Gazzetta F O R E N S E Bimestrale Anno 3 – Marzo-Aprile 2009 direttore responsabile Roberto Dante Cogliandro comitato di direzione Almerina bove Corrado d'ambrosio Alessandro jazzetti redazione capo redattore Sergio Carlino redazione gazzetta forense Valeria D’Antò, Melania DuratuRo, Anna Eliseo, Imma Monteforte, Caterina VAlia editore Denaro Libri Srl Piazza dei Martiri, 58 – 80121 Napoli proprietario Associazione: Nemo plus iuris comitato di redazione Andrea Alberico Antonio ArdituRO Clelia Buccico Carlo Buonauro Sergio Carlino Raffaele Cantone Domenico De Carlo Mario de Bellis Andrea Dello Russo Catello MARESCA Daniele Marrama Maria Pia Nastri Donato PALMIERI Patrizia Parisi Giuseppe Pedersoli Angelo Pignatelli Ermanno Restucci Francesco Romanelli Raffaele Rossi Angelo Scala Mariano Valente comitato scientifico Fernando Bocchini Aurelio Cernigliaro Lorenzo Chieffi Giuseppe Ferraro Gennaro MARASCA Aniello PALUMBO Antonio Panico Giuseppe Riccio Giuseppe Tesauro Renato Vuosi n. registraz. tribunale N. 21 del 13/03/2007 stampa Cangiano Grafica – Napoli so m m a r i o editoriale Il primo anno di vita della Gazzetta Forense 9 Roberto Dante Cogliandro Avvocato la previdenza forense Diminuite le sanzioni per l’omesso invio del mod. 5 13 Immacolata Troianiello Avvocato e Delegata Cassa Nazionale Previdenza ed Assistenza Forense diritto e procedura civile Nuova (e più restrittiva) disciplina in tema di rilevabilità del difetto di giurisdizione 17 Florindo Minichiello Pres. agg. on. Corte di Cassazione Il potere di azione, di intervento e di impugnazione del p.m. in sede civile. Ambito di operatività e limiti 20 Antonella Serpico Avvocato L’amministrazione di sostegno Luisa Errico Avvocato e Presidente Ass.ne Centro Studi Diritto degli Affetti – Coordinatrice Commissione Minori Tribunale di Napoli 23 diritto e procedura penale Il ciclo dei rifiuti e la criminalità organizzata 33 Antonio Ardituro Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Napoli Direzione Distrettuale Antimafia La rilevanza penale dell’attività sportiva: considerazioni dommatiche per una corretta ricostruzione nella sistematica delle scriminanti 49 Andrea Alberico Dottorando di Ricerca in Diritto Penale Università degli Studi di Napoli “Federico II” Coltivazione di stupefacenti e valutazione dell’offensività 63 concreta della condotta Nota a Cass. Pen., Sez. IV, 14 gennaio 2009, n. 1222 Valeria Parlato Dottore in giurisprudenza e specializzata presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali “Federico II” Rassegna di legittimità 66 Andrea Alberico Dottorando di Ricerca in Diritto Penale Università degli Studi di Napoli “Federico II” Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli Rassegna di merito Giuseppina Marotta Avvocato Alessandro Jazzetti Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli 71 diritto amministrativo Divieto di rinnovo tacito, nel codice dei contratti pubblici 79 Avv. Gaetana Marena Dottoranda di ricerca in diritto amministrativo Il rilascio del permesso di costruire in mancanza del prescritto piano attuativo 85 Filippo Cifarelli Avvocato Il codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 94 (D.Lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) A cura di Almerina Bove Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania diritto tributario I nuovi strumenti deflattivi del contenzioso 101 e le conseguenze sull’istituto del ravvedimento operoso Clelia Buccico Ricercatore, Professore aggregato di Diritto Tributario presso Seconda Università degli Studi di Napoli L’impugnabilità del provvedimento di diniego di autotutela alla luce delle più recenti pronunce di legittimità 115 Fiorella Feola Funzionario dell’Agenzia delle Entrate – Dottorando di ricerca in Diritto Tributario – Facoltà di Economia – Seconda Università degli Studi di Napoli La tutela del contribuente avverso i provvedimenti emessi durante l’istruttoria fiscale: l’impugnabilità degli ordini di verifica A cura di Raffaele Cantone Magistrato presso il Massimario della Cassazione 121 diritto internazionale La giurisprudenza delle Corti di Common law 133 in tema di cessazione dei trattamenti medici salvavita in pazienti in stato vegetativo persistente A cura di Francesco Romanelli Avvocato, specialista in diritto ed economia della Comunità europea Osservatorio di giurisprudenza internazionale 139 A cura di Francesco Romanelli Avvocato, specialista in diritto ed economia della Comunità europea questioni A cura di Mariano Valente Avvocato DIRITTO CIVILE Locazione 145 di Luca Bavoso Avvocato PROCEDURA PENALE Esercizio dell’azione penale 146 di Andrea Alberico Dottorando di ricerca in Diritto Penale, Università di Napoli “Federico II” DIRITTO AMMINISTRATIVO Autorizzazione commerciale e condono edilizio di Alessandro Barbieri Avvocato 148 recensioni Gli accordi di ristrutturazione dei debiti Un nuovo procedimento concorsuale di Elena Frascaroli Santi, Padova, 2009 155 A cura di Corrado d’Ambrosio Giudice novità legislative Legge 28 gennaio 2009, n. 2 145 Gazzetta F O R E N S E Soluzioniperglioperatorideldiritto Il Denaro libri pratica e autorevole autorevole 5 buone ragioni per abbonarsi Offerta di lancio • Autorevolezza due comitati, uno scientifico e uno di redazione, che si avvalgono dell’esperienza di operatori di alto valore professionale del settore giustizia , come docenti universitari, magistrati, avvocati e notai per assicurare un elevato livello di approfondimento ad ogni pubblicazione. • Attenzione e trasversalità la rivista approfondisce questioni in materia di diritto civile, commerciale, penale, amministrativo, comunitario e tributario per permettere anche a chi dello specifico settore non si occupa “ex professo”, di affrontare e risolvere quesiti relativi a rami del diritto non direttamente connessi alle proprie competenze professionali. 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In particolare, e sono questi i punti su cui ci si vuole soffermare in queste brevi riflessioni, si prevede la reintroduzione dei minimi tariffari e la reimpostazione dell’eccesso alle professioni. Quanto a quest’ultimo punto si prevede l’inasprimento dell’eccesso con esami annuali presso le rispettive Corti d’Appello senza però più procedere al cosiddetto incrocio delle correzioni, bensì con la nomina di commissioni e commissari esterni presso ciascuna Corte d’Appello. L’obiettivo è quello di evitare spese inutili nel trasporto dei compiti da una città all’altra ed invece l’utilizzo di una parte di tali risorse per remunerare adeguatamente il lavoro di commissari esterni che volontariamente impiegano mesi per la correzione degli elaborati. In tal modo si raccolgono le istanze da più parti arrivate e dette circa l’inutilità (se non solo formale e di facciata) di una correzione incrociata tra le varie Corti d’Appello, che ha portato spesso a delle valutazioni improntate a mere ottiche di percentuali di politica dell’avvocatura e non invece ad una meritocratica ed attenta correzione degli elaborati svolti dai candidati. Questo prima impronta di unità dell’intera avvocatura su una questione cosi importante (l’accesso alla professione) è certamente un segnale tangibile che il comitato ristretto costituito al Senato dovrà in tempi brevi accogliere e licenziare per la deliberazione finale dell’aula di Palazzo Madama. Quanto invece al ripristino dei minimi e dei massimi tariffari sembra questo un punto su cui, dopo anni di mortificazioni subite dai legali ad opera degli enti che spesso in una mera contrattazione di mercato imponevano ed impongono le loro condizioni e le proprie tariffe a dir poco mortificanti, si torna indietro con una riforma che tutti auspicano. L’effetto Bersani è stato negli anni dirompente e squalificante, oltre a creare una massificazione e commercializzazione della professione forense priva di ogni significato e finalità. E’ giusto ed è ora che si torni indietro e non si equiparino più le professioni ed in particolare quella legale ad una mera attività di bottegaio dove spesso la parte forte la fa il cliente. L’azzeramento dei minimi tariffari aveva, soprattutto nei grossi distretti giudiziari, dove il numero degli avvocati è elevato, comportato una mortificazione della professione legale, spesso relegata ad una mera prestazione materiale al servizio dell’ente o della società che imponeva il prezzo della prestazione d’opera intellettuale che necessitavano. Cosa assurda se si pensa al prestigio e al vanto acqui- Gazzetta F O R E N S E e d i t o r i a l e sito nei secoli dall’avvocatura e dai suoi esempi per l’intero paese. E’ giunto il momento in cui le professioni riprendano la loro dignità ed onorabilità, al cospetto di un mercato 10 il cui eccessivo liberismo non è poi sempre premiante. La storia e la recente crisi americana ci hanno insegnato tante cose di cui non ci resta che trarne esempio e porre in essere i giusti e dovuti rimedi. l a PRE V IDE N ZA F ORE N S E Diminuite le sanzioni per l’omesso invio del mod. 5 Immacolata Troianiello Avvocato e Delegata Cassa Nazionale Previdenza ed Assistenza Forense 13 Gazzetta F O R E N S E ● Diminuite le sanzioni per l’omesso invio del modello 5 ● Immacolata Troianiello Avvocato e Delegata Cassa Nazionale Previdenza ed Assistenza Forense M a r z o • a p r i l e 2 0 0 9 13 L’Avvocato, iscritto all’Albo, è obbligato, per ciò stesso, ad inviare il MOD. 5 alla Cassa Nazionale di previdenza ed Assistenza Avvocati. L’ obbligo dell’invio sussiste per tutti gli avvocati iscritti all’Albo ancor prima che gli stessi s’iscrivino alla Cassa Avvocati. Tale obbligo sussiste anche nel caso in cui non sia stato prodotto reddito, ovvero nel caso in cui il reddito professionale ammonti a zero per l’anno di riferimento. La sanzione, per il mancato invio, è stabilita, nell’articolato, vigente ancora solo per l’anno in corso, in una somma pari al contributo integrativo minimo previsto per l’anno solare in cui la comunicazione doveva essere inviata. Ma la riforma previdenziale approvata nella seduta del 17 marzo 2006, ha introdotto modifiche significative nel versamento dei contributi. Necessitava svincolare la sanzione dall’importo del contributo integrativo minimo, per ragioni di equità. Preso atto di ciò, il Comitato ha ritenuto di procedere alla modifica della sanzione, apportando un sostanziale cambiamento alla stessa, ovvero predeterminandone l’importo tanto da renderla certa e non più soggetta alle variazioni legate al volume d’affari. L’importo della sanzione veniva determinato in euro 380,00 nell’ipotesi più gravosa. La collega Anna Alberti, in primis, era promotrice della modifica, riscuotendo il consenso di gran parte dei delegati. Il lasso di tempo intercorso per il ravvedimento, è sempre stato utilizzato come criterio per determinare la gradualità della sanzione comminata all’avvocato inadempiente. Nella pregressa formulazione, per i primi trenta giorni di ritardo, era prevista una sanzione pecuniaria del 25%, per i successivi sessanta giorni di ritardo, una sanzione al 50% dell’intero contributo integrativo; proponevo una modifica per ampliare il tempo in cui si può verificare il c.d. ravvedimento operoso”. Ho ritenuto che, qualora il professionista, ancorché inadempiente alla data del 31 dicembre dell’ anno di riferimento, rilevi tale stato prima della formale contestazione da parte della Cassa, ma, come detto, dopo lo scadere dell’anno solare in cui è maturata l’omissione, la sanzione debba essere applicata in misura ridotta rispetto al massimo previsto. Insieme ai colleghi Lucia Taormina e Giulio Nevi, rielaboravamo il testo definitivo della modifica alla norma, che il Comitato dei delegati approvava alla quasi unanimità con un solo voto contrario. L’emendamento ha così definitivamente modificato il regime sanzionatorio: L’omissione o l’invio di una comunicazione non conforme al vero, comporta per questo solo fatto l’obbligo di versare alla Cassa a titolo di sanzione, una somma pari ad euro 380,00. Gazzetta F O R E N S E PRE V IDE N ZA La sanzione di cui al primo comma è ridotta a: € 95,00. se la comunicazione o la rettifica di quella non conforme al vero, viene inviata con un ritardo non superiore a trenta giorni dalla scadenza nel termine previsto. € 190,00.se la comunicazione o la rettifica di quella non conforme al vero, viene inviata entro il 31 dicembre dell’anno solare previsto per l’invio. € 250,00 se la comunicazione o la rettifica di quella non conforme al vero viene inviata successivamente al 31 dicembre dell’anno solare previsto per l’invio e prima del ricevimento della formale contestazione da parte della Cassa. F ORE N S E 14 Resta la severa sanzione per chi effettua una comunicazione non conforme al vero oppure ometta sino alla formale sanzione della Cassa, l’invio del MOD, 5. In queste due ipotesi la sanzione ammonta ad € 380,00. Confermato il particolare favor previsto per i giovani avvocati iscritti per il primo anno all’Albo: il professionista, pur avendo l’obbligo dell’invio, qualora ometta, non incorre per quel solo anno, nelle descritte sanzioni. Pia ce sottolineare che l’elaborazione e la stesura dell’emendamento proviene da tre (su cinque) delegatedonna presenti nel Comitato. diritto e procedura Civile Nuova (e più restrittiva) disciplina in tema di rilevabilità del difetto di giurisdizione 17 Florindo Minichiello Pres. agg. on. Corte di Cassazione Il potere di azione, di intervento e di impugnazione del p.m. in sede civile. Ambito di operatività e limiti 20 Antonella Serpico Avvocato L’amministrazione di sostegno 23 Luisa Errico Avvocato e Presidente Ass.ne Centro Studi Diritto degli Affetti – Coordinatrice Commissione Minori Tribunale di Napoli Il riconoscimento del diritto a non essere curati Stefania Mauro Dottore in giurisprudenza 28 Gazzetta F O R E N S E ● Nuova (e più restrittiva) disciplina in tema di rilevabilità del difetto di giurisdizione ● Florindo Minichiello Pres. agg. on. Corte di Cassazione g e nn a i o • f e b b r a i o 2 0 0 9 17 Il primo (ante abrogazione del secondo ad opera dell’art. 73 della Legge 31 maggio 1995 n. 218) ed ora unico comma dell’art. 37 c.p.c., il quale dispone che “il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, è stato costantemente interpretato – fino alla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 24883 del 9 ottobre 2008 (che ha spinto alla redazione di questa breve nota) – nel senso che: a) il difetto di giurisdizione può essere fatto valere, o rilevato d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo, e quindi pure in appello e in sede di legittimità (operando in tal caso la Corte, come in ogni ipotesi di verifica di un error in procedendo, quale giudice di fatto). La possibilità di dedurre, o rilevare d’ufficio, tale difetto trova il suo limite naturale nel giudicato, il quale può formarsi, oltre che a seguito di statuizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in sede di regolamento preventivo di giurisdizione o di ricorso ordinario per motivi a questa attinenti, per effetto di mancata impugnazione dell’espressa statuizione sulla potestas iudicandi del giudice adìto oppure, nel caso di sentenza contenente più statuizioni e priva di una espressa pronuncia sulla giurisdizione, per non essere stata impugnata anche una sola di tali statuizioni, questa necessariamente presupponendo (giudicato interno implicito) la giurisdizione dello stesso giudice (v. Cass. 3 marzo 1961 n. 456, 21 aprile 1975 n. 1517, 23 giugno 1983 n. 4295, 3 febbraio 1995 n. 1311, 8 agosto 2001 n. 10961, 14 aprile 2003 n. 5903, 12 luglio 2005 n. 14546, 28 marzo 2006 n. 7039, 19 ottobre 2006 n. 22427); b) essendo la determinazione della giurisdizione sottratta alla disponibilità delle parti, il relativo difetto può essere fatto valere anche da quella che nelle precedenti fasi abbia, invece, sostenuto la competenza giurisdizionale del giudice adìto (Cass. 18 luglio 1961 n. 1749, 17 febbraio 1964 n. 347); c) la deducibilità o rilevabilità ex officio del citato difetto è consentita persino in sede di giudizio di rinvio disposto da una sezione semplice della Corte, ancorché in tale sede siano precluse tutte le questioni che avrebbero dovuto o potuto essere dedotte al giudice di legittimità o da questo rilevate d’ufficio, giacché in tale ipotesi il giudicato implicito sulla giurisdizione è configurabile solo se l’annullamento sia stato disposto dalle Sezioni Unite, essendo queste (e non anche perciò una sezione semplice della Corte) l’organo investito della funzione di regolare la giurisdizione (Cass. 4 maggio 1963 n. 1104; 14 aprile 2003 n. 5903). Alla stregua di tali princìpi è accaduto (o sarebbe potuto accadere) che la tardività del rilievo del difetto di giurisdizione, non importa se dovuta alla trascuratezza o, addirittura, alla malafede di qualcuno dei soggetti del processo (determinato a porre la questione secundum eventum litis e cioè solo in caso di sua soccombenza nel Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a merito), abbia comportato la vanificazione di intere fasi di giudizio, sia di merito che di legittimità, dopo anni di penosa e costosa attesa, costringendo la parte interessata ad intraprendere ex novo una via diversa per il soddisfacimento della propria pretesa. Ciononostante – a parte forse un eccesso di formalismo ascrivibile alla negazione di preclusioni alla rilevabilità del difetto in ipotesi di rinvio disposto da una sezione semplice anziché dalle SS. UU. della Corte (si noti per incidens che l’art. 374, primo comma c.p.c., come sostituito dall’art. 8 del D. Lgs. 2 febbraio 2006 n.40, prevede ora la possibilità che il ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione sia assegnato ad una sezione semplice se sulla questione da esso proposta si siano già pronunciate le Sezioni Unite) –, la richiamata giurisprudenza è stata coerente con il dettato legislativo, statuente (con formula che non avrebbe potuto essere più chiara) la rilevabilità del difetto di giurisdizione, “anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”. Anzi, l’affermazione della configurabilità di un giudicato implicito sulla giurisdizione in ipotesi di sentenza parziale (non espressamente pronunciatasi sulla questione) e di mancata impugnazione di una statuizione di merito, è già apparsa come una sorta di temperamento dell’assolutezza del precetto del primo comma dell’art. 37 c.p.c., rimanendo in definitiva una forzatura logica il desumere una in realtà mai compiuta verifica positiva della giurisdizione dalla considerazione che questa (concernendo questione pregiudiziale di rito) avrebbe dovuto essere compiuta prima del passaggio alla decisione del merito, nel rispetto della progressione risultante dagli artt. 187, commi secondo e terzo, e 279, comma secondo, c.p.c.. Questa consolidata architettura giurisprudenziale ha subìto una sorta di scossa tellurica ad opera della sopra citata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 24883 del 2008 (Pres. Carbone, Est. Merone, P.M. Nardi conf.), la quale, secondo la (in verità piuttosto ampia) massimazione offertane dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo, ha affermato che: «L’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tener conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (“asse portante della nuova lettura della norma”), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All’esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza c i v i l e 18 del termine previsto dall’art. 38 c.p.c. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito. (Nella specie, le Sezioni Unite hanno giudicato inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta in sede di legittimità dalla parte che, soccombente nel merito in primo grado, aveva appellato la sentenza del giudice tributario senza formulare alcuna eccezione sulla giurisdizione, così ponendo in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire il difetto di giurisdizione e prestando acquiescenza al capo implicito sulla giurisdizione della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c.)». La sentenza, che si pone nel solco segnato da SS.UU. 22 febbraio 2007 n. 4109 (affermativa dell’operatività del principio della translatio iudicii in ipotesi di processo erroneamente iniziato avanti a giudice privo di giurisdizione) ed è ampiamente e dottamente motivata, desta qualche perplessità e non sembra poter sfuggire a qualche minima osservazione critica. È indubbio che la disciplina risultante dai princìpi sopra riassunti ai numeri 1), 2), 3) e 4) abbia il pregio di evitare l’increscioso risultato che l’emersione del difetto di giurisdizione del giudice adìto possa verificarsi dopo che la causa sia stata decisa nel merito in due gradi di giudizio, o addirittura in sede di rinvio o di ricorso avverso sentenza emessa in sede di rinvio, con conseguente azzeramento dell’attività processuale già svolta ed ulteriore differimento della prospettiva di definizione della controversia; il che si tradurrebbe in una minore effettività, se non addirittura in una vanificazione, della tutela giurisdizionale assicurata dagli artt. 24 e 111 Cost.. È però discutibile la correttezza logico-giuridica della via seguita per giungere a simile, pur auspicabile, approdo, ribadito (e, in verità, sarebbe Gazzetta F O R E N S E g e nn a i o • f e b b r a i o stato “diabolico” pensare ad un ulteriore, e questa volta ravvicinato, revirement delle Sezioni Unite) da successivi pronunciati (v. Cass. 20 novembre 2008 n. 27531 e 18 dicembre 2008 n. 29523, nonché, anche per ulteriori approfondimenti, Cass. 30 ottobre 2008 n. 26019). La Suprema Corte afferma di fondare tale innovativa disciplina su una diversa interpretazione dell’art. 37 c.p.c., che ritiene di dover “leggere” alla stregua dei princìpi di economia processuale e di ragionevole durata del processo nonché alla stregua dell’avvenuta assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e della concezione della giurisdizione non più come espressione della sovranità statale ma come servizio da rendere alla collettività in termini di effettività e tempestività. All’estensore di questa modesta nota pare, invece, che il fulcro ed il reale novum della sentenza in questione, rispetto alla precedente ed ultradecennale giurisprudenza – secondo la quale, in sostanza, la rilevabilità del difetto di giurisdizione in ogni stato e grado trova(va) limite nel giudicato interno, esplicito o implicito, formatosi sul punto –, consistano essenzialmente nell’ampliamento del concetto di giudicato implicito (non più limitato all’ipotesi della mancata impugnazione di una statuizione di merito non preceduta da una espressa verifica della giurisdizione ma configurato anche nel caso d’impugnazione concernente solo il merito della sentenza rimasta “muta” sulla giurisdizione), sulla base dell’assunto che, poiché qualsiasi decisione di merito implica la preventiva verifica della giurisdizione, tale verifica è stata necessariamente compiuta, nonostante la mancanza di un espresso esame della questione, dalla sentenza che decide il merito, in quanto “il giudice che decide il merito ha anche già deciso di poter decidere”. Pertanto, poiché la riduzione della portata precettiva dell’art. 37 (nel suo già primo ed ora unico comma) c.p.c. deriva, in realtà, solo dalla creazione di una nuova ipotesi di giudicato implicito, non spingendosi la Suprema Corte a “leggere” tale norma nel senso di ravvisarvi una preclusione alla rilevabilità del difetto di giurisdizione (in sede d’impugnazione) anche in mancanza di giudicato, il riferimento della sentenza annotata ad una interpretazione della stessa norma in senso restrittivo (plus dixit quam voluit) sembra svelare, in definitiva, una sorta di contraddizione inespressa o, almeno, un dubbio sulla bontà dell’affermazione che la pronuncia di merito implichi necessariamente la delibazione della giurisdizione. Affermazione, questa, che è suggestiva ma contraria alla logica ed alla comune esperienza, vero essendo, invece, che il giudice che decide il merito ha deciso soltanto di decidere, attesa addirittura la configurabilità, ancorché eccezionalmente, dell’ipotesi di un giudice che decida il merito nonostante la consapevolezza della sua carenza di giurisdizione. Ed a tale riguardo si ribadisce che già il principio affermato dalla “vecchia” giurisprudenza, che escludeva la rilevabilità del difetto di giurisdizione per effetto del 2 0 0 9 19 giudicato implicito nell’ipotesi di mancata impugnazione di una delle statuizioni di merito di una sentenza non espressamente pronunciatasi sulla giurisdizione, appariva una sorta di forzatura logico-giuridica, ancorché comprensibile siccome vòlta a temperare l’assolutezza della norma sopra menzionata. Né va taciuto che alquanto incerta e problematica, e non scevra da rischi di valutazioni meramente soggettive, è l’identificazione in concreto – a fronte del caso (considerato “normale”) di pronuncia di merito implicante la verifica della giurisdizione – dell’ipotesi della motivazione tale da manifestare con evidenza che il giudice abbia deciso il merito per saltum senza dare precedenza alla questione della potestas iudicandi. Infine, riposi il nuovo arresto giurisprudenziale su una diversa interpretazione del citato art. 37 o degli articoli 324 e 329 c.p.c., non può non osservarsi che – in mancanza di interventi legislativi al riguardo – il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), dalla sentenza in esame considerato quasi come una sorta di deus ex machina idoneo a capovolgere una giurisprudenza pluridecennale ed anche posteriore all’introduzione del principio stesso (avvenuta con legge costituzionale n. 2 del 1999), avrebbe potuto essere utilizzato, più che come criterio interpretativo, come parametro per una verifica di legittimità costituzionale della disciplina processuale, da rimettere doverosamente al Giudice delle leggi, senza l’utilizzo della via interpretativa, certo più breve ma forse non percorribile se non a rischio di una qualche confusione di ruoli. Sotto questo profilo, anzi, non può non stupire che le Sezioni Unite, ritenendo di poter pervenire ad una radicale riduzione dell’area di operatività dell’art. 37 c.p.c. de iure condito, mediante l’ulteriore valorizzazione dei princìpi della ragionevole durata del processo e dell’assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza, già posti a base della sentenza n.4109 del 22 febbraio 2007 in tema di translatio iudicii, e richiamando le considerazioni svolte in ordine agli artt. 24 e 111 Cost. nella sentenza della Corte Costituzionale n. 77 del 12 marzo 2007 (dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 maggio 1971 n. 1034 “nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, della domanda proposta a giudice amministrativo privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione”), abbiano invece ignorato il (non secondario) passaggio in cui tale pronuncia afferma di non condividere la tesi, svolta nella citata sentenza della Cassazione n. 4109 del 2007, circa la non necessità di interventi costituzionali per pervenire all’ammissibilità della riassunzione del processo davanti al giudice (ordinario o speciale) munito di giurisdizione anche nel caso di sentenza di giudice di merito che abbia declinato la giurisdizione. Gazzetta F O R E N S E ● Il potere di azione, di intervento e di impugnazione del p.m. in sede civile. Ambito di operatività e limiti ● Antonella Serpico Avvocato D i r i t t o e p r o c e d u r a c i v i l e 20 Premessa Con la sentenza del 11.11.2008, estensore Dott. Morelli, la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal Procuratore Generale presso la Corte di Milano avverso il decreto della Corte d’Appello di Milano, I civile, depositato il 09/07/2008.1 La Suprema Corte ha accolto l’eccezione pregiudiziale di carenza di legittimazione sollevata dalla controparte nei confronti del Procuratore Generale stabilendo infatti che “diversamente dal processo penale in cui al P.M. è attribuita la titolarità della correlativa azione nell’interesse dello Stato – nel processo civile, che è processo privato di parti, la presenza del P.M. ha carattere eccezionale, perché derogatoria del potere dispositivo delle parti stesse, risultando normativamente prevista solo in ipotesi peculiari di controversie coinvolgenti anche un interesse pubblico”. 