N. 35 – Anno XIX – Settembre 2013 – Pubblicazione riservata ai soli Soci Una spada nella roccia I numerosi film della saga di re Artù e quelli di Walt Disney sulle avventure del mago Merlino e del bambino che sarebbe divenuto re per aver tratto una spada ficcata nella roccia dopo che un infinità di nobili cavalieri non vi erano riusciti ha allietato o annoiato molte serate o pomeriggi di un numeroso pubblico. Sono storie legate al ciclo bretone, al Parsifal germanico, di probabile derivazione orientale, che si accosta a leggende celtiche che sembra non abbiano niente a che vedere con le Colline Metallifere Toscane cui si svolse, prima ancora che i cantori provenzali, francesi o tedeschi intessessero la loro storia, una vicenda analoga da cui forse trassero più di uno spunto. Sul risvolto di copertina del volume di Mario Moiraghi L’enigma di San Galgano si legge «La storia di Galgano di Montesiepi (vissuto nei pressi di Siena tra il 1148 e il 1181, dichiarato santo nel 1185) costituisce un problema storico dalle caratteristiche assolutamente singolari. Le vicende di questo nobile cavaliere, che, come segno di conversione alla vita eremitica, pianta la sua spada nella roccia, mostra straordinarie somiglianze con i racconti leggendari ed epici del Graal, della Tavola Rotonda, di re Artù…». Ve ne abbastanza per andare a vedere di cosa si tratti anche perché la tradizione indica anche il cognome di questo cavaliere divenuto eremita e quindi elevato alla venerazione dei fedeli pochi anni dopo la sua morte. Innanzi tutto è da dire che dai dati riconosciuti come veritieri si sa che il santo, nato a Chiusdino (in provincia di Siena) apparteneva ad una famiglia di ceto elevato legata da rapporti di vassallaggio coi Vescovi di Volterra, signori feudali di quella zona; che sua madre si chiamava Dionisia. Il nome del padre non è certo, alcuni lo dicono Guido o Guidotto, da cui il cognome, ma la cosa non è assolutamente certa. Il cognome che sia pure con pareri discordi la tradizione gli attribuisce è quello di Guidotti, famiglia nobile che ebbe moltissimi rami nell’Italia centro-settentrionale con appendici in Puglia e a Messina ed ancora fiorente nel ramo modenese. Certo attribuire con certezza l’appartenenza di S. Galgano ad uno dei rami della famiglia ancora esistenti è impresa che appare assai ardua per non dire impossibile, e a sentire l’autore del volume sopra citato con tutta probabilità infondato, scrive infatti: «L’attribuzione del cognome Guidotti, con molta probabilità è un falso storico o comunque frutto di una elaborazione successiva della storia della sua vita….». C’è tuttavia una espressione latina, rimastami nella mente sin dai tempi del liceo, che, senza confermare nulla, lascia al lettore la possibilità di credere o non che le cose siano andate così: tradunt. Inoltre, se può aiutare, il martirologio romano lo indica come San Galgano Guidotti Diciamo quindi tradunt, e poiché dei Guidotti ne abbiamo diversi blasoni, tenuto conto del nostro interesse per l’araldica, mette conto riportarli, perché mostrano un diffusione della famiglia in così tante regioni d’Italia che rende ancor più difficile la determinazione del particolare ramo d’origine del personaggio. Tenuto conto però dal luogo d’origine dei diversi rami iniziamo dai Guidotti di Modena dei quali abbiamo le rappresentazioni sopra riportate. La prima: D’azzurro alla fascia di rosso cucita, accompagnata in capo da tre gigli ordinati in fascia ed in punta sei stelle (6) poste 3,2,1 il tutto d’oro; è l’arma tradizionale la altre sono varianti che si trovano in documenti del 1796, in uno dei quali forse l’invasione francese di quel periodo consigliò di far sparire i gigli che potevano ricordare rapporti o legami con la casa reale di Francia. San Galgano Guidotti Altro ramo assai importante della famiglia è il bolognese che a sua volta ne diede origine a diversi altri: Altro ramo è quello dei Guidotti di Lucca che presentavano quest’Arma Di questi stemmi il primo a sinistra è certamente vero: D’azzurro a sei stelle (5) poste 3,2,1 col capo d’azzurro a tre gigli d’oro fra i quattro pendenti di un lambello di rosso. L’altro è indicato su internet come arma del ramo di Modena ma sulla sua veridicità non si è certi in quanto si rifà all’arma del ramo fiorentino dei Guidotti, che, come di seguito indicato presenta numerosi alias. I primi due Troncato: nel primo d’oro, al leone leopardato d’azzurro, nel secondo d’argento a tre pali d’azzurro. Si potrebbe a questo punto continuare ancora a lungo perché di questa famiglia esistono rami a Siena, a Pistoia, a Bari a Messina, i Guidotti del Mugello, i Guidotti Magnani ed altri ancora, Nell’armoriale delle famiglie italiane sono poi riportati ancora altre stemmi o blasonature relative ai vari rami della famiglia Guidotti, fra cui, seppure incompleta una descrizione del blasone del ramo senese, che per contiguità territoriale potrebbe essere quello cui con maggiore probabilità avrebbe potuto appartenere il santo se fosse vissuto qualche tempo dopo, oppure pisana da quel che scrive il Moiraghi, che fa presente come il vescovo di Volterra fosse anche l’Arcivescovo di Pisa. Onestamente non si ha però nessun elemento per indicare a quale dei rami della famiglia il santo possa appartenere, tuttavia dato che l’origine di tutti i Guidotti è nel ceppo modenese è a questo che in qualche modo sembra dovercisi riferire. La storia di questo santo per molti versi assomiglia a quella di un romanzo, nato, fra il 1148 ed il 1150, da nobile famiglia a Chiusdino, un paese nelle vicinanze di Siena, la tradizione indica che venne investito quale cavaliere e che come tale agisse alle dipendenze del Vescovo di Volterra, signore feudale del luogo, per proteggere il paese da attacchi esterni e mantenere l’ordine. Periodo nel quale si dimostrò superbo, violento e dissoluto. Diede una svolta alla sua vita la morte del padre, dopo la quale, secondo la deposizione fatta dalla madre nel corso del processo di canonizzazione, ebbe delle visioni mistiche che lo portarono ad un totale cambiamento nel suo comportamento. Nella prima gli sarebbe apparso in sogno San Michele Arcangelo, il capo supremo dell’esercito celeste degli angeli fedeli a Dio che ha il compito di combattere le forze del male, che lo avrebbe convinto a lasciare le armi sino allora usate per entrare nella milizia celeste. A B L’arma A: Inquartato, decussato nel 1° e 4° d’argento, al crescente montante di rosso; nel 2° e 3° fasciato, ondato d’azzurro e d’oro. L’arma B: Inquartato, decussato nel 1° e 4° d’argento, al crescente volto in banda di rosso; nel 2° e 3° fasciato, ondato d’azzurro e d’oro. C D L’arma C: Inquartato, decussato nel 1° e 4° d’argento, al crescente montante di rosso; nel 2° e 3° fasciato, ondato d’azzurro e d’oro; con il capo di rosso caricato di un leopardo d’oro posto in mezzo a tre gigli dello stesso. L’arma B: Inquartato, decussato nel 1° e 4° d’argento, al crescente volto in banda di rosso; nel 2° e 3° fasciato, ondato d’azzurro e d’oro; con il capo di rosso caricato di un leopardo d’oro posto in mezzo a tre gigli dello stesso. Sempre a Firenze si trova ancora un'altra arma dei Guidotti, del tutto diversa dalle precedenti: D’oro al cervo saliente di rosso. 