea del non arbitrio del potere pubblico, che elabora come principio
del primato della funzione normativa, e ne deriva il principio di legalità dell’azione amministrativa;
- dal pensiero giuridico comune, enuclea il principio costituzionale dell’assolutezza della
giurisdizione, da cui deriva il riconoscimento di situazioni giuridiche soggettive tutelabili dinanzi al
giudice; e ne fa applicazione alle libertà e ai diritti fondamentali, creando la categoria dei diritti
soggettivi a contenuto pubblico”.
146
amministrazione e soggetti privati: ciò accadde nel 1872, con il caso
concernente Agnès Blanco contro la Manifattura dei tabacchi di Bordeaux e,
quindi, contro lo Stato francese309.
Il diritto amministrativo in senso moderno, insomma, muove i suoi
primissimi passi in Francia, nell’età del liberalismo, allorché venne affermata la
sua specificità rispetto al diritto privato, specificità che creò uno spazio in cui le
prerogative dell’amministrazione potevano essere messe in discussione, in base
alla legge, dai cittadini, dinnanzi ad un giudice speciale, il Consiglio di Stato310.
In Italia, così come nel resto d’Europa, il diritto amministrativo moderno
rappresenta il nascere di un limite all’attività pubblica, sì da creare all’interno di
uno Stato di diritto un sistema di amministrazione che fosse concretamente
vincolato dalla legge e che, per tale suo scopo, legittimasse i cittadini ad un
controllo “diffuso” dell’esercizio del pubblico potere, laddove questo incidesse
con gli interessi che questi avrebbero fatto valere in giudizio: ovviamente il
percorso seguito fu, come nel resto d’Europa, molto lungo e travagliato, in
guisa tale che non è possibile operare in questa sede una dettagliata
309 Il caso era il seguente: una bambina di cinque anni e mezzo, Agnes Blanco, nella strada che
separava due magazzini dello stabilimento di Bacalan dall'azienda dei tabacchi di Bordeaux, fu
investita da un carro delle relative manifatture e, a seguito del ribaltamento dello stesso, subì
l'amputazione di una gamba. Il padre della bambina iniziò, dinanzi al Tribunale civile di Bordeaux,
una causa contro i quattro operai, dipendenti del servizio pubblico, che conducevano il carico, ma
citò in solido anche lo Stato francese, allo scopo di ottenere il riconoscimento della “responsabilité
pour faute” ed il conseguente risarcimento del danno. Il prefetto della Gironda, nella veste di
rappresentante dello Stato, declinò la competenza del Tribunale civile di Bordeaux e venne sollevato
un conflitto di giurisdizione, “arrêté de conflit”, dinanzi al «Tribunal des conflits». Il Tribunale dei
conflitti, l'8 febbraio 1873, emette la sua decisione e stabilisce: “La responsabilité qui peut incomber
à l'Etat pour les dommages causés aux particuliers par le fait des personnes qu'il emploie dans les
divers services publics n'est pas régie par les principes établis, dans les art. 1382 et suivant C. civ.,
pour les rapports de particulier à particulier. Cette responsabilité, qui n'est ni générale ni absolue, a
ses règles spéciales qui varient suívant les besoins du service et la nécessité de concilier les droits de
l'Etat avec les droits privés. C'est, des lors, à l'autorité administrative, et non aux tribunaux ordinaires,
qu'il appartient de l'apprecier”. Il Tribunale dei conflitti affermò, insomma, che il giudice
competente per le controversie in materia di “service public” ("funzione pubblica" o
amministrativa) non era il giudice ordinario, bensì il giudice amministrativo. Cfr. M. D’ALBERTI,
Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 2012.
310 S. CASSESE, Il diritto amministrativo: Storia e Prospettiva, Milano, 2010.
147
ricostruzione di tutti gli avvenimenti che contribuirono a creare nel nostro Paese
il ridetto sistema (senza considerare le variopinte sfaccettature proprie
dell’Italia, come, ad esempio, la parentesi fascista); tuttavia, si può comunque
dar conto di alcuni passi fondamentali dai quali si può agevolmente evincere
che la nascita del diritto amministrativo in senso moderno è andata di pari passo
con l’evoluzione del sistema di controllo sugli atti emessi dalla pubblica
amministrazione: non a caso, una elaborazione condivisa del concetto di
interesse legittimo si è avuta a seguito della promulgazione della legge del
1889, istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato.
Nell’Italia preunitaria e prima del 1865, infatti, le controversie concernenti
l’incidenza dell’esercizio dell’attività amministrativa nella sfera giuridica dei
privati venivano decise dai Tribunali del contenzioso amministrativo, organi
interni alla pubblica amministrazione: la giustizia amministativa, insomma,
veniva gestita internamente dalla pubblica amministrazione, sicché le istanze di
tutela presentate dai cittadini assumevano una vera e propria forma di
reclamo311.
Con l’Unità d’Italia, avvenuta mediante la promulgazione della legge n.
4671 del Regno di Sardegna con la quale il 17 marzo 1861, a seguito alla seduta
del 14 marzo dello stesso anno della Camera dei deputati, fu approvato il
progetto di legge del Senato del 26 febbraio 1861, iniziò un dibattito che sfociò,
nel 1865, nella legge n. 2248 che, nell’abolire il contenzioso amministrativo,
attuò concretamente un’idea, che si era diffusa in quegli anni, secondo la quale
l’amministrazione doveva rimanere separata dal potere giudiziario 312: la l. n.
2248 del 1865 e, in particolare, l’All. E, affidò pertanto il giudizio nei confronti
degli atti della pubblica amministrazione al giudice ordinario, ma soltanto per
311 M. BERTETTI, Il contenzioso amministrativo in Italia o l’Amministrazione e la giustizia, Torino,
1865.
312 S. CASSESE, Il diritto amministrativo: Storia e Prospettiva, Milano, 2010.
148
quanto atteneva i diritti politici e civili313, attribuendo, invece, all’autorità
amministrativa, tutte le rimanenti situazioni che successivamente sarebbero
state qualificate come interessi legittimi.
In un’Italia già divisa in due, in cui si assisteva ad una prima
industrializzazione del Nord contrapposta all’arretratezza del Mezzoggiorno, si
arrivò, con piccoli passi314, al completamento dell’iter iniziato con la legge del
1865, mediante l’emanazione della legge n. 5992 del 1889, che istituì una
sezione nel Consiglio di Stato, la IV, con funzioni giuisdizionali, che avrebbe
avuto il ruolo, quindi, di giudicare quelle situazioni giuridiche soggettive
definite interessi legittimi che, fino a tale momento, erano rimaste sfornite di
tutela giudiziaria. “Conseguentemente, posto che intanto si può parlare di
situazione giuridica soggettiva in quanto ci sia un giudice in grado di accertare
e di accordare ad essa una tutela adeguata, benché già la dottrina precendente
alla legge Crispi avesse cercato di delineare la nozione di interesse legittimo,
l’atto di nascita dell’interesse legittimo è senz’altro da individuare nella legge
del 1889. Tale legge, infatti, inaugurando nel nostro ordinamento il sistema del
cd. <<doppio binario di giurisdizione>>, crea un organo giurisdizionale ad
313 Generalmente, si è concordi nel ritenere che la legge abolitrice del contenzioso
amministrativo introdusse l’istituto della disapplicazione incidenter tantum degli atti amministrativi
da parte del giudice ordinario. Sul punto si rinvia a folta e nutrita dottrina, tra gli altri: P. VIRGA, La
tutela giurisdizionale nei confronti della Pubblica Amministrazione, Milano, 2003; ROMANO, La
giurisdizione amministrativa e limiti alla giurisdizione ordinaria, Milano, 1975; E. CANNADA-BARTOLI,
L'inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950; A. LUGO, La dichiarazione incidentale di
inefficacia dell'atto amministrativo, in Studi in onore di Calamandrei, Padova, 1958; G. CONTENTO,
Giudice penale e pubblica amministrazione, Bari, 1979. Per una lettura diversa di tale istituto, in cui
si sostiene, a prescindere dal dato storico, una sua previsione tra le maglie delle norme
costituzionali oggetto anche della presente trattazione, cfr. R. GUASTINI, Il giudice e la legge, Milano,
1995; G. TULUMELLO, « Disapplicazione » in Dizionario di diritto pubblico, diretto da Sabino Cassese,
Milano, 2006, se vuoi, sulla disapplicazione del giudice penale, A. TRIPODI, La disapplicazione degli
atti amministrativi da parte del giudice penale. Profili costituzionali (a proposito di Cass. pen., sez. I,
n. 10407, 24 febbraio 2010), in Foro Amministrativo C.D.S., n. 9/2010.
314 Prima dell’emanazione di tale legge, si tentò di ampliare la competenza contenziosa del
Consiglio di Stato, dapprima con un progetto di legge a firma di Crispi nel 1873, poi con Nicotera
nel 1877 e con Depretis nel 1886. Si ricorda che le prime tre sezioni del Consiglio di stato erano
state istituite in epoca sabauda per le funzioni consultive al Governo.
149
hoc (la IV sezione del C.d.S., appunto), cui viene devoluta la tutela di quegli
interessi che più tardi la dottrina qualificherà come legittimi”315.
Ora, tralasciando le seppur fondamentali linee evolutive che, da tale
situazione storica, hanno portato all’inserimento degli interessi legittimi nella
Carta costituzionale, così come sopra si è avuto modo di constatare, il dato che
interessa in questa sede è quello che, per ragioni storiche, sociologiche e
giuridiche, finisce con l’individuare il fulcro, e al contempo la genesi del
sistema amministrativo in Italia nel suo complesso, in un triangolo, che è
composto per due lati da funzione pubblica e interesse legittimo, nella
“angolatura” generata, nei limiti della legge, dalla pubblica amministrazione e,
per l’altro, dal sistema giurisdizionale amministrativo, che ha il compito di
esercitare un sindacato su tale equilibrio, nei modi e nelle forme stabilite dalla
legge.
E’ nel binomio, o forse meglio nell’endiadi, interesse pubblico-interesse
legittimo che si viene a fondare il sistema amministrativo italiano e, per
l’effetto, il suo apparato giurisdizionale, così da venir definitivamente
strutturato, ma com’è ben noto con difficoltà e problematiche sempre più
specifiche, il riparto di giurisdizione316: il taglio netto con il passato, insomma,
dal quale nasce il diritto amministrativo in senso moderno, è consistito nel
315 R. GALLI, Corso di diritto Amministrativo, Padova, 2011, pag. 58 - 59. Precisa l’A.: “L’interesse
legittimo, che si caratterizza per essere una situazione soggettiva tipica del nostro sistema giuridico,
sconosciuta agli ordinamenti stranieri (fatta eccezione per quello spagnolo, che fa riferimento agli
interessi legittimi nell’art. 24 della sua Costituzione), fa il suo ingresso ufficiale nel nostro
ordinamento, come situazione giuridica soggettiva garantita nei confronti della P.A., con la legge n.
5992 del 1889 (cd. Legge Crispi) istitutiva della IV sezione (giurisdizionale) del Consiglio di Stato, cui
venne devoluta la tutela di quegli interessi che la dottrina non tardò a definire come <<interessi
legittimi>>. In realtà già l’art. 3 della legge del 1865 n. 2248 all. E, abolitrice dei tribunali del
contenzioso amministrativo, aveva individuato, accanto ai diritti soggettivi, devoluti alla
giurisdizione ordinaria (c.d. sistema della giurisdizione unica), altri interessi sostanziali configurabili
nei rapporti con la P.A., che, però, rimanevano del tutto sforniti di garanzia giurisdizionale, essendo
tutelabili soltanto attraverso il sistema dei cd. rimedi giustiziali, di competenza amministrativa”.
316 Per approfonfimenti sulle problemtiche concernenti il riparto di giurisdizione si rinvia a M.
MAZZAMUTO, Il riparto di giurisdizione. Apologia del diritto amministrativo e del suo giudice, Napoli,
2008.
150
fondare l’attività amministrativa sulla legge e nel porre in essere un sistema di
giustizia che ne potesse sindacare la legittimità; in definitiva, l’autoritatività
dell’agere della pubblica amministrazione, in un Paese democratico basato sui
principi di uguaglianza e di legalità, trovava la sua giustificazione soltanto ove
fosse diramato dalle radici della legge e dagli atti ad essa equiparati o su di essa
fondati.
In tale ottica, ben si comprendono tutte le difficoltà, sfociate in differenti
soluzioni, nel dare una definizione di interesse legittimo, di cui si offre un breve
compendio nel seguente, autorevole passo317: “Trovò affermazione, in un primo
momento, la teoria dell’interesse occasionalmente protetto, che ricostruiva
l’interesse legittimo come una situazione sostanziale di interesse strettamente
connesso con l’interesse pubblico, e quindi protetto dall’ordinamento soltanto
attraverso la tutela giuridica accordata all’interesse pubblico medesimo
(MEUCCI, RANELLETTI, ZANOBINI). In altre parole, l’interesse legittimo si
configurerebbe, in base a questa tesi, come un interesse materiale individuale
protetto dalla legge non direttamente ed intenzionalmente, ma solo in via
indiretta e riflessa, e cioè in occasione della sua violazione da parte di un atto
amministrativo illegittimo. […] L’interesse legittimo, infatti, si concretizzerebbe
nello specifico svantaggio che un soggetto subisce per effetto dell’adozione di
un atto illegittimo da parte della P.A., momento che segnerebbe, altresì, la
nascita dell’interesse legittimo (NIGRO).
Benché la tesi in esame colga nel segno quando afferma che l’interesse
legittimo si muove sul piano sostanziale, essendo un modo di protezione
dell’interesse individuale al pari del diritto soggettivo, essa è stata criticata
dalla dottrina successiva. Difatti si è obiettato, in primo luogo, che non è
sempre vero che, attraverso la rimozione dell’atto amministrativo illegittimo, si
realizzi l’interesse pubblico, potendovi essere un atto illegittimo ma opportuno
(Giannini). Ma soprattutto si è sottolineato come, attribuendo rilevanza
317. R. GALLI, op. ult. cit., pag. 60 e ss.
151
all’interesse legittimo sulla base di una norma esclusivamente rivolta alla
disciplina del potere pubblico e alla soddisfazione dell’interesse pubblico, si
finisce per affermare che gli interessi legittimi sorgono in relazione a norme
che per definizione non si occupano di essi. E, certo, non è concepibile che una
norma, che per definizione ignori l’interesse privato, avendo esclusivamente
riguardo all’interesse pubblico, finisca poi col proteggerlo, sia pure
indirettamente (NIGRO); in altri termini non è concepibile una situazione
giuridica garantita da norme che la ignorino.
Proprio l’intrinseca debolezza della configurazione dell’interesse legittimo
come interesse solo eventualmente ed occasionalmente protetto, ha facilitato il
sorgere e l’affermarsi delle teorie cd. processuali. Sostanzialmente negatrici
dell’interesse legittimo, quale figura giuridica autonoma, queste tesi tentano di
svilirlo ad una dimensione puramente processuale, riducendolo a mera entità
di fatto, <<in cui il ricorrente trova non già il titolo da far valere col ricorso,
ma semplicemente la legittimazione a proporlo>> (GUICCIARDI).
[…] Le tesi processualistiche (cui devono essere ricondotte anche quelle che
concepiscono l’interesse legittimo come potere di relazione contro il
provvedimento illegittimo, potere concepito a volte come potere di
annullamento, altre come puro potere d’azione – CHIOVENDA) sono tutte
accomunate da ciò che il criterio di individuazione dell’interesse legittimo
ancora una volta è dato dallo <<specifico svantaggio che un individuo riceve
dall’atto rispetto agli altri membri della collettività; ed è un evento di fatto, non
ha cioè radice in una volontà qualificatrice dell’ordinamento>> (NIGRO).
L’interesse legittimo, allora, nasce solo nel momento in cui l’interesse
materiale, quale mero interesse di fatto, viene leso dall’atto amministrativo
illegittimo. Esso viene identificato, più o meno consapevolmente, con l’interesse
a ricorrere, in quanto, prima dell’adozione del provvedimento e al di fuori del
processo, l’interesse materiale non ha alcuna rilevanza; è solo con la lesione,
operata dall’atto amministrativo, che scatta la protezione ad esso concessa
152
dall’ordinamento nella forma di potere di reazione processuale avverso l’atto
lesivo; è solo con l’emanazione del provvedimento illegittimo, cioè, che emerge
l’interesse legittimo come potere di provocare l’annullamento dello stesso.
Le tesi processuali sono oggi decisamente respinte. Basti pensare che al
titolare dell’interesse materiale vengono riconosciute forme di reazione anche
non processuali […].
All’interno delle tesi cd. sostanziali è possibile individuare un ampio fascio
di posizioni dottrinali, accomunate dal riconoscimento del carattere sostanziale
dell’interesse legittimo.
Secondo una ricostruzione (BERTI), <<l’origine dell’interesse legittimo è
dentro l’atto>>, ossia l’interesse legittimo nasce solo con il provvedimento.
[…] Altre impostazioni, invece, sulla base dei poteri e delle facoltà che il
privato può esercitare già prima dell’adozione dell’atto, in occasione
del’esercizio del potere amministrativo, non si limitano ad affermare la natura
sostanziale di interesse legittimo, ma ritengono che esso nasca già prima
dell’adozione dell’atto, nel momento stesso in cui si apre il procedimento
amministrativo.