1. L’azione “Il pubblico ministero esercita l’azione civile nei casi stabiliti dalla legge”2. La legittimazione processuale del pubblico ministero ha carattere straordinario e quindi l’azione è esercitabile solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Tra questi è da segnalare il procedimento di apposizione dei sigilli al patrimonio ereditario in determinati casi 3, la nomina del curatore dello scomparso4, la denuncia al tribunale per le irregolarità in gestioni sociali 5, l’istanza per la nomina di un curatore speciale6, per l’interdizione o l’inabilitazione7, la dichiarazione di fallimento e altre azioni tutte previste dalla legge. La ratio della norma consiste nel sottrarre alla disponibilità dei titolari la tutela di interessi di carattere generale. La legge attribuisce, quindi, il potere di azione al P.M. in casi in cui è particolarmente intenso l’interesse pubblico verso la situazione sostanziale e la sua tutela, nel caso in cui il titolare del diritto resti inerte o manchi del tutto. Si tratta, quindi, di un compito istituzionale che se da un lato è indipendente da ogni altro organo, resta comunque un adempimento di un tassativo obbligo che l’ordinamento pone nei confronti del P.M. I poteri che ha il P.M. nelle cause che può proporre sono identici a quelli che spettano alle parti. L’unica differenza da segnalare sta nella circostanza che il P.M. non può essere condannato al pagamento delle spese processuali in caso 1 2 3 4 5 6 7 Il provvedimento “accoglie il reclamo proposto dal Sig. B. E., quale tutore di E.E. … e per l’effetto… accoglie l’istanza – conformemente proposta da entrambi i legali rappresentanti di E. E. – di autorizzazione a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di quest’ultima, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico” Art. 69 c.p.c. Art. 754 c.p.c. Art. 48 c.c. Art. 2409 c.c. Art. 321 c.c. Art. 417 c.c. Gazzetta F O R E N S E g e nn a i o • f e b b r a i o di soccombenza, poiché agisce in adempimento di un dovere imposto dalla legge, nell’interesse pubblico. 2 0 0 9 21 4. La sentenza della Cassazione del 11 novembre 2008 Nella sentenza in commento il P.G. di Milano si è qualificato come “interventore necessario”, con impli- cito riferimento appunto alle cause sullo “stato e capacità delle persone” di cui al comma primo, n. 3, dell’art. 70 c.p.c. Tale definizione è stata giustamente contestata dalla difesa di B. E. sul presupposto che le questioni di stato e capacità delle persone sono esclusivamente quelle riguardanti la “posizione soggettiva dell’individuo come cittadino o nell’ambito della comunità civile o familiare” e non, invece, le questioni attinenti ad ulteriori diritti aventi a presupposto la “posizione soggettiva” stessa10. Il Collegio, nel valutare la possibilità di un’interpretazione estensiva che avrebbe consentito di includere la questione nell’ambito delle cause concernenti lo status, ha dovuto desistere considerato “che anche in siffatta categoria di causa alla previsione dell’intervento “necessario” del P.M. non si accompagna, come detto, quella di un suo potere di impugnazione, identificandosi le sue funzioni in quelle che svolge il Procuratore generale presso il giudice ad quem eventualmente (e ritualmente) adito (in questo caso il P.G. presso la Corte di Cassazione)”. Sempre nel tentativo di includere la fattispecie in esame nell’ambito del potere impugnatorio del P.M., la Corte ritiene inutile anche il richiamo alla impugnazione “nell’interesse della legge”11 sul presupposto che il correlativo potere: - “spetta solo al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione; - è esercitabile unicamente al fine della enunciazione del “principio di diritto cui il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi” (enunciazione che, nel caso che riguarda, è però già intervenuta con la sentenza di rinvio n. 21748 cit.); - e non può comunque avere effetto alcuno sul provvedimento del giudice di merito, che resterebbe quindi fermo anche nel caso di accoglimento di una siffatta impugnazione (ex art. 363, comma quarto, cit.).” La Corte, infine, ha valutato anche la possibilità che la questione in esame potesse dar luogo a questioni sulla legittimità costituzionale sul rilievo della presunta mancata estensione ai principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3, commi primo e secondo, della Costituzione. Infatti, è invece “ragionevole” non trattare in modo identico fattispecie diverse nelle quali va protetto “un diritto personalissimo del soggetto di spessore costituzionale (come, nella specie, il diritto di autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale)”. L’esercizio di tale diritto è giustamente sottratto, quindi, al potere di impugnazione da parte del P.M. che in tal caso, diversamente argomentando, avrebbe potuto con- 8 Art. 70 c.p.c. 9 Cass. 24 febbraio 1997 n. 1664. 10 Cass. SS. UU., n. 20113/2005. 11 Art. 363 c.p.c. 2. L’intervento in causa Il legislatore ha previsto diverse forme di intervento da parte del P.M.8 Tra i casi di intervento obbligatorio a pena di nullità rilevabile d’ufficio, vi sono le cause che egli stesso potrebbe proporre, come ad esempio quelle relative alla domanda di nullità del brevetto per marchio d’impresa nelle quali ha anche la facoltà di proporre la domanda ed impugnare la sentenza emessa sulla domanda proposta dal privato interessato. Seguono poi le cause matrimoniali, ivi comprese le ipotesi di separazione personale tra i coniugi. L’obbligatorietà dell’intervento del Pubblico Ministero è strettamente riferita alla fase del giudizio in cui è in discussione il vincolo matrimoniale e non anche al giudizio di appello che riguardi i soli rapporti patrimoniali.9 Un altro caso di obbligatorietà dell’intervento del P.M. è quello delle cause in materia di stato e capacità delle persone come ad esempio il giudizio avente ad oggetto il diritto del minore ad assumere il cognome del padre che lo ha riconosciuto. In tali casi, l’intervento è sempre previsto a pena di nullità, ma il P.M. non può esperire l’azione né proporre impugnazione, trattandosi di un potere a carattere eccezionale, esercitabile solo nei casi previsti dalla legge. L’intervento è altresì obbligatorio nelle cause davanti alla Corte di Cassazione. Infine, è prevista la possibilità di intervenire in ogni causa in cui si ravvisi un pubblico interesse. 3. Il potere di impugnazione La disciplina del potere di impugnazione del p.m. è contenuta nell’art.72 c.p.c. che ne restringe l’ambito alle cause matrimoniali e alle sentenze che dichiarino l’efficacia o l’inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali; in entrambi i casi, il potere di impugnazione è escluso per le cause relative alla separazione personale dei coniugi. Il mezzo attraverso il quale si dà inizio alla partecipazione nel giudizio da parte del P.M. è quello della comunicazione degli atti al suo ufficio. Con la comunicazione e, quindi, con l’informazione ufficiale dell’inizio di un procedimento, si dà la possibilità al P.M. di intervenire e di esercitare i corrispondenti poteri previsti dalla legge: la circostanza che il P.M. a seguito della predetta comunicazione non intervenga in giudizio non è causa di nullità in quanto è sufficiente che abbia apposto il visto sugli atti trasmessigli. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a trapporsi fino al punto di impugnare la sentenza che ha accolto tale tipo di domanda da parte del legittimo titolare ad esercitarla. La Corte ha, quindi, valutato ogni aspetto, ma le considerazioni su c i v i l e 22 esposte non potevano non portare alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, essendo la carenza di legittimazione da parte del P.M. insuperabile sotto ogni profilo esaminato. Gazzetta F O R E N S E ● L’amministrazione di sostegno ● Luisa Errico Avvocato e Presidente Ass.ne Centro Studi Diritto degli Affetti – Coordinatrice Commissione Minori Tribunale di Napoli M a r z o • a p r i l e 2 0 0 9 23 1. Legge Basaglia: il disagio Il 13 maggio 1978 viene approvata la Legge n.180 – nota come Legge Basaglia – che prevedeva, tra l’altro, il divieto di costruire nuovi ospedali psichiatrici nonché dismettere gradualmente quelli esistenti. La legge segna il passaggio dalla logica custodialistica del paziente psichiatrico, sottesa all’intervento esclusivo della Pubblica sicurezza, indicato dalla previgente Legge Giolitti, la n.36 del 1904, al concetto di assistenza e cura. Viene, infatti, stabilito che gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relative alle malattie mentali devono essere attuati di norma dai servizi psichiatrici territoriali. La legge istituisce il T.S.O., trattamento sanitario obbligatorio, che, come nel caso di trattamento obbligatorio per altre patologie, deve essere attuato “nel rispetto della dignità della persona dei suoi diritti civili e politici, compreso per quanto possibile “il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura” e “deve essere accompagnato da iniziative volte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi e’ obbligato”. Nella pratica il T.S.O., azionato da un medico, viene convalidato prima dal sanitario della ASL e poi sottoposto al controllo del Sindaco ed essendo un trattamento di urgenza ha un termine di sette giorni prorogabile in casi documentati. La Legge n.180/1978 ha completamente modificato la situazione precedente riconoscendo quindi il diritto alla libertà del cittadino nei confronti del trattamento sanitario quale attuazione dell’art. 31 Cost., sostituendo il concetto di pericolosità a quello di tutela ai fini della legittimazione dell’obbligatorietà del trattamento stesso. La normativa viene interamente trasfusa nella L. n.833/1978 istitutiva del SSN che recepisce gli artt. 33-35. Viene affermato il diritto del disabile psichiatrico di essere curato ed assistito nel suo ambiente di origine anche e soprattutto attraverso la rete sul territorio dei servizi sociali. Il doppio binario su cui si muove il dibattito sulla disabilità in genere, in particolare quella mentale, é privato e/o collettivo. L’individualizzazione del problema porta inevitabilmente a ipotesi segreganti, la socializzazione al contrario tende a responsabilizzare la comunità della sofferenza del singolo. Il percorso culturale e’ sostenuto da interpretazioni giurisprudenziali che sembrano interiorizzare come dato certo quanto avviene. Le sentenze della Corte Costituzionale nn. 139/1982 e 249/1983 dichiaravano l’incostituzionalità dell’automatica applicazione del provvedimento di ricovero in O.P.G. nei confronti del prosciolto per infermità totale o condannato a pena diminuita per vizio parziale di mente, senza porre l’obbligo per il giudice della cognizione e per quello dell’esecuzione di procedere ad accertamento della persistente pericolosità sociale. La sentenza del 1982 parla di irragionevolezza della presunzione assoluta della persistenza dell’infermità psichica. La Legge n. 633/1986, c.d. Legge Gozzini, abrogando ogni fattispecie di pericolosità presunta, ha risolto Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a definitivamente il problema del binomio pericolosità sociale-infermità mentale e consente di considerare quest’ul tima non più come una categoria speciale di pericolosità ma come un qualsiasi fattore che, interagendo con gli altri può esercitare un’efficacia criminogena, si può, quindi, escludere l’applicazione della misura non solo quando l’infermità è venuta meno o è migliorata, ma anche quando pur essendo rimasta immutata, risulta improbabile che il soggetto ponga nuovamente in essere comportamenti lesivi degli interessi della collettività. Ed infatti il T.S.O. di cui alla Legge n.180 e’ ispirato all’art. 31 della Costituzione e fa riferimento al concetto di tutela della salute e non già della pericolosità. I Dipartimenti di Salute mentale istituiti con la Legge n. 833 si sono rivelati però insufficienti per la mancanza, soprattutto, di sezioni ospedaliere e case famiglia idonee per la riabilitazione e le tecniche di reinserimento sociale. Il disagio psichico non più contenuto né affrontato secondo un piano di protezione che coinvolgesse anche il welfare delle famiglie, fa riespandere una richiesta culturale di controllo, attraverso l’ideazione di sistemi meno aperti, ma più garantisti per la collettività. La proposta Burani-Procaccini è del 2002 e fa riemergere il concetto di pericolosità sociale nonché risponde alla novellata richiesta di controllo e di protezione della società “sana”: frontalizza secondo vecchie logiche, la normalità e il disagio. L’assistenza psichiatrica dovrebbe uscire dalla Sanità Pubblica facendo scomparire dalla procedura la figura garantista del Sindaco nella sua funzione di Autorità Sanitaria Locale. I provvedimenti di coazione della libertà dovrebbero essere assunti da una Commissione per i diritti della persona affetta da disturbi mentali. La legge assume nuovamente la presunzione di pericolosità come tratto fondante il disturbo mentale stesso per individuare il quale vengono previsti screening anche in età scolare e segnalazioni tempestive. La pericolosità sociale quale stigma inevitabile della malattia mentale era al contrario caduta con la Legge n.180, la quale deistituzionalizzando il malato mentale la sottopone, inevitabilmente, a verifica. La persona malata di mente, quindi, individuata il più precocemente possibile sarebbe inserita in un circuito di controllo prevalentemente a gestione privatistica, non necessariamente da medici psichiatri, ove sia possibile procedere a trattamento anche in assenza del suo consenso. Questo il progetto. Intanto con il Convegno di Trieste del 1986,“Un altro diritto per il malato di mente”, ha inizio la fase preparlamentare che porta alla prima bozza Cendon. Inizia il percorso di confronto che porterà alla nascita della L. n. 6/2004 e a ri-scrivere con nuovi contenuti i concetti di disagio, incapacitazione e sussidarietà. Il punto è, quindi, individuare lo scrimine fra la malattia mentale classicamente definita e le situazioni, innumerevoli, di disagio psichico che appaiono contenute farmacologicamente e/o con la psicoterapia e che riesco- c i v i l e 24 no a non sfociare in classificazioni stereotipate pur contenendo in embrione i tratti di una malattia tipizzata. I progressi in sede psichiatrica hanno evidenziato, infatti, l’eterogeneità delle situazioni di disagio e come oggi non sia più possibile pensare che esse sfocino necessariamente in una malattia mentale mettendo in crisi il tradizionale paradigma soggetto capace – soggetto incapace – sul quale si basava il precedente sistema di protezione. Il dibattito sul disagio in genere si amplia sfumando in tutte quelle ipotesi in cui la persona non riesce a realizzare il proprio progetto di vita ad esprimere le proprie attività realizzatrici, sia essa portatrice di handicap fisico o psichico. Accanto al concetto di rimedio cambia, quindi, quello di disagio. Si parla di diritto dei soggetti deboli. La fragilità non è insita nella condizione del disabile, ma è il portato di una cultura che ha concepito la disabilità come estranea alla normalità della vita, soprattutto, in quest’ottica, la disabilità si sposta sull’intero nucleo familiare proiettando sullo stesso il disagio del singolo componente ancorché mentale o fisico o psicologico. Spostare l’attenzione del legislatore al “fuori”, all’“esterno” alla risposta del sistema alla fragilità significa partecipare ad un’evoluzione culturale e sociale espressa in Italia con diversi interventi legislativi (L. n. 118/1971 e 104/1992). La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ha avuto il merito di collocare la disabilità all’interno di una nuova visione che considera il disabile non più come cittadino invisibile ma come un soggetto titolare di diritti e come tale soggetto attivo nel processo decisionale relativo alle politiche di assistenza che lo riguardano. La Convenzione di Oviedo del 1997, ratificata in Italia con legge n. 145/2001, stabilisce all’art.5 che ogni intervento sanitario può essere effettuato solo con il consenso informato dell’interessato, così come precisa ai successivi artt. 6 e 7 deve accadere per soggetti incapaci a farlo e rappresentati da un tutore o curatore. I nuovi diritti che si vanno affermando per la prima volta creano una lettura orizzontale degli istituti assolutamente comunicanti e duttili perché pongono al centro la persona come soggetto di diritto. Sostenere l’amministrazione di sostegno significa anche sostenere un’idea di inclusione sociale di soggetti che, per motivi e cause diverse, non riescono a rispettare l’agenda del quotidiano, significa creare ponti di solidarietà privata che si ricollegano ad un sistema che vuole garantire la partecipazione sociale. 2. La protezione dei soggetti deboli La Legge n.6/2004 rivoluziona il sistema di protezione dei soggetti deboli ed esprime in maniera chiara e Gazzetta F O R E N S E g e nn a i o • f e b b r a i o netta l’attenzione del legislatore verso la tutela della dignità e della qualità di vita quotidiana delle persone non autosufficienti. Come si evince dai lavori preparatori e dalla stessa legge, la finalità consiste nel tutelare con la minore limitazione possibile della capacità di agire persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni quotidiane quando non c’è necessità di procedere ad una interdizione o inabilitazione: offre quindi un’alternativa a misure totalizzanti. La scelta di modificare gli istituti esistenti, affiancandone un altro dal contenuto così diverso da non poter costituire una sostituzione semantica o una semplice modifica né un capo di una legge lasciata poi alla volontà e capacità delle Regioni nella sua attuazione pratica, risponde all’esigenza di far rientrare nell’ambito di applicazione tutte le situazioni temporanee o definitive in cui il soggetto non riesce a curare il suo lato esistenziale, eliminando categoricamente l’esigenza dell’amministratore solo a fronte di patrimoni da gestire. Gli artt. n. 404-413 introducono i successivi e in parte modificano: l’interdizione non più un provvedimento doveroso, ma solo quando risponda come unico strumento di tutela della persona debole – non più istituto totalizzante, ma al contrario, ove possibile, coesiste con la residuale capacità, la ottimizza e la orienta. La legge tende a tutelare le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana senza comprimere la loro libertà oltre la misura necessaria. La protezione attuata con la minore limitazione possibile è discrezionale in capo al giudice tutelare. Vengono in primo piano gli spazi della quotidianità: i rapporti familiari, affettivi, sociali, economici, o bancari, di scuola e cultura le relazioni di svago, di sport, di partecipazione politica. L’applicazione dell’amministrazione di sostegno è duttile ed elastica, copre diversissime forme di disagio corrispondenti a diversissimi compiti dell’amministratore di sostegno, laddove la tutela è unica. L’amministratore non si sostituisce al beneficiario, ma interagisce con questi e concorda le azioni da compiere; sullo sfondo vi è grande rispetto per le scelte altrui per la diversità in genere: l’amministratore compie ciò che il beneficiario non può ma vorrebbe. In ipotesi di conflitto si va dal giudice tutelare. La protezione è anche assicurata dalla snellezza e agilità del procedimento (60 gg.) nonché dal sistema delle sanzioni previste a carico della P.A. per omessa segnalazione al giudice (responsabilità civile del dipendente per dolo e colpa grave e responsabilità della P.A. anche per colpa lieve). È quindi una misura di protezione per maggiorenni privi in tutto o in parte di autonomia ma non è applicabile ai minori che si trovino in uno stato di incapacità totale legale e sono protetti da genitori, che esercitano la 2 0 0 9 25 potestà o in mancanza da un tutore, né al minore emancipato. La novità dell’istituto è nella individuazione dello svantaggio: mentre l’interdizione è relativa ad una abituale infermità di mente, stabile e duratura, l’amministrazione di sostegno risponde anche a situazioni transitorie che non necessariamente si fondano su un dato psichiatrico patologico – quindi anche per disagi fisici e assolutamente di temporanea e parziale incapacità. L’accertata temporaneità della incapacità determina la transitorietà della durata dell’incarico. L’accertata impossibilità parziale determina il contenuto del decreto di nomina: ciò che deve fare l’amministratore. L’amministrazione di sostegno così delineata opera anche in situazioni che prima non avevano protezione: anziani non autosufficienti, disabili motori, malati gravi non psichici, lungodegenti, depressi. Essa è essenzialmente rivolta a coloro che hanno difficoltà effettive all’accesso alla vita organizzata. Il beneficiario conserva, quindi, la capacità di agire per tutti gli atti non indicati nel decreto, la perde per quelli attribuiti all’amministratore di sostegno e la affianca per quelli da compiere con l’assistenza di L’interdizione e l’inabilitazione risultano istituti residuali riservati ai casi in cui non si riesca nonostante la possibilità di estensione, modulazione, integrazione e revoca dei provvedimenti adottabili nel procedimento di amministrazione di sostegno ad attuare una sufficiente protezione attiva e passiva del soggetto non autonomo. In definitiva anche ricorrendo alla previsione di cui all’art. 411 c.c. l’intera protezione del soggetto debole è attuabile con il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno: il coinvolgimento dei familiari, delle strutture socio-assistenziali, garantisce infatti la ricerca delle migliori condizioni esistenziali per il soggetto. Il progetto di sostegno, in cui il giudice tutelare. ha funzioni di direzione, coordinamento e controllo, deve, infatti, necessariamente, per raggiungere il fine della protezione, contenere ed esaltare le risorse presenti sul territorio; in tale progetto potranno essere valorizzati se possibile, sempre nella misura più ampia possibile, la volontà e l’indicazione delle scelte del beneficiario. La sussidarietà degli istituti è poi confermata dalla sentenza della Corte Costituzionale n.440/2005. Con tale pronuncia la Corte ha esortato gli operatori ad applicare la misura dell’amministrazione di sostegno, piuttosto che sottolineare differenziazioni tra gli istituti. Sul piano degli effetti, infatti, la Corte evidenzia la duttilità e modulabilità dei poteri dell’amministratore di sostegno, espressa all’art. 427 c.c., comma 1, che possono coincidere in alcuni casi con quelli dell’interdizione. Il principio di diritto affermato nella legge è proteggere con la minore limitazione possibile sulla capacità del soggetto, applicando interdizione o inabilitazione “solo se non ravvisi interventi idonei ad assicurare all’incapace siffatta protezione. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a 3. Applicazioni Molte pronunce ormai consolidano l’applicazione quasi totale dell’amministrazione di sostegno, andando ad estendere sistemi di protezione anche a fattispecie prima non tutelate. La sentenza del 9 gennaio 2006 del Tribunale di Venezia – G.T. dr. Trentanovi – chiarisce il concetto di protezione attiva, intesa come “progetto di sostegno per le funzioni della vita quotidiana e non solo sostituzione necessaria di un rappresentante al non autonomo per gli atti giuridico-economici di ogni categoria di persone non autonome per malattia e/o infermità fisica o psichica tanto che si tratti di una situazione temporanea che permanente; ogni esclusione pregiudiziale di categorie di persone, anche i cosiddetti infermi di mente per patologie psichiche o psichiatriche, o le persone non più in grado di relazionarsi in modo comprensibile con gli altri – per es. le persone in coma – da tale possibilità di protezione non solo violerebbe il principio costituzionale di eguaglianza, ma anche tutti i principi della legge 6/2004; oltreché essere positivamente vietata dall’art.414 stesso che rende ancora attualizzabile l’interdizione per gli infermi di mente, ma solo quando ciò sia necessario per assicurare la loro adeguata protezione (ritenuta nel caso concreto per le sue specifiche caratteristiche impossibile attraverso l’amministrazione di sostegno… ogni persona che si trovi nelle condizioni di impossibilità di provvedere ai suoi interessi ha diritto ad essere inserita in un progetto solidaristico di sostegno nel cui ambito il decreto di cui all’art. 405 c.c. prevederà i provvedimenti indispensabili per la cura della persona interessata…”. Al di là della vicenda (anziana ricoverata in casa di cura e ricorso promosso dalla direttrice responsabile della struttura) la pronuncia precisa l’ambito di tutela dell’istituto affermando “al centro del provvedimento del G.T. sono i diritti esistenziali della persona, e l’aiuto/ sostegno della stessa per superare le sue carenze di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana… in quanto parte dei suoi diritti esistenziali, i suoi diritti patrimoniali”. Alla luce di quanto sopra e’ evidente che l’oggetto dell’incarico in cui si sostanzia il nucleo essenziale del decreto di nomina è riferito ai diritti esistenziali tutti della persona. Si parla di umanizzazione del diritto. Il Tribunale di Bologna, con sentenza del 3 ottobre 2006 n.2288, rigettava la richiesta di interdizione avanzata dai genitori di una giovane donna in stato vegetativo persistente disponendo la nomina di un amministratore di sostegno affermando il diritto della stessa alla cura intesa come l’insieme di rimedi medici nonché il sollecito e costante interessamento finalizzato al rispetto della dignità della persona. L’attenzione nella scelta della misura protettiva appare più forte nei confronti di quei soggetti che si trovano in stato di comple- c i v i l e 26 ta dipendenza dagli altri. Muovendo dall’analisi dei fatti, dalla considerazione che “le condizioni di salute della beneficiaria incidendo sulla libertà di movimento e sulla vita di relazione della persona, costituiscono già una prima protezione rispetto a condotte intrusive…”, il Tribunale recepisce la decisione della Corte di Cassazione che con sentenza n. 13584/2006 chiarisce “rispetto ai predetti istituti” (interdizione e inabilitazione) “l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità ad attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa”. L’attenzione verso la dignità della persona ed il rispetto della patologia come nuova e diversa condizione di vita giustificano l’applicazione dell’amministrazione di sostegno anche a soggetti affetti da morbo di Alzheimer (Tribunale di Trani n.503/2005, Tribunale di Bari del 5 luglio 2007). Una pronuncia particolare del Tribunale di Napoli circa l’amministrazione di sostegno e la genitorialità (in Persona e Danno) dispone l’istituto in favore di un uomo giovane colpito da tetra paresi spastica. Il nuovo sistema di protezione delle persone prive di autonomia tende ugualmente a tutelare il diritto personale del beneficiario ad una concreta relazione con i figli nei limiti compatibili esclusivamente con il suo stato. La vicenda riguarda un uomo, padre di un bimbo appena conosciuto prima dell’insorgenza della malattia. La richiesta di interdizione viene rigettata perché poco rispettosa e soprattutto poco tutelante in quanto avrebbe implicitamente comportato la decadenza dalla potestà genitoriale. In questo caso l’amministrazione di sostegno si presenta come uno strumento elastico, che si adegua alle fasi successive della malattia: garantisce nel provvedimento finale la possibilità di incontro con il figlio fino al verificarsi di un eventuale pregiudizio “l’amministratore provvisorio di sostegno dovrà tenere conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario informandolo ove possibile in ordine agli atti da compiere. In particolare presterà assistenza al beneficiario, al fine di consentire che egli possa avere incontri periodici con il figlio… secondo le modalità più opportune atte a favorire il processo neuro riabilitativo in atto salvaguardando nel contempo l’interesse del minore a che la ripresa degli incontri con il padre non possa comportargli alcun pregiudizio tenuto conto anche delle condizioni specifiche psicofisiche del minore. Di concerto con la madre valuterà le iniziative opportune come ad esempio la richiesta di un sostegno psicologico presso le strutture socio-assistenziali di base volte a creare le condizioni per rendere possibili i suddetti incontri tra il padre e il figlio…”. Gazzetta F O R E N S E g e nn a i o • f e b b r a i o Una considerazione a parte merita la prestazione del consenso informato per i trattamenti sanitari, quale atto personalissimo. Nei casi di maggiore gravità – anche in osservanza all’art. 6 della Convenzione Oviedo – quando la persona sia affetta da disturbo mentale grave, la prestazione del consenso può essere espressa dall’amministratore di sostegno nel rispetto della sua volontà ma soprattutto della funzione e natura di care dell’istituto. Abbiamo in tal senso, una pronuncia del 2004 del G.T. di Modena relativa ad un paziente psichiatrico, che rifiutava cure necessarie per il diabete di cui soffriva ed una pronuncia del Tribunale di Roma del 2005 relativa ad un soggetto testimone di Geova, con rifiuto dichiarato alle trasfusioni, che si ritrova in pericolo di vita per un incidente automobilistico. In entrambi i casi gli amministratori all’uopo nominati hanno prestato il consenso a trattamenti a prima vista rifiutati dai beneficiari privilegiando la cura della persona. Nella stessa ottica vanno lette le pronunce del Tribunale di Modena circa il conferimento all’amministratore di sostegno delle direttive di fine vita “L’amministratore di sostegno può essere autorizzato a compiere in nome e per conto del beneficiario, i seguenti atti: negazione di consenso ai sanitari coinvolti a praticare alla persona alcun trattamento terapeutico e, in specifico, rianimazione cardiopolmonare, dialisi, trasfusioni di sangue, terapie antibiotiche, ventilazione, idratazione e alimentazione forzate e artificiali; richiamo ai sanitari dell’obbligo di apprestare alla persona con le maggiori tempestività, sollecitudine e incidenza ai fini di lenimento delle sofferenze, le cure palliative più efficaci compreso l’utilizzo di farmaci oppiacei. Ciò per l’ipotesi che il medesimo versi in malattia allo stato terminale, malattia o lesione traumatica cerebrale, irreversibile e invalidante, che lo costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione, e a condizione che il benefi- 2 0 0 9 27 ciario stesso non abbia revocato con qualsivoglia modalità o rendendone edotto esso amministratore, le disposizioni contenute nell’atto di designazione dell’amministratore ex art. 408 c.c.” (in Famiglia e minori n.11/08) Il provvedimento del giudice, dr. Stanziani, richiama, in diritto, la “indefettibile regola per cui è precluso al medico di eseguire trattamenti sanitari se non acquisisca quel consenso libero ed informato del paziente che è presupposto espressivo del suo diritto primario di accettazione, rifiuto e interruzione della terapia”. Viene, quindi, individuato l’amministratore di sostegno per raccogliere le dichiarazioni anticipate perché tale diritto venga rispettato anche nelle ipotesi in cui il beneficiario non può personalmente esprimere il proprio dissenso. L’amministrazione di sostegno pone attenzione non solo alle persone intrinsecamente fragili, ma, più ampiamente le persone indebolite, persone impossibilitate a farcela da soli quanto alla gestione dei passaggi della vita quotidiana per impedimenti fisici o psichici o logistici che devono continuare a trovare nella comunità organizzata supporti idonei a consentire la realizzazione del loro progetto di vita. In questo modo la nozione di capacità di intendere e di volere risulta superata da quella di inadeguatezza gestionale o fragilità negoziale rendendo necessaria un’interpretazione estensiva dell’art. 404 c.c. rispetto ai riferimenti testuali all’infermità e alla menomazione, a favore quindi di una lettura idonea ad includere anche condizioni non patologiche sul piano fisico-psichico, caratterizzate però da difficoltà organizzative di un certo peso. La categoria dei soggetti deboli appare destinata a comprendere più in generale tutte le persone che si trovino per ragioni di varia natura prive di autonomia relazionale e della capacità di orientarsi nel sociale per condurre appropriatamente la vita quotidiana, cui vanno riferiti gli effetti dei principi cardine della legge: “non abbandonare” e “non mortificare la dignità della persona fragile”. Gazzetta F O R E N S E ● Il riconoscimento del diritto a non essere curati ● Stefania Mauro Dottore in giurisprudenza 28 * * * * * * La recente attenzione dei media al caso Englaro ha spinto la pubblica opinione a interrogarsi, oltre che sull’esistenza di un diritto a lasciarsi morire, anche sulla eventualità che il rifiuto al trattamento medico, possa essere espresso dal legale rappresentante, nel caso in cui il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà. La risposta a tali quesiti è giunta dalla Suprema Corte1 la quale ha affermato innanzitutto il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente, anche quando da esso consegua il sacrificio al bene della vita. Costituisce, infatti, secondo il collegio, presupposto ineliminabile di qualsiasi trattamento sanitario, il principio del consenso informato. In altri termini, al dovere del medico di fornire informazioni, corrisponde il diritto del paziente non solo di scegliere tra le diverse possibilità di terapie, ma anche di rifiutarle o di decidere consapevolmente di interromperle, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. In particolare, ha precisato la Corte, il rifiuto delle terapie mediche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, esprimendo tale rifiuto piuttosto la scelta del malato che la malattia segua il suo corso naturale. Il principio del consenso informato, come si legge nella sentenza, ha fondamento non solo nella Carta Costituzionale, ma anche nella legislazione ordinaria e sopranazionale. A livello Costituzionale, l’art. 2, tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità, l’art.13 garantisce l’inviolabilità della libertà personale e il successivo art.32, nel tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo, prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta a una riserva di legge. In particolare, nell’inviolabilità della libertà personale è postulata, secondo la Corte Costituzionale2 , “la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo. Nella legislazione ordinaria ad attribuire valore alla volontà del paziente vi sono numerosi leggi speciali, a partire dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale3, il cui art.33 prevede che “gli accertamenti e trattamenti sanitari sono di norma volontari”. A livello di fonti sopranazionali, lo stesso principio è riconosciuto nella Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, stipulato ad Oviedo il 4 aprile 1997 e resa esecutiva con una legge di autorizzazione alla ratifica4. Dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea5, inoltre, si evince che il consenso libero ed infor- 1 2 3 4 5 Cass., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748 Corte Cost., sent. n. 471/1990 L. 23 dicembre1978, n. 833 Ratifica 28 Marzo-2001, n. 145 Nizza 7-Dicembre-2000. Gazzetta F O R E N S E g e nn a i o • f e b b r a i o mato del paziente all’atto medico deve essere considerato, non solo come liceità del trattamento, ma come un diritto fondamentale del cittadino europeo riguardante il più generale diritto dell’integrità della persona. In giurisprudenza, il principio del consenso informato si è affermato, in una lontana sentenza del 19676, dove i giudici di legittimità stabilirono che “prima di ogni trattamento medico-chirurgico suscettibile di porre in grave pericolo la vita e lì incolumità fisica” era necessario acquisire il consenso, considerato valido se preceduto dalle informazioni sulle potenziali cause d’inefficacia della operazione chirurgica. Più di recente7, si è precisato che per la sussistenza della condotta omissiva dannosa del medico e la conseguente ingiustizia del danno, non rileva la correttezza o meno del trattamento, configurandosi l’illecito per la semplice ragione che il paziente, “a causa del deficit di informazione, non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni”. Anche la Cassazione penale8 ha ribadito quale presupposto di liceità del trattamento medico chirurgico, la manifestazione del consenso del paziente. Ne discende che non è attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di soggezione, per cui il medico potrebbe intervenire con il solo limite della propria coscienza. Tuttavia la Corte di Cassazione, anche richiamando numerosi precedenti giurisprudenziali, non si è limitata ad affermare il diritto di ciascuno di rifiutare legittimamente qualsiasi trattamento medico, ma ha anche fissato alcuni doveri a carico del medico che si trovi di fronte al rifiuto del paziente. In primo luogo il medico, unito al malato da “un’alleanza terapeutica” nella ricerca di ciò che è bene, è tenuto a verificare che il rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Egli, inoltre, non può limitarsi a prendere atto del rifiuto del paziente, ma deve porre in essere una “strategia della persuasione”, tentando di convincere l’interessato a cambiare idea, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà nelle situazioni di debolezza e di sofferenza. Con riferimento poi, al secondo interrogativo prospettatosi all’inizio della trattazione e riguardante l’incapacità del paziente di esprimere la propria volontà perché, come nel caso in esame versi in una situazione di stato vegetativo permanente e persistente, la Corte, con la sentenza in esame, ha superato un suo precedente orientamento. 6 Cass., Sez. III, 25 luglio 1967, n. 1945. 7 Cass., Sez III, 14 marzo 2006, n.5444. 8 Cass., pen., Sez. IV, 11 luglio 2001- 03-ottobre 2001. 2 0 0 9 29 La Suprema Corte, in passato9, aveva ritenuto inammissibile il ricorso presentato dal padre, tutore dell’interdetta, affinché le fosse sospesa l’alimentazione artificiale, perché “l’ordinamento non attribuisce al tutore un generale potere di rappresentanza nei riguardi degli atti personalissimi, per i quali occorre che sia nominato un curatore speciale quale necessario contraddittore in giudizio”. Ritornando sui propri passo, i giudici, in base al combinato disposto degli articoli 357 e 424 del codice civile, hanno riconosciuto al tutore la cura della persona incapace, investendolo della legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare. Il diritto del legale rappresentante di sostituirsi al paziente in stato di incoscienza trova fondamento anzitutto negli art.404 e ss., introdotti dalla Legge n.6/2004, secondo la quale, i poteri di cura del disabile, spettano anche alla persona nominata amministratore di sostegno. In particolare il decreto di nomina deve contenere l’indicazione degli atti che l’amministratore di sostegno è legittimato a compiere a tutela degli interessi di natura anche personale del beneficiario. Ancora, l’art. 13 della legge sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza10, nel disciplinare il caso della donna interdetta per infermità di mente, dispone che la richiesta di interruzione volontaria della gravidanza può essere presentata oltre che dalla donna personalmente, anche dal tutore. A livello di fonti sovranazionali, particolare rilievo assumono l’art. 6 della Convenzione di Oviedo e, soprattutto, l’art. 4 del D.Lgs. n. 211 del 2003, secondo il quale la sperimentazione clinica degli adulti incapaci che non hanno prestato o non hanno rifiutato il consenso informato prima che insorgesse l’incapacità, è possibile a condizione che “sia stato ottenuto il consenso informato del legale rappresentante”, il quale “deve rappresentare la presunta volontà del soggetto”. In particolare, da quest’ultima disposizione, si evince che i doveri di cura del tutore si sostanziano nel prestare il consenso informato al trattamento medico avente come destinatario la persona in stato di incapacità. Senza dubbio, tuttavia, il suo intervento incontra dei limiti rappresentati dalla considerazione che la salute è un diritto personalissimo e che la libertà di rifiutare le cure presuppone valutazioni sulla vita e la morte, le quali hanno fondamento in concezioni anche di natura extragiuridica e, quindi, ”squisitamente soggettive”. Da qui la conclusione che il tutore, nel consentire al trattamento medico o nel dissentire alla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, non solo ha 9 Cass., sent. 8921/2005. 10 L. 22-Maggio-1978, n.194 Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a l’obbligo di agire nel suo esclusivo interesse, ma nella ricerca del “best interest” deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace. Egli, in altri termini, deve ricostruire la presunta volontà del paziente incosciente prima di cadere in tale stato, tenendo conto “dei desideri da lui espressi prima della perdita di coscienza”, ovvero, ricercando la sua volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche. Certamente come affermato da Gaetano Nicastro, primo Presidente di Sezione della Corte di Cassazione, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, non è semplice stabilire quando può considerarsi “legittimo interrompere il trattamento sanitario”. Da qui l’auspicio di una regolamentazione normativa che riconosca a ciascuno il diritto all’autonomia delle scelte nel malaugurato caso si dovesse perdere la capacità di intendere e volere e ci si trovasse nell’impossibilità di esprimere la propria volontà in merito all’accettazione o al rifiuto delle cure. Sulla scorta dell’esempio di altri Paesi del nord Europa e degli Stati Uniti, all’ inizio del nuovo anno, il prevalente orientamento politico parlamentare era favorevole a consentire la redazione di un testamento biolo- c i v i l e 30 gico, ossia a fornire direttive per il caso di perdita della capacità di comunicare le proprie decisioni. Sul tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento, si è specificato11 che “non si tratta di una legge per staccare la spina, ma per dare a ciascuno la possibilità di scegliere cosa fare alla fine della propria esistenza, quando non ci fosse più alcuna speranza di un ritorno all’integrità intellettiva”. A tale orientamento si è contrapposta l’ala politica cattolica che teme il rischio di un’introduzione surrettizia dell’eutanasia nel nostro ordinamento, attribuendo valore alle direttive anticipate. Le divergenze politiche hanno comportato l’impossibilità dei disegni di legge presentati in Parlamento di tradursi in un unico testo da proporre al voto dell’aula. In attesa che il dibattito politico conduca ad una definitiva risoluzione della delicata questione, va segnalata l’iniziativa dell’ex Ministro della Sanità Veronesi, di diffondere on line un “modulo per il testamento biologico”, il quale consentirebbe ad ogni cittadino di 11 Opinione espressa dal Presidente della Commissione Sanità di Palazzo Madama, Ignazio Marino, intervenendo ad un convegno del 13-Febbraio-2009. diritto e procedura Penale Il ciclo dei rifiuti e la criminalità organizzata 33 Antonio Ardituro Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Napoli Direzione Distrettuale Antimafia La rilevanza penale dell’attività sportiva: considerazioni dommatiche per una corretta ricostruzione nella sistematica delle scriminanti 49 Andrea Alberico Dottorando di Ricerca in Diritto Penale Università degli Studi di Napoli “Federico II” Coltivazione di stupefacenti e valutazione dell’offensività concreta della condotta 63 Nota a Cass. Pen., Sez. IV, 14 gennaio 2009, n. 1222 Valeria Parlato Dottore in giurisprudenza e specializzata presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali “Federico II” Rassegna di legittimità 66 Andrea Alberico Dottorando di Ricerca in Diritto Penale Università degli Studi di Napoli “Federico II” Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli Rassegna di merito Giuseppina Marotta Avvocato Alessandro Jazzetti Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli 71 Gazzetta F O R E N S E ● Il ciclo dei rifiuti e la criminalità organizzata ● Antonio Ardituro Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Napoli Direzione Distrettuale Antimafia M a r z o • a p r i l e 2 0 0 9 33 1. A munnezza è oro – “Dotto’, ’a munnezza è oro!”1 – Con questa colorita espressione, un collaboratore di giustizia, riferendosi a fatti di fine anni ’80, con un sorriso beffardo, iniziava la sua narrazione ai magistrati napoletani sulle potenzialità economiche dell’affare rifiuti per la criminalità organizzata. Quella affermazione, all’epoca considerata folcloristica e suggestiva, si è rivelata, con il trascorrere degli anni ed il susseguirsi delle indagini, particolarmente veritiera e capace di dipingere con poche parole un quadro di inquietante commistione fra criminalità organizzata, imprenditoria, politica, malaffare. Indagini complesse nel settore sono state compiute dalla Direzioni Distrettuali Antimafia del meridione, ma il “caso napoletano” o meglio campano, appare quello maggiormente in grado di rappresentare un paradigma per affrontare le diverse angolazioni del tema proposto. Infatti è in Campania che si è assistito, prima e più che in altri luoghi, all’occupazione da parte delle organizzazioni criminali mafioso-camorristiche di interi settori dell’economia, sia nella gestione del ciclo legale dei rifiuti, sia nello smaltimento illecito dei rifiuti speciali e pericolosi. Deve infatti premettersi che le organizzazioni criminali nella consapevolezza, acquisita molto prima di quanto abbiano fatto le istituzioni legali dello Stato, che la “munenzza è oro”, hanno investito sia nel ciclo legale che in quello illegale dello smaltimento dei rifiuti, attraverso accordi corruttivi con pezzi delle istituzioni e dell’imprenditoria nazionale, ed acquisendo nel tempo professionalità in tutti i settori di smaltimento dei rifiuti: solidi urbani, speciali, tossici e pericolosi. Si è accertato che la camorra ha investito in ogni settore del traffico di rifiuti, presentandosi pronta a fronteggiare ogni esigenza del mercato, legale ed illegale: • La raccolta, lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti industriali, dei rifiuti speciali e dei rifiuti tossici e nocivi; • la gestione illegale di discariche abusive per lo smaltimento di rifiuti di diverso genere, compreso quelli solidi urbani; • il controllo del sistema degli appalti pubblici per la raccolta dei rifiuti, per la costruzione delle discariche, e degli impianti speciali di smaltimento; • la predisposizione delle imprese “mafiose” necessarie a risolvere le situazioni di emergenza, per la raccolta, il trasporto e lo smaltimento; • l’offerta delle professionalità utili per la bonifica di zone devastate dalle discariche abusive; 1 Il presente articolo è tratto dalla relazione che l’autore ha tenuto al C.S.M. al corso – 3356 – per la formazione dei magistrati in data 26 marzo 2009. Gazzetta F O R E N S E • D i r i t t o e p r o c e d u r a l’attività illegale di estrazione di materiale da cave o specchi di acqua e la successiva riutilizzazione di tali zone con lo sversamento illegale di rifiuti, così facendo sistema con l’altro grande affare legato al ciclo del calcestruzzo. Di converso miopia politica e affarismo clientelare hanno caratterizzato l’arretramento degli enti territoriali di fronte al problema smaltimento, con la creazione di una voragine coperta dalla diretta partecipazione della camorra a tali attività economiche. Dunque, deve innanzitutto sfatarsi la diffusa convinzione che quando nel settore dei rifiuti si parla di ingerenze e di interessi della criminalità organizzata, si sta trattando esclusivamente degli sversamenti illeciti in discariche non autorizzate. La mafia e la camorra con i rifiuti hanno sempre da guadagnare e, se sono certamente in grado di garantire gli sversamenti illeciti, con costi evidentemente concorrenziali rispetto alle procedure legali (in particolare per rifiuti speciali e pericolosi), esse hanno anche acquisito, per mezzo di imprese-mafiose professionalità e disponibilità di mezzi, per infiltrare il ciclo legale dei rifiuti. Nel settore degli sversamenti illeciti sono stati monitorati i trasporti di tonnellate di rifiuti speciali e tossici provenienti per lo più dalle imprese industriali del Centro Nord e destinati ad improvvisate discariche della provincia di Napoli e di Caserta. Il territorio cambiava, vecchie cave venivano riempite, e nuove collinette spuntavano, colme di rifiuti e di fusti coperti da terreno ed erbacce2. Con conseguenti falde acquifere contaminate e prodotti della terra avvelenati. In un sistema in cui tutti ricavano un guadagno: l’imprenditore industriale perché riesce a smaltire a prezzi dimezzati, con tanto di documentazione certificante lo smaltimento, l’imprenditore del trasporto perché si garantisce inimmaginabili volumi d’affari, il camorrista perché ricava una fonte irripetibile di guadagno costante (i rifiuti non finiscono mai), lontana dagli ordinari controlli delle forze dell’ordine, generalmente impegnate a reprimere i reati “violenti” del clan (estorsioni e fatti di sangue)3. 