2 In una seconda visione l’arcangelo lo avrebbe portato al cospetto della Madonna e dei dodici Apostoli. Il terzo evento decisivo ai fini del suo totale cambiamento di vita avvenne nel viaggio cui sua madre lo aveva costretto per andare a visitare la fanciulla designata su promessa sposa. Giunto ad un punto del suo viaggio il suo cavallo rifiutò di andare avanti, dovette tornare indietro e ritentò ancora il giorno successivo, qui la scena si ripeté. Galgano allora si fermò in preghiera e chiese al Signore perché il cavallo lo portasse dove avrebbe trovato la sua pace spirituale. Giunto sulla collina di Montesiepi l’animale si fermò, Galgano comprese di essere giunto a destinazione e di dover entrare a far parte della milizia celeste, sfoderò quindi la spada e la conficcò nel terreno come una croce. vita di san Gal gano costituisce l’elemento reale e morale di maggior conte-nuto. Galgano diviene così il cuore simbolico, e il modello di riferimento per la figura del cavaliere che raggiunge l’apice della propria missione , trasformando la spada nella croce della militia Christi». Che dunque la storia di questo santo abbia in qualche modo influito nella creazione e sviluppo delle avventure legate alla ricerca del Santo Graal appare abbastanza plausibile e probabilmente attraverso i canali indicati sempre dal Moiraghi, attraverso gli scambi fra l’Europa centrale e Pisa, allora potenza marinara di prima grandezza. P.G. I plenipotenziari del Regno di Sardegna a Cherasco Era il Natale del 1180, si diede quindi all’esperienza eremitica e l’anno successivo, dopo aver ottenuto da papa Alessandro III il permesso alla fondazione di una comunità monastica, nel novembre morì. Subito dopo la morte del santo a Montesiepi venne costruita una cappella, al centro della quale si trova il masso entro il quale il cavaliere infisse l’arma. Un paio di secoli dopo nella parte inferiore della torre campanaria venne realizzata una cappella più piccola della precedente che fu affrescata dal Lorenzetti. Nel frattempo, persone invidiose del gesto compiuto andarono per svellere la spada ma non ci riuscirono, altri tentativi effettuati nel secoli seguenti sin quasi ai giorni nostri, non sono riusciti a trarre la spada dal terreno in cui era stata conficcata. L’ultimo tentativo fu infatti compiuto da un vandalo nel 1993 L’hanno rotta ma non sono riusciti ad estrarla. Esami scientifici hanno comunque accertato la presenza del metallo della lama anche in profondità, mentre la spada, a giudizio di esperti che ne hanno esaminato la parte sporgente, corrisponde perfettamente ad una vera spada del XII secolo. Abbiamo quindi in Italia, sulle colline a sud ovest di Siena, la nostra spada nella roccia, frutto però non della poesia dei trovatori ma di fatti che hanno solide prove di realtà. Lo studio del professor Moiraghi a questo punto determina una serie di identità fra la storia del Graal e quella di Galgano e altrettante differenze tanto da fargli scrivere che: «la storia del Santo toscano vive di una propria vita e proprie immagini, la cui connessione con la Bretagna o non esiste o pur sembrando di esistere, deve essere rivista, perché na-scon de significati reconditi». Infine tenuto conto che la vicenda di Galgano è ricca di simboli cavallereschi, il professore suppone che il Chretien e il Wolfram, rispettivamente autori del Perceval francese (1190) e del Parzifal tedesco (1210) si siano in qualche modo appropriati della sua storia. Afferma infatti che «Se il complesso leggendario per-siano costituisce la parte più consistente della futura materia di Bretagna, la Nell’anniversario della firma del Trattato di Cherasco avvenuta nella notte fra il 27-28 aprile si è tenuta in questa cittadina piemontese la tradizionale rievocazione, che oltre a rivangare la vittoria dell’allora generale Bonaparte ha voluto richiamare alla memoria i plenipotenziari del re Vittorio Amedeo III alla trattativa. Venne chiesto ad un membro della SISA d’intervenire sull’argomento e di seguito se ne riporta l’intervento. La notte fra il 27 ed il 28 aprile 1796 con la firma della tregua d'armi da parte dei due inviati sabaudi, il generale Giuseppe Sallier de la Tour e il colonnello Enrico Costa di Beauregard, si concluse la cosiddetta Guerra delle Alpi, iniziata nel 1792 con l’invasione da parte della Francia della Savoia e di Nizza, senza essere preceduta da alcuna dichiarazione di guerra, proseguita per quattro anni con una resistenza che indispettì i Francesi che ritenevano di raggiungere in pochi giorni Torino e che ebbe il suo epilogo sui campi vicino a Mondovì dopo le vittorie riportate da Bonaparte sugli Austriaci a Montenotte, Millesimo e Dego, che lasciarono isolato l'esercito sardo. La cui sorte era segnata ma che malgrado fosse con reparti ridotti a meno della metà della forza organica mostrò sulle colline attorno a Mondovì una combattività ed una compattezza che meravigliò lo stesso avversario: quei soldati, fra cui certamente erano molti antenati dei presenti, fecero molto di più di ciò che era lecito aspettarsi dalle loro condizioni, in quell'ultima battaglia si battevano infatti per difendere le loro case e la loro patria. Anche se consci di dire una cosa in contrasto con gli storiografi sia del tempo, sia risorgimentali sia di gran parte dei contemporanei, furono loro i veri patrioti, non coloro che sono stati ammantati di questo titolo una volta giunti i Francesi per aver indossato il berretto frigio ed essersi rivoltati contro l’autorità costituita dopo essere stati foraggiati dagli invasori e guidati da alcuni rinnegati. La battaglia di Mondovì 3 Nella piana di Mondovì dopo una difesa accanita i resti dell’esercito piemontese si piegarono alla superiorità numerica dei Francesi, al terzo attacco essi sfondarono le linee piemontesi e non vi fu più nulla da fare se non ripiegare e chiedere una tregua d’armi. Il generale Colli, l’ufficiale dell’esercito austriaco imposto quale comandante dell’armata austro-sarda, non poteva evidentemente essere il plenipotenziario del re Vittorio Amedeo III, fu così scelto per andare a trattare l’armistizio coll’allora generale Bonaparte, il generale Giuseppe Sallier de la Tour di cui il sovrano aveva profonda stima e fiducia, al quale si affiancò Enrico Costa di Beauregard che come capo di Stato maggiore dell’armata meglio di ogni altro conosceva la situazione. Arma Costa di Beauregard Quest’ultimo discendeva da una famiglia che sin dalla prima metà del Seicento si era posta al servizio dei Duchi di Savoia, figlio di un appassionato agronomo aveva scelto di intraprendere la carriera militare ed aveva raggiunto il grado di capitano divenendo fra l'altro un eccellente topografo. Dopo il matrimonio e l’arrivo dei figli, cambiò i gradi di capitano con l'incarico di gentiluomo di camera di S.M. che gli lasciava più tempo per dedicarsi alla famiglia. La sua posizione rispetto alle idee portate dalla rivoluzione francese non era del tutto contraria vedeva positivamente quelle di rinnovamento in merito alla giustizia sociale, ma non accettava minacce, né cambiamenti di sovranità, né di mettere in discussione l'autorità del sovrano cui era pronto a dare la vita. All'inizio del 1792, quando la minaccia francese si fece sentire più pressante volle rientrare anch'egli nell'esercito e per ottenerlo dovette penare molto. L'incarico di gentiluomo di camera del re era incompatibile con quello di ufficiale, dovette quindi fare una lunga trafila burocratica per essere esentato da questo incarico ed essere riammesso nelle file dell'esercito, dove rientrò col suo grado. Fu testimone dell'invasione della Savoia nel 1792 e della inettitudine del generale Lazary che non fu in grado di organizzare un minimo di resistenza malgrado avesse ai suoi ordini truppe eccellenti. Nel 1793 entrò nel reggimento dei Granatieri Reali dove divenne prezioso collaboratore del suo comandante il colonnello Bellegarde. Nell'aprile del 1794 era sull'Aution col figlio Eugenio sottotenente dei Granatieri, i Francesi entrati nel territorio della neutrale repubblica di Genova presero alle spalle le difese piemontesi, durante i