Tra questi due poli estremi si pongono poi delle teorie intermedie.
Parte della dottrina ha, infatti, identificato l’interesse legittimo con un
interesse (strumentale) alla legittimità degli atti amministrativi. Su posizioni
sostanzialmente indentiche si pongono coloro che parlano di interesse al
corretto esercizio del potere amministrativo o di interesse a che
l’amministrazione eserciti i suoi poteri in modo conforme alle leggi
(SANDULLI).
[…]
L’interesse
legittimo
diventa,
in
quest’ottica,
una
<<situazione soggettiva di vantaggio, costituita dalla protezione giuridica di
interessi (materiali), che si attua non direttamente ed autonomamente, ma
attraverso la protezione indissolubile ed immediata dell’interesse meramente
strumentale del soggetto alla legittimità dell’atto amministrativo, mediante
l’attribuzione al soggetto stesso della potestà di ricorso alle giurisdizioni
153
amministrative e nei limiti della realizzazione di quest’ultimo interesse>>
(CASETTA)[….].
In realtà, la tesi che configura l’interesse legittimo come interesse
(strumentale) alla legittimità degli atti amministrativi, confonde il problema
della definizione dell’interesse legittimo col problema dei limiti entro i quali
esso è protetto, in quanto fa della legittimità, che è il limite della protezione
accordata alla situazione giuridica soggettiva in esame, l’oggetto dell’interesse
protetto[…].
Secondo la dottrina più recente (GIANNINI, NIGRO, GALATERIA-STIPO)
l’interesse che l’ordinamento intende proteggere attraverso la situazione
giuridica in esame è pur sempre l’interesse ad un bene della vita, cioé
l’interesse effettivamente avvertito dal privato. Ed anzi tale interesse viene
tutelato dall’ordinamento in via diretta ed immediata, al pari di quanto accade
per il diritto soggettivo. Il che è confermato dalla nostra Carta costituzionale,
che attraverso il combinato disposto degli artt. 24, 103 e 113, ha chiaramente
individuato due situazioni giuridiche soggettive, entrambe oggetto diretto di
tuela giurisdizionale, che appaiono come entità qualitativamente omogenee.
[…] La caratteristica dell’interesse legittimo è data da ciò che il
soddisfacimento dell’interesse-presupposto non dipende dal comportamento del
titolare dello stesso (come accade, invece, nel diritto soggettivo, che si è
identificato come <<agere licere>>), ma da quello di un soggetto diverso,
ossia la P.A. nell’esercizio delle sue attività pubblicistiche. […] Orbene, è
ormai unanimamente riconosciuto che la potestà abbia come caratteristica
essenziale quella di essere situazione giuridica unilaterale (il cui titolare è,
cioè, solo la P.A.), che coinvolge nel suo esercizio non solo l’interesse pubblico
(per la cui cura la potestà stessa è attribuita alla P.A.), ma anche interessi di
altri soggetti. <<L’interesse pubblico non è, cioè, un interesse che incorpora o
nega gli interessi privati, ma convive con essi di volta in volta sacrificandoli o
soddisfacendoli>> (Nigro). E’, allora, la stessa norma attributiva del potere
154
che, non solo non prescinde dalla considerazione degli interessi privati
coinvolti nell’esercizio del potere, ma impone alla P.A. di adottare la soluzione
che meglio contemperi l’interesse pubblico con gli interessi privati […].
In conclusione si può affermare che l’interesse legittimo si concretizza nella
possibilità riconosciuta al privato di partecipare alla funzione amministrativa,
di cui il procedimento rappresenta la forma. […] Possiamo definire l’interesse
legittimo, mutuando tale definizione da un autorevole studioso (NIGRO), come
<<la posizione di vantaggio fatta ad un soggetto dell’ordinamento in ordine ad
un bene oggetto del potere amministrativo e consistente nell’attribuzione al
medesimo soggetto di poteri atti ad influire sul corretto esercizio del potere, in
modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene>>”.
Definito in tal modo l’interesse legittimo, si vuole in questa sede evidenziare
ciò che la genesi del nostro sistema amministrativo lascia trapelare: se, nella
citata formula di Ranelletti, il diritto amministrativo ha il compito di
“provvedere alla soddisfazione dei bisogni, vuoi della vita dello Stato, come
unità a sé, vuoi collettivi popolari, di cui lo Stato assume la difesa o la cura”318,
e se il giudice amministrativo, così come affermato dalla Corte Costituzionale,
è il “giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica”,
al quale il legislatore conferisce “poteri idonei ad assicurare piena tutela” 319, è
innegabile che al cittadino, facente parte del popolo sovrano, viene data
l’opportunità
di
azionare
il
sindacato
sull’operato
della
pubblica
amministrazione “in modo diffuso”, allorché i suoi interessi collidano con
quelli pretesamente fatti valere dalla pubblica amministrazione per il bene della
comunità, che siano, in realtà, solo uno schermo che nasconde l’illegittimità di
un dato provvedimento: ciò vuol dire, in altri termini, che non vi è un legittimo
interesse della comunità e, quindi, un corretto esercizio della funzione pubblica,
nel caso in cui il provvedimento non sia fondato, innanzitutto, sulle norme di
318 O. RANELLETTI, cit. 295.
319 Cfr. Corte Cost., sent. N. 191 del 2006.
155
legge e sia, per tanto, minato dai vizi tipici dei provvedimenti quali
incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge320.
Non si resiste, a questo punto, con le ovvie ed enormi differenze tra i due
giudizi, ad assimilare, quanto meno concettualmente, il giudizio di legittimità
degli atti amministrativi dinnanzi all’A.G.A. al giudizio incidentale di
legittimità costituzionale della legge e degli atti aventi forza di legge dinnanzi
alla Corte Costituzionale: quel che appare nitidamente, a prescindere da
un’analisi più o meno dettagliata dei due procedimenti, è che entrambi i giudizi
di legittimità, a carattere impugnatorio, danno la possibilità al cittadino di
controllare i pubblici poteri in modo concreto, ossia postulando una situazione
giuridica soggettiva che viene lesa, nel primo giudizio, da un “cattivo” esercizio
dell’amministrazione della cosa pubblica che incide su un proprio interesse, nel
secondo giudizio, da una norma, applicabile alla propria fattispecie, che si
assume essere incostituzionale.
Orbene, a prescindere dalla suggestività di tale paragone, quel che in ogni
caso emerge è che nel giudizio amministrativo il singolo, in linea di principio,
non fa altro che invocare l’illegittimità dell’esercizio della pubblica funzione
attraverso lo “strumento” interesse legittimo, mediante una postulazione che,
come una cascata, deve per forza discendere da una norma primaria: ed è per
questo motivo che, in sintesi, alla giurisdizione amministrativa viene
principalmente demandato il compito di vagliare la legittimità dell’agere
pubblico rispetto all’interesse della comunità perseguito, con i limiti, non
sempre chiari, posti da quella che viene definita discrezionalità della pubblica
amministrazione321.
320 Per approfondimenti sui vizi del provvedimento cfr. AA.VV., L'atto amministrativo: vizi di
legittimità e nuove anomalie dopo la legge n. 15/2005 (modifiche ed integrazioni alla legge n.
241/1990), Rimini, 2005.
321 Per lo studio di tali problematiche si rinvia al sempre attuale M. S. GIANNINI, Il potere
discrezionale della pubblica amministrazione: concetto e problemi, Milano, 1939. Quanto alle linee
evolutive, si rimanda a G. COFRANCESCO, F. BORASI, Le figure della discrezionalità amministrativa,
Torino, 2012.
156
Quel che vien da chiedersi, a questo punto, è quali limiti incontri il giudice
amministrativo nell’esercizio della sua funzione: una volta che il ricorrente
stimola la sua attenzione su un dato provvedimento, fino a che punto può
spingersi il suo sindacato? La risposta, da quanto fin qui esposto, sembrerebbe
banale: il giudice deve incontrare un unico limite, consistente nell’applicazione
della legge, alla quale è soggetto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 101 Cost., II
co. Si aggiunga, ovviamente, che la legge non può però escludere o limitare la
tutela giurisdizionale del privato “a particolari mezzi di impugnazione o per
determinate categorie di atti” (art. 113, II co., Cost.) 322.
La questione, però, prescindendo dal citato art. 113 Cost., diventa più
complessa: nell’esercizio della propria funzione, il giudice amministrativo può
vagliare la legittimità di un provvedimento in ogni suo aspetto, oppure è
vincolato da quanto dedotto dalle parti nel processo?
Ebbene, quanto meno per coerenza con quanto sin qui esposto, si dovrebbe
sostenere che, in considerazione degli interessi pubblici in gioco e del principio
di stretta legalità nella giurisdizione, il giudice amministrativo dovrebbe poter
espandere il proprio sindacato su ogni profilo del provvedimento: nel corso
degli anni, tuttavia, si è teso a negare tale tesi, anche mediante specifiche
disposizione legislative, in una concezione del giudice amministrativo che si
fonda esclusivamente sul profilo delineato dall’art. 103 Cost., ossia come un
giudice avente “giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica
322 L’esistenza di due situazioni giuridiche distinte, consacrata dallo stesso art. 113, comma 1,
della Costituzione, permette al legislatore ordinario di prevedere due sistemi processuali diversi e,
quindi, diverse tecniche di tutela (Corte cost., 10 maggio 2002, n. 179), ma deve escludersi che tra
diritti soggettivi ed interessi legittimi possano esservi diverse gradazioni in termini di pienezza ed
effettività della tutela (cfr. G.B. GARRONE, Contributo allo studio del provvedimento impugnabile,
Milano, 1990, pag. 96-99 e 216; G. VERDE, Ma che cos’è questa giustizia amministrativa?, in Dir. proc.
amm., 1993, pag. 620; B. SASSANI, Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto. Ottemperanza
amministrativa e tutela civile esecutiva, Milano, 1997, pag. 30). Ed infatti, come rilevato da G. BERTI,
Art. 113, in Commentario della Costituzione italiana, diretto da G. Branca, Bologna-Roma, 1987, pag
87, è lo stesso art. 24 della Costituzione, ad assicurare agli interessi legittimi “le medesime garanzie
assicurate ai diritti soggettivi quanto alla possibilità di farli valere davanti al giudice ed alla
effettività della tutela che questi deve loro accordare”.
157
amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla
legge, anche dei diritti soggettivi”; non si è considerato, però, che il Consiglio
di Stato, come dimostrano la sua genesi e la sua disciplina nella Carta
costituzionale,
oltre
amministrativa”323,
è,
ad
essere
altresì,
“organo
l’organo
di
della
consulenza
“tutela
della
giuridicogiustizia
nell'amministrazione”, come affermato senza alcuna remora dall’art. 100 della
Costituzione.
Cosa vuol dire ciò? Ebbene lo spiegò brillantemente l’On. Aldo Bozzi nelle
discussioni della seconda commissione per la Costituzione324, le cui
osservazioni convinsero gran parte dei Costituenti a redigere tale norma e a
mantenere le attribuzioni del Consiglio di Stato, come risulta dai relativi
verbali: “La vera ragione della necessità della sopravvivenza del Consiglio di
Stato sta, a suo avviso, nel fatto che le funzioni che esplicano le due Sezioni
giurisdizionali sono diverse da quelle che esplica il giudice ordinario. Precisa
anzi tutto che il Consiglio di Stato non ha mai tolto nulla al giudice ordinario,
che non ha avuto mai competenza in materia di interesse. Il giudice ordinario,
infatti, giudica solo di diritti, anche pubblici, subiettivi, e di situazioni
giuridiche nelle quali vi sia un conflitto fra due parti vincolate da precise
norme di legge. In questa situazione però trovasi alle volte anche la Pubblica
Amministrazione e quindi si spiega la necessità del giudice ordinario, che è il
più idoneo a compiere i necessari accertamenti sul diritto e sul dovere delle
parti. La giurisdizione del Consiglio di Stato è dominata invece dal criterio del
323 E’ notorio che tale attribuzione del Consiglio di Stato è volta ad una applicazione del diritto
oggettivo: cfr. R. CHIEPPA – R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2011, pag. 208:
“Attraverso l’espressione di pareri, il Consiglio di Stato esercita un’attività di pura e semplice
applicazione del diritto oggettivo, avente la finalità di verificare la legalità delle scelte
dell’amministrazione, e non di certo di fornire una consulenza tecnico-giuridica, che è ruolo tipico
dell’Avvocatura di Stato”. Per ulteriori approfondimenti sul tema si rinvia a G. LANDI, La Funzione
consultiva del Consiglio di Stato: studio in onore di Guido Landi, Milano, 1985.
324 Cfr. Atti Ass. Cost., 9 gennaio 1947, seduta pomeridiana della seconda Sezione della seconda
Sottocommissione della Commissione per la Costituzione che prosegue la discussione sul potere
giudiziario.
158
pubblico interesse; non vi sono più un creditore e un debitore in senso lato; qui
si tratta di valutare la discrezionalità della Pubblica Amministrazione che nello
svolgimento della sua attività libera, ma tuttavia discrezionale (libertà, cioè, e
non arbitrio), può ledere l'interesse di un cittadino. In questo campo il giudice
deve espletare una indagine particolare, squisitissima, che è ben differente da
quella che deve compiere normalmente il giudice ordinario.
Non ritiene poi assolutamente che la funzione del Consiglio di Stato si possa
assimilare a quella della Magistratura ordinaria, dove in una sezione
specializzata si avrebbe una forma di contaminazione del giudice togato il
quale, abituato all'applicazione rigida della legge civile e commerciale,
dovrebbe invece decidere in una materia nella quale domina la valutazione del
pubblico interesse. Potrebbe comprendere le Sezioni specializzate per le altre
giurisdizioni speciali — come ad esempio il Tribunale delle acque — nelle
quali si pongono problemi di carattere tecnico, ma non ne vede l'utilità per il
Consiglio di Stato, che opera in un campo diversissimo da tutte le altre
giurisdizioni speciali.
D'altra parte, pone in evidenza che la giurisdizione del Consiglio di Stato,
per la sua particolare natura, non è costituita — come ha detto anche
l'onorevole Calamandrei — a tutela di diritti, ma a difesa dello Stato e dei
cittadini anche contro lo Stato. Per mezzo di essa, il cittadino diventa uno
strumento per l'attuazione di quella che con frase felicissima è stata detta «la
giustizia nell'amministrazione». È quindi lo Stato stesso che sente la necessità
di organizzare questa forma di controllo giurisdizionale per attuare nel suo
seno la giustizia nell'amministrazione, che è un problema essenziale di ogni
Stato veramente democratico. Crede di non esagerare, affermando che oggi
uno dei difetti fondamentali della politica è il difetto del sentimento di legalità,
che è limite e proporzione. Se l'Amministrazione erra nell'applicare una norma,
il Consiglio di Stato, valendosi dell'interesse individuale leso, ripristina la
situazione giuridica, reintegrando così, non solo la situazione individuale, ma
159
sopra tutto l'ordine giuridico leso e la legalità nell'amministrazione. Questa è
la funzione del Consiglio di Stato” 325.
Non sembra, allora, fosse così lontana dalla realtà l’ormai superata dottrina
che, ben prima dell’introduzione della Carta Costituzionale, tendeva ad
affermare il carattere oggettivo della giurisdizione del giudice amministrativo:
prima tra tutte, l’opinione del Presidente della Quarta Sezione del Consiglio di
Stato, Silvio Spaventa, il quale affermava che la giurisdizione del giudice
amministrativo non serve “a definire controversie nascenti dalla collisione di
diritti individuali omogenei”, ma è diretta a “conoscere solamente se il diritto
obiettivo sia stato osservato […]. L’interesse individuale offeso è solamente
preso come motivo o occasione” per il riesame degli atti amministrativi. “La
giurisdizione
è
organizzata
come
mezzo
di
semplice
ricognizione
dell'osservanza del diritto pubblico obiettivo (prima norma fondamentale
dell'amministrazione pubblica), la decisione non è che un giudizio di
annullamento o di conferma dell'atto”326.
Una siffatta impostazione incontrò il favore di molti autorevoli Autori, tra i
quali si ricordano Vittorio Emanuele Orlando e Alfredo Codacci Pisanelli, che
abbracciarono fino in fondo l’idea di una giurisdizione amministrativa che
avesse il compito di applicare il diritto obiettivo dello Stato327.
Tuttavia, la storia della giustizia amministrativa italiana dimostra che tanto
la giurisprudenza del Consiglio di Stato, quanto la dottrina, fin dalla
instaurazione della IV sezione del Supremo Consesso amministrativo, hanno
preferito ricostruire essa giurisdizione su considerazioni diverse, in quanto
l’impostazione sopra delineata, volta ad attribuire al giudice il potere di
325 Occorre ricordare, anche per scansare ogni dubbio circa la volontà del legislatore
costituente e circa l’interpretazione autentica della norma in questione, che l’On. Aldo Bozzi era
proprio il soggetto che era stato incaricato della redazione dell’art. 100 Cost.
326 S. SPAVENTA, Discorso per l’inaugurazione della IV Sezione, in Riv. Dir. Pubblico, 1909, ora
anche disponibile in versione elettorinca al seguente indirizzo: http://www.giustiziaamministrativa.it/documentazione/Spaventa_Inaugurazione_IV_sezione.pdf.