2 Con conseguente demitizzazione del tradizionale codice d’onore propalato per decenni dalla stessa criminalità organizzata, che si è costantemente vantata del consenso fondato sulla teoria della “difesa del propria gente e del proprio territorio”. Le indagini hanno dimostrato in maniera univoca che il clan dei casalesi, per es., formalmente legato alla sua purezza mafiosa, non ha esitato a farsi artefice, mosso da intenti esclusivamente di speculazione e profitto economico, di uno dei più gravi disastri ambientali del nostro Paese, avvelenando i terreni dell’agro aversano, riversando rifuti tossici e pericolosi di provenienza industriale, smaltendo fanghi tossici capaci di inquinare le falde acquifere di una terra fertilissima e fonte di prodotti di altissima qualità come la mozzarella di bufala o il pomodoro sammarzano. 3 In altre parole, se l’ingresso della camorra nel settore dei rifiuti è determinato dalla ricerca di profitti illeciti, l’incontro con l’impresa p e n a l e 34 Nel settore del ciclo legale dei rifiuti, la criminalità organizzata ha infiltrato le procedure di aggiudicazione degli appalti, con imprese ad essa collegate o del tutto controllate dai clan4. Come si vedrà, nel tempo il sistema dell’ infiltrazione mafiosa nel ciclo dei rifiuti, si è avvalso di diverse modalità operative, tutte finalizzate a medesimo obiettivo, ma sempre più raffinate. Dallo schema classico dell’impresa amica “imposta” nelle procedure di aggiudicazione o, preferibilmente, nell’affidamento dei subappalti, si è passati alla tecnica del “tavolino” a tre gambe (il politico o funzionario sua espressione, l’imprenditore, il camorrista) quale luogo parallelo e prevalente di determinazione delle scelte dell’ente pubblico; fino a giungere all’impresa mafiosa che oggi appare in grado, grazie alle notevoli disponibilità economiche ed al know-how acquisito di gareggiare e vincere le gare in tutta autonomia, da oligopolista del settore che non teme il confronto con gli altri competitori economici ed imprenditoriali. L’ impresa mafiosa, ormai di terza generazione, ha allontanato completamente da sé, il legame visibile con la sua provenienza criminale ed opera sul mercato forte della sua autonoma capacità imprenditoriale. Intendiamoci: l’emergenza e la crisi sono sempre benvenute, in qualsiasi settore di intervento, per la criminalità organizzata, poiché esse sono sintomo di disorganizzazione, di mancanza di regole, di provvedimenti straordinari da adottare, di necessità imprenditoriali da assolvere in poco tempo, tutte condizioni in cui chi esercita il controllo del territorio e dispone di immense liquidità economiche e finanziarie, riesce a presentarsi come “l’unica soluzione al problema”, di fronte alle incapacità politiche, agli appetiti della burocrazia, ed alle necessità delle imprese produttive. La crisi poi, come puntualmente avvenuto in Campania, richiama interventi avviene perché quell’offerta incontra una corrispondente domanda di servizi illegali, tali da ridurre i costi e, quindi, massimizzare i profitti. L’impresa chiede un servizio alla camorra e la camorra offre tale servizio: essa si fa carico della domanda delle imprese italiane di scaricare sulla collettività e sulle generazioni future il peso economico di una corretta gestione del ciclo dei rifiuti. 4Nell’ambito di indagini condotte dalle Direzioni Distrettuali Antimafia, si è puntualmente constatato, per esempio che nella documentazione contabile di noti esponenti mafiosi, sequestrata nell’ambito di attività di diversa natura, si rinvenivano documenti da cui emergeva l’incidenza della tangente tratta dal servizio di raccolta degli rsu. Si rilevava da singole investigazioni poi, con significativa regolarità, l’assunzione sistematica di familiari di esponenti di clan camorristici nelle società affidatarie dei servizi; noli, da parte degli enti pubblici, di veicoli di proprietà di persone legate ad affiliati; l’acquisizione della gestione di siti – uso discarica o stoccaggio provvisorio – nella titolarità di persone vicine ai clan. Si accertava la sorprendente identità soggettiva – nel tempo – degli intermediari operanti sul mercato dei rifiuti, già arrestati o indagati, per le relazioni con le organizzazioni mafiose. Si tratta di un quadro talmente pregno di concordanti evidenze indiziarie da poter essere agevolmente sostenuta la tesi che vede nel controllo del ciclo gestionale dei rifiuti uno degli scopi tipici del programma delle organizzazioni mafiose, evidentemente per la sua particolare redditività. Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e emergenziali dal punto di vista istituzionale ed economico: di qui il Commissariato per l’emergenza rifiuti ed un fiume di denaro di volta in volta, per quindici anni, riversato nella disponibilità di funzionari a volte corrotti e spesso incapaci. Soldi da impiegare nei consorzi, nel nolo dei mezzi, nella costruzione delle discariche, tutti settori nei quali la concorrenza fra gli imprenditori interessati è stata spiazzata dall’intervento criminale delle imprese della camorra. Recentemente poi, l’emergenza ha ispirato interventi normativi speciali ed eccezionali, di discutibile compatibilità costituzionale, quali quelli del D.L. 90 del 2008 (conv. in L. 123/08) che ha istituito la Procura regionale in materia di rifiuti e quello del D.L. 6 novembre 2008, conv. in L. 210/2008 che ha introdotto nuove fattispecie sanzionatorie vigenti solo nei territori in cui vige lo stato di emergenza. Questo dunque il quadro di riferimento della nostra riflessione sul tema in trattazione. Con l’ulteriore precisazione che l’attività di indagine ha scontato per lungo tempo l’assenza di specifici strumenti normativi di contrasto. È mancato infatti fino al 2001 un delitto che sanzionasse le condotte principali; l’inquadramento del caso giudiziario nel delitto associativo si presentava particolarmente difficile anche perché i possibili reati-fine di natura ambientale avevano natura di contravvenzioni, residuando solo le ipotesi, assai difficili da provare, di falso e corruzione. Solo grazie all’entrata in vigore del primo delitto ambientale, sanzionante il traffico illecito di rifiuti in forma organizzata, che ha costituito il punto di riferimento normativo per imbastire indagini che avessero fin dall’inizio l’obiettivo di investigare i rapporti fra criminalità organizzata e violazione della normativa ambientale e sui rifiuti, si è assistito ad una vera svolta normativa e nel contrasto investigativo5. I temi appena anticipati possono essere dal lettore ulteriormente approfondito anche attraverso la consultazione di alcune fonti aperte, vale a dire gli studi e le istruttorie che organismi istituzionali e scientifici hanno compiuto nel settore6. 5 Si tratta dell’art. 53/bis del D.Lgs n. 22/97, che è stato introdotto dalla legge 23 marzo 2001, n. 93 e che oggi è riproposto nell’art. 260 D.Lgs. 152/06). 6In particolare hanno dato ampio spazio al tema: 1. La relazione del Procuratore nazionale antimafia sulle attività dell’anno 2008, in cui fra l’altro si può leggere: … sicché oggi può in generale affermarsi che la c.d. ECOMAFIA … veste i panni della camorra … E può affermarsi che, mentre nei tempi passati una buona fetta dell’economia napoletana si basava sul contrabbando, il cui indotto garantiva la sopravvivenza di larghi strati della popolazione, nel presente è l’emergenza rifiuti che svolge lo stesso ruolo. Il che spiega come spesso essa venga creata e mantenuta ad arte. Con la camorra sempre di sottofondo … 2. La relazione della Commissione Parlamentare Antimafia – 20 febbraio 2008: … è accaduto, infatti, che porzioni anche apicali della pubblica amministrazione e della stessa struttura commissariale, in questa condizione di opacità istituzionale e politica, abbiano concluso con imprese collegate alla criminalità or- 2 0 0 9 35 ganizzata campana vere e proprie joint ventures, consentendo a queste ultime di sfruttare i canali dell’emergenza anche per i traffici illeciti di rifiuti speciali … L’esito, paradossale ma non inspiegabile, è quello di una camorra che – più che fomentare rivolte di piazza contro l’apertura di discariche e siti di stoccaggio provvisorio – osserva interessata l’evoluzione dell’ennesima emergenza; in attesa di poter approfittare di una fase in cui l’esigenza di interventi rapidi non consente di condurre verifiche approfondite sulla trasparenza delle imprese chiamate a cooperare; in attesa, soprattutto, di potersi presentare agli occhi delle comunità locali come coloro che hanno difeso i territori dall’occupazione da rifiuti. E così rischia di svanire anche la memoria dell’oltraggio compiuto dalla camorra su quegli stessi territori, spesso trasformati in lucrose discariche da rifiuti tossici. 3. La relazione della Commissione Parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti – 13 giugno 2007: … l’esperienza di questi ultimi anni della Campania ha mostrato, in particolare, un ulteriore profilo di novità: la criminalità organizzata è passata, nel settore dei rifiuti, da soggetto esterno al circuito istituzionale e gestionale, interessato ad inserirsi nei canali di erogazione della spesa pubblica, a soggetto sempre più presente negli snodi decisionali … L’emergenza nell’emergenza – cioè la vera emergenza, quella determinata dall’esaurimento delle discariche a disposizione – ha, sempre con maggiore frequenza, imposto soluzioni di brevissimo periodo, ed è allora che, sia pure in taluni casi e senza connotazioni di sistematicità, la criminalità organizzata si è presentata come uno dei soggetti in grado di offrire risposte immediate…La camorra, infatti, si è da sempre contraddistinta per un controllo di alcune aree del territorio, non disgiunto dalla capacità di influenzare il consenso delle realtà locali. Sicché, nel momento in cui è stato necessario reperire nuovi siti da adibire a discarica e, per giunta, si è scelta la strada di demandare al soggetto privato affidatario la scelta di tali siti, nell’ impossibilita` di attivare i fisiologici meccanismi di coinvolgimento delle comunità, si è, in taluni frangenti, imboccata la scorciatoia del rapporto con quei soggetti che di fatto hanno dato dimostrazione di essere in grado controllare il consenso. 4. Il rapporto ecomafia 2008 di Legambiente: La lotta tra clan e magistratura – Continua, nel silenzio, la mattanza ambientale in Campania. Tonnellate e tonnellate di veleni continuano ad essere smaltiti illegalmente in quella che una volta era la Campania Felix. Una vera e propria guerra senza esclusioni di colpi tra clan e forze dell’ordine e magistratura. Una guerra senza vincitori e vinti. Da un lato, una magistratura che con abnegazione risponde agli ecocriminali con numerose inchieste ed operazioni. anche con arresti eccellenti; dall’altro, un lavoro che viene spesso reso inutile visto che i sequestri e i veleni smaltiti rimangono sul territorio ad inquinare le falde acquifere in attesa di essere rimossi e le aree bonificate. Sullo sfondo sempre il clan dei casalesi, la camorra casertana del gruppo Schiavone, del controllo militare e politico dei latitanti Michele Zagaria e Antonio lovine. E se nel passato erano attivi nel trasporto e smaltimento dei rifiuti tossici, oggi come rileva la DDA si sono inflltrati, anche nel settore della raccolta legale dei rifiuti solidi-urbani. Nel novembre del 2007, in un ‘inchiesta della DDA di Napoli durata due anni circa, 20 persone vengono accusate a vario titolo di concorso esterno in associazione camorristica, estorsione, truffa e corruzione aggravati dal favoreggiamento della camorra. Camorra, politica e rifiuti. Gestita dal clan la Torre. Una struttura parallela, occulta ma non troppo, che controllava il comune di Mondragone e che attraverso il Consorzio dei Rifiuti Ce4 gestiva il consenso elettorale ed il mercato del lavoro. Dalle attività di indagini è emerso il rilascio sotto pressione del certificato antimafia all’Ecoquattro dei Fratelli Orsi, la società che ha ottenuto l’appalto per la gestione dei rifiuti urbani all’interno del consorzio Ce4; quest’ultimo, operante a Mondragone ed in altri comuni del Litorale Domizio, veniva utilizzato in cambio di appalti come pacchetto di voti per elezioni del consiglio comunale. Finiti in carcere, tra gli altri, Giuseppe Valente. ex presidente del Consorzio Ce4 e Aniello Pignataro affiliato del clan La Torre. Clan che, con il contributo sostanziale dei politici Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a 2. La criminalità organizzata ed il traffico illegale di rifiuti Come si è evidenziato, rilevanti interessi della criminalità organizzata sono stati riscontrati nel settore del traffico illegale dei rifiuti. La camorra ha intercettato la pressante domanda di imprenditori ed industriali di procedere allo smaltimento dei rifiuti speciali o tossici a basso costo, mettendo a disposizione un il classico “pacchetto completo”: ricezione dei rifiuti, trasporto, smaltimento, rendicontazione contabile e documentale attestante la legittimità delle procedure eseguite. La notevole disponibilità di mezzi per il trasporto e di ditte compiacenti, la consapevolezza di poter agire nel territorio della provincia di Napoli e di Caserta senza eccessivi controlli, e la concreta possibilità di sversare in terreni abbandonati o di proprietari compiacenti, in cave, o in discariche predisposte per il solo deposito dei rifiuti solidi urbani, la capacità di falsificare fatture, bolle di accompagnamento e documenti, hanno consentito la predisposizione di un servizio assai appetibile per gli imprenditori industriali7, interessati avrebbe operato una “profonda infiltrazione -come ha rivelato la Dda all’interno dell’amministrazione comunale di Mondragone, pressione e infiltrazione che hanno trovato un rilevantissimo ed indispensabile dato di sintesi e di collegamento tra pubblica amministrazione e sodalizio criminale nella figura di Giuseppe Valente”. Era lui il crocevia di politica, boss e imprese. Soprattutto di rifiuti. Avrebbe imposto l’assunzione del figlio di un boss, certo Giacomo Fragnoli, guarda caso come coordinatore della raccolta dei rifiuti, in modo da pilotare al momento opportuno anche l’agitazione dei dipendenti. E nel febbraio 2008 arriva l’operazione “Eco boss”, un’espressione che evoca il connubio tra reati ambientali e malavita organizzata. E il nome adoperato per definire l’indagine dei carabinieri del Noe e del Reparto territoriale di Aversa, che ha portato all’arresto di un presunto boss del clan dei Casalesi, Giorgio Marano, di 48 anni, nonché al sequestro di tre aziende attive nel settore rifiuti e di alcuni terreni a destinazione agricola, dove per anni è stato sversato illegalmente materiale proveniente soprattutto dal nord Italia. I magistrati della Dda di Napoli sottolineano che per la prima volta si sono raccolte le prove di una camorra che non si limita più a infiltrarsi nel settore dello smaltimento ma si trasforma in protagonista dell’attività illecita gestendo in prima persona aziende e discariche abusive. Le indagini si sono basate su intercettazioni risalenti a diversi anni fa e confluite in due importanti inchieste (Re Mida e Terra Bruciata) e nonché su recenti rivelazioni di un pentito, Domenico Bidognetti, cugino del boss Francesco Bidognetti, conosciuto come Cicciotto ‘e Mezzanotte. L’organizzazione, per non sostenere il costo del regolare smaltimento ha simulato nel tempo attività di compostaggio in realtà mai effettuate, smaltendo invece abusivamente, su terreni agricoli rifiuti costituiti, tra l’altro, da fanghi di depurazione, per un quantitativo di oltre 8 mila tonnellate ed un guadagno di circa 400 mila euro. Gran parte del materiale hanno sottolineato gli inquirenti – proveniva da aziende della Lombardia. Sono stati sequestrati anche tre vasti appezzamenti di terreno agricolo nella provincia di Caserta, e locali in uso a una società di trasporti con tutti gli automezzi utilizzati. I reati ipotizzati sono di concorso in traffico illecito di rifiuti e truffa aggravata ai danni del Commissario di Governo per l’Emergenza Rifiuti, della Regione Campania e degli Enti locali interessati alla raccolta e allo smaltimento di rifiuti. … omissis… 7 È ormai acquisita al notorio giudiziario e di studio del fenomeno la nozione di camorra come “una grande agenzia per la produzione di servizi illegali” per i cittadini, gli imprenditori, i politici. Così nella relazione della Procuratore Nazionale Antimafia del 2008: La prima: p e n a l e 36 a smaltire a basso costo e senza eccessive formalità burocratiche. Questo pacchetto completo, dunque, è stato fornito grazie a due modalità operative che qualificano la condotta illecita: la c.d. declassificazione documentale dei rifiuti e la emissione e utilizzazione di fatture false. La declassificazione documentale consiste nel far perdere, solo dal punto di vista delle certificazioni (dei codici CER), progressivamente al rifiuto la sua natura originaria, per farlo giungere a discarica con le caratteristiche, fittiziamente documentate che ne consentono lo smaltimento. Attraverso il “giro bolla” o la “triangolazione” i rifiuti transitano da uno stoccaggio all’altro o da un impianti all’altro di più regioni, fino a giungere al sito di smaltimento finale come idoneo al trattamento ed alla ricezione. Il rifiuto naturalmente non cambia, non è trattato e non subisce alcuna reale declassificazione; ciò che cambia sono i documenti che lo accompagnano nel lungo viaggio da una regione all’altra del Paese. Alla fine lo smaltimento avviene in violazione della normativa. I reati configurati sono anche quelli di falso dei certificati di analisi – FIR – (falsi materiali), dei documenti di trasporto, e delle bolle di accompagnamento. In alcuni casi, invece, l’operazione è stata effettuata con la complicità dei titolari degli impianti intermedi di stoccaggio, che hanno provveduto ad emettere certificati di declassificazione, senza che il rifiuto fosse transitato nell’impianto (falsi ideologici). L’operazione insomma si è avvantaggiata di un nuovo complice, il titolare dell’impianto intermedio, il quale dovrà nel tempo, farsi autore di nuovi reati, volti a crearsi rilevanti “costi” fittizi per giustificare le attività di trattamento mai effettuate. Si è dunque resa necessaria una costante emissione e l’utilizzazione di fatture false, necessarie per la conduzione illecita degli impianti di trattamento rifiuti. In effetti le società operanti in maniera illecita acquisiscono ogni visione del crimine organizzato campano sotto le insegne dell’emergenza è il frutto di una evidente distorsione della realtà: siamo in presenza di connotazioni strutturali dell’organizzazione sociale ed economica di gran parte del territorio regionale. La seconda: la camorra non svolge semplicemente (né necessariamente) una funzione vessatoria e parassitaria sull’impresa e l’economia legale. Certo, tale dimensione (racket ed usura ne sono le più tipiche espressioni) non manca ed è, anzi, in molte aree presente oltre ogni soglia di tollerabilità, ciò cui corrisponde un’obiettiva esigenza di aggiornata ricognizione del ruolo giocato da quelle tradizionali attività delittuose nei processi di accumulazione finanziaria illegale e di complessiva ristrutturazione della criminalità organizzata e di correlativa intensificazione dell’azione di prevenzione e repressione criminale. Si è in presenza di una gigantesca offerta di servizi criminali che corrisponde e si nutre di una proporzionale domanda di abbattimento dei costi (e dunque di moltiplicazione delle opportunità di profitto) dell’impresa legale (e di una platea ancor più vasta di soggetti più occasionalmente interessati a sfruttare le opportunità del ricorso a pratiche delittuose: dalla partecipazione a truffe in danno di compagnie assicurative alla realizzazione di opere edilizie abusive, dal procacciamento di merci di provenienza delittuosa alla “mediazione” dei conflitti). Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e un introito di molto superiore alle uscite e, comunque, di molto superiore ai normali ricavi di mercato per le aziende che operano lecitamente nello stesso settore. Ne deriva pertanto la necessità di determinare un fittizio aumento dei componenti negativi del reddito nel bilancio di esercizio, atto a ridurre l’enorme massa dell’utile scaturente dall’attività realizzata8. 2.1 - Il traffico organizzato di rifiuti – art. 260 D.Lgs. 152/60 – il concorso con i reati associativi e con la fattispecie di disastro ex art. 434 c.p. L’introduzione, nel marzo 2001 di questo reato ha segnato una sicura svolta nel contrasto ai crimini ambientali ed all’ecomafia9. Innanzitutto perché si è teorizzato, dal punto di vista normativo, il traffico organizzato di rifiuti e poi perché si è qualificata la fattispecie come delitto, a fronte del precedente catalogo di contravvenzioni che sanzionavano le condotte illecite in materia ambientale. Le ricadute sulle indagini sono state molteplici e di grande rilievo: • l’evidente maggiore capacità preventiva di una norma sanzionata con la reclusione; • l’allungamento dei termini di prescrizione a fronte di indagini spesso complesse che possono essere attivate anche a distanza di tempo dal fatto (es. a seguito delle propalazioni di un collaboratore di giustizia); • la possibilità di attivare intercettazioni di comunicazioni; • la concreta applicabilità dell’aggravante mafiosa dell’art. 7 L. 203/91 (con conseguente utilizzazione dei vantaggi del “doppio binario”), • la riconducibilità di tale delitto nel novero dei reati fine di una associazione per delinquere, semplice o di stampo mafioso. In effetti la norma prescinde dalla esistenza di un vincolo associativo, potendo configurarsi anche in capo al singolo o a più soggetti in concorso occasionale fra loro. Si comprende però come, nella generalità dei casi essa si pone invece come estrinsecazione concreta di un programma criminoso stabile e duraturo, spesso di natura mafiosa, che comprende anche la commissione di altri reati, quali quelli legati ai falsi documentali e quelli di corruzione o turbativa degli incanti. Non a caso è stata affermata, senza dubbio, la piena compatibilità di tale delitto con le fattispecie associative, con cui può concorrere, pur par- 8 Queste fittizie operazioni si realizzano, generalmente, per mezzo di società cd. “cartiere”, o mediante il sistema delle operazioni “carosello”. 