RILEVANZA PSICOSOCIALE DEL DOLORE OROFACCIALE Daniele Manfredini Professore a c., Dipartimento di Chirurgia Maxillo-Facciale, Università di Padova Le cause di dolore orofacciale possono essere molteplici, spaziando dal dolore di origine dento-alveolare, ossia quello derivante dai denti e/o dalle circostanti strutture parodontali (insieme di tessuti che sorreggono il dente, costituito dall’osso alveolare, dal legamento parodontale e dalla gengiva), a quello, più complesso, di possibile origine muscolo-ligamentosa, dei tessuti molli e neurologico/vascolare. Alcune tra le forme di dolore orofacciale sono ben note anche ai non specialisti, e tra queste basti pensare alle pulpiti dentarie (mal di denti acuto) o alle nevralgie trigeminali, spesso descritte dai pazienti, in sede di episodio acuto, come il peggior dolore mai provato nella propria vita. Dal punto di vista dell’impatto che le varie forme di dolore orofacciale hanno sulla qualità della vita del paziente che ne è colpito, tali algie diventano importanti nel momento in cui cronicizzano, divenendo cioè fonte di dolore e disagio persistente. Un paziente con dolore cronico spesso vede ridursi drasticamente la qualità della propria vita sociale e di relazione e, parimenti, può frequentemente incorrere in periodi di abbassamento del tono dell’umore o di aumentata ansia: da qui il termine “psicosociale”, ad indicare l’insieme di aspetti relazionali ed emozionali che vengono influenzati dalla presenza del dolore. Inoltre, in un’accezione più ampia, il termine può applicarsi non solamente al singolo individuo/paziente, ma anche alla comunità sociale stessa. Infatti, la gestione di tali pazienti comporta un indubbio aggravio di costi e di risorse rispetto alle patologie di tipo acuto, richiedendo strutture adeguate e terapie prolungate. Considerate queste premesse, è interessante sottolineare che, secondo i più recenti dati della letteratura, la principale fonte di dolore cronico non-dentale nella regione orofacciale è rappresentata da un gruppo di patologie definite “disordini temporomandibolari”. Tali disordini sono un eterogeneo gruppo di patologie a carico dell’articolazione temporomandibolare (ossia l’articolazione tra la mandibola e il cranio) e/o dei muscoli masticatori, che si manifestano con segni e sintomi clinici quali: dolore articolare e/o muscolare spontaneo o alla masticazione, rumori articolari durante i movimenti mandibolari, ridotta ampiezza dei movimenti mandibolari, difficoltà ad aprire la bocca, malocclusioni dentali, cefalee, otalgia, disturbi auricolari. Tali disordini, seppur caratterizzati da un decorso spesso benigno e da sintomi di intensità non assoluta, mostrano una tendenza alla cronicizzazione dovuta a svariati motivi, primi fra tutti la ben documentata compromissione psichica dei pazienti che ne sono affetti e, purtroppo, anche la non sempre adeguata gestione da parte del personale sanitario. La diagnosi e la terapia delle varie forme di disordini temporomandibolari sono accomunate dall’obiettivo di ottenere una corretta valutazione e gestione del dolore, che spesso ha un’origine multifattoriale e rende impossibile una terapia causale. Infatti, il dolore nei pazienti con disordini temporomandibolari quasi mai riconosce una singola specifica eziologia, ed è spesso da ricondurre alla presenza di una serie di concause, quali ad esempio la presenza di malocclusioni dentarie, bruxismo, turbe della sfera psichica, disturbi ormonali o neuromuscolari, fattori predisponesti posturali o eventi traumatici. Tale considerazione, ben documentata in letteratura, giustifica un approccio diagnostico a tali disordini basato su un attento esame clinico e la richiesta di pochi, mirati, esami strumentali di approfondimento (risonanza magnetica dell’articolazione temporomandibolare in primis; tomografia computerizzata da riservare solo ai rari casi in cui è necessario intervenire chirurgicamente). Similmente, in sede terapeutica, nonostante le svariate opzioni (terapia con apparecchi dentali, fisioterapia, terapia cognitivo-comportamentale, terapia fisica, farmacoterapia, terapia chirurgica) a disposizione del clinico convergano tutte verso una percentuale di successo accettabile, è raccomandabile avere un approccio meno invasivo possibile. Ciononostante, per una serie di motivi (es. elevato grado di comorbidità con altre patologie, spesso di tipo psichico; crescente sensibilizzazione dell’opinione pubblica verso tali patologie; privatizzazione degli studi odontoiatrici; assenza di un profilo accademico specifico per tali disordini; proliferazione di figure non-mediche alle quali i pazienti si rivolgono per assistenza; tentativi di speculazione in sede infortunistica ed assicurativa) che esulano dallo scopo di questo breve scritto e che potranno essere esaminati in dettaglio in futuri lavori, il costo della gestione di tali pazienti sta assumendo una rilevanza sempre maggiore sia in ambiti clinici che medico-legali ed assicurativi.