327 V. E. ORLANDO, Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, Milano, 1923; A.
CODACCI PISANELLI, Scienza dell’amministrazione, Roma, 1911.
160
applicare il diritto obiettivo, scontava il problema (o almeno così la questione è
stata impostata e risolta) di prescindere dalla disciplina e dalla tutela delle
situazioni giuridiche soggettive che, viceversa, erano il perno su cui si era
sempre mossa l’idea di giurisdizione.
Tra i primi, Meucci rifiutò l’idea di una tutela giurisdizionale che fosse
elargita in assenza di una situazione giuridica soggettiva pretesamente lesa:
“l’affermare l’interesse scevro di diritto come materia del giudizio contenzioso
amministrativo, è affermazione contraria ai principii di ragione, al concetto di
giustizia, a quello della giurisdizione, e perfino alla legge di libertà”; egli
iniziò, pertanto, ad individuare una forma di interesse che “non fosse un mero
interesse semplice (o di fatto) […] ma non fosse nemmeno un diritto
soggettivo”: si profilava l’idea di “un interesse legittimo, cioè corrispondente
ad un diritto obiettivo” con il quale si trovava in “rapporto occasionale”328.
In tale concezione, tanto con la l. 205/2000, quanto con il nuovo codice del
processo amministrativo (d.lgs 104/2010), è stata pienamente abbracciata
un’idea di una giurisdizione dominata dal principio del dispositivo329 che, di
fatto, in considerazione del principio di cui all’art. 101 Cost., non ha fatto altro
che limitare con legge i poteri di indagine dell’A.G.A.
Le ragioni di tale scelta sono state di recente compendiate da
auterevolissima dottrina, la quale afferma oggi, traendo fondamento da un
pensiero pressocché unanimamente condiviso in dottrina e in giurisprudenza330,
che “il processo amministrativo (al di là di una disputa che comunque aveva
328 L. MEUCCI, Il principio organico del contenzioso amministrativo in ordine alle leggi recenti, in
Giust. amm., 1891: “un’istituzione pubblica fatta per riparare gli interessi privati senza ragione o
diritto, sarebbe un assurdo”.
329 Per renderne conto, è sufficiente dare uno sguardo a tutte quelle norme che lasciano
all’attività libera delle parti il potere di “governo” del processo, per es., attribuendogli la possibilità
di rinunciare al ricorso o agli atti del giudizio in ogni stato e grado della controversia (art. 84 c.p.a.).
330 Si veda, per es., l’ormai celebre sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.
4/2011, concernente l’ordine di decisione del ricorso incidentale nel contenzioso sui contratti
pubblici, decisione che, occorre rilevarlo, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, soprattutto
quella del Tar Lazio (cfr. ex multis sentenza n. 197/2012), è stata aspramente criticata.
161
anche talora una dimensione solo nominalistica) è stato, sin dal principio,
guidato lungo il sentiero della giurisdizione di diritto soggettivo. La scelta
fondamentale del legislatore era infatti di delimitare il sindacato del Consiglio
di Stato ai motivi proposti dal ricorrente, al quale spettava, su tutti, quel potere
di rinuncia al ricorso che costituiva il più illuminante esempio del principio
dispositivo. Proprio questo tratto ha consentito di segnare una netta distinzione
tra funzione giurisdizionale e funzione di controllo.
La Costituzione, all’art. 103, ha poi stabilito che il Consiglio di Stato e gli
altri organi della giurisdizione amministrativa hanno giurisdizione per la tutela
di concreti e individuali interessi legittimi o diritti soggettivi. Sicché la
giurisdizione amministrativa è stata sino ad oggi quell’istituto e quella
istituzione che ha il compito di tutelare i cittadini che siano titolari di situazioni
giuridiche soggettive vere e proprie, si è ispirata al principio dispositivo ed è
proprio grazie a questo dato di partenza che essa si è sviluppata in modo da
raggiungere una tutela effettiva di dette situazioni.
A ben vedere, il principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui agli
artt. 24 e 113 Cost., le cui declamazioni sono tanto giuste quanto abbondanti in
dottrina e in giurisprudenza, si spiega sul piano e strutturale e funzionale solo
se (e sempre che) si parta dal presupposto che il processo serva a proteggere i
singloli anziché ad attuare la legalità in termini generali e assoluti. Tutela
l’intera situazione soggettiva in modo pieno, ma solo quella, per dirla con
Chiovenda. E questa evoluzione, sia consentito dirlo, è avvenuta al di là delle
questioni interpretative che si sono continuate ad agitare circa il valore
dell’espressione costituzionale che parla di giustizia nell’amministrazione.
L’importanza del principio dispositivo e del suo connubio con il principio
dell’effettività della tutela giurisdizionale va colta allora nei termini di una
vera architrave dello Stato liberale di diritto. Il principio dispositivo, infatti, è
garanzia di una funzione giurisdizionale che, senza confondersi con
l’amministrazione, si pronunci solo sulle situazioni soggettive individuali. E’
162
garanzia di un giudice che non venga ad espandersi sino a farsi interprete delle
esigenze della legalità al di là della domanda di giustizia, o della buona
amministrazione, o di un interesse pubblico indefinito. Impedisce che il giudice
possa eventualmente dimenticarsi di essere solo chiamato ad esercitare una
funzione anziché essere investito di una missione.
L’equilibrio tra autorità e libertà nel rapporto tra p.a. e cittadino è un
risultato che la giurisdizione amministrativa deve saper assicurare. Proprio per
questo, però, il giudice dà ingresso solo a pretese individuali che siano
effettivamente tali, senza ammettere doglianze che si allarghino sino a
reclamare la cura dell’interesse della legge; e sempre per questo il giudice
evita di farsi autorità e di farsi soggetto che venga a declinare le proprie
visioni dell’interesse generale al di fuori di una domanda di parte e soprattutto
al di fuori di una situazione giuridica soggettiva da tutela e attuare
nell’ordinamento.
La giurisdizione di diritto oggettivo è allora sostanzialmente scomparsa dal
processo amministrativo italiano” 331.
Ebbene, la critica maggiore che ci si sente di fare ad una siffatta concezione
del processo amministrativo, tenendo in disparte l’assoluto silenzio che viene
serbato sull’art. 100 Cost., il quale, come si confida di aver dimostrato, affida al
Consiglio di Stato il compito di applicare la giustizia nell’amministrazione (non
a caso prima che ad esso venga attribuita la tutela degli interessi legittimi,
disciplinata dal successivo art. 103 Cost.), è che nel nobile intento di
privilegiare il ruolo delle parti nel processo, al dichiarato fine di accomunare la
tutela dinnanzi all’A.G.A. a quella dinnanzi all’A.G.O. e al fine, altresì, di
impedire “che il giudice possa eventualmente dimenticarsi di essere solo
chiamato ad esercitare una funzione anziché essere investito di una
331 F. CINTIOLI, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’Autorità garante della concorrenze e
del mercato e sulla legittimazione a ricorrere delle Autorità indipendenti, in federalismi.it, n.
12/2012, pag. 4 e ss.
163
missione”332, si è arrivati a dimenticare che in tale ambito processuale non si
verte, logicamente, in un contesto in cui il provvedimento nasce e trae valore
dall’interesse del privato – il che giustificherebbe un’assoluta preminenza del
principio del dispositivo – ma, viceversa, in una situazione in cui l’atto oggetto
del giudizio mira, prima di ogni altra cosa, a perseguire il pubblico interesse,
che coinvolge, solo incidentalmente (e a volte inevitabilmente), gli interessi dei
privati.
Accade, insomma, che, nel passaggio dalla “verità” del procedimento a
quella che viene ricostruita nel processo333, vi è una palese ed ingiustificata
inversione dell’ordine dei valori, che costringe il giudice amministrativo ad
applicare, in senso lato, una regola di giudizio “diversa” – in quanto delimitata
dalle allegazioni delle parti – rispetto a quella a cui si è ispirata la pubblica
amministrazione: però, se, in base al principio di funzionalità della Pubblica
Amministrazione, il procedimento amministrativo, per quanto caratterizzato
332 F. CINTIOLI, op. ult. cit.
333 Il processo, per quanto sia una verità a sé stante, deve per forza trarre origine da quella che
si ipotizza essere la verità storica. CFR. I. ROSONI, Verità storica e verità processuale, Macerata, 2009:
“La Verità con la V maiuscola, la verità assoluta, che non appartiene al mondo delle cose umane è,
come sappiamo, inattingibile. La cesura, la scissione tra ciò che è accaduto e ciò che si può sapere,
ricostruire; la sconfortante impossibilità di accertare la verità di un evento ormai concluso,
rimandano ad un antico problema filosofico e ad un moderno problema epistemologico. La loro
soluzione supera i limiti di questo lavoro e le competenze di chi scrive (tuttavia, per un'analisi del
problema vedi Rosoni, 1995, 299 ss.). Se la verità assoluta è inattingibile non per questo occorre
cadere nello scetticismo. La conoscenza della verità è possibile relativamente al contesto in cui essa
viene realizzata, al metodo con cui si svolge la ricerca e alla qualità e quantità di informazioni di cui
si dispone e sulle quali tale conoscenza si fonda. Questa asserzione non comporta necessariamente un
relativismo assoluto, la verità non dipende dalle opzioni individuali dei soggetti che se ne occupano. Il
grado di certezza raggiunto attraverso le griglie gnoseologiche sopra descritte ne fa una conoscenza
di tipo probabilistico. Se si tratta di provare che 'x' ha commesso 'y', il risultato della operazione
prevederà sempre una sia pur minima, infinitesimale, possibilità di errore: la verità stabilita, per
quanto verificata e provata, apparterrà sempre all'ordine della probabilità e mai a quello della
certezza (Rosoni, 1995, 302). La verità processuale che il giudice può giungere a definire è, dicevamo,
una verità approssimativa. Si avvicina a quella assoluta senza poterla mai di fatto toccare, essendo la
prima una congettura costruita a posteriori e la seconda un fatto già avvenuto e concluso, e quindi, di
per sé, inconoscibile. E tuttavia il dibattito sulla verità processuale ha sempre, come punto di
riferimento alto, il ragionamento circa la verità certa, quella verità che, se non arriva alla certezza,
perlomeno si attesta ai gradi più alti della scala della probabilità (Rosoni, 1995, 303)”.
164
dall’intervento dei privati334, ha l’unico fine di emettere un provvedimento che
persegua l’interesse pubblico, allora il sistema di giustizia ad esso proprio, in
uno Stato costituzionale di diritto, basato sui principi di democraticità, legalità
ed uguaglianza, non dovrebbe sottrarsi, una volta che sia instaurato il processo,
ad un sindacato che, nei limiti della discrezionalità della P. A., si estrinsechi
sull’intero operato dell’amministrazione stessa o, meglio, sulla pretesa
legittimità dell’atto nel suo complesso, per quei profili che attengono
specificamente il pubblico interesse. Il sistema amminsitrativo, insomma,
dovrebbe prevedere dei meccanismi volti, prima di tutto, all’applicazione della
legge in modo obiettivo, laddove ciò è reso necessario dall’incidenza del
pubblico interesse.
Ora, riprendendo il paragone tra giudizio amministrativo e giudizio di
legittimità costituzionale innanzi alla Consulta, è doveroso sottolineare che
l’equivoco
di
fondo,
generato
dalla
superiore
visione
di
giustizia
amministrativa, è stato quello di non distinguere la fase introduttiva del giudizio
(in cui imprescindibilmente si deve vertere in un contesto in cui ci sia una
situazione giuridico soggettiva pretesamente lesa e, quindi, il processo nasce,
per forza di cose, come processo di parti) da quella decisoria (i cui effetti sono
erga omnes): ed infatti, così come la Corte Costituzionale dapprima si sofferma
su rilevanza335, non manifesta inammissibilità e non manifesta infondatezza
della questione di legittimità costituzionale (con l’ausilio del giudice a quo) 336,
334 Per un’analisi di tali problematiche si rimanda a M. COCCONI, La partecipazione all'attività
amministrativa generale, Padova, 2010.
335 A. CERRI, Corso di giustizi costituzionle, Milano, 2008, pag. 169 e ss.: “Il requisito della
rilevanza, si è accennato, segue direttamente a quello della incidentalità: se la norma impugnat non
fosse inerente al giudizio a quo, il giudizio di costituzionalità verrebbe ad essere sollevato
sostanzialmente in via principale e per motivi ed interessi che esulano da quelli discussi nel giudizio
cui formalmente ha origine. La rilevanza, in certo modo, è necessità e adeguatezza (sufficienza a
produrre effetti; ovviamente, insieme con la ipotizzata fondatezza) della q. di l. c. rispetto alla
decisione del giudizio a quo e concreta l’interesse giuridico che sostiene la q. di l . c. medesima”.
336 A. CERRI, op. ult. cit., pag. 197 e ss.: “L’ordinanza introduttiva deve indicare, come visto, le
disposizioni impugnate e le disposizioni costituzionali che si assumono violate, oltre che i motivi per
cui si ritiene sussistere il contrasto fra le une e le altre. La giurisprudenza della Corte, pur senza cadere
165
così il giudice amministrativo innanzitutto deve valutare l’esistenza di una
posizione di interesse del ricorrente337; come la Consulta è onerata dal prendere
in considerazione la questione sollevata nel suo materiale perimetro, contenuto
nell’ordinanza di remissione338, così il giudice amministrativo è onerato a
in formalismi sterili, non manca di rigore nell’esigere la puntuale indicazione degli elementi suddetti.
Debbono essere precisate le disposizioni di legge da cui effettivmente si desumono le norme
applicabili nel giudizio a quo : l’indicazione di disposizioni inappropriate conduce a ritenere
inammissibile la questione; vero è che, ove l’indicazione risulti univoca dal complessivo contesto
dell’ordinanza introduttiva, non assume rilievo l’eventuale inesattezza, per errore meramente
materialle, del suo <<dispositivo>>. Debbono essere indicate, a pena di inammissibilità, le
disposizioni di livello costituzionale e le disposizioni <<interposte>> che si assumono lese (cfr., ad es.,
dec. 106/1991; 432/1993; 151, 262/1997; 255/1998, ecc.); anche in questo caso non è infrequente
che la Corte, interpretando l’ordinanza di rimessione, corregga eventuali inesattezze od integri
eventuali incompletezze del suo dispositivo. Debbono essere indicati (ove necessari) <<i profili>> della
q. di l. c.: cfr., ad es., dec. 442/1993, d’inammissibilità per carente indicazione del termine di
raffronto, nel giudizio di eguaglianza. Il promovimento della q. di l. c. presuppone che il giudice abbia
ritenuto questa <<non manifestamente infondata>>”.
337 Si rinvia, oltre alla sterminata giurisprudenza amministrativa, alle osservazioni della
Consulta contenute nella sentenza n. 251 del 18 maggio 2009: “In proposito va ricordato che, nel
processo amministrativo, la tutela degli interessi legittimi avviene attraverso il sindacato sull'esercizio
del potere amministrativo. Se dunque tale è la funzione del processo, il sindacato sulle modalità, con
cui quel potere è esercitato, deve necessariamente muovere in primo luogo dall'esame del complesso
degli elementi che l'amministrazione ha posto a fondamento delle proprie valutazioni; il che non
esclude le opportune integrazioni che il giudice amministrativo, nell'esercizio dei suoi poteri
ordinatori, può prescrivere onde pervenire nel modo più esauriente all'accertamento dei fatti su cui si
fondano le rispettive pretese delle parti. Anche se dunque il thema decidendum è rigidamente
prefissato dalle prospettazioni e dalle allegazioni del ricorrente, di norma è nel dominio
dell'amministrazione la possibilità di fornire la prova di certi fatti, per cui se, ai fini della decisione,
occorra verificare la veridicità di fatti posti a fondamento dell'atto amministrativo impugnato, è
l'organo amministrativo che l'ha emanato a subire il relativo onere probatorio e le conseguenze del
mancato assolvimento di questo, spettando al giudice, che abbia disposto l'acquisizione della prova
individuando la parte all'uopo onerata, di trarre il proprio convincimento dal comportamento
dell'amministrazione che non sia stata in grado di dimostrare quanto affermato.
Sotto l'anzidetto profilo la parità processuale fra le parti è dunque assicurata e se nella esperienza
pratica avviene che il giudice non esercita i propri poteri in modo da pervenire alla migliore
conoscenza dei fatti, ciò non deriva per lo più dalla limitatezza dei mezzi di prova a sua disposizione,
bensì dal ridotto esercizio che egli fa di detti poteri. Il convincimento del giudice deve formarsi non
sulla base di ciò che le parti prima del processo (come, ad esempio, l'amministrazione in sede di
emanazione dell'atto amministrativo da cui trae occasione il processo) o durante esso abbiano
affermato, bensì su ciò che ciascuna di esse, in base alle proprie disponibilità, sia stata in grado di
provare”.