combattimenti il figlio venne ferito e a seguito della ferita morì qualche giorno dopo, sostituito dal fratello Vittorio, poco più che quattordicenne. Il re per il suo comportamento durante la ritirata al Colle di Tenda, lo promosse maggiore e l'anno dopo tenente colonnello ed accolse la richiesta del generale Colli di averlo come capo di Stato Maggiore. Nell'ottobre del 1795, i Francesi battuti gli Austriaci a Loano li costrinsero a lasciare la Liguria, si rivolsero quindi contro i Piemontesi schierati sulla displuviale delle montagne fra Piemonte e Liguria, e risalendo per le valli che dalla costa scavalcano le Alpi Liguri li presero sul fianco e sul tergo costringendoli ad 4 una ritirata durante la quale dovettero aprirsi il passo combattendo per raggiungere Ceva e Mondovì. Il Costa di Beauregard fu quindi chiamato dopo questo all'opera di riordinamento delle unità piemontesi fra mille difficoltà e fece il possibile. Nella seconda decina di aprile del ‘96 i Francesi battuti gli Austriaci investirono le posizioni piemontesi attorno a Mondovì, le truppe fecero quel che poterono come ho già detto. Poi fu inviato a Cherasco ad affiancare il generale de la Tour per le trattative dell’armistizio. In merito alle quali scrisse nella lettera che indirizzò alla moglie: «Ho passato una notte terribile. Ho firmato per ordine del re una tregua d’armi col generale Buonaparte alle condizioni più umilianti e più pericolose … il tutto aspettando che si compiaccia di darci una pace a suo capriccio … C’è da morire di rabbia e di vergogna.». Dopo la firma della pace pur essendo savoiardo non fu espulso dal Piemonte perché un articolo segreto del trattato di pace consentiva al sovrano di poter utilizzare i savoiardi già al suo servizio. Così riprese il suo incarico, e fu chiamato a ricostituire la forza armata, parte della quale fu inviata a combattere a fianco dei Francesi contro gli Austriaci, poi quando il generale Brune, che aveva sostituito Napoleone, volle chiudere la partita e costrinse il sovrano sabaudo a rinunciare al trono ed a partire per la Sardegna, rimase al suo posto secondo gli ordini ricevuti. All’arrivo dei Russi guidati dal Suworof con la parte di quel rimaneva dell'esercito si schierò con essi e venne nominato quartiermastro generale dell'esercito, poi la politica di Vienna che voleva mano libera in Italia fece sì che Suworov fosse dirottato altrove, il ritorno di Napoleone e la battaglia di Marengo misero poi fine alla speranza di liberarsi dei portatori della libertà. Nei 14 anni che passarono fra Marengo e la fine del dominio francese, visse in ritiro, ospite con la moglie e la famiglia a casa del cognato. La sua opera fu preziosa nel 1814, nel momento in cui giunsero le truppe austriache in Savoia, perché con l’autorità che gli derivava dai suoi trascorsi impedì ogni ritorsione contro quella parte della popolazione che, indottrinata da 20 anni di propaganda filo francese, aveva fatto opposizione, ciò malgrado che i rivoluzionari filo francesi gli avessero messo in prigione il padre, che a seguito delle torture subite era morto, e confiscato le proprietà. Il re nel ’14 per il suo passato lo promosse maggior generale, lo nominò capo di Stato Maggiore e Quartiermastro generale ma preferì non tornare in servizio. L’altro plenipotenziario sabaudo, il più noto, era Giuseppe Amedeo Sallier de la Tour, appartenente ad una famiglia che da tempo aveva fornito a Casa Savoia magistrati, diplomatici e militari. Entrato, nel 1745, ancora tredicenne quale sottotenente nel reggimento dei Dragoni del Genevese combatté nella guerra di successione d’Austria, comportandosi molto bene, dopo la guerra proseguì in carriera, salendo sino al grado di maggior generale, mantenendo, anche da generale come accadeva allora, il comando del suo reggimento. A B A: Arma dei Sallier de la Tour. B: Arma indicata dal de Foras per i Sallier de la Tour decorati dell’Ordine della SS.ma Annunziata Se si scorrono le patenti con le quali vengono motivate le sue promozioni si leggono ripetute le parole, zelo, applicazione, esattezza, lodevoli saggi di fermezza, doti che lo avevano fatto grandemente apprezzare al sovrano. Ma poiché è soprattutto in guerra che si fa la fama di un generale, egli se la acquistò nel 1793 nella campagna per il tentativo di riconquista della Savoia. Era agli ordini del fratello, Vittorio Amedeo, comandante del corpo d’armata della Val di Susa, chiamato a concorrere all’azione del corpo comandato dal Duca di Monferrato che avrebbe attaccato i Francesi passando dal Piccolo S. Bernardo, mentre egli sarebbe passato per il Moncenisio. Giuseppe de La Tour ebbe il comando dell’avanguardia e scendendo dal Moncenisio si fece strada rapidamente con ardite manovre tanto che ebbe l’ordine di andare a raggiungere la colonna del Duca di Monferrato con la quale raggiunse Moutiers dove dovette fermarsi, perché il principe, secondo le direttive della Corte, venne chiamato a diffondere proclami senza andare ancora avanti, nella speranza che minacce e lusinghe avrebbero convinto i Savoiardi ad insorgere contro i Francesi, cosa che non avvenne, perché chi venne mandato ad organizzare le rivolte fu lasciato senz’armi e senza denaro. Poi a fronte della controffensiva francese guidata dal generale Kellerman, al de la Tour fu affidato il compito di comandare la retroguardia per proteggere il ripiegamento del grosso delle forze oltre il San Bernardo. Compito che assolse egregiamente, tanto che poco dopo a riconoscimento della sua bravura venne promosso tenente generale. Nel maggio del 1794 ebbe il comando del corpo d’Armata della Valle di Susa, in un momento particolarmente critico, perché i Piemontesi avevano perso il Moncenisio, parte delle valli di Susa e del Chisone sino all’altezza di Exilles e Fenestrelle. Seppe mantenere le posizioni e nell’inverno fra il 94 ed il 95, riconquistò gran parte del terreno perso. Nel febbraio del ’95 fu a capo della delegazione che a Milano con l’Arciduca Ferdinando definì la pianificazione operativa per la campagna dei mesi successivi e in aprile assunse il comando del corpo d’armata che presidiava il settore montano dal Colle di Tenda alla Val Germanasca, riuscendo a respingere i tentativi francesi di guadagnare terreno in quel settore. Nel febbraio del ’96, alternando compiti di comando ai diplomatici, fu inviato a Vienna a pianificare la campagna del ’96, dove fece ogni sforzo per convincere gli Austriaci ad intervenire in forze, non poteva credere che essi, a partire dall’Imperatore, mentre assicuravano di aver già avviato in Italia consistenti rinforzi e di essere pronti ad inviarne altri, non avessero in realtà alcuna intenzione di far fronte agli oneri che a parole dicevano di volersi assumere, perché, come scrisse l’ambasciatore piemontese alla corte austriaca, “il carattere franco e leale di questo valoroso ed onesto soldato è tale che gli ripugna di non credere alle assicurazioni delle persone con cui sta trattando”. Quando tornò in Piemonte ai primi di aprile era già in corso l’offensiva francese. Il 13 aprile fu incaricato dal re di raggiungere ad Acqui il generale austriaco Beaulieu, che aveva il comando dell’armata austriaca da cui dipendeva anche la piemontese, per concordare il da farsi, vi giunse dopo le sconfitte di Montenotte e Millesimo e alla notizia di quella di Dego, qui trovò una situazione di caos totale dalla quale era chiaro che gli Austriaci avrebbero cercato solo di salvare il salvabile dei resti del loro esercito. Il re gli dette allora ordine di raggiungere il generale Colli e di assumere il comando delle truppe piemontesi se questo si fosse dato ammalato o si fosse assentato, aveva presentato infatti le