9 In effetti l’ originario art. 53 bis del Decreto Ronchi è rimasto sostanzialmente immutato anche nel nuovo Testo Unico dell’ Ambiente (art. 260) 2 0 0 9 37 tecipando essa stessa della natura di “delitto di criminalità organizzata”. Del resto che i delitti possano concorrere, pur denotando alcuni elementi della condotta in comune appare evidente anche dal confronto dei diversi beni giuridici tutelati, quello dell’ambiente e della pubblica incolumità, da un lato e quello dell’ordine pubblico dall’altro. La caratteristica precipua di queste organizzazioni è data dal fatto che esse si muovono in ambito illecito, in quanto tutta l’attività del gruppo si contraddistingue per il mostrare totale dispregio della normativa di settore, fraudolento aggiramento dei dettami normativi, e nel procurare un conseguente inestimabile danno ambientale. Il dato allarmante è infatti dato, oltre che dall’estensione dello sviluppo dell’attività criminale, anche dal fatto che il risultato della condotta illecita non è solo l’immediato consistente profitto personale degli indagati ma anche un danno ambientale di notevoli proporzioni. La norma, che dal punto di vista soggettivo richiede il dolo specifico dell’agente, vale a dire il fine di conseguire un ingiusto profitto, patrimoniale o non, derivante dalla violazione delle regole amministrative che regolano l’attività di gestione dei rifiuti, sanziona, dal punto di vista oggettivo una pluralità di condotte: cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione o, comunque, gestione di rifiuti svolte in modo abusivo, cioè in violazione delle regole amministrative10. Le caratteristiche qualificanti della condotta, che deve in ogni caso sempre concretizzarsi “in più operazioni” e non uno actu, devono però individuarsi nell’ “allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate”. Basta comunque leggere alcune sentenze della Suprema Corte per inquadrare la fattispecie: “(…) Il delitto previsto dall’art. 53/bis del D.Lgs n. 22/97 (introdotto dalla legge 23 marzo 2001, n.93) riguarda chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, abbia allestito una vera e propria organizzazione professionale con cui gestire continuamente, in modo illegale, ingenti quantitativi di rifiuti. La gestione dei rifiuti e le altre condotte previste come illecito devono concretizzarsi in più operazioni ed intervenire attraverso allestimento di mezzi e attività continuative organizzate ed entrambi gli aspetti devono configurar- 10 Tali condotte, fra l’altro, se non compite in forma organizzata, rilevano singolarmente nella forma contravvenzionale prevista dall’art. 256 D.Lgs. 152/06), con possibile concorso fra i due reati, essendo gli stessi predisposti a tutela di beni giuridici distinti, e cioè la tutela della pubblica incolumità per l’ipotesi di cui all’art. 260, e l’ambiente per il reato di cui all’art. 256. Allo stesso modo sussisterà concorso con altri reati quali quelli sanzionati dall’art. 258 comma 4 D.Lgs. 152/06 in relazione all’art. 483 c.p. nonché quelli di corruzione, danneggiamento, disastro ambientale e di false fatturazioni. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a si cumulativamente” – (Cass. Sez. III, 17 gennaio 2002, Paggi). Le condotte sanzionate, a giudizio di questo Collegio, si riferiscono a qualsiasi “gestione” dei rifiuti (anche attraverso attività di intermediazione e commercio) che sia svolta in violazione della normativa speciale disciplinante la materia, sicché esse non possono intendersi ristrette dalla definizione di “gestione” delineata dall’art. 6, 1° comma – lett. D), del D.Lgs n. 22/97, né limitare ai soli casi in cui l’attività venga svolta al di fuori delle prescritte autorizzazioni. (…) 2.4 correttamente è stata ravvisata la sussistenza dell’elemento della gestione di “ingenti quantitativi” di rifiuti. Il termine “ingente” ha un chiaro significato semantico nel linguaggio comune e –a giudizio di questo collegio – deve riferirsi all’attività abusiva nel suo complesso, cioè al quantitativo di rifiuti complessivamente gestito attraverso la pluralità di operazioni (le quali, singolarmente considerate, potrebbero avere ad oggetto anche quantità modeste) e non può essere desunto automaticamente dalla stessa organizzazione e continuità dell’attività di gestione dei rifiuti (in senso conforme vedi Cass., Sez. VI, 13.7.2004, n. 30373, P.M. in proc. Ostuni). (…) 2.5 il reato ipotizzato è punibile a titolo di dolo specifico, in quanto la norma richiede in capo all’agente il fine di conseguire un “profitto ingiusto”. Tale “profitto” non deve necessariamente assumere natura di ricavo patrimoniale, ben potendo lo stesso essere integrato dal mero risparmio di costi o dal perseguimento di vantaggi di altra natura. Non è affatto necessario, però –ai fini della perfezione del reato- l’effettivo conseguimento di un vantaggio siffatto. Nella fattispecie in esame –tenuto conto che l’impresa che conferisce i fanghi normalmente paga i propri conferimenti –un’ipotesi di profitto può ragionevolmente ipotizzarsi non solo in un risparmio di costi nell’effettuazione dei conferimenti ad una ditta riutilizzatrice piuttosto che ad un’altra, ovvero ad un’impresa di gestione di una discarica, ma anche (e ciò, nella specie, assume valenza pregnante) nella stessa possibilità di effettuare conferimenti che non sarebbero possibili, ovvero richiederebbero costi maggiori, in considerazione dell’effettivo grado di pericolosità dei rifiuti che si intende conferire (onde il vantaggio connesso al mascheramento dei componenti effettivi dei rifiuti medesimi)” – (Cass. Sez. III, sent. n. 1037 depositata in data 10 novembre 2005).11 11 In effetti, quanto all’ingiusto profitto, esso può essere individuato in diverse forme di guadagno o di acquisizione di utilità per effetto della perpetrazione della condotta illecita: può trattarsi di un ricavo in senso tecnico, per effetto della acquisizione di ingenti guadagni per aver per esempio ricevuto grandi quantità di rifiuti da interrare, o per avere compiuto il trasporto di rifiuti tossici o industriali; oppure può consistere in un risparmio di spesa, vantaggio per esempio p e n a l e 38 “(…) La questione sollevata dell’art. 53 bis D.L.vo n. 22/97 merita di essere attentamente esaminata anche alla luce della genesi parlamentare della norma ma soprattutto nel suo tenore letterale, logico e sistematico. L’art. 53 bis del D.Lvo 05 febbraio 1997 n. 22 è praticamente il primo delitto “ambientale” previsto nel nostro ordinamento ed è stato introdotto riproducendo, anche se con alcune modifiche, la fattispecie contenuta nel progetto governativo che prevedeva l’introduzione nel codice penale dell’art. 452 quater; questa disposizione si era resa necessaria perché la Commissione Ecomafia del Ministero dell’Ambiente aveva ritenuto che l’ipotesi contravvenzionale dell’art. 53 D.Lvo 22/97 si fosse dimostrata di scarsa efficacia general-preventiva rispetto alla invece notevole gravità dell’illecito che si è inteso poi perseguire appunto con l’art. 53 bis citato. Detto delitto si sostanzia nella condotta di “chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti..”. Per la sussistenza del reato di cui all’art. 53 bis D. Lvo 22/97 è quindi necessario: a) l’autore del reato può essere “chiunque”: la pluralità di agenti non è richiesta come elemento costitutivo della fattispecie. Trattasi di una fattispecie monosoggettiva e non di concorso necessario, anche se nella pratica può assumere di fatto carattere associativo e di criminalità organizzata; b) l’elemento soggettivo richiesto dalla norma è il dolo specifico, ossia il fine di conseguire un ingiusto profitto (ricavi o risparmi nei costi); c) l’elemento oggettivo consiste in una attività di gestione dei rifiuti “organizzata”, con allestimento dei mezzi necessari, ossia in una attività “imprenditoriale”; d) l’attività di gestione mira al traffico illecito, come si ricava dal titolo della norma, e può riguardare una o più delle diverse fasi in cui si concreta ordinariamente la gestione dei rifiuti nella fase dinamica (cessione; ricezione, trasporto, esportazione ed importazione), sia interna, che internazionale (le condotte non sono tassative come emerge dall’avverbio “comunque”); e) l’attività di gestione deve essere caratterizzata non dalla episodicità, ma da una “pluralità di operazioni” e dalla “continuità” in senso temporale: il “traffico illecito” ha senso se è caratterizzato da più dell’imprenditore che risparmia, attraverso lo smaltimento illecito, rispetto agli ingenti costi dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani o di quelli speciali e tossici nei centri specializzati; inoltre deve calcolarsi l’omesso pagamento della cd. ecotassa. Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e operazioni e se presenta un elemento temporale adeguato; f) il quantitativo di rifiuti deve essere “ingente”: l’interprete dovrà valutare caso per caso questo requisito, traendo elementi di comparazione anche dalle previsioni di reati contravvenzionali in tema di rifiuti (es. art. 51, 2° comma D.L.vo 22/97; art. 51, 3° comma stessa legge) e soprattutto considerando la specificità ed autonomia delle singole figure (art. 51 bis, 52 e 53 D.L.vo 22/97); g) l’attività di gestione deve essere “abusiva” (mancanza di autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni previste dalla normativa od anche autorizzazioni scadute o palesemente illegittime) con riferimento ad attività organizzata clandestina od anche apparentemente legittime; h) l’offensività della condotta non riguarda necessariamente la messa in pericolo della incolumità pubblica (questo requisito non è citato nella norma, anzi –come si è detto – non è stato recepito nella forma di un art. 452 quater cod. pen. Tra i delitti contro l’incolumità pubblica, che toccano la integrità fisica delle persone nel loro insieme e la sicurezza della vita), ma certamente attiene –sia pure non ontologicamente ed in modo indiretto – al bene giuridico dell’ambiente (la minaccia grave di un danno ambientale o lo stesso danno ambientale non sono presenti in modo oggettivo ed assoluto, ma eventualmente possono accedere alla attività del colpevole, sicché non costituiscono condizioni di punibilità, dovendo essere (come conseguenza eventuali del reato) accertati caso per caso: il fatto che il legislatore preveda la riduzione in pristino e la eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente nell’art. 53 bis, 4° comma D.Lvo 22/97 non trasforma il reato in reato di danno o pericolo concreto e non riduce le sanzioni amministrative in un obbligo automatico per il giudice (opportunamente il legislatore introduce la clausola “se possibile”). Il traffico illecito di rifiuti, anche quando organizzato ed abituale, con ingenti quantità di rifiuti, ordinariamente produce un reale pericolo per l’ambiente o di fatto un danno ambientale, tuttavia, si ripete, il reato sussiste quando ne ricorrono i presupposti formali e non è di per se un reato di danno o di pericolo concreto, pur dovendo questi aspetti essere valutati dal giudice quali conseguenze eventuali del reato.” ( Cass., Sez. III, n. 1446 del 16 dicembre 200512). 12 Rilevano altresì la sentenza, Cass, Sez. II, Sentenza n. 19839 del 2006, ud. 16 dicembre 2005, sub g, dove si chiarisce il significato di gestione “abusiva”, rilevandosi che ricorre il delitto nel caso di attività effettuata senza le autorizzazioni, iscrizioni, comunicazioni previste dalla normativa, o in presenza di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime; la condotta abusiva richiesta per l’integrazione della fattispecie contestata indubitabilmente comprende “oltre quel- 2 0 0 9 39 Proprio in relazione al danno, deve evidenziarsi come la giurisprudenza abbia più volte precisato le caratteristiche del danno ambientale che è una conseguenza quasi fisiologica del traffico organizzato di rifiuti13. In particolare la Suprema Corte ne ha evidenziato la triplice dimensione: personale, quale lesione del fondamentale diritto all’ambiente salubre da parte di ogni individuo; sociale, quale lesione del diritto all’ambiente nelle articolazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità umana; pubblica, quale lesione del diritto-dovere pubblico spettante alle Istituzioni centrali e periferiche14. In concreto è evidente che il danno provocato dalla violazione della normativa ambientale si realizza attraverso l’inquinamento dei terreni, la contaminazione delle falde acquifere, l’alterazione della flora e delle coltivazioni, la modifica finanche della linea paesaggistica, con conseguente affiancamento dell’emergenza alimentare a quella ambientale. Il danno ambientale diviene dunque disastro ambientale15, con diretta incidenza sulla salute delle persone ed con il danneggiamento irreversibile di luoghi e di cose16. la effettuata senza alcuna autorizzazione, e quella avente per oggetto una tipologia di rifiuti non rientranti nel titolo abilitativo, anche tutte quelle attività che, per le modalità concrete con cui sono esplicate, risultano totalmente difformi da quanto autorizzato, sì da non essere più giuridicamente riconducibili al titolo abilitativo rilasciato dalla competente Autorità amministrativa” (cfr. anche Sez. III, nn. 40828 e 40827 del 6 ottobre 2005; Sez. III, n. 12433 del 2006, ud. 15 novembre 2005), ovvero risultino realizzate mediante “manipolazioni fraudolente dei codici tipologici” (cfr. Sez. III, n. 45598 del 06 ottobre 2005) 13 Una precisa nozione di danno ambientale è di particolare rilievo in relazione alla ammissibilità della costituzione di parte civile da parte delle associazioni e degli enti costituiti a tutela di diversi “interessi ambientali”. 14 (cfr. Cass. Sez. III sent. n. 22539 del 10 giugno 2002, rel. Fiale, imp. P.M. in proc. Kiss Gmunter in RV 221880 e Cass. Sez. III sent. 439 del 19 gennaio 1994, rel. Postiglione, imp. Mattiuzzi in RV 197044). 15 Pur non esistendo una norma specifica, il disastro ambientale è sicuramente sanzionato dall’art. 434 c.p. che punisce il pericolo di crollo e “qualsiasi altro disastro” e rappresenta una sorta di “fattispecie di chiusura” del sistema. Si tratta di un reato che tutela la “messa in pericolo” del bene “incolumità pubblica”, indipendentemente dal verificarsi in concreto del danno, il quale però si prefigurato come verosimile per effetto di condotte che mettono a rischio l’incolumità di un numero indefinito di persone. Dunque un reato di pericolo presunto, rientrante nella categoria dei reati di pura condotta, ovvero di quelli per i quali si prescinde dalla causazione di un evento, in cui il legislatore anticipa al massimo il momento della punibilità della condotta, in considerazione della estrema rilevanza dei beni tutelati. Si è correttamente fatto notare, dal punto di vista del pubblico ministero che coordina le indagini che l’iscrizione del delitto ha una sua rilevanza pratica poiché, se congiunta con l’iscrizione del delitto di cui all’art. 416 c.p., consente – per effetto del combinato disposto di cui alle disposizioni ex art. 407 n. 7 c.p.p. – art. 380, lett. l) c.p.p. – una durata dei termini di indagini preliminari prorogabili fino a due anni, investigazioni inoltre segrete entro l’anno, ex art. 405/2 c.p.p.; e per la prossimità tra il delitto di traffico organizzato di rifiuti con il delitto associativo comune e proprio con il disastro, appare probabile l’iscrizione congiunta dei delitti richiamati. 16 Il legislatore ha esteso l’obbligo del ripristino ambientale anche al reato di cui all’art. 53 bis D.Lgs. 22/97, oggi 260 codice dell’ambiente. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a Secondo la Sez. III, Sentenza n. 9418 del 16 gennaio 2008 Cc. (dep. 29 febbraio 2008 ) Rv. 239160, “Requisito del reato di disastro di cui all’art. 434 c.p. è la potenza espansiva del nocumento unitamente all’attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane. (Fattispecie di disastro ambientale caratterizzata da una imponente contaminazione di siti mediante accumulo sul territorio e sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi)”. Secondo la Corte di Cass., Sez. IV, Sentenza n. 19342 del 20 febbraio 2007 Ud. (dep. 18 maggio 2007) Rv. 236410, “Per la configurabilità del reato di disastro innominato colposo di cui agli articoli 449 e 434 c.p. è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità, nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all’attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti. A tal fine, l’effettività della capacità diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) deve essere, con valutazione “ex ante”, accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l’evento dannoso non si è verificato: ciò perché si tratta pur sempre di un delitto colposo di comune pericolo, il quale richiede, per la sua sussistenza, soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per l’incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno.” … “il delitto di disastro colposo innominato – di cui agli artt. 449 e 434 c.p., contestati agli odierni ricorrenti al capo B) dell’imputazione – richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la vita o l’incolumità delle persone indeterminatamente considerate al riguardo; è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all’attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l’effettività della capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere, con valutatone ex ante, accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l’evento dannoso non si è verificato” …È dunque “corretta la logica conclusione che la prova del pericolo non debba essere traslata da quella dell’avvenuto danno cagionato dalla condotta colposa, in quanto si andrebbe incontro inevitabilmente ad una contraddizione in punto di diritto, quella cioè di travisare la vera natura del delitto di disastro innominato (alias, altro disastro) colposo, di cui all’art. 449 c.p., p e n a l e 40 negandone l’appartenenza al genus dei delitti colposi di comune pericolo, il quale richiede – per effetto del richiamo alla nozione di altro disastro preveduto dal capo 1^ del titolo 6^ del libro 2^ del codice di rito, del quale fa parte l’art. 434 c.p. – soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per la incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno”. La sufficienza dell’esposizione al pericolo di un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti, è esplicitamente affermata dalla Corte di Cass. Sez. IV, Sentenza n. 5820 del 03 marzo 2000 Ud. (dep. 19 maggio 2000 ) Rv. 216602, secondo cui “Il delitto di disastro colposo di cui all’art. 449 c.p. richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la vita o l’incolumità delle persone indeterminatamente considerate al riguardo; è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all’attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l’effettività della capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, casualmente, l’evento dannoso non si è verificato”. La delimitazione dell’evento nella fattispecie incriminatrice era ben delineata dalla Sez. V, Sentenza n. 40330 del 11 ottobre 2006 Cc. (dep. 07 dicembre 2006) Rv. 236295, secondo cui “si identificano danno ambientale e disastro qualora l’attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull’uomo”. Da ultimo, con la sentenza n. 9418, la Corte di Cassazione, Sez. III, 29 febbraio 2008 (conferma Ordinanza del 03 agosto 2007 Trib. Libertà di Napoli) ha ulteriormente delimitato l’ambito applicativo dell’art. 434 c.p.: “Per configurare il reato di “disastro” è sufficiente che il nocumento metta in pericolo, anche solo potenzialmente, un numero indeterminato di persone. Infatti, il requisito che connota la nozione di ‘disastro” ambientale, delitto previsto dall’art 434 c.p., è la “potenza espansiva del nocumento” anche se non irreversibile, e ì”’attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità”. Nella specie, i Giudici hanno evidenziato una imponente contaminazione di siti realizzata dagli indagati mediante l’accumulo sul territorio e lo sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi. Tali condotte hanno insita una elevata portata distruttiva dello ambiente con Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e conseguenze gravi, complesse ed estese ed hanno una alta potenzialità lesiva tanto da provocare un effettivo pericolo per la incolumità fisica di un numero indeterminato di persone idonee a confermare gli arrestati domiciliari a un imprenditore per Io smaltimento illecito di rifiuti speciali pericolosi. Il termine “disastro” (nella specie ambientale) implica che esso sia cagione di un evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità “straordinariamente grave e complesso”, ma non “eccezionalmente immane” (Cassazione Sez. V, n” 40330/2006). Pertanto, “è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone” <Cassazione Sezione 5 sentenza 11486/1989).” Quando la durata in termini temporali e l’ampiezza in termini spaziali delle attività di inquinamento (in specie gestione illecita di rifiuti), giustificano la sussunzione della fattispecie concreta nella contestata ipotesi di reato di disastro innominato; questo delitto comporta un danno, o un pericolo di danno, ambientale di eccezionale gravità non necessariamente irreversibile, ma certamente non riparabile con le normali opere di bonifica”. In definitiva può trarsi la conclusione che i reati a fattispecie associativa (416 bis e 416 c.p.), il traffico organizzato di rifiuti (art. 260 T.U. ambiente) ed il disastro ambientale (art. 434 c.p.), sono gli strumenti di diritto sostanziale di più efficace contrasto del fenomeno, da utilizzare in concorso per attivare le indagini più invasive ed utili per l’accertamento dei fatti. Si tornerà poi sulla natura del delitto di cui all’art. 260, interpretato come reato di criminalità organizzata. 3. La criminalità organizzata ed il ciclo legale dei rifiuti Si è premesso come la partecipazione della criminalità organizzata alle attività economiche connesse alla gestione e smaltimento dei rifiuti non si manifesti solo nel segmento illecito del ciclo dei rifiuti, ma anche in quello legale, attraverso l’infiltrazione delle procedure di appalto, subappalto, nolo, concessione a cui le diverse istituzioni competenti devono assolvere nei diversi ambiti. Il ciclo legale si caratterizza per la necessità di predisporre strutture e mezzi che consentano la raccolta, il trattamento, lo smaltimento dei rifiuti di diversa categoria. Si tratta dunque di affidare numerosi servizi (raccolta, trasporto, differenziazione) la costruzione di opere complesse (discariche, inceneritori, termovalorizzatori), l’effettuazione di lavori integrati (bonifica di aree, recupero di cave inquinate). Nel tempo la presenza mafiosa in questo settore si è rafforzata ed incrementata secondo una progressione che può, in via esemplificativa, ricostruirsi in relazione al passaggio per diverse tecniche di infiltrazione del sistema, dal più semplice al più complesso. 2 0 0 9 41 • La prima, più tradizionale ed immediata condotta riscontrata è quella tipica dell’intimidazione mafiosa, e cioè dell’utilizzo della minaccia per ottenere la concessione di servizi e lavori, attraverso la coartazione della libera scelta dei soggetti deputati all’effettuazione delle procedure. Tecnica, questa, molto congeniale ad una certa mafia o camorra degli anni ’80, ma anche molto rischiosa perché esposta comunque all’accertamento attraverso gli ordinari strumenti investigativi (es. intercettazione ed anche, sebbene in casi limite, denuncia della vittima). • Nel tempo la mafia si è affinata ed ha compreso come il gioco non valesse la candela, e che si presentava molto più sicuro e tale da garantire vantaggi stabili e duraturi, un accordo corruttivo con i funzionari o politici locali, per imporre l’impresa vincente. In una prima fase questa impresa si presentava essenzialmente estranea all’accordo, ed anche al gruppo criminale, ed era assoldata per l’occasione. In cambio garantiva percentuali sugli utili, tangente fissa, assunzione di manodopera, subappalti ad altre imprese individuate dal clan17. Questo sistema si è poi evoluto con l’assunzione dell’imprenditore all’interno dell’accordo corruttivo e mafioso, e la sua partecipazione diretta al tavolino a tre gambe, insieme con il mafioso/camorrista e con il politico/funzionario. L’ingresso nel tavolino, però, comporta che l’imprenditore non è più soggetto terzo, titolare di una sua impresa, assoldata dal clan per l’occorrenza. Egli è parte dell’ente mafioso. La sua impresa, se preesistente, viene di fatto acquisita dal clan, che indica le direttive gestionali e procura gli appalti. Altrimenti l’impresa viene creata ad hoc, inserita nel sistema e, dunque, nasce già mafiosa. L’imprenditore è un prestanome e la compagine sociale è generalmente complessa e costituita con altri soggetti, alcuni più direttamente legati al clan (familiari o affini di affiliati). • Infine, quasi in una sorta di terza generazione, l’impresa mafiosa si presenta oggi in grado di vincere gli appalti ed acquisire le concessioni, presentandosi da sé, come impresa leader del settore, che ha nel tempo, grazie anche alle tecniche sopra indicate, acquisito una esperienza, un curriculum, un know how di primo livello, difficilmente paragonabile a quello di altri competitori. Lunga strada è stata fatta; le società e gli enti economici di riferimento si sono moltiplicati, è scomparsa la presenza di soggetti anche indirettamente riconducibili al clan, al quale sono destinati solo i proventi in maniera difficilmente controllabile. L’impresa mafiosa è in grado poi di fare ricerca, di adeguare i macchinari ed i mezzi alle nuove tecnologie, di investire, poiché ha disponibilità eco- 17 In questo ambito è apparsa appropriata l’introduzione della fattispecie di reato ex art. 513 bis c.p. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a nomiche senza limiti, che provengono dalle grandi ricchezze del clan, e sfugge ai gangli dell’ordinario sistema bancario e creditizio al quale, per altro, se necessario, può fornire ogni tipo di garanzia18. Considerata la schematizzazione operata come una mera semplificazione utile alla comprensione, in un sistema fluido complesso, nell’esperienza investigativa è chiaro che i clan si servono di figure imprenditoriali, inizialmente non riferibili al contesto associativo, che assumono il ruolo dell’ “imprenditore – mafioso”, cioè di colui che, non geneticamente mafioso, viene selezionato dal clan per gestire la specifica attività economica, essendo necessario il suo contributo per le specifiche competenze professionali apportate e per offuscare il fuoco investigavo degli inquirenti. All’imprenditore vittima, dunque, si sostituisce l’imprenditore complice. Si esclude infatti la responsabilità nel caso di imprenditori assoggettati alla organizzazione criminale attraverso un rapporto fondato sulla mera intimidazione e sulla pura coercizione, e che in genere garantiscono al sodalizio la utilità rappresentata dal versamento della tangente o da altro beneficio limitato. Essi restano vittime della organizzazione criminale, a patto di non trarre essi stessi vantaggio dall’azione intimidatoria del clan, per esempio per spiazzare la concorrenza di altre imprese in gara (cfr. 513 bis c.p.). Diverso è il caso in cui l’imprenditore sviluppi un rapporto paritario con il gruppo mafioso, così che l’imprenditore colluso è indotto a cooperare dalla prospettiva di vantaggi economici reciproci e, dopo aver trovato con il mafioso un accordo attivo dal quale derivano impegni reciproci di collaborazione e di scambio, sviluppa all’esterno un tipo di azione dinamica e intraprendente, fino a manifestare una generalizzata disponibilità verso l’organizzazione criminosa, che impone una verifica dello schema entro il quale si colloca la sua responsabilità (416 bis c.p., o 110-416 bis c.p.). È chiaro che proprio in un settore come quello dei rifiuti, ove occorre professionalità specifiche, l’accordo politico – mafioso – imprenditoriale rappresenta il fulcro del sistema, ben oltre quanto accada nei tradizionali settori di intervento della criminalità. Si comprende poi come l’indagine si muova come indagini di criminalità organizzata con le difficoltà legate alla necessità di rompere il vincolo dell’omertà, nel caso di specie particolarmente stringente (rinvio alle conclusioni). In uno dei casi giudiziari più volte citati dalle fonti aperte riportate, si è dimostrato come un clan mafioso relativamente modesto avesse pesantemente inquinato l’ammi- 18 È facilmente comprensibile come in periodo di profonda crisi economica, quale quello degli ultimi mesi, la forza dell’impresa mafiosa risulti rinvigorita in via esponenziale, rispetto ai periodi di ordinario sviluppo economico. p e n a l e 42 nistrazione e la politica – non solo locale – sfruttando il potere derivatogli dal consuetudinario monopolio nell’affidamento del servizio di raccolta degli RSU. L’infiltrazione mafiosa si realizzava per mezzo di uno degli strumenti privilegiati, la società mista pubblico-privato, a cui era affidato il servizio di raccolta dei rifiuti concesso da 18 comuni dell’alto casertano, all’interno della quale trovavano sede i concorrenti interessi della politica, dell’imprenditoria e del clan, con l’aggiunta di un ritorno elettorale verso gli sponsor politici garantita dalla clientela che la società riusciva a garantire attraverso le assunzioni. Si assicurava così stabilità politica agli organi locali di rappresentanza, una periodica consistente tangente al clan, e flussi di lavoro costanti per l’impresa. Società miste, consorzi, noli, subappalti, sono i luoghi della infiltrazione e della complicità fra politica, mafia, impresa. Fino a giungere a situazioni territoriali di monopolio, specie in situazioni di emergenza, allorquando il controllo del territorio e la facile disponibilità di terreni da parte della camorra, ha presentato l’impresa mafiosa come l’unica in grado di risolvere la crisi attraverso la rapida costruzione di discariche. O situazioni di oligopolio, in cui si è registrato la concorrenza fra due imprese mafiose, facenti capo a famiglie criminali in concorrenza, il cui conflitto è stato risolto dall’accordo spartitorio fra i clan. 4. La legislazione dell’emergenza in Campania e l’istituzione della Procura regionale. Alcune considerazioni in tema di coordinamento investigativo. Il ruolo della D.N.A. e della banca dati Sidda-Sidna – Il traffico organizzato di rifiuti come reato di criminalità organizzata Nell’ultimo anno si è assistito all’approvazione di una legislazione dell’emergenza in Campania nel settore dei rifiuti. Pur non essendo questa la sede specifica per trattare compiutamente la materia, deve però brevemente darsene conto, per i risvolti che in ogni caso, anche indirettamente, tale legislazione ha avuto sulle indagini di criminalità organizzata in materia di traffico di rifiuti in Campania. È nota la previsione del co. 1 dell’art. 3 del D.L. n. 90/08 secondo cui “nei procedimenti riferiti alla gestione dei rifiuti ed ai reati in materia ambientale nella Regione Campania, nonché a quelli ad esse connessi a norma dell’art. 12 c.p.p., … le funzioni di pubblico ministero sono esercitate … dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, che dunque ha acquisito una originale competenza regionale, unica nel nostro ordinamento19, con efficacia retroattiva, in quanto se ne prevede espressamente l’efficacia anche sui 19 Competenza che non solo supera i limiti della ordinaria competenza territoriale circondariale, ma “invade” anche quella del limitrofo distretto di Corte d’Appello di Salerno. Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e procedimenti in corso20. Altra norma di originale introduzione è stata quella che ha introdotto il corrispondente Gip/Gup collegiale presso il tribunale di Napoli 21. Il provvedimento interferisce con il tema oggetto della presente relazione innanzitutto quando esclude l’applicabilità dell’art. 321 co. 3-bis c.p.p., e dunque la possibilità del sequestro preventivo d’urgenza disposto dal p.m. o eseguito d’iniziativa dalla polizia giudiziaria. Si tratta di una evidente limitazione del campo operativo dell’indagine, spesso legata indissolubilmente ai tempi dell’azione reale, anche se, nelle more della valutazione del Gip collegiale, resta al p.m. la possibilità di operare il sequestro probatorio (dimenticanza del legislatore?). Ma il decreto introduce anche delle condizioni aggiuntive per potersi operare il sequestro preventivo, in quanto non occorre più il semplice fumus commessi delicti, ma espressamente si richiedono gravi indizi di reato. Inoltre, con espressione di difficile interpretazione, il sequestro è concedibile “semprechè il concreto pregiudizio alla salute e all’ambiente non sia altrimenti contenibile”. Devono poi segnalarsi i nuovi reati introdotti dalla legislazione dell’emergenza: la contravvenzione dell’introduzione abusiva in siti, aree, impianti, e sedi degli uffici connessi alla gestione dei rifiuti, tutti definiti aree di interesse strategico nazionale (rinvio quoad penam all’art. 682 c.p.); il delitto di cui all’art. 2 co. 9 20Le difficoltà interpretative in ordine alla genericità dell’attribuzione di una simile competenza, in particolare con il richiamo ai “reati in materia ambientale” sono state solo in parte superate dalla previsione, approvata in sede di conversione, che la competenza opera per tali reati in quanto “attinenti alle attribuzioni del sottosegretario di Stao, di cui all’art. 2 del presente decreto”. Tali attribuzioni possono essere così riassunte: a) provvedere, mediante procedure di affidamento coerenti con la somma urgenza o con la specificità delle prestazioni occorrenti, all’attivazione dei siti da destinare a discariche; b) utilizzare procedure in materia di espropriazione per pubblica utilità per acquisizione di, impianti cave dimesse o abbandonate ed altri siti per lo stoccaggio o lo smaltimento dei rifiuti ; c) porre in essere misure di recupero e riqualificazione ambientale; d) acquisire ogni bene mobile funzionale al corretto espletamento della attività di propria competenza; e) individuare le occorrenti misure, anche di carattere straordinario, di salvaguardia e tutela per assicurare l’assoluta protezione e l’efficace gestione di siti, aree e impianti connessi alla attività di gestione dei rifiuti, aree definite di interesse strategico nazionale; f) disporre la precettazione dei lavoratori a qualsiasi titolo impiegati nell’attività di gestione dei rifiuti; g) richiedere l’ assistenza della forza pubblica e l’ impiego delle forze armate per approntamento, vigilanza e protezione di cantieri e siti nonché per la raccolta e trasporto dei rifiuti; h) ricorrere ad interventi alternativi, anche attraverso il diretto conferimento di incarichi ad altri soggetti idonei, nel caso di indisponibilità, anche temporanea, del servizio di raccolta e di trasporto dei rifiuti derivante da qualsiasi causa 21 Notevole disagio organizzativo ha poi creato la previsione di inefficacia delle misure cautelari pendenti se non confermate entro venti giorni dalla trasmissione degli atti, dal Gip collegiale partenopeo. 2 0 0 9 43 del D.L. n. 90/08 che sanziona a norma dell’art. 340 c.p. colui che impedisce, ostacola o rende più difficoltosa l’azione di gestione (? n.d.r.) dei rifiuti. Orbene il compendio di norme che qui si è brevemente riportato presentano un quadro di dubbia conformità costituzionale, tali da apparire, più che un diritto speciale, un vero e proprio diritto eccezionale, vigente solo in un territorio e per un limitato lasso di tempo, connesso alla durata dell’emergenza rifiuti, il cui termine appare allo stato fissato al 31 dicembre 2009. Si tratta innanzitutto di evidenziare la natura di giudice straordinario, in violazione dell’art. 102 cost., per i magistrati chiamati ad esercitare le citate funzioni regionali partenopee. Profili di tenuta costituzionale sono stati rilevati anche rispetto all’art. 25 cost., ed al relativo principio del giudice naturale, con particolare riferimento alla applicabilità della nuova disciplina ai procedimenti in corso di trattazione. Anche dal punto di vista del diritto sostanziale, la previsione di fattispecie di reato applicabili nel solo territorio di una regione appare di difficile salvaguardia costituzionale, né a tale obiezione sembra avere risposto adeguatamente il legislatore quando, con il D.L. n. 172/08, introducendo ulteriori nuove fattispecie di reato, le ha ritenute applicabili non solo alla Regione Campania, ma tutti quei territori nei quali dovesse essere dichiarato lo stato di emergenza per lo smaltimento dei rifiuti 22. Lo scrivente ha già avuto modo di rappresentare che la legislazione sembra scontare anche una pregiudiziale valutazione negativa effettuata dal governo dell’operato della magistratura campana, ritenuta “poco affidabile” e, più o meno chiaramente, concausa del disastro ambientale in atto; una magistratura che, con i suoi provvedimenti, ha bloccato le iniziative del commissariato in relazione alla apertura di impianti e discariche. In questo ambito deve ricordarsi anche la norma che affida al Procuratore regionale la attribuzione diretta dei procedimenti e la gestione anche in deroga alle regole di ordinamento giudiziario. Si tende così a confondere il coordinamento, strumento sempre più necessario ad una efficace azione della funzione requirente, e che anche in tale contesto andava valorizzato e rinvigorito, con l’accentramento del potere che, per quanto esercitato con sapienza e professionalità, 22 Si tratta del delitto di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti ad opera del privato (art. 6 co. 1 lett.a D.L. 172/08); della stesa condotta operata da titolari di imprese e responsabili di enti (art. 6 co. 1 lett. b e c, rispettivamente in caso di dolo o colpa); la trasformazione in delitto, della contravvenzione già sanzionata dall’art. 256 co. 1 T.U. (art. 6 co. 1 lett. d) di attività di gestione di rifiuti non autorizzata; la trasformazione in delitto della contravvenzione già sanzionata dall’art. 256 co. 3 T.U. (art. 6 co. 1 lett. e) di apertura e gestione di una discarica abusiva; la ulteriore trasformazione in delitto delle contravvenzioni residuali di cui agli artt. 256 co. 4, 5, 6 del T.U. ambiente. Deve segnalarsi come la fattispecie di cui all’art. 6 co. 1 lett.a) sia attualmente al vaglio della Corte Costituzionale per effetto di ordinanza di rimessione del tribunale di Torre annunziata. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a stravolge il ruolo costituzionale del titolare dell’azione penale. Una normativa che avesse rinforzato il potere di coordinamento del Procuratore distrettuale nella materia della gestione dei rifiuti e dei gravi reati che vi sono connessi, da istituire senza limitazioni temporali o geografiche, avrebbe rappresentato un miglioramento dell’azione di contrasto criminale, senza stravolgere il sistema, ed avrebbe trovato il consenso della magistratura. Inoltre la normativa emergenziale ha ridotto la soglia di tutela dei cittadini campani, laddove ha consentito e consente un trattamento dei rifiuti sostanzialmente diverso rispetto a quello delle altre regioni italiane. Del resto il legislatore si era posto il problema del coordinamento con le attività di criminalità organizzata, attraverso la previsione dell’intervento del Procuratore nazionale antimafia anche nei procedimenti per reati ambientali o concernenti rifiuti (e reati connessi) ove emerga un «coinvolgimento della criminalità organizzata»23, nella chiara consapevolezza che la materia trattata presenta profili di interferenza fisiologica con la criminalità organizzata 24. La norma, dunque, pur nella sua specificità temporale e geografica, apre in maniera letterale, per la prima volta, al coordinamento nazionale sui reati ambientali, nell’ambito delle competenze del Procuratore Nazionale antimafia. L’importanza della previsione normativa è stata inevitabilmente colta dalla D.N.A. nella sua relazione annuale25. Dalla relazione emergono alcuni spun- 23 Nel suo parere al parlamento, il C.S.M. ha chiarito che tale intervento deve intendersi con “il solo effetto di estendere la categoria dei reati in relazione ai quali si esplicano i poteri del Procuratore nazionale antimafia, che restano esclusivamente quelli di coordinamento, impulso e, nei limiti previsti dall’art. 371 bis del codice di procedura penale, di avocazione”. 24 Nella relazione di presentazione del testo del decreto legge si evidenzia come si sia esplicitamente “Tenuto conto degli esiti dei molteplici procedimenti giudiziari che hanno evidenziato il coinvolgimento della criminalita’ organizzata nelle attivita’ di gestione dei rifiuti nella regione Campania” e la creazione di una competenza unificata nel Procuratore di Napoli sia stata dettata dalla “necessita’ di fornire adeguate risposte, anche in termini di efficienza, nello svolgimento delle attivita’ di indagine in ordine ai reati commessi nell’ambito delle predette attivita’ di gestione dei rifiuti”. 25 Il recente Decreto Legge 23 maggio 2008 n. 90, che ha previsto misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza rifiuti nella Regione Campania, in realtà, nel prevedere la norma di cui all’art. 3, riferita alla competenza della autorità giudiziaria nei procedimenti relativi alla gestione rifiuti nel detto territorio, si è posto il problema della esigenza del coordinamento e della importanza dello stesso. Trattasi di norma senz’altro di rilievo nella misura in cui, per essere stata introdotta e, quindi, apportare un quid novi nell’apparato legislativo della Repubblica, deve necessariamente riferirsi a tutti quei procedimenti penali relativi a reati connessi alla “gestione dei rifiuti” diversi da quelli previsti dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p. e nei quali emerga il “coinvolgimento” della criminalità organizzata, senza che questo determini lo scattare della competenza della Direzione Distrettuale Antimafia. Chè, altrimenti, la competenza dell’organo nazionale ci sarebbe stata comunque e la nuova disposizione non avrebbe avuto ragion d’essere. Appare evidente che il legislatore, nell’utilizzare la terminologia “criminalità organizzata”, abbia, pertanto, inteso riferirsi alla nozione di questa che ha trovato la sua massima esplicazione nella sentenza della Corte di Cassazione a p e n a l e 44 ti di riflessione di particolare interesse. Deve innanzitutto cogliersi l’occasione per riflettere ancora una volta sulla natura del delitto previsto dall’art. 260 t.u. ambiente, che correttamente va inteso come “reato di criminalità organizzata”, seguendo il ragionamento della Suprema Corte nella nota Cass., Sezioni Unite n. 17706 del 22 marzo 2005, depositata l’11 maggio 2005, (Est. Fiale A.), che pronunciandosi in tema di applicabilità dell’art. 240 bis, comma secondo, disp. coord. c.p.p. (che prevede l’esclusione, operante anche per i termini di impugnazione dei provvedimenti in materia di cautela personale, della sospensione feriale dei termini delle indagini preliminari nei procedimenti per reati di criminalità organizzata26), detta le coordinate per una corretta definizione di reato di criminalità organizzata, facendo riferimento oltre che ai delitti di criminalità mafiosa elencati dall’art. 51 co. 3 bis c.p.p., anche all’associazione per delinquere (art. 416 c.p.), ed alle fattispecie associative previste da norme incriminatrici speciali, nonché ai delitti a questi connessi; infine dal tenore della decisione non può che evincersi un allargamento Sezioni Unite n. 17706 del 22 marzo 2005, depositata l’11 maggio 2005, che tuttora fa testo nella giurisprudenza della Corte regolatrice (v. per ultima Sent. n. 776 del 28 novembre 2007, dep. 09 gennaio 2008, Sez. II). … Di pregio, pertanto, la scelta del legislatore (che ha così introdotto una disposizione contenuta nella proposta di legge di iniziativa parlamentare della scorsa legislatura in tema di eco-reati di cui appresso si dirà), consapevole che senza il coordinamento in materia di azione di contrasto della criminalità organizzata nulla di concreto può realizzarsi. Sarebbe, peraltro, stato opportuno che alla detta norma se ne fosse aggiunta una ulteriore che avesse previsto la necessaria conoscenza da parte della Direzione Nazionale Antimafia dell’instaurarsi, su tutto il territorio nazionale, di procedimenti penali in tema di traffico di rifiuti, quanto meno in forma organizzata (art. 260 D.Lgs. 03 aprile 2006 n. 152). Ed, invero, le nuove funzioni di coordinamento assegnate alla Direzione dall’art. 3, comma 3 del citato Decreto Legge non possono che riguardare gli eventuali collegamenti tra le indagini (non relative ai delitti di cui all’art. 51 comma 3 bis c.p.p.) svolte dalla cosiddetta Procura Regionale inserita all’interno della Procura della Repubblica di Napoli, in cui è ravvisabile il coinvolgimento della criminalità organizzata, come sopra intesa, e quelle, della stessa natura, svolte da altre Procure della Repubblica di tutto il territorio dello Stato…A ben vedere, si tratterebbe, a questo punto, senza voler affrontare la complessa tematica della introduzione nel codice penale dei reati ambientali, di cui al disegno di legge bipartisan della scorsa legislatura che ha visto la luce per iniziativa dei senatori Barbieri + 19 e comunicato al Presidente del Senato il 18.04.2007, di apportare una lieve modifica alle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale prevedendo, così come proposto col detto disegno, la introduzione di un art. 118 ter che preveda la trasmissione al Procuratore Nazionale delle informative da parte dei Procuratori della Repubblica (distrettuali e non) relative ai procedimenti per i reati in materia di rifiuti ed ambientale consumati in forma organizzata. Ne discenderebbe, conseguentemente, così come si osservava nella relazione dello scorso anno, una implementazione della Banca Dati DNA tale da consentire, finalmente, la completa conoscenza dei più rilevanti fatti connessi agli eco-reati organizzati, tale da permettere un reale coordinamento ed una conseguente migliore azione di contrasto in campo nazionale. 26Fattispecie riguardante numerosi indagati per associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati di ricettazione, truffa e falso diretti all’approvvigionamento e alla cessione di farmaci ad azione dopante. Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e ai delitti a partecipazione plurisoggettiva mediante un apparato organizzato stabile 27. L’interprete deve considerare che il legislatore ha voluto garantire una trattazione rapida per tutte le condotte criminali poste in essere da una pluralità di soggetti che, al fine di commettere più reati, abbiano costituito un apparato organizzativo predominante rispetto all’apporto causale del singolo partecipe; e ciò in considerazione del particolare allarme sociale che qualsiasi struttura organizzativa criminale suscita nell’opinione pubblica. Individuato dunque nell’ “organizzazione” il carattere fondamentale per individuare le fattispecie appartenenti al genus “criminalità organizzata”, non può che apparire immediatamente riferibile a tale categoria il delitto di cui all’art. 260 del T.U. ambiente. Con la conseguenza non trascurabile che tale connotazione consente di applicare le norme speciali in materia di intercettazione. Altra considerazione di rilievo è quella relativa alla opportunità, conseguente a tale qualificazione, che le attività di indagine per il reato previsto dall’art. 260 T.U. ambiente, vadano ad implementare la banca dati Sidda-Sidna istituita presso la Procura Nazionale Antimafia, a cui hanno accesso tutte le Procure distrettuali. La natura, ormai chiara, transregionale o transnazionale del traffico illecito di rifiuti, la partecipazione alle attività illecite di soggetti di versa provenienza criminale, politica, imprenditoriale, la partecipazione di broker specializzati e gli accordi fra clan mafiosi di distinta origine territoriale, la necessità di superare la dimensione circondariale delle strutture organizzative giudiziarie ed investigative, impongono di utilizzare quello che oggi viene considerato il più efficace degli strumenti di indagine di cui dispone il pubblico ministero antimafia: la Banca Dati, appunto. Solo l’esatta 27 La Corte, nella sentenza a Sezioni Unite richiamava fra l’altro le precedenti pronunce omologhe; fra queste il richiamo a Cass.: SS.UU., 8 maggio 1996, n. 12, Giammaria e Sez. V, 26 aprile 2001, n. 16866, Mussurici, in cui si evidenziava che il disposto del 2° comma dell’art. 2 della legge n. 742 del 1969, era da intendersi riferibile non solo ai reati di criminalità mafiosa ed assimilata, ma anche ai reati di criminalità organizzata di altra natura, come pure a quelli che ad essi risultano connessi, come il reato di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, sottolineando quale “ratio essendi” di tale norma nella esigenza di imprimere la massima celerità possibile al corso dei procedimenti relativi a vicende valutate di gravità eccezionale”. La V Sezione, successivamente – con la sentenza 26 aprile 2001, n. 16866, ric. Mussurici ed altro – giudicando anche in questo caso in una fattispecie di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, ha affermato che il riferimento ai reati di “criminalità organizzata” deve intendersi operato non soltanto ai reati di criminalità mafiosa o assimilata, bensì anche ai reati di criminalità organizzata di altra natura, come pure a quelli che ad essi risultino connessi. Più di recente, invece, la VI Sezione – con la sentenza 28 luglio 2004, n. 32838, ric. Sanasi – ha escluso dalla nozione di “criminalità organizzata” una associazione a delinquere finalizzata ad una serie di reati di corruzione e truffa aggravata ai danni del Servizio sanitario nazionale, legando tale nozione “imprescindibilmente”, all’”elencazione di cui all’art. 407 c.p.p., al più integrata da quelle di cui agli artt. 51, comma 3 bis, e 372, comma 1 bis, del codice di rito”. 2 0 0 9 45 percezione della banca dati quale strumento di indagine, che può, anzi deve, fin dall’inizio condizionare l’indagine e perfino l’iscrizione della notitia criminis, con la raccolta di informazioni di sistema di inimmaginabile valore investigativo, consente di predisporre un apparato di contrasto ad un fenomeno così complesso che non sia immediatamente perdente. Inoltre si tratta, unitamente alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, dello strumento di indagine che fa realmente del pubblico ministero il dominus dell’indagine, mettendogli a disposizione notizie e fonti di prova di cui la polizia giudiziaria non dispone se non ne viene messa a conoscenza da parte del magistrato. Si possono acquisire in questo modo informazioni che travalicano il confine del singolo ufficio giudiziario e consentono di incrociare dati che consentono di svelare i legami occulti, frequenti nelle indagini di specie, fra colletti bianchi e mafiosi, politici ed imprenditori, pubblici funzionari e società di gestione, attraverso l’indagine dei legami di parentela, dei rapporti societari, della frequentazione dei luoghi e delle analogie fra le condotte. Fino all’utilizzazione dell’ineliminabile strumento di contrasto costituito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tutte presenti in banca dati e che consentono, anche a distanza di tempo, di ricostruire intricate vicende criminali. 