338 A. CERRI, op. ult. cit., pag. 206: “L’ordinanza introduttiva del giudizio di costituzionalità fissa,
per costante giurisprudenza della Corte, il thema decidendum del giudizio incidentale. Si esclude,
almeno nelle consolidatissime massime giurisprudenziali, la possibilità di successivi ampliamenti
della materia del contendere: cfr., ad es., dec. 9/1956; 28, 45, 64 80/1957…34/1960; 65/1962 …
166
giudicare sul thema decidendum fissato dalle parti339; come la sentenza del
giudice costituzionale ha effetti nei confronti dell’intera comunità340, così
accade per il decisum del giudice amministrativo341.
Si aggiunga, però, che la Corte Costituzionale, nell’esprimere un giudizio di
legittimità che incide sul cattivo esercizio del pubblico potere (in questo caso su
una norma primaria che violi la Carta fondamentale), può trascendere dal
perimetro circoscritto dalle parti ponendosi in funzione di giudice a quo342: tale
27/1978 … 239/1984 … 80/1987 … 496/1991 … 165/1996 … 464/1999 eccc. Essa consiste di
questioni di costituzionalità nelle quali assumono rilievo preminente, innegabilmente, le norme
impugnate e quelle invocate come parametro, laddove le disposizioni formalmente legislative e
costituzionali divengono piuttosto condizioni per poter introdurre un discorso sulle norme;
contribuiscono ad <<individuare>> la questione di costituzionalità, oltre che le norme
<<interposte>>, anche i <<profili>> dedotti. La questione di costituzionalità consiste, ppunto,
nell’assunto di una incompatibilità o di una irragionevole inadeguatezza della norma impugnata
rispetto alla norma parametro, in relazione (specie quanto si tratti di inadeguatezza) ai profili
precisati”.
339 Cfr. cit. 333.
340 A. CERRI, op. ult. cit., pag. 244 e ss.: “La decisione di accoglimento ha effetti nel processo a
quo ed efetti generali, omogenei tra loro. […] L’effetto della decisione di accoglimento è, si diceva,
generale (art. 136 Cost.). Deve aggiungersi che influisce anche su rapporti venuti in essere prima
della sentenza della Corte. […] Gli effetti della sentenza di accoglimento valgono per tutti i rapporti nei
quali la norma censurata sarebbe ancora applicabile: tale applicabilità più non sussiste, però, quando
una ragione preliminare la preclude: quando i diritti (in ipotesi) resi inoperanti da una norma
incostituzionale sono, nel frattempo, venuti meno, ad es., per prescrizione, decadenza, usucapione,
transazione o per intervenuto giudicato (che, secondo i principi, si sostituisce alla fonte del rapporto
originario). In queste ipotesi, appunto, l’eccepita prescrizione, decadenza, ecc., come esclude
l’applicazione della norma de qua, così preclude possa aver effetto la sentenza della Corte che la
censura”.
341 Cfr. R. CHIEPPA – V. LOPILATO, Studi di diritto amministrativo, Milano, 2010, pag. 93 e ss.: “Il
Consiglio di Stato ha affermato [Cons. Stato, Sez. V, 28 dicembre 1989, n. 910] che la sentenza di
annullamento di un atto è per sua stessa natura una decisione che non può avere una rilevanza
circoscritta, in quanto un provvedimento o esiste o non esiste, ma in quest’ultimo caso deve essere
considerato non esistente per tutti i soggetti coinvolti nella produzione dei suoi effetti tipici […]. Sotto
il profilo oggettivo, l’efficacia ultra partes delle sentenze di annullamento è stata ridimensionata dalla
giurisprudenza amministrativa attraverso una rigorosa delimitazione della portata del giudicato”. Ed
infatti il Consiglio di Stato (Sent. N. 541 dell’8 luglio 1992) ha precisato che gli effetti della
pronuncia di annullamento si estrinsecano “nei limiti oggettivi in cui il giudicato si è formato, ossia
con riferimento al dispositivo, alla motivazione e all’oggetto del giudizio”, e non coinvolgono i
rapporti che si sono esauriti.
342 Numerosa la giurisprudenza costituzionale in tal senso, ove si sono riscontrati numerosi
profili problematici. Sul punto si rinvia a A. CERRI, op. ult. cit., pag. 150 e ss.: “La corte medesima si
ritiene legittimata a sollevare q. di l. c. nell’esercizio di tutte le sue funzioni a carattere
giurisdizionale: (ord. 22/1960; 57/1961, ecc.) e di poi anche negli altri giudizi e, cioè, nel corso del
167
meccanismo, infatti, per un verso, mira ad applicare il diritto obiettivo per
superiori fini pubblicistici che si fondano sull’interesse di espungere
dall’ordinamento un atto illegittimo (in questo caso la legge o gli atti aventi
forza di legge)343 e, per altro verso, come sopra accennato, dimostra che anche
la Corte Costituzionale è soggetta al principio di stretta legalità nella
giurisdizione, non potendo non applicare una norma che ritiene illegittima e
dovendo, come ogni altro giudice, sollevare giudizio di legittimità
costituzionale degli atti aventi forza di legge quando ritiene una norma non
conforme alla Carta costituzionale.
Atteso che, da quanto sopra esposto, la stessa struttura del giudizio
amministrativo non permette l’instaurazione di un processo che non sia legato a
situazioni giuridiche soggettive (e ciò è dimostrato dall’esistenza di norme che
sanzionano la parte con la c.d. inammissibilità del ricorso) e che, quindi,
giudizio incidentale (ord. 73/1965), del giudizio su conflitto tra poteri (v., ad es., sent. 68/1978), nel
corso di giudizio di accusa (ord. 2/1977, della Corte integrata e sent. 125/1977, che decide la
questione così sollevata) e fin anche in sede di <<sorteggio>> dei giudici aggregati (cfr. sent.
259/1974, che ha ricondotto alla giurisdizione della Corte ordinaria sui conflitti giudizio su contrasto
con l’autorità giudiziaria ordinaria, devoluto dalla normativa vigente alla Corte integrata i cui
componenti, a questi fini, la Corte ordinaria si accingeva, appunto, a sorteggiare). Qualche problema
specifico è sorto proprio nel terrendo di origine dell’intera problematica e, cioè, in sede di conflitto fra
Stato e Regione, per quel che concerne, segnatamente, il possibile aggiramento, attraverso
l’autorimessione, nel corso di giudizio su atto amministrativo <<conseguente>> a legge a suo tempo
non impugnata, del termine perentorio previsto, appunto, per l’impugnazione della legge, oltre che
con riguardo al giudizio incidentale. In quest’ultimo contesto la Corte talvolta ha escluso di poter
ampliare, sollevando essa medesima q. di l. c., i termini della questione come fissati nell’ordinanza
introduttiva (sent. 122/1976; 239/1984); ha esercitato in prevalenza tale potere con riguardo a
norme, invece, che essa si trovava comunque a dover applicare, in seguito alla questione sollevata (si
pensi, ad es., alle norme indicate, nel giudizio di eguaglianza, quali termini di raffronto; o, si può
ipotizzare, alle norme <<interposte>> le quali, prima di integrare il parametro del giudizio, potranno,
a loro volta, essere impugnate per vizio di costituzionalità, ecc.) Vero è che, talvolta, la Corte, pur
senza negare del tutto i limiti di cui sopra, ha ritenuto di poter autorimettere a sé questioni anche
con riguardo a vizi di costituzionalità più radicali di quelli evidenziati ed il cui esame, dunque, non
sarebbe <<equiordinato>> rispetto all’esame della questione proposta del giudice a quo, ma <<preordinato>>. Con ciò la Corte finisce con il riassorbire la tesi, da chi scrive in precedenza sostenuta,
secondo cui deve ritenersi sempre possibile sollevar questione in ipotesi di radicale nullità
(=inesistenza) della legge, di cui fossero denunziati solo singoli e delimitati vizi”.
343 Già nel lontano 1960, con la pronuncia n. 13, la stessa Consulta affermava di esercitare
“essenzialmente una funzione di controllo costituzionale, di suprema garanzia della osservanza della
Costituzione della Repubblica da parte degli organi costituzionali dello Stato e di quelli delle Regioni”.
168
appaiono superate le posizioni sopra esposte, si potrebbe sostenere che, anche
in base all’art. 101 Cost., al giudice amministrativo è affidato un potere
“d’ufficio” volto a sindacare oggettivamente i profili di illegittimità dell’atto
impugnato, a prescindere dalle deduzioni delle parti.
In prima battuta, si deve escludere un tale potere nel caso in cui il profilo di
illegittimità non censurato dalle parti riguardi, specificamente, la posizione di
una di esse senza incidere sull’interesse pubblico generale: in tali casi, infatti, si
finirebbe col sostituire il giudice alle parti senza alcuna seria ragione, con
palese violazione del principio del contraddittorio.
Diverso, però, sembrerebbe il caso in cui il profilo di illegittimità non
sollevato dalle parti arrivi a coinvolgere in modo decisivo il pubblico interesse:
in tali ipotesi, potrebbe il giudice rilevare la questione d’ufficio?
Il paragone con il giudizio dinnanzi alla Corte Costituzionale non può
spingersi sino ad ammettere che il giudice amministrativo possegga un potere
simile a quello che esercita la Consulta come giudice a quo: non bisogna
dimenticare, infatti, che il giudice amministrativo non è formato da un Collegio
“ad ampio respiro” come la Corte Costituzionale, i cui membri, com’è noto,
vengono nominati da diverse Istituzioni dello Stato, così offrendo un’ampia
garanzia di democraticità nell’esercizio di una funzione così delicata344.
La risposta, pertanto, anche in questo caso, deve essere negativa: in
considerazione dell’evoluzione storica del nostro sistema amministrativo, che
renderebbe oggi impensabile l’attribuzione di un tale potere al giudice, non si
può propendere per una siffatta soluzione senza pagare lo sconto di ampliare
oltremodo i poteri dell’A.G.A., rendendolo, come se ve ne fosse bisogno, il vero
e proprio dominus della pubblica amministrazione.
Si potrebbe pensare, allora, ad una precisa introduzione normativa che
attribuisca al giudice amministrativo il potere di rilevare d’ufficio determinati
344 Sul punto si rinvia oltre che ad A. CERRI, op. ult. cit., a N. OCCHIOCUPO, Costituzione e Corte
Costituzionale. Percorsi di un rapporto “genetico”, dinamico e indissolubile, Milano, 2010.
169
vizi dell’atto, magari nei casi in cui questi siano gravemente lesivi del pubblico
interesse: anche tale soluzione, però, si presta a numerose censure. Pur volendo
prescindere dall’oggettiva difficoltà di redigere una norma di tal portata, non
pare questa possa superare un ipotetico vaglio di legittimità costituzionale, sotto
il parametro, in primis, degli artt. 3 e 24 Cost.
Per di più, resterebbe irrisolto un altro problema, quello, cioè, del rispetto del
principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato345, derivante, oltre che dal
principio del dispositivo, anche da quello del contraddittorio che, in definitiva,
escluderebbe in radice che il giudice amministrativo possa applicare ex officio il
diritto oggettivo346. Anche nel giudizio penale, infatti, i cui connotati di diritto
obiettivo sono ben noti, vige il principio della correlazione tra l’accusa
formulata dal p.m. e la sentenza del giudice347. E’ stato, pertanto, affermato, e
ormai risulta pacifico, che anche il giudizio dinnanzi al giudice amministrativo
soggiace al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato348.
345 Secondo tale principio, derivante dall’antico iudex ne eat ultra petita partium, il giudice non
può emettere una statuizione che non trovi fondamento sulle domande formulate dalle parti, benché
possa, secondo il principio jura novit curia, applicare una norma giuridica diversa da quella
individuata dalle parti. Per approfondimenti si rinvia a S. SATTA, Diritto processuale civile, Padova,
1950; M. CAPPELLETTI, Spunti in tema di contraddittorio, in Sudi in memoria di Salvatore Satta,
Padova, 1982; E. FAZZALARI, Procedimento e processo (teoria generale), in Enc. dir., vol. XXXV, Milano,
1986.
346 Su rispetto del giudice del principio del contraddittorio e, conseguentemente, alla
corrispondenza tra chiesto e pronunciato, si rinvia a M. CAPPELLETTI – J.A. JOLOWICZ, Public Interest
Parties ant the Role of the Judge in civil litigation, Milano-New York, 1975.
347 Sul punto si rinvia alla recente sentenza della Corte di Cassazione 47840/2012, ove si
legge: “La violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza sussiste solo quando, nella
ricostruzione del fatto posta a fondamento della decisione, la struttura dell'imputazione sia modificata
quanto alla condotta, al nesso causale ed all'elemento soggettivo del reato, al punto che, per effetto
delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall'imputato non abbia potuto utilmente sostenere la
propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati” poichè, ai fini del giudizio de quo,
occorre tener “conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori
risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale
contestazione, sicchè questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio
posto a fondamento della decisione”.
348 Tra le tante, si rinvia alla recente statuizione del Consiglio di Stato, Sez. V, 27 marzo 2013, n.
1817, in cui si osserva: “quanto alla pretesa violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., la Sezione osserva che, secondo il consolidato indirizzo
giurisprudenziale, detto vizio (di extrapetizione) sussiste solo quando il giudice, interferendo nel
170
Il problema, dunque, resta intatto e, ridotto all’osso, risulta essere il
seguente: se nel procedimento amministrativo alla Pubblica Amministrazione
viene affidato il compito di perseguire l’interesse pubblico, a quale soggetto
viene affidata tale “mansione” all’interno di un processo amministrativo?
Quale soggetto può stimolare l’applicazione della legge, alla quale il giudice
è soggetto, in un ambito così importante per il nostro ordinamento
costituzionale, senza lasciare alla disponibilità delle parti l’attuazione
dell’interesse dell’intera comunità?
potere dispositivo delle parti e pronunciando oltre i limiti del petitum e delle eccezioni dedotte, o su
questioni non sollevate, attribuisce alla parte un bene non richiesto o non compreso, nemmeno
implicitamente o virtualmente, nella domanda, non ricorrendo invece allorquando il giudice,
rimanendo nei limiti della domanda e del petitum ovvero dei motivi di ricorso, per quanto
specialmente concerne il processo amministrativo, fonda la sua decisione sulla valutazione unitaria
delle risultanze processuali, anche sulla base di argomentazioni o considerazioni non prospettate
dalle parti (ex multis, Cass. civ., sez. II, 23 novembre 2012, n. 20731; sez. III, 26 ottobre 2009, n.
22595; C.d.S., sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 475; sez. V, 2 novembre 2009, n. 6713).
171
4.3 IL PUBBLICO MINISTERO E LA NECESSITÀ DI UNA SUA ISTITUZIONE
ALL’INTERNO DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO. ALCUNI SPUNTI DI
RIFLESSIONE.
Quel che si è cercato di mettere in risalto nelle pagine appena trascorse è che,
attualmente, non vi è un meccanismo nel processo amministrativo che
garantisca la preminenza del pubblico interesse rispetto alle posizioni fatte
valere dalle parti: l’interesse pubblico, infatti, che domina il procedimento
amministrativo, non sembra ricevere una pari rilevanza all’interno del giudizio,
giacché non viene considerato nella sua vera consistenza ma, piuttosto, in una
sorta di suo surrogato che le parti, nel far valere le proprie ragioni,
confezionano dinanzi al giudice adito.
Certo, per quel che attiene le specifiche deduzioni formulate dal ricorrente,
dal resistente e dai controinteressati, la garanzia di una pronunzia che si fondi
principalmente sul pubblico interesse è contenuta in re ipsa nel principio di
stretta legalità nella giurisdizione: il problema, però, come si è avuto modo di
notare, nasce per i profili che le parti non rilevano o, ancora, in tutti quei casi in
cui il giudice non può arrivare ad una decisione di merito, per es., perché il
ricorrente rinuncia alla propria azione nonostante, magari, il provvedimento
impugnato sia palesemente illegittimo.
Occorre precisare sin da subito che la pubblica amministrazione, una volta
costituitasi in giudizio, assume il vero e proprio ruolo di parte (parte resistente
appunto349) in quanto tende a difendere il proprio operato (altrimenti avrebbe
349 Più precisamente la parte resistente non è sempre un ente pubblico, ma il soggetto che
esercita il pubblico potere. Cfr. F. G. SCOCA, Giustizia amministrativa, Torino, 2013, pag. 238:
“L’analisi sin qui effettuata, sull’individuazione della parte resistente, ha lasciato emergere come nello
schema classico del processo amministrativo parte resistente sia necessariamente una pubblica
amministrazione. Non sembra fuoriuscire da tale schema il caso del c.d. organo indiretto della
pubblica amministrazione, contemplato, peraltro, nella elencazione di cui all’art. 28 dello schema di
Codice, sostituita nel testo definitivo, con la locuzione “il soggetto equiparato resistente”. La
legislazione degli ultimi anni ha imposto in molti casi a soggetti privati concessionari di adottare per
l’affidamento di lavori, servizi e forniture le stesse procedure seguite dai soggetti pubblici. Sul punto la
giurisprudenza ha ritenuto che, nonostante si tratti sul piano soggettivo di una lite tra privati, il
carattere oggettivamente amministrativo dell’attività esercitata dal concessionario debba indurre la
172
agito in autotutela350): non si può ragionevolmente ritenere che il pubblico
interesse sia garantito dallo stesso soggetto che venga “accusato” di non averlo
rispettato!