sue dimissioni a Vienna. Giunse a Mondovì nel pieno della battaglia ma poiché il generale Colli era al suo posto, non tirò fuori dalla tasca il foglio della sua nomina. Assisté qui alla disperata resistenza delle truppe piemontesi di cui ho già detto. Il 27 aprile ricevuta la lettera con la quale il re lo incaricava di andare a trattare l‘armistizio con Bonaparte scrisse al sovrano: «…il gen. Colli mi ha consegnato la lettera del Marchese di Cravanzana in data di oggi il cui contenuto è l’ordine di V.M. di recarmi subito dal generale Bonaparte per trattare un armistizio. Obbedisco e parto all’istante, assicurando a V.M. il mio zelo, ma osservando che il Marchese di Cravanzana che era certo a conoscenza delle intenzioni di V.M. riguardo alle condizioni dell’ armistizio da proporre, non me le ha fatte conoscere, e che la memoria allegata alla sua lettera non contiene che vaghi cenni sugli aspetti d’interesse, ma un solo ordine preciso concludere e firmare l’armistizio, temo che il mio zelo non potrà rimpiazzare questa mancanza d’istruzioni». Ciò spiega le difficoltà in cui venne a trovarsi e la necessità di dover accettare le durissime condizioni dell’armistizio, cui seguì la pace di Parigi del mese dopo. Dopo questo ebbe un periodo di stasi, i sovrani preferirono averlo accanto piuttosto che fuori Torino, poi nel dicembre del ’97 fu nominato governatore della città e provincia di Alessandria, area di grande importanza strategica per la sopravvivenza del Piemonte. Nel dicembre del 1798 alla partenza dei sovrani per la Sardegna si ritirò a vita privata. Fu però uno spazio breve perché nel maggio del ‘99 quando le truppe del generale Suworov riconquistarono il Piemonte, liberandolo dai Francesi, nel maggio venne investito di tutti i poteri in campo militare, politico ed economico che cedette poi a Thaon de Revel quando questi fu nominato Luogotenente Generale del Re e a lui venne affidato il compito di ricostituire l’esercito, cosa che gli riuscì bene, tanto che le truppe regie, insieme alle austriache batterono più volte i Francesi e giunsero a riconquistare Nizza. Venne premiato per questo con l’Ordine Supremo della Santissima Annunziata di cui fu insignito nel novembre del ‘99. Al ritorno dei Francesi guidati da Napoleone, dopo Marengo, mentre il figlio Vittorio Amedeo si arruolava nell’esercito austriaco per continuare a combattere contro l’invasore, lui si mise a riposo. La sua fedeltà fu riconosciuta alla Restaurazione quando venne nominato Maresciallo di Savoia. Due belle figure di ufficiali dell’antico esercito di Sardegna, ambedue Savoiardi quasi a voler sottolineare la fedeltà di questi antichi sudditi della dinastia sabauda, che seguirono passo a passo con indomabile energia tutte le vicende di quel sanguinoso dramma, non piegati dal dolore delle perdite familiari e dai problemi economici conseguenti alla confisca dei beni, cui venne affidato uno dei compiti più duri per un soldato che aveva speso tutto se stesso per il suo paese al di sopra del limite delle sue possibilità, e che ben rappresentavano le migliaia di uomini che avevano combattuto non tanto contro le nuove idee ma per difendere le proprie case da un’aggressione ingiustificata e dai saccheggi che ne seguirono. MDB 5 Il CAVALLO, fra le più belle conquiste dell’uomo Il cavallo insieme al leone ed all’aquila è uno degli animali araldici per eccellenza. Può venire rappresentato sia montato da un cavaliere armato e bardato secondo l’uso del tempo oppure più semplicemente nudo e anche in questo caso in varie posture, allegro, spaventato, inalberato. Riguardo la simbologia un noto antico araldista scrisse :«Il più nobile che si pone nell’arme egli è il cavallo, per cui cominciarono i gesti eroici di que’cavalieri che i loro nomi resero immortali. Ei fu dedicato al Sole e a Marte, essendo un animale bellicoso e magnanimo, che però indica magnanimità e vittoria, ed è verace contrassegno del cavaliere». Si vuol qui prima di riportare l’interessante articolo del Generale Massimo Jacopi, già comandate delle Batterie a Cavallo, che traccia un sintetico profilo del ruolo del cavallo attraverso i secoli, ricordare almeno alcune delle forme in cui viene rappresentato fermo inalberato e brigliato spaventato 6 allegro Dopo questa breve parentesi araldica il lavoro del Generale Jacopi, ALFS Il rinnovato interesse da parte dell’uomo per il cavallo costituisce una occasione per raccontare il ruolo essenziale del cavallo nella storia dell’uomo e della società. I cavalli che ornano i vari siti archeologici del mondo, a fianco dei bisonti, degli orsi e dei cinghiali, ci ricordano che nel paleolitico superiore gli uomini cacciano il cavallo per nutrirsi. Il suo addomesticamento risalirebbe a circa 5.500 anni fa. Le più antiche vestigia archeologiche che l’attestano si trovano in Asia centrale, nel nord del Kazakistan, sul sito di Botai.Il cavallo, presente allo stato selvaggio nel continente asiatico, viene introdotto addomesticato in Cina, in Asia occidentale, in Europa ed in Africa, con l’avanzare delle tribù nomadi. L’equitazione o l’arte di montare a cavallo appare solamente nel’Antichità, quando l’uomo scopre che egli può utilizzare la potenza e la rapidità della sua cavalcatura per spostarsi, per cacciare e combattere i suoi nemici. Le prime rappresentazioni artistiche dei cavalli addomesticati compaiono in Mesopotamia, fra il 2300 ed il 2100 a.C., sotto l’impero degli Accadi. A partire da -2° millennio, due popoli del Vicino Oriente, i Kassiti e gli Hurriti, contribuiranno allo sviluppo dell’allevamento del cavallo. Diventato un animale di prestigio, per la sua utilizzazione militare e cinegenetica, il cavallo diventa l’oggetto di una trattatistica specializzata. Per gli Egiziani esso è, ad esempio, contrariamente all’asino, bestia da soma per eccellenza, una creatura nobile e coccolata. L’armata dell’imperatore Qin Il cavallo da guerra sarebbe stato introdotto in Egitto dagli Hyksos, provenienti dall’Asia, allo stesso tempo del carro intorno al -17° secolo prima della nostra era. Fino ad allora, gli Egiziani lo impiegavano solamente per dei compiti, diciamo civili. All’epoca del Nuovo Impero, la battaglia di Kadesh, che ha luogo nel -14° secolo nel sud della Siria attuale, costituisce uno degli esempi più conosciuti dell’impiego in massa dei carri da combattimento. Essi contribuiscono ad evitare il peggio a Ramesse 2° di fronte agli Hittiti, superiori di numero. Un celebre bassorilievo del tempio di Abu Simbel rappresenta il faraone sul suo carro alla testa della sue truppe speciali. spaventato corrente Il poema intitolato La terza battaglia di Kadesh evoca l’amore per i due cavalli del suo attacco e precisa anche i suoi nomi: “Vittoria a Tebe” e Mut è soddisfatto”. Gli Hittiti dominano anche loro l’arte dell’addestramento del cavallo. I documenti più antichi conosciuti, che trattano della maniera di seguirli e curarli, sono dovuti a Kikkuli, un cavaliere hurrita, al servizio degli Hittiti. I metodi di allevamento moderni si ispirano ancora a questo testo. Il cavallo da guerra è così entrato nella storia dell’umanità. Nel -853 il re assiro Salmanazar 3°, impegna nella battaglia di Qarqar, sempre in Siria, 2 mila carri e 5.500 cavalieri, con i quali affronta le truppe a cavallo e cammellate della coalizione dei regni di’Egitto di Siria e d’Israele. In Cina - dove il cavallo, spesso associato al dragone, rappresenta un animale celeste - il primo imperatore Qin Shi Huang-di, che regna dal -221 al -210, si fa costruire un mausoleo a misura della sua megalomania. Negli anni 1980, gli archeologi hanno riportato alla luce, nei pressi di Xian, su una superficie di circa 21 mila m2, un esercito