5. Conclusioni. Un catalogo di strumenti investigativi La prima conclusione da trarre, all’esito di questo lungo excursus, è quella per cui l’indagine ambientale e quella di criminalità organizzata appaiono sempre più sovrapporsi ed essere caratterizzate da interrelazioni inscindibili. La conseguenza è che l’indagine ambientale quando assume, soprattutto in certi ambiti territoriali, connotazioni di rilievo sistematico, finisce per essere attratta nell’alveo dell’indagine mafiosa, con l’iscrizione di ipotesi di reato associative o di reati aggravati dall’art. 7 l. 203/91. Anche la connotazione del traffico organizzato di rifiuti in termini di reato di criminalità organizzata orienta le investigazioni verso la trattazione della D.D.A., in auspicabile collegamento, coordinamento o co-delega con i magistrati addetti alle sezioni specializzate. Ne deriva l’applicazione del doppio binario, con particolare riferimento alla durata delle indagini preliminari, ai presupposti per le intercettazioni ed alla presunzione di pericolosità sociale degli indagati, con indubbi vantaggi operativi per il titolare del procedimento. L’apporto delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e delle informazioni investigative tratte dalla banca dati Sidda-Sidna, sarà in questa ottica decisivo per l’inizio delle indagine e per orientare le stesse operazioni tecniche di intercettazione, poiché si è compreso come nel settore dei rifiuti, ancor più che in altri l’omertà interna al gruppo criminale si presenta ulteriormente rafforzata dalla peculiarità di composizione del gruppo stesso, di cui fanno parte non solo i classici affiliati, ma anche colletti bianchi, funzionari, politici, imprenditori. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a In tali situazioni, aumentando il livello qualitativo dei partecipi, alcuni di essi per loro stessa natura “insospettabili”, il patto del silenzio appare difficilmente penetrabile, se non con l’apporto del collaboratore di giustizia. Fra l’altro, la natura stessa di tale patto è tale per cui non basterà l’apporto di un collaboratore “qualsiasi”, atteso che i vincoli fra camorra (o mafia), politica e imprenditoria sono noti esclusivamente ai boss, ai capi delle organizzazioni mafiose, e non ai semplici affiliati. Occorrerà dunque un collaboratore di giustizia che abbia rivestito un ruolo di estremo rilievo nel clan e che non sia stato deputato solo alle attività c.d. militari. Collaborazione questa che per esperienza intercorre in una fase successiva rispetto alle prime collaborazioni di giustizia relative ad un dato clan, in una sorta di secondo e terzo livello che viene aggredito progressivamente. Inoltre deve concludersi che l’indagine in materia ambientale diventa contestualmente una indagine sul riciclaggio dei proventi illeciti del clan, che investe i suoi soldi nella impresa mafiosa e la favorisce per l’acquisizione di appalti e subappalti nel settore dei rifiuti, accumulando così nuove ed ingenti disponibilità patrimoniali e finanziarie. Fra gli strumenti investigativi di maggiore efficacia deve oggi segnalarsi, dunque, quanto consentito dall’art. 9 L. 146/2006 in materia di operazioni sotto copertura, che sono previste in materia di riciclaggio. Allo stesso modo troverà applicazione il nuovo art. 648 quater c.p., introdotto dalla art. 63 D.Lvo n. 21 novembre 2007 n. 231, che consente il sequestro per equivalente nelle ipotesi di riciclaggio28. Il D.Lvo che recepisce la terza direttiva comunitaria sul riciclaggio, introduce fra l’altro, sebbene solo a titolo di sanzione amministrativa, anche la nozione dell’“autoriciclaggio”, relativa alla condotta posta in essere dall’autore del delitto generatore del profitto. Seguono, conseguenza inevitabile, gli strumenti di contrasto patrimoniale. Se il ciclo dei rifiuti è infatti appannaggio del crimine organizzato, per le sue rilevantissime implicazioni finanziarie, è anche sull’azione di contrasto all’accumulazione dei patrimoni che si deve dirigere l’intervento. Il fronte del contrasto è conseguentemente quello del sequestro di prevenzione e quello del sequestro penale, nella forma dell’art. 12 sexies L. 356/92, oltre alla pos- 28 Questo il testo della norma: Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell’art. 444 c.p.p. per uno dei delitti previsti dagli artt. 648 bis e ter c.p. è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Nel caso in cui non sia possibile procedere alla confisca di cui al primo comma, il Giudice ordina la confisca delle somme di denaro, di beni o delle altre utilità delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona, per un valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo del reato. In relazione ai reati di cui agli art. 648 bis e ter il P.M. può compiere, nel termine ed ai fini di cui all’art. 430 c.p.p., ogni attività d’indagine che si renda necessaria circa i beni, il denaro o le altre utilità da sottoporre a confisca a norma dei commi precedenti. p e n a l e 46 sibilità di applicare la responsabilità delle persone giuridiche. Sono note le capacità aggressive della normativa antimafia in materia di sequestro, in particolare a seguito della pronuncia della Suprema Corte che ha svincolato il sequestro dalla pertinenzialità rispetto al reato. La natura del sequestro, e della conseguente confisca ex art. 12 sexies, va qualificata secondo quanto elaborato dalla sentenza delle Sezioni Unite penali, n. 920 del 19 gennaio 200429. La Suprema Corte ha affermato che per disporre la confisca non è necessario accertare l’esistenza di un rapporto di pertinenzialità del bene da confiscare con uno dei reati indicati nell’art.12 sexies o, comunque, con un’attività delittuosa della persona condannata, né la confisca deve riguardare esclusivamente i beni acquistati in un determinato periodo di tempo prossimo alla commissione del reato. Queste affermazioni si fondano proprio sulla radicale differenza che sussiste fra queste ipotesi e quelle disciplinate dagli artt. 321 c.p.p. e 240 c.p. Il legislatore non ha inteso prevedere alcun rapporto di pertinenzialità del bene con il reato per cui si procede, perché altrimenti la previsione sarebbe stata meramente ripetitiva dello schema del sequestro preventivo, per la cui disposizione occorre appunto accertare che il bene che si colpisce è tale da impedire la reiterazione del reato o l’aggravamento dei suoi effetti. La pertinenzialità inoltre corrisponderebbe o alle cose utilizzate per il reato, o alla nozione di prezzo, di prodotto o di profitto, la cui confiscabilità è già prevista dall’art. 240 c.p.30”. La giurisprudenza dunque, anche più recentemente e con l’autorevolezza delle Sezioni Unite, distingue radicalmente i provvedimenti adottati ex art. 12 sexies da quelli disciplinati dall’art. 321 c.p.p. (sequestro preventivo) e 240 co. 2 c.p. (confisca facoltativa), evidenziando che i primi sono una misura di sicurezza atipica con funzione anche dissuasiva, parallela all’affine misura di prevenzione antimafia introdotta dalla legge 32 maggio1965, n. 575 31. Quindi nessun collegamento fra bene 29La questione è stata sottoposta alle sezioni unite, sussistendo un evidente contrasto giurisprudenziale sul tema del rapporto di pertinenzialità tra i beni confiscabili ed il reato per cui si procede. In particolare alcune sentenze escludevano la necessità di un nesso di questo tipo (es. Cass., Sez. II 22 ottobre 2001, ric. Del Mistro), altre richiedevano un nesso di pertinenzialità quantomeno con riferimento alla generica attività delittuosa del soggetto (es. Cass., Sez. V, 22 settembre 1998, ric. Sibio), altre ancora esigevano un preciso rapporto fra bene e delitto (es. Cass., Sez. V, 21 giugno 2001, P.M. Capomasi) 30Sotto un profilo positivo, significa che, una volta intervenuta la condanna, la confisca va sempre ordinata quando sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilità e il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza delle cose … la confiscabilità dei singoli beni, derivante da una situazione di pericolosità presente, non è certo esclusa per il fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna. 31 Sul punto cfr. anche Cass. Sezioni Unite, 17 luglio 2001, Derouach. Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e sequestrato (e poi confiscato) e reato; nessuna verifica sul momento in cui il bene è stato acquistato rispetto al tempo in cui è stato commesso il reato. Si tratta, come è evidente di un’interpretazione di estremo favore, che determina una sorta di inversione dell’onere della prova in ordine alla liceità della provenienza del bene; come tale occorre farne costante uso, accompagnando all’indagine tradizionale, quantomeno un semplice ed immediato monitoraggio sul patrimonio degli indagati e dei soggetti ad essi più vicini. L’indagine potrà poi avvalersi dei tradizionali mezzi di prova per accertare la disponibilità di un bene in capo ad un soggetto, indipendentemente dalla titolarità formale. In questo senso merita attenzione la fattispecie di reato prevista dall’art. 12 quinquies della stesa legge che sanziona l’attribuzione fittizia di beni32. La giurisprudenza di legittimità, di recente, contrariamente a quanto appare da una prima lettura della norma, ne ha proposto una interpretazione in termini plurisoggettivi, sanzionando anche colui che, consapevolmente, riceve il bene e si presta alla sua fraudolenta intestazione33. Si è poi sostenuto anche in questo caso che sussiste, a carico del titolare apparente di beni, una presunzione di illecita accumulazione patrimoniale, in forza della quale è sufficiente dimostrare che il titolare apparente non ha svolto un’attività tale da procurargli il bene, per invertire l’onere della prova ed imporre alla parte di dimostrare da quale reddito legittimo proviene l’acquisto e la veritiera appartenenza del bene medesimo34. Rilevantissima la recente pronuncia della Suprema Corte35, investita dalla DDA di Napoli che, nel 32 “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque attribuisce fittiziamente ad altri la titolarità o disponibilità di denaro, beni o altre utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648 bis, 648 ter del codice penale, è punito con la reclusione da due a sei anni”. 33 Cfr. Cass. Sez. VI, sentenza n. 15489 del 26.02.2004 – Presidente Aquarone, secondo cui l’ipotesi di reato ex art. 12 quinquies L. 356/92 …integra una fattispecie a concorso necessario poiché il soggetto agente in tanto può realizzare l’attribuzione fittizia di beni, in quanto vi siano terzi che accettino di acquisirne la titolarità o la disponibilità … Di contro si è invece sostenuto che tale figura criminosa è strutturata in termini monosoggettivi, essendo punito solo colui che attribuisce fittiziamente la titolarità o la disponibilità del danaro, di beni o di altre utilità. L’indefettibile presenza di un destinatario del trasferimento fittizio, il cui contributo sul piano oggettivo è decisivo, fa propendere per la tesi della necessaria plurisoggettività della fattispecie, ma di per sé il destinatario dell’attribuzione fittizia non sarebbe punibile. Il riconoscimento della responsabilità penale dell’attribuzione fittizia al solo soggetto che la effettua, e non al destinatario, indica che l’incriminazione concerne il mero trasferimento, non la situazione di fatto ad esso conseguente, altrimenti la norma avrebbe posto in primo piano la figura del soggetto che riceve la titolarità o la disponibilità del danaro, dei beni o di altre utilità. Trattasi, pertanto, di reato istantaneo con effetti permanenti, che si consuma nel momento in cui è realizzata l’attribuzione fittizia, risultando irrilevante l’eventuale protrazione della situazione antigiuridica conseguente alla condotta criminosa (conf. Cass., SS.UU., 28 febbraio 2001 n. 8, Ferrarese, in Cass. Pen., 2002, p. 142, m. 10). 34 Cass., Sez. VI, 24 ottobre 2000, n. 3889. 35 Cass., Sez. VI, 11 dicembre 2008, n. 2821, dep. il 5 marzo 2009. 2 0 0 9 47 confermare l’orientamento ormai radicato che individua la natura del delitto nella categoria del reato istantaneo ad effetti permanenti36, ha spiegato che occorre però tenere in conto che ogni modificazione della compagine sociale, ogni redistribuzione di utili ed ogni attività dispositiva successiva, costituiscono autonome fittizie attribuzioni, per cui integrano autonome ipotesi di reato, da considerare in continuazione e che, evidentemente, incidono sul tempus commissi delicti ai fine del decorso del termine di prescrizione. Interpretazione preziosissima proprio alla luce del fisiologico ritardo che sconta l’indagine antimafia, spesso attivata a distanza di anni alla luce delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Il sequestro, in ogni caso dovrà trovare un reato presupposto al quale essere in qualche modo agganciato, in quanto dovrà pervenirsi alla condanna per procedere alla confisca. Nell’ambito delle indagini sui rifiuti risulta particolarmente utile procedere, ove sussistano i presupposti, per truffa aggravata, ex art. 640 cpv. c.p., oltre che per corruzione, che, specie se caratterizzati dall’ aggravante dell’art. 7 L. 203/91, consentono di applicare l’intero campionario delle ipotesi di sequestro, ivi compreso il sequestro per equivalente37. 36 Cass., SS.UU., 24 maggio 2001, n. 8, Ferrarese. 37 La Corte di Cassazione ha esplicitato come non sia necessaria la previa individuazione del bene oggetto di sequestro sulla base della norma in esame, evincendosi che, secondo la Sez. I, Sentenza n. 30790 del 30 maggio 2006 Cc. (dep. 18 settembre 2006) Rv. 234886 sia ben possibile sequestrare qualsiasi bene, “rimettendo” alla fase attuativa della confisca gli adempimenti estimatori atti a scomputare l’eventuale valore eccedente del bene sequestrato rispetto a quanto oggetto di sequestro (le Superma Corte è esplicita sullo specifico punto : “in relazione alla fattispecie di cui all’art. 640 bis c.p., in forza del combinato disposto degli artt. 322 ter e 640 quater c.p., il sequestro preventivo può avere ad oggetto anche beni o valori equivalenti al profitto del reato. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo, in quanto “equivalente” del profitto, il sequestro preventivo di due aziende nella disponibilità degli indagati, precisando peraltro che il valore delle stesse dovrà essere scomputato per differenza dal totale del profitto, rappresentato dalle indebite percezioni a titolo di contribuzione pubblica, attraverso adempimenti estimatori che non spettano al tribunale del riesame, ma sono rimessi alla fase esecutiva della confisca)”. Posta poi la suscettibilità di confisca del profitto del delitto concussivo, secondo la Sez. VI, Sentenza n. 30966 del 14 giugno 2007 Cc. (dep. 30 luglio 2007 ) Rv. 236984, risulta legittimo l’intervento ablativo sul denaro disponibile su un conto corrente (“Nel caso in cui il profitto del reato di concussione sia costituito da denaro, è legittimamente operato in base alla prima parte dell’art.322 ter comma primo cod. pen. il sequestro preventivo di disponibilità di conto corrente dell’imputato”), senza che vi sia – ovviamente – alcuna necessità di provare il rapporto di pertinenzialità tra somma e delitto (vedi Sez. VI, Sentenza n. 31692 del 05 giugno 2007 Cc. (dep. 02 agosto 2007) Rv. 237610 secondo cui “Qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali, ai sensi dell’art. 322 ter c.p., è prevista la confisca per equivalente, sia costituito da denaro, l’adozione del sequestro preventivo in vista dell’applicazione di detta misura non può essere subordinata alla verifica che il denaro sia confluito nella effettiva disponibilità dell’indagato giacché, altrimenti, si verrebbe a ristabilire la necessità di un nesso pertinenziale tra la “res” ed il reato che la legge, con l’introduzione della confisca “per equivalente, ha escluso”). Nell’individuazione poi del titolare del bene confiscato, viene affermato chiaramente il principio solidaristico per la persona gravata Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a dall’obbligo, qualora non sia immediatamente individuabile il profitto imputabile a ciascun concorrente (vedi Cass. Sez. II, Sentenza n. 9786 del 21 febbraio 2007 Cc. (dep. 08 marzo 2007) Rv. 235842 secondo cui “È legittimo il sequestro preventivo, funzionale alla confisca di cui all’art. 322-ter cod. pen., eseguito in danno di un concorrente del reato di cui all’art. 316-bis c.p., per l’intero importo relativo al prezzo o profitto dello stesso reato, nonostante le somme illecite siano state incamerate in tutto o in parte da altri coindagati, in quanto, da un lato, il principio solidaristico, che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e comporta solidarietà nella pena; dall’altro, la confisca per equivalente riveste preminente carattere sanzionatorio e può interessare ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del prezzo o profitto accertato, salvo l’eventuale riparto tra i medesimi concorrenti che costituisce fatto interno a questi ultimi e che non ha alcun rilievo penale”. vedi sul punto, Sez. VI, Sentenza n. 35120 del 09 luglio 2007 Cc. (dep. 20/09/2007) Rv. 237290 secondo cui “Nell’ipotesi di pluralità di indagati come concorrenti in un medesimo reato compreso tra quelli per i quali, ai sensi dell’art. 322-ter c.p., può disporsi la confisca “per equivalente” di beni per un importo corrispondente al prezzo o al profitto del reato, il sequestro preventivo funzionale alla futura adozione di detta misura non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la misura della quota di prezzo o profitto a lui attribuibile, salvo che, in ragione dei rapporti personali o economici esistenti tra i concorrenti o della natura della fattispecie concreta, la quota di prezzo o profitto imputabile a ciascun concorrente non sia immediatamente individuata o individuabile, ma sia destinata a essere accertata solo in fase di giudizio, nel qual caso il sequestro stesso può essere disposto per l’intero importo nei confronti di ciascuno dei concorrenti”). In relazione poi ad eventuali alienazioni fittizie o fiduciarie a terzi, la Corte di Cass. Sez. II, Sentenza n. 10838 del 20 dicembre 2006 p e n a l e 48 In definitiva appare corretto rimarcare che il contrasto al traffico di rifiuti, sia per scelta di un legislatore che fa fatica a predisporre strumenti efficaci nell’ambito della normativa ambientale, sia per i primari interessi economici e criminali che hanno spinto clan camorristici e mafiosi ad occupare il mercato dei rifiuti, deve essere affrontato in sinergia coniugando le competenze professionali e gli strumenti normativi di contrasto propri della normativa ambientale e di quella, del cd. doppio binario, tipica delle indagini di criminalità organizzata. Presupposto è la reale comprensione della gravità ed entità del fenomeno, dei suoi intrecci che travalicano l’aspetto puramente criminale, e l’auspicio che il tema sia realmente al centro dell’agenda della politica e del dibattito della società civile, per le implicazioni che comporta in termini di tutela della salute, dell’ambiente, dell’igiene alimentare e della violazione delle regole della concorrenza in settori rilevanti della economia nazionale. Cc. (dep. 14 marzo 2007) Rv. 235828 sostiene la naturale percorribilità dello strumento della confisca (“Ai fini dell’operatività della confisca per equivalente prevista dall’art. 322 ter c.p., e, di riflesso, della possibilità di adozione di un provvedimento di sequestro preventivo dei beni che possono formarne oggetto, il requisito costituito dalla disponibilità di tali beni da parte del reo non viene meno nel caso di intervenuta cessione dei medesimi ad un terzo con patto fiduciario di retrovendita”.) Gazzetta F O R E N S E M a r z o • a p r i l e ● La rilevanza penale dell’attività sportiva: considerazioni dommatiche per una corretta ricostruzionenella sistematica delle scriminanti ● Andrea Alberico Dottorando di Ricerca in Diritto Penale – Università degli Studi di Napoli “Federico II” 2 0 0 9 49 1. Brevi considerazioni in tema di rischio consentito Si è soliti dire che, con l’incriminazione delle condotte colpose, l’ordinamento punisce i consociati per inosservanza delle regole precauzionali di condotta che devono orientare ogni agire umano. Infatti, ogni attività che potenzialmente varca i limiti di prudenza imposti dalle circostanze, espone l’agente alla sanzione penale, se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo. Nonostante ciò, esistono delle situazioni, intrinsecamente pericolose, che l’ordinamento non può vietare, poiché presentano un apprezzabile grado di utilità (o adeguatezza) sociale1. Si tratta di attività che, se fossero valutate alla stregua dei tradizionali canoni della prevedibilità ed evitabilità, presupporrebbero necessariamente l’astensione da parte dell’agente (si pensi alla circolazione stradale). Il caso classico è quello dell’attività medico-chirurgica. È evidente, infatti, che l’operatore sanitario che si trovi ad affrontare un intervento chirurgico è ben cosciente dei rischi connessi al suo operato, e ciononostante il suo agire non può essere considerato ex se illecito, dal momento che la realizzazione dell’intervento è finalizzata alla tutela della salute del paziente. Allo stesso modo, talune attività sportive presentano un elevato rischio nel corso del loro svolgimento: si pensi ad un incontro di pugilato ovvero alle competizioni automobilistiche. Come è ovvio, in tali casi, per scelta stessa dell’ordinamento, non ci si potrà riferire ai normali parametri della prevedibilità ed evitabilità dell’evento ai fini della configurazione della responsabilità penale, ma dovrà essere tenuto in debito conto l’interesse dei consociati allo svolgimento dell’attività pericolosa. Conseguentemente, in presenza di simili circostanze, è necessario uno spostamento della soglia della pericolosità dell’agire umano, individuando una zona grigia di rischio che si è soliti definire consentito, nel senso che solo ove si valichi tale soglia, l’attività, in sé già pericolosa, sarà passibile di sanzione penale. È bene però precisare, in ossequio a quanto puntualmente affermato dalla Suprema Corte2 , che l’agente che stia intraprendendo un’attività rischiosa ma consentita, non può ritenersi svincolato dall’osservanza di qualsivoglia regola precauzionale, e specificamente è sempre tenuto all’osservanza dei fondamentali criteri di prudenza a tutela dell’incolumità individuale altrui, per il generale principio del neminem laedere. 1 Al riguardo, la dottrina ha di frequente parlato di “adeguatezza sociale” per caratterizzare queste attività: il riconoscimento dell’adeguatezza sociale dell’attività sarebbe un momento necessario per poter poi acconsentire all’elevazione della normale soglia di tollerabilità dei rischi connessi alla condotta. Si veda C. Fiore, L’azione socialmente adeguata nel diritto penale, Napoli, 1966, pp. 169 e ss.. 2 Cfr. Cass. Sez. IV, 29 gennaio 1988, n. 1021. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a Solo finché l’attività intrinsecamente pericolosa resta all’interno di una determinata soglia di rischio potrà dirsi che essa è socialmente adeguata. Diversamente, non appena si oltrepassi tale soglia, l’attività in questione cessa di essere adeguata, tornando ad essere penalmente rilevante. A margine di queste brevi considerazioni preliminari, va fatto cenno al dibattito dottrinale sulla collocazione sistematica e sulla valenza politico-criminale della categoria del rischio consentito. Tesi tradizionale era quella che ancorava la valutazione del rischio consentito al giudizio di antigiuridicità. Conseguenza di questa impostazione, era che la funzione della categoria fosse quella di giustificare determinate condotte lesive, in presenza degli opportuni requisiti. Questa teoria, presumibilmente, fondava sullo stesso nomen dell’aggettivazione del rischio, che appunto perché consentito, non poteva che essere lecito, e dunque non antigiuridico. Contraria all’inquadramento del rischio consentito nell’ambito dell’antigiuridicità è oggi, invece, la dottrina che ritiene di collocare l’istituto all’interno della norma cautelare, in rapporto col generale dovere di diligenza. Per conseguenza, la sua funzione va ricercata nella prevenzione degli eccessi che discenderebbero da una troppo rigida applicazione del criterio della prevedibilità ed evitabilità in materia di delitti colposi3. Sia consentito, in questa sede, non aggiungere altro in merito a questo dibattito, se non per specificare che non pare avere fondamentale rilevanza l’aderire all’una o all’altra delle esposte teorie. Pur apparendo preferibile l’orientamento più moderno che aggancia il rischio consentito alla norma cautelare, dilatandone i confini, non può essere disconosciuto che le conseguenze dommatiche e politico-criminali delle due letture paiono le medesime. Se è vero, infatti, che ancorare il rischio all’antigiuridicità presupporrebbe un’anticipazione della importanza dell’istituto, giacché l’irrilevanza penale risiederebbe già a livello di deliberazione della condotta4, è altrettanto vero che il comportamento rimarrebbe non antigiuridico se ed in quanto fossero rispettate le rinnovate esigenze di diligenza che pure questo comporta. Il che è lo stesso che dire che nelle attività pericolose vige un grado di diligenza peculiare, dettato dalla specifica norma cautelare, superato il quale si riespande la responsabilità penale. Allo stesso tempo, dal punto di vista politico-criminale, la conseguenza di entrambe le letture sarebbe che se l’attività pericolosa è stata diligentemente intrapresa, Si veda Militello, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, pp. 191 e ss.. 4 Marini, Rischio consentito e tipicità della condotta. Riflessioni, in Scritti in memoria di Renato Dell’Andro, II, Bari, 1994, p. 557 50 allora verrebbe a mancare il disvalore tipico dell’illecito colposo5, non essendo determinante, infatti, distinguere tra una funzione giustificante ed una funzione di prevenzione degli eccessi dell’incriminazione colposa, dal momento che entrambe sono conseguenze proprie dell’istituto. 