Vi è, allora, un’innegabile esigenza di istituire un meccanismo che curi
direttamente l’interesse pubblico, a prescindere che esso sia quello che
l’Amministrazione ha in concreto perseguito, che il privato ha indicato
mediante la formulazione di una situazione giuridica soggettiva pretesamente
lesa o, addirittura, ancora diverso da quello prospettato da tali soggetti: la vera
applicazione del principio di stretta legalità nella giurisdizione pretende,
insomma, che vi sia un sistema, un meccanismo, volto a garantire,
indipendentemente dalle parti e dalla configurazione di una situazione giuridico
soggettiva lesa, che l’applicazione della legge coincida, in questo specifico
ambito, anche con il perseguimento del pubblico interesse; come si è più volte
detto, il diritto amministrativo trova la sua ragion d’essere nello scopo a cui
mira e non è producente limitare il sindacato sugli atti emanati dal pubblico
potere ad un perimetro in cui l’interesse della comunità non si posizioni nello
stesso gradino in cui viene collocato nel procedimento amministrativo.
Scartata, per i profili sopra delineati, l’ipotesi di una giurisdizione
amministrativa vocata ad applicare il diritto obiettivo, si può rispondere alla
domanda con la quale si è concluso il precedente paragrafo utilizzando una
figura già nota al nostro ordinamento: il pubblico ministero351; esso, come
giurisdizione del giudice amministrativo. In quest’ottica il privato concessionario diviene parte
resistente nel processo amministrativo”.
350 All’interno del procedimento, il potere di autotutela ha il duplice scopo di salvaguardare la
legittimità e l’opportunità dell’agere della pubblica amministrazione. Cfr. P. GIANNITI, La disciplina
dell'autotutela. Nel diritto costituzionale, civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario,
comunitario ed internazionale, Padova, 2010, pag. 435 e ss.“L’autotutela rappresenta sempre
un’attività sostanzialmente amministrativa, anche se secondaria o sussidiaria nel senso che essa ha lo
scopo di verificare la legittimità e l’opportunità nonché di garantire l’efficacia e l’esecuzione degli
atti amministrativi precedentemente emanati dalla pubblica amministrazione”
351 L’inquadramento, all’interno del sistema italiano, del pubblico ministero ha sempre
sollevato numerose problematiche che, benché si siano sviluppate con riguardo al suo ruolo nel
processo penale, valgono, in generale, a comprendere tale figura. Cfr. M. Scaparone, Pubblico
173
affermato dalla Consulta per altri “ambiti” giurisdizionali, “non fa valere
interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale
all’osservanza della legge”352 in quanto “organo di giustizia, preposto,
nell’interesse generale, alla difesa dell’ordinamento” 353.
Prima, però, di intrattenersi sul tema, occorrerebbe, innanzitutto, domandarsi
se l’istituzione di un pubblico ministero possa essere l’unica soluzione adeguata
alla risoluzione delle problematiche fin qui evidenziate.
Negli anni, infatti, vi sono state diverse iniziative legislative volte ad istituire
dei “meccanisimi” in grado di tutelare il pubblico interesse nel giudizio
amministrativo, spesso aspramente criticate. Si ricorda che:
-
durante l’XI legislatura, per esempio, era stato discusso, presso la prima
Commissione del Senato, un disegno di legge che avrebbe dovuto
conferire al Prefetto, d’ufficio o su denunzia dei cittadini, il potere di
ministero (dir. proc. pen.), in Enc. del Dir., XXXVII, 1988, pag. 1099 e ss.: “L’ordinamento della
repubblica ha realizzato quella concezione italiana del pubblico ministero che, vigenti gli
ordinamenti liberale e fascista, molti avevano indicato come indispensabile per sottrarre l’esercizio
dell’azione penale e, in generale l’amministrazione della giustizia repressiva, alle interferenze del
potere politico. […] I magistrati requirenti furono così equiparati a quelli giudicanti quanto alla
garanzia dell’inamovibilità […]. In seguito l’Assemblea costituente non riuscì a prendere una
posizione esplicita sul problema dei rapportri tra il pubblico ministero e gli altri poteri dello Stato.
Chiamata a scegliere fra il testo della Commissione dei Settantacinque, che proponeva di stabilire che
<<il pubblico ministero gode di tutte le garanzie dei magistrati >>, e un emendamento presentato in
aula dall’onorevole Leone, il quale proponeva invece di stabilire che << il pubblico ministero è organo
del potere esecutivo >>, l’Assemblea finì per votare l’art. 107, comma 4 cost., che, a conclusione di una
serie di quattro articoli enuncianti le garanzie di indipendenza dei magistrati ordinari, si limita alla
statuizione per cui << il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme
sull’ordinamento giudiziario>> […] Quali che fossero i convincimenti o gli intenti di compromesso
personalmente coltivati da coloro che votarono l’art. 107, comma 4, cost., la Costituzione esige che al
pubblico ministero almento per quanto riguarda l’esercizio dell’azione penale, la legge assicuri
l’indipendenza da ogni potere dello Stato” La Corte Costituzionale è specificamente intervenuta sul
tema affermando che il pubblico ministero “è un magistrato appartenente all’ordine giudiziario,
collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza da ogni altro potere” (sent. N. 190 del
16 dicembre 1970).
352 Così la summenzionata sentenza n. 190/1970. Nello stesso senso, cfr. Corte Cost., sent. N.
96 del 29 aprile 1975. In dottrina si rinvia a A. M. SANDULLI, Funzioni pubbliche neutrali e
giurisdizione in Riv. Dir. Proc., 1964, pag. 207 e ss.
353 Così Corte Cost., sent. n. 136 del 22 giugno 1971.
174
proporre ricorso contro gli atti delle Pubbliche Amministrazioni locali,
presenti nel circondiario di propria competenza;
-
il d.l. 8 marzo 1993, n. 54, poi, all’art. 3 (che non è stato convertito),
aveva attribuito al Procuratore Generale presso la Corte dei conti il potere
di proporre ricorso giurisdizionale innanzi al TAR competente per
l’annullamento degli atti illegittimi delle pubbliche amministrazioni “in
vista dell’interesse generale al buon andamento e all’imparzialità di
esse, a tutela della legittimità dell’azione amministrativa”.
Entrambe tali iniziative si sono concluse, però, con un nulla di fatto e non val
la pena commentarle.
Viceversa, si possono brevemente analizzare tre ulteriori istituti che, di
recente, sono stati introdotti nel nostro panorama normativo.
Il primo è stato introdotto con il D.lgs. 198/09 che, dando attuazione alla L.
n. 15/09, in materia di efficienza della pubblica amministrazione, ha istituito le
c.d. class action nei confronti delle pubbliche amministrazioni354. Viene
consentito ai titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei ad una
pluralità di utenti e consumatori, di agire in giudizio nei confronti delle
pubbliche amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici i quali, nello
svolgimento delle proprie attività, abbiano leso i loro diritti attraverso: a) la
violazione di standard qualitativi ed economici; b) la violazione di obblighi
contenuti nelle Carte dei Servizi; c) l'omesso esercizio di poteri di vigilanza, di
controllo o sanzionatori; d) la violazione dei termini di legge; e) la mancata
emanazione di atti amministrativi355.
354 Ovviamente, tale istituto è ben diverso da quello introdotto dall’art. 140bis del Codice del
consumo.
355 Recita, infatti, l’art. 1, “Presupposti dell'azione e legittimazione ad agire”, co. 1: “Al fine di
ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di
interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralita' di utenti e consumatori possono
agire in giudizio, con le modalita' stabilite nel presente decreto, nei confronti delle amministrazioni
pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici, se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei
propri interessi, dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi
generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non
175
Il ricorso non prelude ad ottenere il risarcimento del danno cagionato dagli
atti e dai comportamenti della P.A. in quanto la sentenza, nell’accertare la
violazione, l'omissione o l'inadempimento, ordina all'ente pubblico di porvi
rimedio entro un congruo termine, nei limiti delle risorse strumentali,
finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica356.
Il secondo istituto che attira la nostra attenzione è stato introdotto dal d.l. n.
201 del 2011 “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento
dei conti pubblici” che ha modificato la l. n. 287 del 1990, inserendo il nuovo
art. 21bis “Poteri dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato sugli
atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza”.
L’art. 21bis affida all’AGCM la legittimazione “ad agire in giudizio contro
gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi
amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del
mercato” 357.
Il terzo, infine, è stato disposto con l’art. 36, comma 2, lettera n) del d.l. 24
gennaio 2011, n. 1, convertito con modificazioni, nella legge 24 marzo 2012, n.
27: con tale norma è stato disposto che, “con riferimento alla disciplina della
oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento, dalla violazione degli obblighi contenuti
nelle carte di servizi ovvero dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i
concessionari di servizi pubblici, dalle autorita' preposte alla regolazione ed al controllo del settore e,
per le pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse in conformita' alle disposizioni in materia di
performance contenute nel decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, coerentemente con le linee
guida definite dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrita' delle amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 13 del medesimo decreto e secondo le scadenze temporali definite dal
decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150”.
356 Per ulteriori approfondimenti si rinvia, tra gli altri, a G. SORICELLI, Contributo allo studio della
class action nel sistema amministrativo italiano, Milano, 2012.
357 Il procedimento è disciplinato dal comma 2 del ridetto articolo: allorquando l’AGCM ritenga
“che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della
concorrenza e del mercato, emette un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle
violazioni riscontrate”. Nel caso in cui l’amministrazione non si conformi nei successivi sessanta
giorni, l’Autorità ha trenta giorni di tempo per proporre il ricorso, patrocinato dall’Avvocatura dello
Stato. Secondo quanto previsto dal comma 3 del suddetto articolo, a tale giudizio si applica la
disciplina concernente i riti abbreviati (art. 119 e ss. c.p.a.).
176
lettera m) 358, l’Autorità [dei trasporti] può ricorrere al tribunale amministrativo
regionale del Lazio”.
Ebbene, i “meccanismi” sopra brevemente compendiati non parrebbero
essere in grado di rispondere alle esigenze di cui sopra si è detto.
Quanto alla class action, infatti, si tratta anch’esso di un giudizio instaurato
da soggetti privati, i quali, non per forza tendono a quel pubblico interesse
generale di cui si è discusso ma, viceversa, ad uno specifico interesse di cui si
fanno portatori.
Quanto alle azioni “privilegiate” concesse all’AGCM e all’Autorità dei
trasporti, a prescindere che anch’esse si muovono, in quest’ambito, similmente
ad un qualsiasi soggetto privato – fatta salva, per l’AGCM, la fase
358 Art. 36, comma 2, lettera m), l. 24 marzo 2012, n. 27: “Con particolare riferimento al servizio
taxi, a monitorare e verificare la corrispondenza dei livelli di offerta del servizio taxi, delle tariffe e
della qualita' delle prestazioni alle esigenze dei diversi contesti urbani, secondo i criteri di
ragionevolezza e proporzionalita', allo scopo di garantire il diritto di mobilita' degli utenti. Comuni e
regioni, nell'ambito delle proprie competenze, provvedono, previa acquisizione di preventivo parere
da parte dell'Autorita', ad adeguare il servizio dei taxi, nel rispetto dei seguenti principi: 1)
l'incremento del numero delle licenze ove ritenuto necessario anche in base alle analisi effettuate
dalla Autorita' per confronto nell'ambito di realta' europee comparabili, a seguito di un'istruttoria
sui costi-benefici anche ambientali, in relazione a comprovate ed oggettive esigenze di mobilita' ed
alle caratteristiche demografiche e territoriali, bandendo concorsi straordinari in conformita' alla
vigente programmazione numerica, ovvero in deroga ove la programmazione numerica manchi o
non sia ritenuta idonea dal comune ad assicurare un livello di offerta adeguato, per il rilascio, a titolo
gratuito o a titolo oneroso, di nuove licenze da assegnare ai soggetti in possesso dei requisiti stabiliti
dall'articolo 6 della legge 15 gennaio 1992, n. 21, fissando, in caso di titolo oneroso, il relativo importo
ed individuando, in caso di eccedenza delle domande, uno o piu' criteri selettivi di valutazione
automatica o immediata, che assicurino la conclusione della procedura in tempi celeri. I proventi
derivanti dal rilascio di licenze a titolo oneroso sono finalizzati ad adeguate compensazioni da
corrispondere a coloro che sono gia' titolari di licenza; 2) consentire ai titolari di licenza d'intesa con
i comuni una maggiore liberta' nell'organizzazione del servizio sia per fronteggiare particolari
eventi straordinari o periodi di prevedibile incremento della domanda e in numero proporzionato alle
esigenze dell'utenza, sia per sviluppare nuovi servizi integrativi come il taxi ad uso collettivo o altre
forme; 3) consentire una maggiore liberta' nella fissazione delle tariffe, la possibilita' di una loro
corretta e trasparente pubblicizzazione a tutela dei consumatori, prevedendo la possibilita' per gli
utenti di avvalersi di tariffe predeterminate dal comune per percorsi prestabiliti; 4) migliorare la
qualita' di offerta del servizio, individuando criteri mirati ad ampliare la formazione professionale
degli operatori con particolare riferimento alla sicurezza stradale e alla conoscenza delle lingue
straniere, nonche' alla conoscenza della normativa in materia fiscale, amministrativa e civilistica del
settore, favorendo gli investimenti in nuove tecnologie per l'efficientamento organizzativo ed
ambientale del servizio e adottando la carta dei servizi a livello regionale”.
177
precontenziosa – e in disparte le numerose critiche pervenute da più parti per
l’attuazione di tali riforme, si può semplicemente osservare che, anche in tali
procedimenti, i soggetti legittimati non perseguono un pubblico interesse
generale, ma agiscono per uno specifico interesse, ovvero quello di caducare i
provvedimenti che violino la tutela della concorrenza e del mercato per l’uno, e
quelli che violino la corrispondenza dei livelli di offerta del servizio taxi, delle
tariffe e della qualita' delle prestazioni alle esigenze dei diversi contesti urbani,
ai criteri di ragionevolezza e proporzionalita' per l’altro, interessi che non
coincidono con quello più generale che può insistere su un determinato
provvedimento. Inoltre, tali soggetti non garantiscono la stessa tutela che
deriverebbe da un organo del tutto terzo, preposto specificamente alla sola
funzione di perseguire l’interesse pubblico.
A tal punto della trattazione, la scelta di istituire un pubblico ministero nel
giudizio amministrativo appare l’unica che pare in grado di tutelare l’interesse
pubblico generale: pertanto, di seguito, verrà brevemente analizzato il giudizio
presso la Corte dei conti e il ruolo che assume la relativa Procura nei giudizi di
responsabilità, poiché essi si sviluppano in un ambito molto simile a quello da
cui si sta partendo.
Secondo parte della dottrina, la Corte dei conti deve essere collocata tra le
cc.dd. giurisdizioni amministrative speciali, in quanto non appartenente né alla
giurisdizione dell’A.G.A. né a quella dell’A.G.O359.
In realtà, il concetto di "giurisdizioni amministrative speciali"360 non è di
facile identificazione, dato che le norme costituzionali non sembrano risolvere
tale problematica: anche i tribunali amministrativi regionali ed il Consiglio di
Stato possono, infatti, considerarsi giurisdizioni speciali, in quanto non
359 Cfr. L. VERRIENTI, Giurisdizioni amministrative speciali, in Dig. disc. pubbl. VII, Torino, 1991,
pag. 490 e ss.
360 Cfr. S. ROMANO, Le giurisdizioni speciali amministrative, in Primo trattato completo di diritto
amministrativo italiano (a cura di V.E. Orlando), III, Milano, 1901, pag. 509 ss.
178
appartenenti alla giurisdizione ordinaria (civile e penale)
361
, nonostante siano
ormai considerati “giudici ordinari degli interessi legittimi”362. Ed infatti, "ciò
che oggi è speciale può domani, per graduali e progressive modificazioni,
divenire ordinario e viceversa", e non è sempre facile individuare la
scriminante che porta a ritenere la specialità di un organo giurisdizionale363.
Non pare un caso, insomma, che tanto la dottrina quanto la giurisprudenza
sembrino ormai propendere ad affermare che anche la giurisdizione contabile
dovrebbe essere considerata ordinaria364.
A prescindere dalla natura di tale giurisdizione, occorre in questa sede
delimitare l’ambito nel quale si svolgono i c.d. giudizi di responsabilità.
Preliminarmente, a più di 150 anni dalla sua istituzione, è interessante
leggere, dal sito istituzionale della Corte dei conti, quali, secondo essa, siano le
proprie funzioni: “La Corte dei conti ha sempre svolto sin dalla legge istitutiva
14 agosto 1862 n. 800 funzioni giurisdizionali, in materia di giudizi di conto
(giudizio sui conti dei c.d. agenti contabili) e di responsabilità dei contabili ed
altri agenti pubblici per i "valori" perduti per loro colpa e negligenza.
Anche in materia pensionistica la Corte, che sulla base della legge istitutiva
(art. 11) liquidava le pensioni, in caso di reclamo giudicava con le forme della
giurisdizione contenziosa.
La Costituzione della Repubblica, all’art. 103, dopo ampio dibattito in sede
di Assemblea costituente, ha mantenuto l’attribuzione alla Corte dei conti sia
delle funzioni di controllo che di quelle giurisdizionali.