di terracotta a grandezza naturale. In tale contesto, risultano allineati, come in una parata, 130 carri da combattimento in legno, centinaia di cavalli alti m. 1,50 e più di 8 mila soldati in armi. Qin, unificatore dell’immensa Cina, non avrebbe certo portare a buon fine la sua opera senza l’impiego del cavallo. Bucefalo sia morto per le ferite riportate nella battaglia di Hydaspe nel -326, oppure sia vissuto fino a 30 anni. In ogni caso il suo proprietario lo innalzerà al rango di dio e fonderà sulla sua tomba la città di Bucefalo, al giorno d’oggi Phalia nel Pakistan. Alessandro Magno ed il suo cavallo Bucefalo I cavalli dell’Imperatore Qin In Occidente, dove l’uso della staffa e della sella, contrariamente all’Asia, risulta ancora ignorato, i Greci ed i Romani impie-gano ugualmente dei carri con attacchi, sia per la guerra, come anche per le corse nei circhi. Un celebre cratere di Vix, probabilmente fabbricato in un laboratorio greco dell’Italia del sud, mostra 8 quadrighe, ovvero un carro da combattimento a due ruote ed un attacco di quattro cavalli di fronte. Cavalleria leggera o pesante La guerra da quel momento si svolge anche a cavallo. Gli Assiri sono i primi a sviluppare una cavalleria, seguiti dagli Sciti. Essa viene denominata “leggera”, in quanto costituita da combattenti senza armatura, dotati di arco e di armi da getto, per contrapporla alla cavalleria “pesante”, che sarebbe stata istituita, sai dai Persiani, sia dai Sarmati. La necessità di proteggere gli uomini ed i cavalli porta a selezionare delle razze capaci di sopportare il peso di una corazza. Questi cavalieri e le loro monture, pesantemente protetti e designati con il termine di “catafratti”, vengono impiegati per sfondare le formazioni della fanteria nemica. La maggior parte dei popoli dell’Eurasia occidentale, dai Parti ai Bizantini, passando poi per i Romani sotto l’Impero, hanno sviluppato questo tipo di formazione, antenata della cavalleria medievale. Essa costituisce l’arma decisiva delle truppe macedoni di Filippo 2° di Macedonia e di suo figlio Alessandro Magno. Ed è proprio in sella a Bucefalo, che Alessandro conquista il suo impero fino all’India. Non sappiamo esattamente se Un'altra cavalleria celebre è quella costituita, più di 10 secoli dopo da Carlo Magno. Il suo sviluppo deve molto allo scontro frontale degli eserciti carolingi con i cavalieri provenienti dall’Asia centrale, gli Avari, che minacciano le frontiere occidentali dell’Impero. Ogni tribù dispone di una cavalleria pesante, formata da guerrieri che indossano la corazza e che maneggiano la lancia e da cavalieri più mobili, muniti di arco a doppia curvatura, ai quali è attribuito io compito di molestare ed assillare il nemico. Se forse gli Avari non possono essere considerati gli inventori della staffa, nondimeno essi sono quelli che l’hanno introdotta in Occidente. La staffa, accessoria dell’arte equestre, conferisce al cavaliere un migliore assetto e gli consente di caricare, armato di lancia e della sua spada, che mantiene a due mani. Allo stesso modo, la comparsa della sella foderata e dei ferri da cavallo per proteggere i piedi dei cavalli, due oggetti la cui esistenza viene attestata in Europa nel 10° secolo. Il celebre Arazzo di Bayeux (il famoso telo ricamato che narra la conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni nel 1066), ci evidenzia che ben 202 quadrupedi (cavalli e muli) facevano parte della spedizione del duca Guglielmo di Normandia. Arazzo di Bayeux - Particolari 7 Il cavallo nel Medioevo, animale nobile per eccellenza, viene ricordato nella letteratura epica, come il cavallo Broiefort, la fedele cavalcatura di Ogier o Ogerio, compagno di Carlo Magno o come il cavallo Baiardo, dotato di poteri magici, figura della chanson de geste delle Ardenne, da non confondersi con il Baiardo, cavaliere “senza macchia e senza paura”, di ben 5 secoli più tardi. Nella società medievale, il cavallo viene designato con diversi termini a secondo il suo ruolo: “destriero”, animale di grande taglia, impiegato nei tornei ed, in teoria, per il combattimento. In realtà il suo prezzo d’acquisto molto elevato gli risparmia le cariche sanguinose. Il “corsiero”, certamente meno oneroso, gli viene generalmente preferito. Questo, rapido e più leggero, viene anche particolarmente apprezzato per la caccia. Alla fine del Medioevo, l’animale viene bardato con placche di ferro, così come l’uomo che lo monta e sarà una delle ragioni della disfatta francese di Crecy nel 14° secolo. Gli arcieri inglesi hanno, infatti, vinto la cavalleria pesante, attaccando i loro cavalli e successivamente eliminando i cavalieri immobilizzati sotto il peso delle loro armature. Ma non si deve confondere il destriero ed il corsiero con il “palafreno”, cavalcatura di prestigio per la parata, mentre il robusto “ronzino” è adibito al trasporto di pesanti carichi. Quest’ultimo, considerato comune e di poco valore, costituisce il cavallo dei cavalieri poveri e la cavalcatura degli uomini d’arme. Per quanto concerne il bravo cavallo da soma costituisce un animale da tiro o da basto, mentre la giumenta è il piccolo cavallo con andatura ambia, preferito dalle dame più ricche dell’aristocrazia. A partire dal 16° secolo, il declino della cavalleria porta ad una relativa minore importanza della cavalleria pesante a vantaggio di quella leggera. I cavalieri, molto mobili, vengono armati con armi bianche o da fuoco. I conquistadores spagnoli, arrivati con le loro cavalcature, reintroducono sul suolo americano il cavallo, scomparso nell’era glaciale. Gli animali, diventati nuovamente selvaggi, popoleranno le grandi piane del nord e verranno addomesticati dalle tribù indiane americane. L’indiano ed il suo cavallo sono ormai pronti per entrare nella leggenda dell’Ovest americano. Cariche … al trotto In Europa, quando si dice cavalleria, la si abbina di norma ad un modo di vivere determinati valori ed in caso di conflitto alla … carica. Il termine evoca da solo, nella memoria collettiva, i cavalieri lanciati al galoppo sui campi di battaglia. Una rappresentazione, parzialmente inesatta. In realtà. L’andatura e lo sviluppo della carica varia a seconda dei reggimenti e delle epoche. In effetti, secondo quanto riferisce un esperto cavaliere (1): “L’addestramento degli uomini e delle cavalcature, capaci o meno di sostenere le più veloci andature, il peso delle armi difensive, la scelta e le armi da fuoco o delle armi bianche costituivano altrettanti elementi che spiegano perché i corazzieri degli inizi della Guerra dei 30 Anni caricavano al trotto e che i cavalieri di Carlo 12° di Svezia (re, 1697-1718) caricavano al galoppo”. La carica al galoppo diviene di nuovo l’andatura delle cariche di cavalleria dell’Europa dell’Ovest solamente a partire dalla seconda metà del 18° secolo, sotto la pressione del re di Prussia, Federico 2°, che lancerà sistematicamente i suoi squadroni al galoppo. Dai corazzieri di Napoleone alle Guerre Mondiali Le cariche della cavalleria della Grande Armée di Napoleone contribuiranno a forgiare la leggenda imperiale. La più grande e la più celebre è stata quella del maresciallo Gioacchino Murat ad Eylau, alla testa di 8 mila cavalieri, l’8 febbraio 1807; forse la più gloriosa è da considerare quella del ge8 nerale Lassalle, ucciso a Wagram il 6 luglio 1809. I reggimenti di corazzieri e di carabinieri, protetti da corazze e da elmetti e montati su dei possenti cavalli, vengono utilizzati per gli attacchi frontali. Scontro di cavalleria alla battaglia di Wagram (1809) Il generale Lassalle guida la sua ultima carica a Wagram I Dragoni, sebbene facciano parte della cavalleria pesante - o grossa cavalleria - essi sono sprovvisti di corazzetta. La cavalleria leggera è costituita da ussari, lancieri, cavalleggeri e da cacciatori. Il loro compito è quello di assillare l’avversario, a colpi si sciabole e con cariche improvvise e ripetute sui fianchi. La carica dei Dragoni del Re a Carassone (1796) Le cariche vengono condotte in formazione o in ordine sparso e vengono, di norma, lanciate sull’artiglieria e sulle retroguardie, allo scopo di disorganizzare le formazioni avversarie. Il cavallo, cavalcatura del combattente, viene anche utilizzato per il trasporto del materiale, dei viveri, dei feriti … dei bagagli degli ufficiali superiori e dei generali. Un elemento, tratto da un dizionario militare della fine del 19° secolo, precisa che un cavallo posto in attacco per il traino, può tirare un carico di 700 Kg. per 10 ore al giorno. Durante la Grande Guerra sono presenti un gran numero di cavalli al fronte e la mobilitazione di guerra (acquisti e requisizioni) riguarda anche il quadrupede. Questa presenza importante del cavallo riflette il posto ancora rivestito dall’animale in una società in corso di industrializzazione, ma sostanzialmente ancora rurale. La grande maggioranza degli animali viene impiegata per la trazione. Gli equidi (cavalli o muletti), nei terreni accidentati o bombardati, dimostrano la loro efficienza e la loro adattabilità. Nel corso della guerra l’effettivo dei cavalli andrà progressivamente diminuendo, pur rimanendo quasi costante quello dell’artiglieria. La cavalleria italiana dopo Caporetto va a far fronte al nemico I progressi della meccanica, con l’impiego dei veicoli motorizzati, porteranno alla scomparsa progressiva delle unità di cavalleria e della trazione ippomobile nel corso della 2^ Guerra Mondiale ed in tale contesto, le cariche della cavalleria polacca, contro i carri tedeschi nel settembre 1939 (ripetizione delle cariche contro i corri sovietici del 1934) e le cariche italiane di Isbuschenskij e di Jagodnij, dell’estate 1942, entreranno a far parte della leggenda. Da ultimo, vale la pena ricordare come, al termine della 2^ Guerra Mondiale, molti ufficiali di cavalleria abbiano sofferto la fine della Cavalleria, per così dire “storica” ed abbiano accettato con perplessità e grande pena di vedere la loro Arma, definitivamante separata dal loro secolare e fedele partner, il cavallo. Fra questi sembra opportuno citare, a titolo d’esempio, il valoroso maggiore delle Voloire, Emiliano Vialardi conte di Sandigliano (2), reduce d’Africa e partigiano, che nel 1947, decide di lasciare il servizio attivo, lasciandoci questo poetico brano, dal titolo “Tutto è finito”: “Ed ora tutto è finito. La benzina ha annegato i cavalli e s’è portata via tutta la bellezza, tutta la poesia, tutta la giocondità che erano con loro. Le ruote veloci dei trattori villani sconvolgono quei terreni di brughiera sui quali gli zoccoli dei nostri cavalli sfioravano appena le erbe rade, nel disteso galoppo. Rumori di ferraglia, fracasso di arroventati motori, stridio di freni hanno avuto facile vittoria sull’armoniosa eleganza dei cavalli ed una massa d’acciaio di un triste grigio informe ne ha per sempre nascosto gli splendenti colori dei mantelli. Sulle centenarie tradizioni è passato un vento d’uragano, che porta il nome di progresso e può ben darsi che di tante cose belle fosse ineluttabile la fine nel precipitoso evolversi degli ultimi tempi, anche se qualcosa ancora si sarebbe potuta salvare, solo che i nostri generali di Roma non fossero stati così proni ai deliranti ordini del caporale di Predappio. Con un frego di penna ti stroncarono memorie e costumanze, gelosamente conservate nei più gloriosi reggimenti, sostituendo – udite, udite – i laceri e scoloriti stendardi, che ti facevano piangere a vederli passare, con altri che ti facevano chiudere gli occhi, tanto erano fiammanti nella chiassosità delle tinte. Si mutarono regolamenti sanciti dall’esperienza di molti e molti anni, si tacquero le storie delle antiche guerre piemontesi e si cominciò alacremente a distruggere l’Esercito Italiano. Tutto è finito ! Sulle strade corrono adesso le jeeps americane e coprono di polvere l’epopea dei vecchi cavalli. Tutto è finito !” Con questi pensieri pieni di amarezza, di nostalgia e di rimpianto, il maggiore Vialardi, piemontese d’origine e monarchico per cultura e tradizione familiare, lascia un mondo, quello della cavalleria senza i cavalli, che non è più il suo !! In effetti, la Cavalleria scende da cavallo, le scuderie vengono trasformate in rimesse per carri armati, i maneggi vengono asfaltati e … niente più nitriti e tintinnio di speroni . NOTE (1) Chauviré Frederic, “Il cavallo nella storia militare”, n. 249 della Revue Historique des Armees del 2007; (2) Gen. Emiliano Vialardi conte di Sandigliano (Moncalieri 1898 - 1978 Torino) dal suo quaderno di memorie, intitolato “Commiato”. Massimo Jacopi - Spigolature Melitensi - Nella così ricca produzione storiografica relativa all’Ordine Giovannita che, voglio ricordare : « Prima di essere militare e religioso era stato ospedaliero» così come ricordava il re Ruggiero di Sicilia che, fondando la Grancia di Messina, a vantaggio dei cavalieri di S. Giovanni, invocava la «maledizione dei trecentodiciotto santi di Dio » sopra chiunque ne avesse violato i privilegi… e che ben due bolle, una di Pio IV e l’altra di Pio VI, esentavano da ogni giurisdizione laica ed ecclesiastica e da ogni tribunale, anche di legati pontifici o di eminentissimi cardinali, l’Ordine di Malta… trovo alcune curiosità storico-cerimoniali che, mi piace, evidenziare, all’attenzione del lettore. Trattasi di realtà «a sé stanti», del tutto particolaristiche, degne di non cadere nell’oblio! 9 Un cappellano conventuale pronuncia i voti al fine di essere ricevuto quale cavaliere dell’Ordine di Malta. Questa risulta essere una “curiosità religiosa”, per il fatto che «i cappellani conventuali raramente prestavano i voti di professione ». I tre voti sembravano, per questi sacerdoti, quasi inutili, in quanto, essi, li avevano già pronunciati essendo chierici. Tuttavia questa professione li faceva “transitare” dal clero secolare a quello regolare e dava loro il diritto di poter ricevere una commenda. L’Ordine, da parte propria, cercava di scoraggiare tali generi di vocazioni ! La cerimonia si svolgeva nella chiesa magistrale della villa sull’Aventino (dopo la definitiva collocazione dell’Ordine a Roma). La messa era celebrata da un arcivescovo. Il Gran Maestro, vestito con il gran mantello nero e larghi paramenti grigi, portava il gran collare d’oro e sedeva, in coro, sotto il proprio baldacchino accanto al Vangelo. La sopravveste grigia, decorata con la grande croce ricamata di bianco, si presentava al disotto del mantello. Appese attorno al baldacchino erano collocate le bandiere delle varie lingue e quella, più grande, dell’Ordine. Facevano coro al Gran Maestro i membri del Sovrano Consiglio allocati nei banchi ricoperti di drappi rossi. Vestivano, anch’essi, l’abito da cerimonia con il mantello nero ornato della croce bianca di lana posta sulla spalla sinistra. Sul braccio sinistro portavano una larga stola gialla ornata degli “strumenti della passione” e, dall’apertura del mantello, si poteva intravedere la tunica gialla dei Balì e quella rossa dei commendatori. Sui banchi delle navate spiccavano le uniformi degli altri dignitari: i cavalieri di giustizia con i propri paramenti bianchi; i donati di giustizia con i loro paramenti verdi; i cavalieri d’onore e devozione con i loro paramenti neri. Le dame d’onore e devozione con la piccola croce appuntata sul petto. Terminata la Messa, il postulante, in mezzo a due padrini, inginocchiato davanti