361 Cfr. V. OTTAVIANO, Sulla nozione di ordinamento amministrativo e di alcune sue applicazioni,
in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, 872 ss.; C. DI MAIO, Giurisdizioni speciali, Milano, 1941, pag. 4 e ss.
362 M. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, 1994, pag. 124-126.
363 N. MERLO, Sulla natura del contenzioso elettorale e sull'applicabilità ai ricorsi innanzi alla
G.P.A. delle norme sul processo amministrativo ordinario, in Rass. dir. pubbl., 1957, pag. 305.
364 Cfr., ex multis, F. TROMBETTA, Tutela della pubblica finanza: cenni sulla giurisdizione contabile,
in Econ. cred. 1986, n. 4, pag. 152; V. GUCCIONE, Corte dei conti, in Enc. Giur., IX, Roma, 1988, pag. 9;
M. SCIASCIA, Manuale di diritto processuale contabile, Milano, 1996, pag. 8-9. In giurisprudenza si
rimanda, per tutte, a Corte dei conti, Sez. riun, 4 agosto 1958 n. 9, in Foro Amm. 1958.
179
L’art. 103 della Costituzione assegna alla Corte la giurisdizione nelle
"materie di contabilità pubblica".
Detta espressione deve essere ben chiarita, nel senso che essa si riferisce
alle origini della giurisdizione della Corte che, come ricordato, giudicava in
materia di giudizi di conto e di responsabilità.
Il concetto, interpretato in modo evolutivo anche alla luce delle
trasformazioni dell’agire amministrativo, va inteso nel senso che la Corte dei
conti è competente a giudicare agenti contabili, amministratori e funzionari
pubblici per tutte le vicende comunque concernenti la gestione di risorse
pubbliche (in senso ampio).
Inoltre, la Corte ha la giurisdizione nella materia delle pensioni civili,
militari e di guerra” 365.
Per quel che riguarda la responsabilità amministrativa contabile, che è quella
che più ci interessa, essa consiste nella responsabilità patrimoniale in cui
incorrono i pubblici funzionari, o i soggetti ad essi equiparati per l’esercizio
delle proprie funzioni, che causano un danno economico alla pubblica
amministrazione per inosservanza dolosa o colposa degli obblighi di servizio366.
Il “bene tutelato” è la salvaguardia delle finanze pubbliche, “ossia si mira a
garantire che le gestioni finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli Enti
pubblici si svolgano senza lesioni o pregiudizi.
Il giudizio contabile assume, in tal modo, valenza sanzionatoria della cattiva
utilizzazione delle risorse provenienti dal gettito fiscale e della gestione
superficiale e scorretta dei beni nell’ambito pubblicistico; attraverso la tutela
giurisdizionale contabile, si esercita il controllo sull’utilizzazione del denaro e
dei beni pubblici.
È proprio nell’ottica di questa funzione dei giudizi contabili che meglio si
comprende la sempre crescente tendenza, prima della stessa giurisprudenza
365 cfr. http://www.corteconti.it/giurisdizione/
366 F. GARRI, G. DAMMICCO, A. LUPI, P. DELLA VENTURA, L. VENTURINI, I giudizi innanzi alla Corte dei
conti. Responsabilità, Conti, Pensioni. Istituti e rassegna della giurisprudenza, Milano, 2007
180
contabile, ed, ora, anche della giurisprudenza della Corte di cassazione, ad
ampliare l’ambito della giurisdizione della Corte dei conti in materia di
responsabilità contabile” 367.
In quest’ambito, dunque, la Corte dei conti esprime il proprio giudizio a
seguito dell’attività istruttoria svolta dalla Procura appositamente istituita:
“L’azione viene esercitata dal pubblico ministero contabile e, cioè, dal
Procuratore regionale competente presso le Sezioni giurisdizionali regionali
della Corte dei conti e, in grado d’appello, dal Procuratore generale
rappresentante il P.M. innanzi alle Sezioni d’appello della Corte dei conti. Il
P.M. è l’unico soggetto che può attivare l’azione di responsabilità, non potendo
il giudice procedere d’ufficio in assenza di domanda di parte. Se, quindi, il P.M.
contabile ritiene che non vi siano i presupposti per l’esercizio dell’azione di
responsabilità, il processo non avrà inizio. E’ da notare che l’ente danneggiato,
mentre può (anzi deve) segnalare i fatti dannosi alla competente Procura della
Corte dei conti per l’eventuale esercizio dell’azione, non può sostituirsi al P.M.,
attivando il giudizio nei confronti dei presunti responsabili, non essendo
titolare dell’azione di responsabilità amministrativa. L’attribuzione del potere
di agire in giudizio a un organo neutrale e indipendente, estraneo
all’amministrazione, è preordinata a garantire il rispetto del principio di
imparzialità e il principio del buon andamento” 368.
Nel giudizio contabile, insomma, il p.m. assume un ruolo determinante in
quanto è l’unico soggetto che, a seguito dell’avvenuta conoscenza di una
notizia riguardante il compimento di un fatto potenzialmente causativo di danno
per una Pubblica amministrazione, esercita la relativa azione369.
367 P. PETRONI, Responsabilita’ amministrativo/contabile e implicazioni in tema di giurisdizione
della corte dei conti degli amministratori di societa’ che gestiscono servizi pubblici locali, in
www.diritto.it, 2007.
368 cfr. http://www.corteconti.it/responsabilita/
369 G.D. TOMA, Le indagini nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile. risvolti
operativi in www.diritto.it, 2011: l’esercizio dell’azione contabile è subordinato alla notitia damni
che “ne costituisce il necessario presupposto processuale. Il P.M. contabile può individuarla aliunde,
181
E’ interessante tener conto dei poteri che, prima dell’esercizio dell’azione,
sono attribuiti al P.M. contabile, quali:
“- richiesta in comunicazione di atti e documenti in possesso di autorità
giudiziarie ed amministrative, con possibilità di disporre accertamenti diretti
(art. 74, r.d. 12 luglio 1934 n. 1214);
- ispezioni ed accertamenti diretti, anche a mezzo della Guardia di finanza,
presso le pubbliche amministrazioni ed i terzi contraenti o beneficiari di
provvidenze finanziarie a destinazione vincolata (art. 16, comma 3, d.l. 13
maggio 1991, n. 152, conv. con modif. nella l. 12 luglio 1991, n. 203);
-
delega di
adempimenti istruttori
a
funzionari delle
pubbliche
amministrazioni con la possibilità di avvalersi di consulenti tecnici, nel rispetto
delle disposizioni di cui all’ art. 73 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (art. 2,
comma 4, d.l. 15 novembre 1993, n. 453, conv. con modif. nella legge 14
gennaio 1994, n. 20 - recante Disposizioni in materia di giurisdizione e
controllo della Corte dei conti).
In particolare, l’art. 5, comma 6 del d.l. n. 453 del 1993 amplia
ulteriormente i poteri del magistrato inquirente, raccogliendoli organicamente
in un’unica disposizione ed evidenziando come il P.M. contabile, nell’esercizio
dell’istruttoria di sua competenza, possa disporre l’esibizione di documenti,
l’effettuazione di ispezioni ed accertamenti diretti presso le pubbliche
amministrazioni ed i terzi contraenti o beneficiari di provvidenze finanziarie a
ma può anche riceverla direttamente dall’amministrazione che si ritenga danneggiata, dalla stessa
Corte dei conti in sede di controllo o di giurisdizione, da amministrazioni diverse da quelle
astrattamente danneggiate che abbiano compiti ispettivi o di controllo o di vigilanza, o, altresì, da
un’autorità giudiziaria o requirente (r.d. n. 1038/1933, art. 43). L’assenza della notitia damni
preclude al requirente il legittimo esercizio di ogni attività di indagine volta all’acquisizione degli
elementi necessari per l’esercizio dell’istruttoria preliminare di sua competenza. Il P.M. contabile può
esercitare il potere di indagine solo << in presenza di fatti o di notizie che facciano presumere
comportamenti illeciti di pubblici funzionari in quanto astrattamente produttivi di danno erariale >>.
Il P.M., a seguito di ricezione di una notitia damni non manifestatamene infondata e se ritenuta di
competenza della sezione presso la quale esercita le proprie funzioni, deve aprire una vertenza volta
ad accertare la fondatezza o meno dei fatti in essa contenuti, essendogli preclusa ogni scelta
discrezionale. L’esercizio dell’azione di responsabilità gestoria è, infatti, obbligatoria alla stessa
stregua dell’analogo obbligo che costituzionalmente incombe sul P.M. nell’esercizio dell’azione penale.
182
carico dei bilanci pubblici, il sequestro di documenti, audizioni personali,
perizie e consulenze.
L’insieme dei poteri viene poi richiamato dall’art. 3, comma 8 della l. 14
gennaio 1994, n. 20” 370.
Il quadro normativo evidenzia, insomma, che il p.m. contabile assume una
vasta autonomia nella fase pre-processuale, autonomia ispirata dagli interessi
pubblici generali che il medesimo persegue371: come rilevato dalla Corte
Costituzionale, infatti, il "Procuratore Generale della Corte dei conti, nella
promozione dei giudizi, agisce nell'esercizio di una funzione obiettiva e
neutrale. Egli rappresenta l'interesse generale al corretto esercizio, da parte
dei pubblici dipendenti, delle funzioni amministrative e contabili, e cioè un
interesse direttamente riconducibile al rispetto dell'ordinamento giuridico nei
suoi aspetti generali ed indifferenziati; non l'interesse particolare e concreto
dello Stato in ciascuno dei settori in cui si articola o degli altri enti pubblici in
relazione agli scopi specifici che ciascuno di essi persegue, siano pure essi
convergenti con il primo. Egli vigila per l'osservanza delle leggi, per la tutela
cioè dello Stato e per la repressione dei danni erariali conseguenti ad illeciti
amministrativi, ma non effettua un controllo diretto ad accertare se i
provvedimenti delle autorità amministrative siano stati emanati con
l'osservanza delle leggi e con il rispetto dei criteri della buona e regolare
amministrazione” 372.
Orbene, è noto che, in questo periodo storico, in cui l’imperativo sembra
essere la c.d. spending review, si è assistito ad un prolificare dei giudizi
370 G.D. TOMA, op. ult. cit.
371 Per completezza, occorre però segnalare che l’attribuzione di un così vasto fascio di poteri
alla Procura contabile, unitamente ad alcune zone grigie concernenti i poteri del giudice contabile,
hanno sollevato non poche critiche da parte della dottrina CFR.: S. RISTUCCIA, D. VISCOGLIOSI,
Giurisdizione della Corte dei conti e giusto processo secondo Costituzione: un puzzle incomponibile? in
Queste Istituzioni, 2007.
372 Corte Cost., sent. n. 104/1989 richiamata nella sentenza n. 1/2007.
183
contabili, i quali, però, non intervengono sulla illegittimità del provvedimento
amministrativo anche nei casi in cui il danno contabile derivi proprio da ciò.
Parrebbe necessaria, per i profili che sopra sono stati delineati, l’istituzione
nel processo amministrativo di un pubblico ministero che abbia il compito di
tutelare il pubblico interesse e non sembra che tale ipotesi non sia mai stata
presa seriamente in considerazione373; “Per la verità, non è che il legislatore,
pur spesso procedendo “a rimorchio” della giurisprudenza, sia rimasto inerte
di fronte ai problemi posti dai nuovi compiti e poteri attribuiti al giudice
amministrativo, ed alla conseguente necessità di dotare tale giudice di un
humus normativo idoneo a connotarne la funzione sociale attuale. Di qui una
serie di interventi normativi che hanno comportato la progressiva
trasformazione del processo amministrativo, pur nel permanere delle sue
caratteristiche originarie (struttura impugnatoria, snellezza istruttoria,
funzione conformativa delle pronunce), da processo sull’atto a processo sul
rapporto, in un iter evolutivo che ha dato luogo a un articolato dibattito
dottrinale, non mancando chi ne vede il naturale – e talora auspicato – sbocco
nella trasformazione della giurisdizione amministrativa in una giurisdizione di
diritto oggettivo, con una serie di ricadute anche sul piano procedurale e
ordinamentale (introduzione del pubblico ministero anche nel giudizio
amministrativo, abbandono del principio dispositivo in materia di prova
etc.)”374.
Si ritiene, pertanto, che la preminenza del pubblico interesse nella funzione
attribuita alla pubblica amministrazione non possa e non debba essere lasciata
ai margini del relativo sindacato giurisdizionale se si vuole realmente dare
applicazione al principio di stretta legalità nella giurisdizione: istituire un p.m.
per l'osservanza delle leggi, per la tutela cioè dello Stato, appare una scelta
373 C. BIAGINI, Istituzione del pubblico ministero presso il Consiglio di Stato e presso i tribunali
amministrativi regionali, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, Roma, 1981, pag.
1715 e ss.
374 R. GRECO, Le ragioni di un codice amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010.
184
oculata e che, a ben vedere, non potrebbe in alcun modo ledere gli interessi
legittimi dei privati, in quanto questi sono speculari al pubblico interesse.
Né, diversamente, una riforma legislativa in tal senso dovrebbe finire col
minare il c.d. principio del contraddittorio, anche sotto il profilo della
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato: basterebbe, infatti, che il pubblico
ministero venisse dotato degli stessi poteri che le altre parti possiedono nel
giudizio e che, quindi, a queste ultime venga dato modo di contrastare le
deduzioni e le allegazioni della Procura.
Una riforma di tal genere, insomma, dovrebbe attribuire al pubblico
ministero la possibilità di agire contro i provvedimenti amministrativi
illegittimi che risultino contrari al pubblico interesse (attribuendo, quindi, alla
Procura, lo specifico onere di una sua identificazione) e, analogamente,
dovrebbe prevedere che egli possa proporre ricorso incidentale per quei vizi
dell’atto non dedotti dalle parti, ovviamente negli stessi termini a queste ultime
concessi (senza considerare che tali attività potrebbero far emergere profili
penalmente rilevanti, per il che si auspica una intensa collaborazione con il p.m.
penale, mediante la trasmissione degli atti alla Procura competente).
Viceversa, si ritiene che al pubblico ministero non dovrebbe essere
consentito di intervenire in giudizio per difendere le ragioni della pubblica
amministrazione, dato che tale compito è affidato alla parte resistente che, per
di più, si giova del presidio del giudice amministrativo che è vincolato
all’applicazione della legge.
185
4.4 LA MANCATA OSSERVANZA DEL PRINCIPIO DI STRETTA LEGALITÀ
NELLA
GIURISDIZIONE
DEL
GIUDICE
AMMINISTRATIVO
CONFIGURATA COME VIOLAZIONE DEI LIMITI ESTERNI DELLA
GIURISDIZIONE: L’ECCESSO DI POTERE GIURISDIZIONALE.
Al paragrafo 3.3 del presente lavoro si è avuto modo di esaminare l’art. 111
Cost., recante le disposizioni relative al c.d. giusto processo, nell’ottica
sistematica del nostro ordinamento costituzionale e, in particolar modo, sotto la
luce dell’art. 101, II co., Cost.
Tuttavia, al fine di prenderli in considerazione nelle ultime battute del
presente lavoro, si è volutamente evitato di esaminare gli ultimi due commi
dell’art. 111 Cost., i quali recitano “Contro le sentenze e contro i provvedimenti
sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o
speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si
può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in
tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei
conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla
giurisdizione”.
In altre parole, il legislatore costituente ha attribuito alla Corte di Cassazione
il “compito” di vegliare sulla corretta applicazione della legge e, quindi,
sull’osservanza del principio di stretta legalità nella giurisdizione all’interno
dell’ordinamento italiano375 limitando, però, tale attività, nei confronti delle
decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, ai soli motivi
concernenti la giurisdizione.
Per quel che attiene la prima norma sopra riportata (corrispondente al 7°
comma dell’art. 111) essa ha avuto un’importante forza precettiva, tale da
incidere sul sistema processuale italiano anche in casi in cui si è annoverato il
silenzio del legislatore.
375 Per una recente analisi del ruolo nomofilattico della Corte di Cassazione si rinvia a S.
RUSCIANO, Nomofilachia e ricorso in Cassazione, Torino, 2012.
186
Già nel 1953, infatti, e poi con giurisprudenza pressocché costante, le
Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che “a seguito dell’entrata in
vigore dell’art. 111 Cost., tutti i provvedimenti decisori, ancorché siano
dichiarati sentenze non impugnabili o siano definiti ordinanze dalle leggi
anteriori, sono impugnabili alla Cassazione per violazione di legge” 376, ove nel
concetto di violazione di legge si intendono ricompresi anche i vizi della
motivazione377.
Un discorso più approfondito, ai fini che qui interessano, va fatto per le
decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti in quanto, per esse, come
si è detto, è ammesso sì il ricorso in Cassazione per violazione di legge, ma con
l’esplicito limite che il vizio deve riguardare “motivi inerenti alla
giurisdizione”.
Occorre prima di tutto premettere che il principio per il quale la Corte di
Cassazione è il “giudice della giurisdizione”378 non costituisce una novità
introdotta dalla Carta costituzionale, ma è storicamente derivato dall’evoluzione
della forma di governo avutasi già nel periodo pre-repubblicano379.