al Gran Maestro chiedeva quindi di essere ricevuto ed ammesso nella compagnia dei fratelli della Sacra Religione dell’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme. Dopo aver risposto a varie domande di rito, poste dal Gran Maestro, quest’ultimo pronunciava la formula solenne: « Vi riceviamo quindi con affetto e non vi promettiamo che pane ed acqua, fatiche e disagi e semplice vestimento». Quindi, dopo aver assestato un piccolo schiaffo al postulante che, con le mani appoggiate sul Vangelo, pronunciava la formula di giuramento: «faccio voto a Dio Onnipotente ed alla Gloriosa Vergine Maria ed al Santo Giovanni Battista, di osservare e mantenere l’obbedienza, la povertà e la castità come si conviene a tutti i buoni religiosi cattolici», il Gran Maestro, preso il mantello nero gli mostrava la croce bianca ad otto punte dicendogli: «Questa croce ci è stata data bianca in segno di purezza. Le otto punte, che vedete, sono il simbolo delle otto beatitudini». Quindi lo rivestiva del mantello e della stola. Il bacio di ubbidienza concludeva la cerimonia. Trattandosi dell’investitura di un cappellano non era richiesta la benedizione della spada né degli speroni. Per lo stesso motivo non era presente, sul leggio, la bolla del Gran Maestro che lo nominava cavaliere di Malta (cioè atte- 10 stante che, il postulante, aveva presentato le prove di nobiltà obbligatorie per gli altri professi). A seguito del Gran Maestro e del Ricevitore, tutti i cavalieri, poi, si avviavano verso l’uscita della Chiesa. Le associazioni tedesche dell’Ordine di Malta potevano vantarsi di conservare intatto l’ideale cavalleresco. Lo spirito feudale dei propri paesi d’origine, l’arte gotica, il codice segreto della giustizia e dell’onore, la genuinità della memoria della “Santa Weheme” avevano contribuito a definire le associazioni della Slesia e quella renano-westfaliana le più tradizionali e devote dell’Ordine. I cavalieri tedeschi, al contrario di quelli francesi, (dove non erano più rappresentati i nomi che avevano illustrato le tre lingue di Provenza, di Francia e di Alvernia) rappresentavano il fior-fiore del Gotha germano-cattolico. Essi andavano fieri della propria prova di Germania costituita dalla esibizione dei sedici quarti di nobiltà per cento anni e, di fronte alle quali, impallidivano gli otto quarti, per cento anni, della prova di Francia ed i quattro-quarti, per duecento anni, della prova d’Italia ed erano tanto più rigorosi in quanto frequentavano i cavalieri teutonici (usciti dall’ordine di S.Giovanni) ed i cavalieri protestanti di Malta (quelli cioè del Baliato del Brandemburgo). Sette commende di questo baliaggio, distaccatesi al momento della riforma erano nominalmente sopravvissute presso alcuni nobili di alto lignaggio (così come quelle del Gran Priorato russo ortodosso di Parigi). Benché il Gran Magistero di Roma non fosse in relazione né con i primi, né con gli altri, le considerava tuttavia legittime (era la sua:«piccola chiesa scismatica») perché esse non avevano mai praticato discontinuità con le regole dell’Ordine, mentre, invece, il Gran Priorato d’Inghilterra (dove, l’Ordine, era stato soppresso da Enrico VIII) datava solamente dal regno della regina Vittoria. Il presidente delle associazioni renano-westfaliane e quello della associazione slesiana (che si era collocata a Monaco di Baviera dopo l’occupazione sovietica) dirigevano i propri cavalieri con disciplina perfetta ed i rapporti con il gran magistero erano sempre rimasti amichevoli e costanti. La tenda rossa (detta anche grata o, volgarmente gabbia) consisteva nella usanza, tipicamente romana, di nascondere/ celare, dietro una tenda, appunto, rossa, i porporati che assistevano ad un rito religioso. Questa regola era stata adottata, nelle chiese romane, dopo il 1870, per la ragione che, questi porporati, sudditi della Santa Sede, si trovavano, ormai, in territorio italiano, dove, la porpora, non era protetta dal trattato del Laterano. Questa pratica, esclusiva della chiesa di Roma, non vantava altro motivo che quello della “tradizione”; al contrario, non era in vigore presso le chiese dell’Ordine, che rappresentava, appunto, la propria sovranità territoriale, sulla quale, invece, la porpora, era stata sempre rispettata. Altresì, al fine di veder garantiti formalmente i propri diritti sovrani, anche in ambito religioso, oltreché giuridico e costituzionale, l’Ordine, desiderava veder restaurata quella antica carica di: «Priore della Chiesa Conventuale» che, a Malta, deteneva, un prelato, indipendente dalla giurisdizione vescovile. Non si trattava, dunque, di una questione di mero prestigio né di soli interessi spirituali! I cavalieri professi sarebbero stati, in questo modo, “più liberi”, verso la Congregazione dei Religiosi, poiché, il prelato, al quale sarebbero stati sottoposti, sarebbe, a sua volta, dipeso, direttamente dal Papa. Come gli altri Ordini Monastico-Militari, la cui origine era strettamente legata ai Luoghi Santi, nei quali, gli antichi crociati, avevano compiuto le proprie gesta più gloriose, anche l’Ordine Giovannita si faceva merito di aver posseduto ed in parte di ancora possedere un certo numero di Sante Reliquie che, da quei luoghi, originarono. Tra le molte, tuttavia, alcune, furono particolarmente “considerate, amate e venerate” dai gran maestri e dai cavalieri tutti. La sacra immagine miracolosa di Nostra Signora di Filerno che si voleva attribuire a S.Luca e che, si narra, fosse apparsa, una volta, insieme a S. Giovanni, nel cielo di Rodi, per mettere in fuga l’esercito turco, era sempre stata la più venerata. Questa sacra immagine, per molti secoli, sparì. Se ne persero le tracce durante il lungo peregrinare che toccò all’Ordine, nella sua lunga storia. Altra antichissima reliquia fu: la Santa Spina donata al Gran Maestro d’Aubusson dal sultano Bajazet unitamente alla mano destra di S.Giovanni che furono, entrambe, trasferite, da Rodi, dal gran maestro Villiers de l’Isle-Adam quando fu sconfitto da Solimano “il magnifico” e che profusero le loro grazie e protezioni ad ogni tappa del loro lungo percorso che le portò da Candia a Citera; da Messina a Baia; da Cuma a Civitavecchia; da Viterbo a Corneto; da Nizza a Villafranca e da questo luogo fino a Siracusa, prima che, Carlo V, donasse all’Ordine, in feudo, l’isola di Malta. Da Malta seguirono il gran maestro Hompesch a Trieste e furono, di poi, a S.Pietroburgo, con il suo successore, lo zar Paolo I; da lì, passarono quindi a Copenhaghen (dove le portò la vedova dello zar Alessandro III) al fine di poterle salvare dalla furia degli atei iconoclasti. Successivamente giunsero a Belgrado dove, la figlia di questa zarina, la principessa Anna Petrowna, le donò ai Karageo-r gevitch. Era forse, laggiù, la signora di Filerno, per proteggere la «chiesa del silenzio» martirizzata dal comunismo sovietico ? Se, dunque, i cavalieri di Malta, non avevano potuto recuperare l’immagine santa di Nostra Signora di Filerno, la mano destra di San Giovanni era stata, al contrario, conservata dalle monache del famoso monastero delle “Commendadoras de San Juan”, le ultime religiose dell’Ordine residenti a Barcellona. La reliquia della Santa Spina, donata da Bajazet, era invece passata di mano, tra vari principi russi, fino a che, uno di loro, molto devoto, non l’aveva donata a Benedetto XV. Alberto Gamaleri Calleri Gamondi UNA BELLA STORIA FAMILIARE Giuseppe REVIGLIO della VENERIA, I REVIGLI DI BRA - Notizie storiche e genealogiche di una famiglia del vecchio Piemonte, Centro Studi Piemontesi,Torino, 2012, p. 255. È veramente davvero difficile recensire il volume in modo più compiuto e aderente alla sua realtà di quanto abbia