Si ricorda, infatti, che in passato, nell’ordinamento italiano, la giurisdizione
su quelli che, allora, venivano definiti conflitti di attribuzione, era stata affidata
al Re, sentito il Consiglio di Stato380 e, poi, per un certo periodo, soltanto a
quest’ultimo, con la l. 2248/1865.
Con la legge n. 3761/1877, però, alla Corte di Cassazione fu attribuito il
compito di dirimere i conflitti, positivi e negativi, attinenti alla giurisdizione e,
da allora, essa mantiene intatta tale prerogativa, stratificatasi anche nel codice
civile di rito, all’art. 362. Secondo autorevole dottrina “la limitazione del
376 Corte Cass., SS. UU., 30 luglio 1953, n. 2593. Per un commento a tale storica sentenza cfr. L.
LANFRANCHI, op. ult. cit., pag. 2 e ss.
377 Ex pluribus, Corte Cass., nn. 1919/1979, 1430/1981.
378 I.M. MARINO, Corte di Cassazione e <<giudici speciali>> - Sull’interpretazione dell’ultimo
comma dell’art. 111, in Giur it., IV, 1993.
379 E. CANNADA BARTOLI, Giurisdizione (conflitti di), in Enc. Dir., XIX, Milano, 1970, pag. 295 e ss.
380 Tale funzione del Re era disciplinata dalla legge del Regno di Sardegna n. 3780/1859.
187
ricorso, per i due organi di giurisdizione speciale il cui potere giurisdizionale,
unitamente a quello dei tribunali militari, è espressamente disciplinato dalla
Costituzione (art. 103), ai motivi attinenti alla giurisdizione, è dovuta a ragioni
di carattere storico, risalenti alla normativa del 1877 sui conflitti di
attribuzione, mantenuta anche dopo la istituzione della IV sezione del Consiglio
di Stato. […] La questione continuò ad essere definita in termini di
<<incompetenza dell’autorità amministrativa>> per avere la legge del 1899
considerato il Consiglio di Stato come organo amministrativo, mantenendo la
previsione del <<conflitto>> come oggetto di un’eccezione sollevata nel corso
del giudizio avanti il Consiglio medesimo. Il sindacato della Cassazione sulle
decisioni del giudice amministrativo sotto il profilo della giurisdizione fu
esercitato soltanto quando la Corte suprema pervenne a riconoscere al
Consiglio di Stato la natura di organo di giurisdizione speciale, trasformando il
conflitto di attribuzione in conflitto di giurisdizione, del quale era arbitra ai
sensi dell’art. 3 della legge del 1877” 381.
Il legislatore costituente, insomma, è intervenuto su una materia che prima
dell’introduzione della Carta costituzionale era demandata alla legge ordinaria
“allargando” il sindacato giurisdizionale della Corte di Cassazione sui
provvedimenti emessi dai giudici speciali, ma non riservando un uguale
trattamento ai provvedimenti emessi dal Consiglio di Stato (e dalla Corte dei
conti). Secondo la dottrina, una scelta di tal genere derivava dalla volontà di
dare parità di tutela ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi mediante il
riconoscimento della “parità” dei giudici posti a presidio delle due diverse
situazioni giuridico-soggettive: si voleva, in definitiva, rendere chiaro che
giudice civile e giudice amministrativo erano “entrambi giudici, a pari, di
distinte situazioni giuridiche” 382.
381 V. DENTI, Art. 111 Cost., in Commentario alla Costituzione Branca, 1987, pag. 35.
382 E. CANNADA BARTOLI, op. ult. cit., pag. 395.
188
Una siffatta impostazione del ricorso per cassazione in materia
amministrativa, anche a voler prescindere da valutazioni concernenti
l’opportunità “politica” della norma, non è andata esente da numerose
critiche383, giacché ha dato luogo ad una copiosa giurisprudenza di legittimità
che si è dovuta occupare, non senza altrettante critiche e con oggettive
difficoltà, della definizione dei casi in cui la questione posta al suo vaglio fosse
riconducibile a motivi attinenti alla giurisdizione . La questione si è presentata,
innumerevoli volte, con profili spesso molto diversi tra loro, sicché la Corte si è
trovata a riempire, di volta in volta, il contenuto del generico dettatto
costituzionale riferentesi alla violazione di legge per “motivi inerenti alla
giurisdizione”: il discrimine che, nel corso degli anni, essa ha posto tra le
situazioni che dinanzi ad essa possono essere sindacate rispetto a quelle che non
possono esserlo, risiede nella (non sempre facile) distinzione tra violazione dei
limiti esterni ed interni della giurisdizione in cui si postula sia incorso il
giudice; soltanto nel primo caso, infatti, l’art. 111 Cost. permetterebbe alla
Corte di Cassazione di esercitare le proprie funzioni sugli atti emanati dal
Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti.
Bisogna, a questo punto, precisare, prima di dare uno sguardo alla
giurisprudenza, che il principio di stretta legalità di cui all’art. 101, comma 2,
Cost., che impone al giudice civile, amministrativo e via discorrendo di dare
applicazione alla legge, determina, di per sé, la violazione dei limiti della
giurisdizione nei casi in cui il potere di jus dicere si inserisca in quegli spazi in
cui la norma, viceversa, non attribuisca quella determinata funzione all’organo
giudicante.
La dottrina si è infatti trovata a sostenere che “il controllo sul limite esterno
della giurisdizione amministrativa ha come scopo di impedire che nell’esercizio
del potere giurisdizionale loro conferito, il Consiglio di Stato e gli altri organi
383 M.S. GIANNINI, A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa, in Enc. del dir., 1970, pag. 294, i quali
affermavano, con amara ironia, che nel sistema di giustizia amministrativa italiano “non vi è nulla
da modificare. Vi è solo da cambiare in radice”.
189
di giustizia amministrativa invadano la sfera riservata dalla legge all’assoluta
discrezionalità della pubblica amministrazione, o emanino provvedimenti ad di
fuori di quelli previsti”, fermo restando che tale sindacato non può spingersi
sino “all’accertamento della insussistenza di una situazione di interesse
legittimo”384.
Sul punto, quindi, si è cercato di fare chiarezza, affermando che “il limite
esterno e il (cosiddetto) limite interno della giurisdizione amministrativa di
legittimità sono frutto di un’elaborazione sistematica propria del prevalente
orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, che in sostanza concepisce
l’area tradizionale della giurisdizione amministrativa come una sorta di corona
circolare, stretta tra due aree rientranti nella giurisdizione della Cassazione. In
base a tale concezione la giurisdizione amministrativa non solo non può
estendersi sul piano della giurisdizione oltre il perimetro ad essa assegnato ma
dovrebbe anche rispettare – sul piano organizzativo ed operativo – le norme
che, secondo il giudizio delle Sezioni Unite, fanno ritenere che il giudice
amministrativo abbia giudicato in condizioni o secondo modalità talmente
abnormi da farlo ritenere al di fuori di una (corretta) manifestazione di attività
giurisdizionale”385.
In altri termini, e salvo specificare cosa ciò voglia dire in concreto, si può
affermare che la violazione del c.d. limite esterno della giurisdizione si
configura ogni qual volta il giudice emani un provvedimento che travalichi
l’ambito della propria giurisdizione, attribuendosi un potere di jus dicere che
l’ordinamento non gli affida. Viceversa, si parla di limiti interni della
giurisdizione, non sindacabili dalla Corte di Cassazione, nel caso in cui le parti
lamentino non già lo sconfinamento del potere di jus dicere, bensì la presenza
384 V. CAIANELLO, Il cosiddetto limite esterno della giurisdizione amministrativa ed i poteri della
Cassazione, in Giur. It., 1971, IV, pag. 43.
385 S. GIACCHETTI, Giurisdizione amministrativa, incertezza del diritto, sindrome di Pilato, in
www.giustizia-amministrativa.it.
190
di errores in judicando o in procedendo che attengono alla fondatezza, o meno,
della domanda giudiziale.
Se da un punto di vista squisitamente “definitorio” è abbastanza facile dare
una nozione dei c.d. limiti esterni della giurisdizione, da un punto di vista
pratico occorre rilevare che ciò non è stato (e non è) semplice, giacché la
Suprema Corte di legittimità si è trovata ad affrontare numerose ed eterogenee
questioni.
Ciò non ha impedito, tuttavia, che sul tema si formassero alcune linee
direttrici, in base alle quali si può affermare, per esempio, che il giudice
amministrativo viola i limiti esterni della giurisdizione allorquando:
- invada le attribuzioni affidate, secondo il riparto di giurisdizione, al giudice
ordinario386;
- si trovi ad esercitare un potere riservato alla pubblica amministrazione ma
ciò “solo quando, esulando dai limiti del giudizio di legittimità, egli compia
direttamente e con efficacia vincolante ed immediata, accertamenti riservati
all’amministrazione attiva, proceda cioè ad una diretta valutazione della
corrispondenza dell’atto impugnato all’interesse pubblico in termini di
opportunità e di convenienza, ovvero quando la decisione finale, pur nel
rispetto della formula dell’annullamento, esprima una volontà dell’organo
giudicante che si sostituisce a quella dell’amministrazione, nel senso che,
procedendo ad un sindacato di merito,
si estrinsechi in una pronuncia
autoesecutiva, intendendosi per tale quella che abbia il contenuto sostanziale e
l’esecutorietà stessa del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori
provvedimenti amministrativi” 387;
386 Corte di Cass., S.U. Sent. 28 gennaio 2011, n. 2062.
387 Corte di Cass., S.U. Sent. 21 dicembre 2005 n. 28263.
191
- “in materia attribuita alla propria giurisdizione limitatamente al solo
sindacato di legittimità degli atti amministrativi, abbia compiuto un sindacato
di merito” 388;
- il provvedimento sia stato emesso in presenza di “alterazioni della struttura
qualitativa e quantitativa dell’organo giudicante” 389.
Oggi, tuttavia, pur con un’altalenante giurisprudenza, sembrerebbero aprirsi
nuovi spazi e nuove prospettive sull’utilizzo del ricorso per cassazione ex art.
111, 7° e 8° comma, Cost.390.
Nel 2012, infatti, dinanzi alla Suprema Corte, vi è stato un notevole aumento
dei ricorsi per violazione di legge per motivi attinenti alla giurisdizione che ha
riguardato, per una buona parte, l’applicazione delle regole del processo
amministrativo.
Di tutto ciò, la stessa rassegna del Massimario della Suprema Corte offre un
interessante compendio: “Un rilevante numero di sentenze della Suprema
Corte, peraltro, ha avuto ad oggetto ipotesi in cui veniva in contestazione
l’applicazione delle regole del processo amministrativo.
Tale profilo, riconducibile alla problematica valutazione degli errores in
procedendo o in judicando tradizionalmente sottratta al sindacato delle Sezioni
388 Corte di Cass., Sent. 29 aprile 2005 n. 8882; Ord. 22 dicembre 2003 n. 19664; Sent. 1 luglio
2002 n. 9558.
389 Corte di Cass., Ord. 4 febbraio 2005 n. 2199; Ord. 7 dicembre 2000 n. 146.
390 La stessa Corte di Cassazione ha ammesso che si assiste ad una estensione di tale concetto,
cfr. G. FUOCHI TINARELLI, La giurisdizione e il riparto di giurisdizione, in Rassegna della giurisprudenza
di legittimità, Vol. II, Roma, 2012, pag. 1: “Nel corso del 2012 le Sezioni Unite con i propri interventi
hanno ulteriormente definito e consolidato la progressiva lettura estensiva della nozione di «motivi
inerenti alla giurisdizione» contenuta nell’art. 111, ottavo comma, Cost., ossia degli unici motivi per
i quali, come ribadito dall’art. 362 cod. proc. civ., sono censurabili le decisioni del Consiglio di Stato e
della Corte dei conti. Con questa formula, infatti, si fa tradizionalmente riferimento ai vizi ravvisabili
nell’ipotesi in cui la sentenza abbia violato, in positivo o in negativo, l’ambito della giurisdizione in
generale (invadendo la sfera riservata all’autorità politica o all’amministrazione ovvero rifiutando la
giurisdizione sull’erroneo assunto della sua inesistenza in assoluto) o comunque abbia violato i limiti
esterni della propria giurisdizione (avuto riguardo agli ambiti di competenza della giurisdizione
ordinaria o delle altre giurisdizioni speciali ovvero, abbia compiuto, nel caso in cui sia riconosciuta
una giurisdizione di legittimità, un sindacato sul merito amministrativo), restando, invece, escluso
ogni sindacato sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale e, dunque, agli eventuali errori in
iudicando e in procedendo, che riguardano l’accertamento della fondatezza o meno della domanda”.
192
Unite, si inserisce in un percorso di progressivo ampliamento della stessa
nozione di “motivi inerenti alla giurisdizione”, che, in tal modo, viene sempre
più ancorata al principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Nella gran parte dei casi, invero, le Sezioni Unite, pur valutando l’eventuale
irregolarità o l’errata applicazione di norme e regole processuali, hanno
comunque concluso nel senso di ritenere insussistente, nel caso concreto, i
presupposti per l’ammissibilità di un proprio intervento.
Così è stato, in particolare, nelle seguenti decisioni:
- Sez. Un., n. 5943 (Rv. 622253) che ha ritenuto che la decisione
discrezionale del giudice amministrativo che disponga la sospensione del
processo, nell’attesa della soluzione di un incidente di costituzionalità sollevato
dal medesimo organo giurisdizionale in un diverso processo, pone il primo in
una condizione di temporanea attesa, ma non integra un’ipotesi di rifiuto della
giurisdizione;
- Sez. Un., n. 8071 (R.v. 622513) che ha affermato la necessità di una
valutazione complessiva e non atomistica della stessa motivazione della
decisione del Consiglio di Stato, le cui affermazioni «devono comunque essere
lette nel contesto complessivo della decisione stessa, non potendo la verifica
dell’osservanza, da parte del giudice amministrativo, dei limiti (esterni) nella
valutazione di congruità e logicità della motivazione dell’atto e della non
ingerenza della scelta tra le diverse opzioni valutative essere incentrata
soltanto su singole espressioni, o addirittura parole, estrapolate dal contesto
argomentativo della decisione»;
- Sez. Un., n. 12607 (Rv. 623344) secondo le quali la decisione di proseguire
il giudizio nonostante la proposizione di una domanda di ricusazione contro
alcuni componenti del collegio non integra un error in procedendo
riconducibile ai limiti esterni della giurisdizione pur prefigurandosi l’eventuale
nullità della sentenza in caso di successivo accoglimento dell’istanza di
ricusazione stessa.
193
In termini decisamente più incisivi, invece, si sono poste altre pronunce. In
particolare:
- Sez. Un., n. 10294 (Rv. 623049) esclude in termini recisi la condivisibilità
del principio processuale espresso dal Consiglio di Stato, secondo il quale «il
ricorso incidentale, diretto a contestare la legittimazione del ricorrente
principale mediante la censura della sua ammissione alla procedura di gara di
affidamento di appalti pubblici, deve essere sempre esaminato prioritariamente,
anche nel caso in cui il ricorrente principale alleghi l’interesse strumentale alla
rinnovazione dell’intera procedura». La Corte evidenzia, infatti, che, in tal
modo, due parti (le due imprese concorrenti) che sollevano la medesima
questione vengono trattate in modo ingiustificatamente differente (il ricorso
dell’una viene sanzionato con l’inammissibilità mentre l’altro è convalidato
con la conservazione di una aggiudicazione – in tesi – illegittima), e tale
risultato denota “una crisi di un sistema”, invece «di assicurare a tutti la
possibilità di provocare l’intervento del giudice per ripristinare la legalità e
dare alla vicenda un assetto conforme a quello voluto dalla normativa di
riferimento». Le Sezioni Unite, tuttavia, non conducono questa valutazione alle
sue più radicali conseguenze poiché – si afferma – la decisione «non costituisce
conseguenza di un aprioristico diniego di giustizia, ma di un possibile errore di
diritto che, pur rendendo ammissibile il ricorso avverso la predetta sentenza
del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost., stante l’evoluzione
del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle
parti, non ne giustifica la cassazione per eccesso di potere giurisdizionale»;
- analogamente Sez. Un., n. 15428 (Rv. 623300) che, con estrema chiarezza,
enuncia il principio secondo il quale «è configurabile l’eccesso di potere
giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo solo nel
caso di radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un
evidente diniego di giustizia» (nella specie si deduceva il mancato termine di
venti giorni dall’ultima notificazione per la fissazione della camera di consiglio
194
per la decisione sulla sospensiva, sede in cui, poi, senza opposizione delle parti
costituite, l’intero giudizio era stato definito con sentenza in forma
semplificata).
La tensione che si coglie da queste decisioni, dunque, è quella di considerare
come norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti
dell’attribuzione del potere giurisdizionale ma anche quella che dà contenuto a
questo potere, stabilendo le forme di tutela attraverso le quali si estrinseca: i
motivi inerenti alla giurisdizione possono riguardare anche gli errores in
procedendo ma solo se questi abbiano determinato uno stravolgimento del
processo. Ciò, tuttavia, è sufficiente a rendere ammissibile il ricorso alle
Sezioni Unite ma non ancora a giustificare la cassazione della decisione per
“eccesso di potere giurisdizionale”, soluzione che sembra richiedere che la
statuizione impugnata abbia realizzato un concreto diniego o rifiuto di
giustizia.
Tale assunto, del resto, emerge con chiarezza sul terreno che più
diffusamente è stato oggetto di esame da parte delle Sezioni Unite, ossia il
regime delle impugnazioni e le regole di formazione del giudicato. La Corte,
infatti, ha recentemente – Sez. Un., n. 20727 (Rv. 624059) – ribadito
l’ammissibilità del ricorso proposto contro la decisione del Consiglio di Stato
che abbia ritenuto precluso l’esame della questione di giurisdizione (pur
reiterata con l’appello) per essersi formato il giudicato sul punto, atteso che lo
stesso deve ritenersi proposto per motivi inerenti la giurisdizione, a cui spetta il
sindacato non solo sulle norme attributive della giurisdizione ma anche
sull’applicazione di quelle che ne regolano il rilievo, “nonché di quelle
correlate attinenti al sistema delle impugnazioni”.
All’interno di questa stessa direttrice – sia pure con alcune significative
differenze – si pone anche la giurisprudenza in tema di giudizio di
ottemperanza, avviata con la sentenza Sez. Un., n. 23302 del 2011 (Rv.
619646), che nel corso del 2012 ha trovato ulteriori conferme.
195
Con la sentenza Sez. Un., n. 739 (Rv. 620476) la Corte ha ribadito che «le
decisioni del Consiglio di Stato in sede di giudizio di ottemperanza sono
soggette al sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sul rispetto
dei limiti esterni della propria potestà giurisdizionale, tenendo presente che in
tal caso è attribuita al giudice amministrativo una giurisdizione anche di
merito. Al fine di distinguere le fattispecie nelle quali il sindacato è consentito
da quelle nelle quali è inammissibile, è decisivo stabilire se oggetto del ricorso
è il modo con cui il potere di ottemperanza è stato esercitato (limiti interni
della giurisdizione) oppure se sia in discussione la possibilità stessa, in una
determinata situazione, di fare ricorso al giudizio di ottemperanza (limiti
esterni della giurisdizione); ne consegue che, ove le censure mosse alla
decisione del Consiglio di Stato riguardino l’interpretazione del giudicato,
l’accertamento
del
comportamento
tenuto
dall’Amministrazione
e
la
valutazione di conformità di tale comportamento rispetto a quello che si
sarebbe dovuto tenere, gli errori nei quali il giudice amministrativo può
eventualmente incorrere, essendo inerenti al giudizio di ottemperanza, restano
interni alla giurisdizione stessa e non sono sindacabili dalla Corte di
cassazione». Tale principio ha poi trovato un’ulteriore riscontro con la
successiva Sez. Un., n. 8513 (Rv. 622554) che, con riguardo ad un giudizio di
ottemperanza, ha affermato, in termini più concisi, che «il giudice
amministrativo cade in eccesso di potere giurisdizionale quando non si limiti
all’interpretazione del giudicato, al quale si tratta di assicurare l’ottemperanza
stessa».
Occorre ricordare, sul punto, che la posizione delle Sezioni Unite muoveva
dal rilievo che, in sede di ottemperanza, il giudice amministrativo è chiamato
ad esercitare una giurisdizione di merito ma che tale rilievo non precludeva, di
per sé, il sindacato della Corte di cassazione ove fosse stato ecceduto il limite
entro il quale tale potere compete. Invero tale principio è stato più volte
ribadito dalle Sezioni Unite anche in tempi recenti (come da ultimo Sez. Un., n.
196
3689, Rv. 621674), dovendosi aver riguardo, in questi casi, all’estensione dei
poteri del giudice amministrativo.
Nella vicenda presa in considerazione (come anche in quella già in
precedenza valutata) – relativa al conferimento di un ufficio direttivo, con una
procedura
caratterizzata
dal
fatto,
sopravvenuto,
che
nelle
more
dell’ottemperanza tutti i partecipanti erano stati collocati a riposo – le Sezioni
Unite avevano posto l’attenzione non sull’interesse ad agire (la cui
collocazione è interna alla giurisdizione e, dunque, si sottrae al sindacato) ma
sull’oggetto e sullo scopo del giudizio di ottemperanza, investendo, pertanto, i
limiti (esterni) entro i quali è esercitabile la potestà giurisdizionale. L’avvenuto
pensionamento di tutti i partecipanti al concorso, in questa prospettiva,
toglieva al giudizio di ottemperanza la possibilità di conseguire il suo scopo,
mentre la prosecuzione dell’attività giurisdizionale in vista di conseguenze
pensionistiche o risarcitorie finiva per assegnare al giudizio un diverso scopo,
la cui tutela avrebbe potuto essere affrontata con un ordinario giudizio, innanzi
al medesimo giudice amministrativo o ad altro giudice speciale, e non in sede
di ottemperanza.
Giova rilevare che – quando oggetto dell’impugnazione sia una decisione
resa in sede di ottemperanza – con questo approccio confluisce nella nozione di
motivi inerenti alla giurisdizione l’analisi della fattispecie concreta su cui il
giudice amministrativo ebbe a pronunciarsi al fine di valutare se fatti
sopravvenuti rendano impossibile la realizzazione della causa tipica del
provvedimento amministrativo cui la P.A. sia vincolata per effetto del
precedente giudicato.
Non si può non sottolineare un tratto di significativa differenza di questa
giurisprudenza rispetto all’intero percorso della Suprema Corte in tema di
ampliamento della nozione di giurisdizione: il principio conduttore, più volte
ribadito sin dalla nota sentenza Sez. Un., n. 30254 del 2008 (Rv. 605845) in
tema di pregiudiziale amministrativa, pone l’accento sul valore della
197
giurisdizione come strumento per la tutela effettiva dei diritti e degli interessi
delle parti, mentre l’orientamento qui in considerazione finisce – in una
prospettiva per certi versi antitetica – per ridurre gli spazi di tutela a favore
della parte privata già assicurati dal giudice amministrativo in sede di
ottemperanza.
La dottrina, del resto, si è espressa in termini critici e non ha mancato di
osservare che, con riguardo allo specifico orientamento in esame, sembra
assumere preminente rilievo l’attuazione del diritto oggettivo rispetto alla
realizzazione dell’interesse sostanziale della parte che ha dato avvio al
giudizio, risultato questo che è suscettibile di condurre – in ispecie per le
situazioni caratterizzate dall’esistenza di uno spazio valutativo particolarmente
ampio per l’amministrazione – ad un vuoto di tutela (cfr. MARI, Osservazioni
alla sentenza della Cassazione, Sezioni unite, 9 novembre 2011, n. 23302:
sindacato della Suprema Corte sulle sentenze del giudice amministrativo rese
in sede di ottemperanza e rilevanza di sopravvenienze fattuali successive al
giudicato a giustificare un sostanziale vuoto di tutela, in Dir. proc. amm., 2012,
127-170).
Da ultimo, invero, la Corte è nuovamente intervenuta – Sez. Un., n. 17936
(Rv. 623612) – sulla problematica correlata all’abuso dello strumento del
giudizio di ottemperanza, precisando che si realizza eccesso di potere
giurisdizionale solamente se, per effetto dell’estensione della giurisdizione al
merito ex art. 134, comma 1, lett. a), cod. proc. amm., ne sia derivato un
indebito sconfinamento del provvedimento giurisdizionale nella sfera delle
attribuzioni proprie dell’amministrazione o, eventualmente, di un giudice
appartenente ad un ordine diverso. Sembrerebbe invece esclusa l’ipotesi –
oggetto di specifica considerazione nella giurisprudenza sopra citata – in cui
sia lo stesso giudice amministrativo (seppure in altra veste) ad avere
198
giurisdizione sulla questione, realizzandosi, in questo caso, un mero error in
procedendo, privo di rilevanza esterna”391.
Ebbene, è evidente che la Corte di Cassazione nel corso dell’anno 2012,
preoccupata da un andamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato che
sembrerebbe violare in concreto l’art. 101 Cost., II comma, ha lanciato un
chiaro messaggio al Supremo Consesso amministrativo: Essa, pur non
arrivando alla cassazione delle sentenze di volta in volta impugnate, si è spinta
sino a rilevare esplicitamente gli errores in judicando e in procedendo
commessi dal giudice amministrativo nelle sentenze poste al suo vaglio,
iniziando ad aprire uno spazio per il proprio intervento mediante l’allargamento
dei concetti di limiti esterni della giurisdizione e di eccesso di potere
giurisdizionale: in questa giurisprudenza, infatti, viene considerata norma sulla
giurisdizione non soltanto quella che individua i presupposti dell’attribuzione
del potere giurisdizionale ma anche quella che riempie detto potere e ne
stabilisce il contenuto, con la conseguenza che viene configurato un eccesso di
potere giurisdizionale, sindacabile dalla Corte di legittimità, nei casi in cui la
norma viene “stravolta” dalla applicazione datane dal giudice amministrativo,
cosicché si può far luogo alla cassazione della sentenza impugnata quando tale
attività determini, in concreto, un diniego o un rifiuto di giustizia392.
391 G. FUOCHI TINARELLI, op. ult. cit., pag. 3 e ss..
392 In realtà, prima del 2012, un’altra importante sentenza della Corte di Cassazione aveva
ricostruito la questione più o meno nei termini sin qui esposti. Ci si riferisce a Corte Cass., S. U.,
sent. 23 dicembre 2008, n. 30254, ove si legge: “Nel tessuto della Costituzione non è oggi possibile
dubitare che per giurisdizione deve essere inteso non in sè il potere di conoscere di date
controversie, attribuito per una specifica parte a ciascuno dei diversi ordini di giudici di cui
l'ordinamento è dotato, ma quel potere che la legge assegna e che è conforme a Costituzione che sia
assegnato ai giudici perchè risulti attuata nel giudizio la effettività dello stesso ordinamento.
Giurisdizione, nella Costituzione, per quanto interessa qui, è termine che va inteso nel senso di tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi e dunque in un senso che comprende le diverse tutele che
l'ordinamento assegna ai diversi giudici per assicurare l'effettività dell'ordinamento. Che ciò sia si
desume dalla convergenza di più norme della Costituzione: l'art. 24 Cost., comma 1, che guarda ai
diritti ed agli interessi, sia come situazioni giuridiche di cui le parti sono titolari sia come oggetto del
diritto delle parti di agire in giudizio per la tutela di tali situazioni di interesse sostanziale protette
dall'ordinamento; l'art. 113 Cost., commi 1 e 2, da cui si trae che la tutela giurisdizionale dei diritti e
degli interessi, contro gli atti della pubblica amministrazione, da un lato è sempre ammessa dinanzi
199
Nel contesto di cui si discute, dopo molti secoli dalla teorizzazione della
separazione dei poteri, non sembra allora un caso che vi sia una reviviscenza
del termine “excès de pouvoir” molto caro e molto utilizzato da Montesquieu
nella propria opera.
La violazione del principio di stretta legalità nella giurisdizione, infatti, può
comportare un drammatico stravolgimento dell’ordinamento italiano soprattutto
nel caso in cui, come con timidezza viene lasciato intendere nelle sentenze sin
qui esaminate, il giudice ecceda nell’utilizzo dei propri poteri, travalicando il
limite della c.d. interpretazione sì da sconfinare in un altro territorio, a lui non
affidato dalla Carta costituzionale, quello cioè della creazione di una norma.
agli organi di giurisdizione amministrativa, dall'altro non può essere limitata a particolari mezzi di
impugnazione o per determinate categorie di atti; l'art. 111 Cost., comma 1, che, mediante i principi
del giusto processo e della sua ragionevole durata, esprime quello di effettività della tutela
giurisdizionale. Se attiene alla giurisdizione l'interpretazione della norma che l'attribuisce, vi attiene
non solo in quanto riparte tra gli ordini di giudici tipi di situazioni soggettive e settori di materia,
ma vi attiene pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela, che dai giudici si possono impartire
per assicurare che la protezione promessa dall'ordinamento risulti realizzata, dall'altro i presupposti
del loro esercizio. […] E’ norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti
dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che da contenuto al potere stabilendo
attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca”.
200
CONCLUSIONI.
Nel concludere un lavoro che, per la sua stessa formulazione, tenta di
evidenziare soltanto alcune delle problematiche presenti nel nostro sistema
processuale, al fine di indurre una maggiore attenzione sui riflessi del principio
di stretta legalità nella giurisdizione e sull’incidenza che questo deve avere
nell’ordinamento in cui oggi viviamo, penso che sia necessario dar conto delle
motivazioni che mi inducono ad auspicare che dottrina, giurisprudenza e
legislatore si impegnino a riflettere, ancora di più di quanto già stiano
encomiabilmente facendo e con l’esperienza che li contraddistingue, su un tema
che è molto più delicato di quanto il puro tecnicismo giuridico potrebbe
rilevare.
Ed infatti, l’incidenza delle questioni di cui si è discusso nella vita di ognuno
di noi è divenuta, col tempo, di primaria e drammatica importanza, non soltanto
per gli addetti ai lavori ma, soprattutto, per le persone che, in questo difficile
periodo storico in cui viviamo, sentono le Istituzioni molto, molto lontane dalla
propria esistenza: le mie preoccupazioni, infatti, nascono dalla constatazione
che il medico, l’operaio, l’architetto, l’idraulico e così via, vedano la norma
giuridica e, quel che appare molto più preoccupante, l’opera del giudice, come
il riflesso di una società fine a sé stessa, che è ben lungi dal valorizzare la
persona e la dignità umana.
Non si tratta di persone che, un po’ folcloristicamente, si lamentano dello
Stato per qualsiasi cosa accada, ma di soggetti che sempre più spesso non
sentono di avere dei diritti costituzionalmente garantiti, non sentono di
appartenere ad una comunità che ha l’obiettivo di salvaguardare la pacifica
convivenza in un determinato territorio e, soprattutto, non credono più che
all’interno dell’ordinamento ci sia uno spazio “intoccabile” della dignità umana
e della sua estrinsecazione, presidiato da un giudice a tutela dell’interesse
generale e delle proprie, personali situazioni giuridiche soggettive.
201
La storia ha insegnato che le popolazioni stratificatesi nei vari territori del
mondo, stanche di subire soprusi e aberrazioni derivanti dalla “legge del più
forte”, hanno dapprima visto nella legge dello Stato lo strumento con il quale
attuare la democrazia e l’uguaglianza e, poi, nel giudice, l’effettiva
concretizzazione di tale sogno.
Il principio di stretta legalità nella giurisdizione, insomma, soprattutto se
sorretto da una Costituzione come quella di cui possiamo vantarci, rispondeva e
dovrebbe rispondere alle esigenze della comunità: esso era ed è una chiave di
volta verso un sistema in cui si poteva e si può arrivare a quella Libertà politica,
citata da Montesquieu, che costituisce un trionfo dell’evoluzione della specie.
La nosta Costituzione repubblicana, lo si vede con luce accecante nelle
discussioni, spesso passionali, svoltesi in Assemblea costituente, si è posta
come il fondamento di un sistema in cui doveva e deve essere privilegiata la
figura della persona umana. Ma, come è evidente, non basta redigere una Carta
costituzionale per raggiungere tale obiettivo, bisogna prima di tutto proteggere
le norme costituzionali, darne attuazione, esercitare i poteri dello Stato sospinti
dallo stesso animus che la Costituzione sprigiona.
Il grado di civiltà e di evoluzione di un determinato ordinamento è
misurabile dal grado con cui, e dal modo in cui, esso risolve i conflitti che,
inevitabilmente, nascono dallo scontro delle posizioni assunte dalle persone,
fisiche e giuridiche, che si muovono al suo interno.
In quest’opera molto difficile, fondare il sistema giurisdizionale sul principio
di stretta legalità nella giurisdizione costituisce un passo decisivo verso i
principi di democrazia ed uguaglianza, si configura come il punto da cui partire
per dare preminenza alla persona umana e alla sua dignità.
Per quanto, allora, più propriamente attiene ai profili che sopra si è cercato di
mettere in risalto, appare necessario che il legislatore escogiti un meccanismo
che salvaguardi il pubblico interesse non soltanto nel procedimento
amministrativo, ma anche nel processo amministrativo. Non si può sottostare ad
202
un sistema giurisdizionale che, nell’encomiabile tentativo di salvaguardare le
situazioni giuridiche soggettive dei singoli, dimentichi che l’amministrazione
pubblica, prima di tutto, risponde all’interesse generale della comunità.
Dall’altro lato, però, occorre che il legislatore sia il più chiaro possibile nel
delineare la “volontà politica” della norma, così da non lasciare, come troppo
spesso accade, gli organi giudicanti a dover fare voli pindarici per interpretare il
dispositivo contenuto nella legge ordinaria giacché, altrimenti, i giudici, proprio
in violazione del principio di stretta legalità nella giurisdizione, rischiano di
travalicare
i
limiti
posti
al
proprio
potere,
delineati
dalle
norme
dell’ordinamento, con buona pace di tutto il sistema costituzionale e della
separazione dei poteri.
Nella società di ogni giorno, insomma, non tenere in considerazione i due
aspetti suddetti, non fa altro, purtroppo, che incentivare, come se ve ne fosse
bisogno, la sfiducia, sempre più elevata, che i cittadini provano verso le
Istituzioni dello Stato italiano: il ritorno alla legalità, di cui tanto si discute, è
necessario anche in questo frangente, più di quanto si discuta.
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