fatto, nella prefazione al testo, una triade di studiosi-amici, quale quella composta da Enrico Genta Ternavasio, Gustavo Mola di Nomaglio e da Roberto Sandri Giachino. A essa e, naturalmente, al libro, rimandiamo non solo chi sia interessato alle vicende e ai personaggi di questa famiglia dell’aristocrazia piemontese, ma anche chi voglia mutuare conoscenza storica al piacere della lettura, mentre queste poche righe si propongono in via esclusiva la presentazione, per sommi capi, del lavoro ai soci della SISA. L’autore, a quanto ho recepito nel corso di alcune conversazioni, intervenute con lui sul tema, ha impiegato più tempo ad assumere la ferma decisione di scrivere la storia della propria famiglia, che non a stenderla materialmente. Questo suo lungo dubbio non è soltanto comprensibile, ma decisamente lodevole. La più che considerevole fatica affrontata - peraltro sottraendo spicchi di tempo al riposo, alla famiglia e allo svago, giacché Pippo della Veneria era ancora in piena fase di attività lavorativa – vedeva sull’altro piatto della bilancia una serie di incognite. Prima tra esse, l’interrogativo: al di là dei membri della famiglia e di qualche prossimo parente, l’argomento avrebbe rivestito un pur minimo interesse per gli ‘estranei’, per i lettori? Al secondo posto, lo scrupolo più che legittimo di far salvo il proprio nome dal men che equivoco alone di encomiatore dei propri maggiori, meritato da quanti, purtroppo non pochi, hanno – incautamente, quanto meno – sacrificato la verità storica a vanità scarsamente fondate. Tali perplessità risultano nei fatti tutte brillantemente superate. 11 Il volume, dal punto di vista oggettuale, è più che accattivante, Grafica e impaginazione rientrano a pieno titolo nella eccellenza della tradizione editoriale del Centro Studi Piemontesi. L’iconografia, forte di 93 illustrazioni in bianco e nero nel testo e di 44 piccoli stemmi (dal segno nitido e dalla rispondenza alla ortodossia blasonica) di personaggi di casa Reviglio e di loro alleanze matrimoniali, è impreziosita dall’inserto quadricromico fuori testo, che conta 16 pagine. Le immagini, scelte con competente cura, riproducono ritratti, armi gentilizie, frontespizi di opere a stampa, fogli di manoscritti, di lettere, esterni e interni di dimore, fotografie d’epoca, epitalami, orazioni funebri. Esse implementano e arricchiscono lo scritto in termini davvero armonici. La prosa piana e scorrevole, del tutto aliena da enfasi di sorta, ma sorretta da puntuali riferimenti documentali, narra cinque secoli di vita di una famiglia della nobiltà di Bra, esponendone, con lineare sincerità, le luci, senza sfumarne le ombre, a partire da quel Girardino, ascritto al notabilato cittadino e di non improbabile origine francese. Quindi, gli apparentamenti con la migliore aristocrazia subalpina, l’estinzione in essa del ceppo del nizzardo archiatra Guigonis con il susseguente inquarto dell’arma, gli infeudamenti, la concessione del comitatus, le cariche e gli alti uffici. In particolare, due sono i punti che suscitano in chi scrive un particolare interesse: i fasti della Accademia de’ Signori Illuminati di Bra, istituzione culturale, fondata nel 1702, sotto l’alto patrocinio di Madama Reale Giovanna Battista di Savoia, sodalizio che, quindici anni più tardi, a opera dell’Abate Bartolomeo Reviglio della Veneria, maestro delle cerimonie, si trasformò in colonia arcadica, direttamente dipendente dall’Arcadia romana. Il Reviglio ne fu il primo custode e la portò a un decennio di auten tica fama nazionale, annoverando tra i suoi ranghi esponenti ragguardevoli della poetica e della musica del tempo, tra i quali non guasta ricordare i nomi di due donne, non solo grandi dame per altissima nascita, ma memorabili per l’intensa attività svolta in campo culturale (erano en-trambe di celebrata beltà e Arcadi romane), quali Aurora San-severino, figlia del principe di Bisignano e consorte prima di un Acquaviva, conte di Conversano, e, rimastane vedova (a un anno dalle nozze, celebrate quando lei era appena undi-cenne), quindi di un Gaetani dell’Aquila d’Aragona, principe di Piedimonte, duca di Laurenzana, eccetera, a Bra nota con il nome arcadico di “la Perenna”, e di Aurelia d’Este, figlia del marchese Sigismondo IV e di una Grimaldi di Monaco, andata sposa al patrizio napolitano Francesco Gambacorta, duca di Limatola, che all’Accademia di Bra prese nome di “la Concentrata”; la vita, a noi ben più prossima, di Enrichetta Balbo di Vinadio, figlia di Cesare, personaggio non minore del Risorgimento, e di Félicie Vallet de Villeneuve, moglie di Carlo Reviglio della Veneria alla vigilia del fatidico 1848.Ma di fatti, di dati, di notizie, interessanti o gustosi, ve ne sono a bizzeffe: dalle faide braidesi tra i Brizio e i Boarino, alla vie de Boheme (ma non spinta a sconvenienti eccessi) di un simparico Reviglio di fine Ottocento. Assai chiarificanti, alla fine, le otto ‘tavole delle parentele’, congiunte a due, genealogiche, che riflettono le generazioni dei Reviglio a noi più vicine. Apprendiamo, così, che l’autore avrebbe pieno diritto a posporre al suo nome un numero romano, facendosì chiamare Pippo II della Veneria, giacché il nonno omonimo era noto come Pippo e il cugino germano del nostro, di poco più giovane e anche lui battezzato come Giuseppe, ha Epi come diminuitivo. Asco 12 STEMMA del SEMINARIO VESCOVILE di CHIOGGIA Ancora una volta il bravo e infaticabile araldista Giorgio Aldrighetti, di Chioggia, ci presente il suo ultimo lavoro di araldica ecclesiastica. Questa volta si tratta dello stemma del Seminario Vescovile di Chioggia che sarà senz’altro d’interesse per i soci SISA, (Società Italiana Studi Araldici). Ricordiamo che tra tutti i tipi d’araldica moderna, visto la mancanza in Italia di un ufficio araldico che si occupa di stemmi personali, al contrario dei paesi d’oltre manica, quella ecclesiastica è forse quella più viva e possiamo considerarci fortunati che ci sia un’araldista del calibro di Aldrighetti che si occupa anche di questo tipo d’araldica. Il disegno è quello del valido disegnatore araldico Enzo Parrino di Monterotondo (Roma) che da anni collabora con Giorgio Aldrighetti. La sua blasonatura: D’azzurro al calice d’oro, cimato dall’ ostia al naturale, caricata dal cristogramma JHS, con le lettere di nero, il tutto accompagnato nel canton destro del capo da una crocetta greca patente d’argento e similmente nel canton sinistro, da una crocetta cucita di rosso. Ornamenti esteriori: due angeli al naturale, sostenenti lo scudo e l’iscrizione circolare, in lettere maiuscole di nero, SEMINARIO VESCOVILE CHIOGGIA. AMG Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci Direttore Alberico Lo Faso di Serradifalco Comitato redazionale Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey, Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo Testata del periodico di † Salvatorangelo Palmerio Spanu Indirizzi postali Direttore: Piazza Vittorio Veneto n. 12 10123 Torino Redattore: Marco Di Bartolo, via IV novembre n. 16 10092 Beinasco (Torino) Sito Internet www.socistara.it Posta elettronica [email protected] [email protected] I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto ma-gnetico in formato word o via e-mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto pubblicato è responsabilità esclusiva dell’autore e non riflette il punto di vista della Società o della redazione. Gli scritti verranno pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali ed eventualmente anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza. La redazione si riserva la possibilità di apportare qualche modifica ai testi per renderli conformi allo stile del periodico