2. Lo sport come attività riconosciuta e tutelata dall’ordinamento giuridico Fatta questa breve premessa in tema di rischio consentito, la cui utilità sarà meglio apprezzata nel prosieguo della trattazione, è ora opportuno entrare più specificamente in medias res, e concentrarsi sulla rilevanza penale dell’attività sportiva, premettendo sinteticamente quelli che sono i caratteri essenziali dell’ordinamento sportivo ed il suo rapporto con l’ordinamento giuridico. Il riconoscimento espresso dell’attività sportiva viene tradizionalmente fatto risalire alla legge 16 febbraio 1942 n. 426, istitutiva del C.O.N.I.. Tale Ente, per espressa volontà del legislatore, è deputato all’organizzazione, promozione e disciplina delle attività sportive, tanto a livello professionale, quanto a livello amatoriale. Lo sport, ad avviso del legislatore del 1942, si connotava di una utilità sociale derivante dal benessere psicofisico che poteva arrecare alla popolazione. Questa impostazione ha assunto rinnovato vigore con l’emanazione della Costituzione repubblicana, che all’art. 32 tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e, conseguentemente, come interesse della collettività. Senza volersi dilungare sulla importanza costituzionale della pratica dell’attività sportiva, può ragionevolmente concludersi nel senso che il legislatore, operando un bilanciamento di interessi di livello comunque costituzionale, ha ammesso che in determinate pratiche sportive si verifichi un rischio per l’incolumità degli stessi partecipanti e di terzi. Naturalmente, alla luce dei rischi connessi a tali pratiche, è del pari logico che l’ordinamento richieda una disciplina di secondo livello molto puntuale nell’individuazione delle norme cautelari che i partecipanti alle attività sportive devono tenere. Pur rimanendo nella prospettiva costituzionale dettata dall’art. 32, non è mancato chi, nella dottrina più risalente, ha interpretato la disposizione appena richiamata in senso diametralmente opposto, proponendo, attraverso di essa, una logica rigoristica diretta a vietare il compimento delle attività sportive pericolose6. Ad avviso di tali Autori, infatti, appariva inconciliabile il 5 3 p e n a l e Fiandaca – Musco, Diritto Penale, Parte Generale, Vª ed., p. 547. 6 In tal senso, si vedano: Prugnola, La violenza sportiva, in Riv. Dir. Sport., 1960, p. 55; Noccioli, Le lesioni sportive nell’ordinamento giuridico, in Riv. Dir. Sport., 1953, p. 252; Tomaselli, La violenza sportiva e il diritto penale, in Riv. Dir. Sport., 1970, pp. 319 e ss.; Bernaschi, Limiti della illiceità penale nella violenza sportiva, in Riv. Dir. Sport., 1976, pp. 4 e ss.. Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e dato testuale dell’art. 32 comma 1 della Cost., secondo cui “la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale”, con la pratica di attività sportive pericolose o già in sé violente, tali da attentare, dunque, all’integrità fisica dei partecipanti. Tale impostazione, evidentemente, era dettata da un’interpretazione troppo ristretta e statica del concetto di salute. Oggi, attraverso il riconoscimento del diritto alla salute non solo come diritto all’integrità fisica, ma come diritto alla libera esplicazione delle facoltà del proprio organismo, la dottrina maggioritaria è orientata nel senso di ritenere ammissibile la pratica di attività sportive pericolose o violente, purché la violenza o il pericolo non eccedano il livello-base funzionale all’esercizio delle stesse7. Per dirimere in modo soddisfacente la prospettata controversia dottrinale, è opportuno fare ricorso all’ormai celebre teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici prospettata da Santi Romano8. Infatti, è innegabile che la pratica sortiva sia soggetta a regole ben precise. Di queste, alcune disciplinano lo svolgimento del gioco, prevedendo apposite sanzioni per chi le contravviene, altre si caratterizzano, invece, per avere una funzione che potrebbe definirsi “burocratica”, nel senso che istituiscono organi decisionali per ciascuna categoria di sport (le Federazioni), ovvero hanno una funzione giurisdizionale, come quelle che fungono da norme processuali nei reclami contro le sanzioni, oppure le clausole compromissorie volute dalle Federazioni sportive per devolvere ad arbitri le controversie interne in cui sono implicati i tesserati. Tali poteri delle Federazioni discendono dall’autonomia che l’ordinamento giuridico riconosce all’ordinamento sportivo, come confermato di recente dall’art. 2 del D.L. 220/2003, secondo cui la Repubblica “riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale”9. Circa il carattere giuridico e la cogenza di queste disposizioni normative, nonché il loro riconoscimento da parte dell’ordinamento statale, potrebbe dirsi, con ugual valore, che si tratta di norme consuetudinarie, ormai vincolanti per la costante applicazione, ovvero che si tratti di norme di secondo livello, che trovano la loro fonte nella legge istituiva del CONI10. Un ulteriore 7 Così Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte Generale, ed. Giuffrè, 1997, p. 311. Dello stesso avviso, Chiariotti, La responsabilità penale nell’esercizio dello sport, in Riv. Dir. Sport., 1959, pp. 237 e ss.; Manzini, Trattato di diritto penale italiano, ed. Utet, Torino, 1985, vol. VIII, pp. 218 e ss.. 8 S. Romano, L’ordinamento giuridico, ed. Sansoni, Firenze, 1945. 9 Cfr. M. Sferrazza, La scriminante sportiva nel gioco del calcio, in Riv. Diritto ed Economia dello Sport, vol. IV, n. 3 del 2008, p. 50. 10 In argomento, per una disamina approfondita, si veda Frattarolo, L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, 2ª ed., Giuffrè, 2005, Milano. 2 0 0 9 51 richiamo, poi, merita il valore anche internazionale che queste norme assumono, dal momento che sia le norme di ciascuna Federazione sportiva, sia le norme del CONI devono risultare conformi a quanto stabilito dalle corrispettive organizzazioni internazionali11 (si pensi alla FIFA e all’UEFA per il calcio e al C.I.O. per le discipline olimpiche: non sarebbe possibile, ad esempio, che la Federazione Italiana Giuoco Calcio consentisse ai propri tesserati l’uso delle mani nel corso delle partite, contravvenendo alle norme FIFA e UEFA, ovvero che il CONI organizzasse le Olimpiadi in Italia senza l’assenso del Comitato Internazionale Olimpico). Questo panorama strutturato di disposizioni vincolanti per gli sportivi, che succintamente si è cercato di presentare, contribuisce a rendere agevole il riconoscimento di un vero e proprio “ordinamento sportivo”, per di più operativo sia a livello nazionale che internazionale. Di tale strutturazione del mondo sportivo ha dovuto prendere coscienza anche il legislatore statale, che ha espressamente riconosciuto l’ordinamento sportivo in due momenti e con due modalità differenti. In un primo tempo, con la citata legge istitutiva del CONI, lo Stato conferiva a tale organo natura pubblicistica, individuando come organi di questo le singole Federazioni sportive. Più di recente, fermo restando il riconoscimento dell’ordinamento sportivo, il d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242 ha interamente riveduto la disciplina, abrogando la legge n. 426 del 1942. Il CONI ha perso la sua natura di ente pubblico non economico, mantenendo però personalità giuridica di diritto pubblico, e le Federazioni sono state inquadrate nell’ambito delle associazioni con personalità giuridica di diritto privato. In definitiva, l’ordinamento sportivo è organizzato in modo piramidale, con all’apice il CONI ed alla base le singole Federazioni sportive. Tale connotazione è mutuata dal livello internazionale, che pure si esprime con connotazione verticistica, individuando nel CIO l’ente di governo. Se dunque è un dato inconfutabile che l’attività sportiva, comunque pericolosa, possa svolgersi all’interno di un’ampia cornice di liceità riconosciuta (anche) dall’ordinamento panale, ben più difficile e controverso risulta teorizzare la natura giuridica dell’istituto in base al quale scriminare la violenza sportiva. Sul punto, in dottrina, sono state proposte quattro ricostruzioni. Una prima teoria ha inteso parlare di “tolleranza dell’Autorità, che non trova (però) giustificazione nel nostro diritto positivo12”. Una diversa ricostruzione fonda sulla supposta esistenza di “una vera e propria causa di giustificazione, consuetudinaria e normativamente disciplinata, consi- 11 Ivi, p. 68 e ss.. 12 Altavilla, La colpa, Torino, 1957, vol. II, p. 241. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a stente nel consenso dell’avente diritto, ovvero nell’esercizio di un diritto”, che renderebbe oggettivamente leciti i comportamenti in parola13. Altri, invece, hanno parlato di “liceità soggettiva del fatto per mancanza dell’elemento intenzionale”14. Un’ultima ipotesi teorica è quella da ascrivere a chi ha ancorato l’effetto di liceizzazione dell’attività sportiva alla stessa legge 16 febbraio 1942 n. 426, istitutiva del C.O.N.I., già citata. Da questa legge, o comunque dalla autorizzazioni da parte degli organi di pubblica sicurezza allo svolgimento delle manifestazioni sportive, non può che discendere la liceità dell’attività intrapresa15. Come è stato bene e puntualmente spiegato in dottrina16, ciascuna delle prospettate teorie si espone inesorabilmente ad obiezioni che rendono necessario cercare altrove la soluzione del problema. Quanto alla tesi della liceizzazione ex lege, o a seguito di provvedimento autorizzativi dell’autorità di pubblica sicurezza, essa dimentica che l’autorizzazione legislativa allo svolgimento delle manifestazioni sportive non implica automaticamente l’accettazione, e dunque la liceità, delle conseguenze dannose prodottesi nel corso di tali situazioni. Da escludersi radicalmente, poi, l’ipotesi secondo cui la liceità del fatto dipenderebbe dalla mancanza dell’elemento intenzionale: questo, al contrario, sussiste per definizione stessa dell’attività sportiva, che è attività volontaria ed orientata verso il fine di prevalere sull’avversario. Nemmeno merita apprezzamento l’idea secondo cui l’attività sportiva sia solo tollerata dall’autorità: tale presunta tolleranza, infatti, non escluderebbe la rilevanza penale del fatto. Più interessanti sono le critiche, del pari mosse, alla ricostruzione che fa leva sulla sussistenza di una causa di giustificazione, normativa o consuetudinaria che sia. Vi è da dire in linea di principio, che una causa di giustificazione consuetudinaria, se fosse realmente tale, e cioè costruita esclusivamente sulla diuturnitas del comportamento, senza fondamento normativo alcuno, sarebbe, a parere di alcuno, inidonea a derogare a norme sanzionatorie penali17. Quanto all’applicabilità tout court del consenso dell’avente diritto, ad essa osta la fondamentale disposizione dell’art. 5 c.c., che rende indisponibile il diritto all’integrità fisica18, e che 13 Sostenitori dell’applicabilità dell’art. 50 c.p. sono: Chiariotti, op. cit., p. 237 e Manzini, op. cit., p. 218; propendono, invece, per l’applicabilità dell’art. 51 c.p., Crugnola, op. cit., p. 53 e Caianello, L’attività sportiva nel diritto penale, p. 273. 14 Florian, Trattato di diritto penale. Parte generale, Milano, 1934, vol. I, p. 656. 15 Di questo avviso, Antolisei, op. cit., p. 311, secondo cui, appunto, la liceità dell’attività sportiva va ravvisata in considerazione del fatto che essa è permessa dallo Stato. 16 Traversi, Diritto penale dello sport, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 4849. 17 Traversi, Diritto penale dello sport, cit., p. 48. 18 Traversi, Diritto penale dello sport, cit., p. 49. p e n a l e 52 potrebbe trovare deroga solo in presenza della necessità di tutelare un diverso diritto fondamentale dell’individuo, e comunque previa autorizzazione espressa dell’interessato. Ben più condivisibile, invece, è la ricostruzione “integrata” prospettata in una interessante quanto equilibrata sentenza della Suprema Corte19. Ad avviso del supremo collegio, infatti, esisterebbe una scriminante qualificata, vale a dire l’esercizio dell’attività sportiva, che, sebbene non codificata, trarrebbe la sua essenza dalla disciplina dell’art. 50 c.p., superando il limite di cui all’art. 5 c.c. attraverso l’applicazione del concetto, già sviluppato sommariamente in precedenza, di rischio consentito. In altre parole, ad avviso della Corte, la scriminante del consenso si applicherebbe agli sportivi che compiono atti lesivi dell’altrui integrità, purché tali atti non eccedano il rischio consentito dal tipo di sport in pratica e dalle condizioni della manifestazione e dei suoi partecipanti (ad es. manifestazione amichevole con principianti, oppure manifestazione agonistica con atleti professionisti). Su questo concetto si tornerà più diffusamente nel prosieguo della trattazione. 3. Tipologie di sport ed astratta rilevanza penale La dottrina penalistica, sebbene non sia riscontrabile un’abbondanza di produzione, ha offerto diverse catalogazioni delle attività sportive pericolose. Esistono, infatti, tre teorie che classificano l’attività sportiva in ragione della quantità di violenza in essa ravvisabile. Una prima classificazione, bipartita, fa capo a chi ritiene di poter suddividere l’attività sportiva in sport senza contatto fisico e sport a forma necessariamente o eventualmente violenta 20. Di diverso avviso è invece la dottrina maggiormente seguita, che suddivide gli sport in tre categorie21: sport necessariamente violenti, nei quali l’impiego di violenza è connaturato alla pratica stessa (ad es. pugilato); sport a violenza eventuale, nei quali l’impiego di violenza non è un carattere tipico della disciplina, ma può divenire estrinsecazione della pratica di gioco (ad es. il calcio ed il rugby); infine, sport non violenti, nei quali è l’attività stessa ad escludere l’impiego di alcuna violenza tra i partecipanti. Una diversa ricostruzione, invece, classifica gli sport in quattro categorie22: sport in cui la violenza è necessa- 19 Cass., Sez. IV, 12 novembre 1999 – 25 febbraio 2000, n. 2286, in Guida al Diritto, n. 18 del 2000, con nota di Amato, Violazione delle regole e condotta imprudente presupposti della responsabilità penale, pp. 82 e ss.. 20 Albeggiani, voce Sport (dir. Pen.), in Enc. Dir., XLII, Milano, 1990, pp. 550 e ss.. 21 G. De Francesco, La violenza sportiva ed i suoi limiti scriminanti, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1983, pp. 607 e ss.. 22 Rampioni, voce Delitto sportivo, in Enc. Giur., X, Roma, 1988, Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e ria per avere la meglio sull’avversario (ad es. pugilato); sport in cui la violenza va necessariamente utilizzata su cose o persone (ad es. rugby); sport a violenza eventuale sulle persone (ad es. calcio); sport ad esclusiva violenza su cose (ad es. tennis). Ad avviso di chi scrive è possibile ipotizzare una classificazione parzialmente diversa da quelle sino ad oggi prospettate dalla dottrina. Infatti, pur sempre mantenendo dei riferimenti essenziali che si colgono in tutte e tre le citate teorie, è possibile distinguere tra: sport in cui l’uso della violenza è necessario perché finalizzato ad avere la meglio sull’avversario (esempi sono il pugilato, la lotta greco-romana, le arti marziali ecc.); sport a contatto fisico, in cui la violenza, superata una certa soglia di tolleranza, è repressa dal regolamento della disciplina, ma non è escluso che si manifesti (esempi sono il calcio, il rugby, il basket, la pallanuoto); sport privi di contatto fisico, in cui il ricorso alla violenza non è proprio della disciplina, ma potrebbe giovare ad uno dei concorrenti (esempi sono l’automobilismo, il motociclismo, il tennis); sport privi di contatto fisico, in cui il ricorso alla violenza non è possibile (esempi sono il golf, l’atletica ecc.). Se si analizza ciascuna delle categoria individuate, è possibile notare che: - nella prima, esempio il pugilato, il ricorso alla violenza è nella natura stessa della disciplina, e si caratterizza per il fatto che l’intero comportamento dell’atleta può assumere solo i connotati del dolo. È evidente, infatti, che il pugile volontariamente porrà in essere una condotta volta ad essere quanto più dannosa per il suo antagonista, al fine di prevalere nell’incontro. È del pari ovvio che astrattamente sia ipotizzabile un persistente stato di legittima difesa perché i colpi sono sempre scagliati nella lotta con l’avversario. Quanto alla tecnica del duello, i regolamenti di gara possono limitarsi ad individuare il rischio consentito esclusivamente attraverso l’indicazione di colpi proibiti o zone del corpo da non attingere; non potranno invece dire nulla circa l’intensità dei colpi e dunque la potenzialità lesiva dei loro effetti. Se ad esempio in un incontro di pugilato uno dei due contendenti sferri un colpo molto potente e ben assestato sul volto dell’avversario, provocandogli un’emorragia cerebrale e conseguentemente la morte, non potrebbe esserci modo per individuare da parte dell’agente un superamento dei limiti del rischio consentito, poiché questi avrà agito in perfetta conformità al regolamento di gara. Si tratterebbe, astrattamente, almeno di omicidio preterintenzionale, dal momento che la morte non è evento voluto dall’agente, ma si verifica in conseguenza delle lesioni da esso poste in essere. Allo stesso modo, in tale categoria non sarebbe riscon- pp. 1 e ss.. 2 0 0 9 53 trabile alcuna ipotesi di responsabilità colposa, visto che negligenza, imprudenza e imperizia non rilevano, essendo la violenza connaturata al risultato da perseguire, e non eventualmente dipesa da comportamento erroneo, ciò facendo venir meno anche la rilevanza del principio generale del neminem laedere. Non pare nemmeno ipotizzabile un comportamento imperito del pugile che cagioni la morte superando la soglia del rischio consentito. Del pari assenti, in tale categoria, sono i rischi di lesioni ai terzi spettatori. - nella seconda categoria, esempio il calcio, il ricorso alla violenza è possibile, stante il persistente contatto fisico tra gli atleti23, ma non serve a raggiungere immediatamente il risultato, oltre al fatto che i comportamenti violenti sono banditi dal regolamento della disciplina. Così, escluse quelle condotte eccedenti le situazioni di gioco e volutamente lesive dell’avversario, che rientrano nelle ipotesi di lesioni dolose (ad esempio, testate a gioco fermo, gomitate, risse a fine partita), nulla avendo a che fare con la partita, che si presenta come mera occasione di contatto tra i litiganti, i comportamenti violenti che si manifestano durante le situazioni di gioco (cd. falli), sono certamente scriminati dall’ordinamento (benché sanzionati dal regolamento della competizione). Eventuali lesioni arrecate all’avversario, sia dolosamente (ad esempio fallo volontario e mirato a fare male, tipo intervento in scivolata da tergo) che colposamente (ad esempio scontro involontario, testata involontaria, fallo volontario ma non diretto a fare male, tipo sgambetto), rientrano necessariamente nella soglia del rischio consentito, poiché sono ipotesi tipiche di contatto tra gli atleti. In tali casi, pare sconsigliabile il ricorso al diritto penale, essendo più opportuno tutelare la salute dell’atleta con idonei meccanismi assicurativi. Eventuali eventi di violenza penalmente rilevanti potrebbero essere solo comportamenti dolosi avulsi dalla situazione di gioco, o rispetto ai quali il gioco è mera occasione24, come nel caso di chi per liberarsi di un avversario gli scagli volontariamente un pugno. Ben più difficile sarebbe ipotizzare una responsabilità colposa dell’atleta, visto che in questi sport il contatto fisico è necessario e rientra in toto nel rischio consentito. Non pare sostenibile, infatti, l’ipotesi di responsabilità colposa per il calciatore che, intervenendo in ritardo, nel chiaro intento di colpire il pallone, colpisca l’avversario provocandogli la rottura di tibia e perone. Tale situazione, appunto, non può che rientrare nel rischio consentito. 23 Si è soliti, infatti, proporre l’esempio della cd. spallata, tollerata dal regolamento di gioco (art. 12, comma 4, n. 2 ) 24 Come del resto chiarito dalla Cassazione penale, Sez. V, sentenza 6 marzo 1992, in Cass. Pen., 1995, p. 565, confermata dalla successiva Cass., Sez. V, 12 maggio 1993. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a Nemmeno in tale categoria sono ipotizzabili rischi per i terzi spettatori. - nella terza categoria, esempi l’automobilismo ed il tennis, la violenza non è connaturata alla disciplina, ma potrebbe giovare ad uno dei contendenti. Nel caso del tennis, invero, l’ipotesi è piuttosto peregrina, ma non è da escludere che uno dei giocatori, dolosamente o per mero accidente, colpisca l’avversario a seguito di un colpo di gioco (ad esempio uno smash) cagionandogli lesioni. A tal proposito, se il comportamento colposo pare del tutto tollerabile (esempio: uno smash male indirizzato, con l’avversario che si era spostato malauguratamente nella stessa direzione del colpo), rientrando nel rischio consentito dallo sport in esame (in cui appunto l’unica ipotesi di lesione è causata da un impatto della pallina sul corpo dell’atleta), maggiori perplessità sono suscitate dall’ipotesi di comportamento doloso. In tale caso, per vero, l’evento di danno non è affatto giustificato dalla situazione di gioco, ma fa divenire la partita mera occasione per un comportamento violento, che fuoriesce del tutto dal rischio consentito per la specifica disciplina. Nell’esempio del tennista che esploda il colpo contro l’avversario, a distanza ravvicinata, nell’unico intento di colpirlo non pare ravvisabile alcuna ipotesi di giustificazione. Discorso a parte va fatto per eventuali lesioni a terzi. Se è fuori di dubbio che sia penalmente perseguibile il tennista che scagli volontariamente la pallina contro uno spettatore, maggiori perplessità si devono avere nella inconsueta e per vero difficile ipotesi in cui, a seguito di un colpo errato, la pallina, in forza di un impatto maldestro con la racchetta del giocatore (cd. steccata), provochi lesioni ad uno spettatore. Qui, al più, un vago spazio per una responsabilità colposa da imperizia potrebbe residuare. Per quanto riguarda l’automobilismo, il discorso da fare è in parte analogo. Anche in tale sport, infatti, il ricorso alla violenza non è proprio della disciplina, ma non per questo è da escludersi, anche perché potrebbe cagionare vantaggio ad alcuno dei concorrenti. Si pensi al caso del pilota che volontariamente impatti contro l’auto dell’avversario, facendogli perdere il controllo della vettura e provocandogli lesioni nell’impatto contro le protezioni del circuito. Tale ipotesi, non dipendendo da situazione di gioco, non può rientrare nel rischio consentito. Per quanto riguarda le condotte colpose, bisogna distinguere a seconda dell’entità dell’errore da cui scaturisce il danno. Se l’errore non eccede la diligenza richiesta per quel particolare sport, allora si rientra in ipotesi di rischio consentito, non penalmente rilevante. Si pensi al caso di impatto tra due vetture in cui il comportamento di uno dei piloti è dipeso dalla necessità di evitare l’impatto con una terza vettura che compiva una manovra azzardata. Se, invece, l’errore eccede la diligenza richiesta da tale disciplina sportiva, non può p e n a l e 54 dirsi esclusa la rilevanza penale. Le lesioni cagionate ad altro concorrente rientreranno nella colpa da imperizia, e segnatamente nella colpa da assunzione. Per quanto riguarda, infine, le lesioni a terzi, in questo tipo di sport sono ben possibili. Non è infrequente, nemmeno nella formula uno, di casi in cui restino coinvolti negli incidenti anche addetti alla pista o commissari di gara. In tali ipotesi, salva la ricorrenza del caso fortuito o della forza maggiore, sulla scorta di quanto detto precedentemente, la responsabilità colposa da imperizia sussiste sicuramente. - nella quarta ed ultima categoria rientrano quegli sport in cui il ricorso alla violenza non è possibile. Nel caso del golf, ad esempio, in nessuna situazione di gioco è ipotizzabile il ricorso alla violenza contro gli avversari. Non sono configurabili nemmeno ipotesi di responsabilità colposa, poiché non si tratta di uno sport in cui si interagisce con l’avversario. Unica, residuale, ipotesi problematica, potrebbe essere quella in cui, a seguito di un colpo sbagliato, si colpisca uno spettatore. Si tratta di un’ipotesi invero irreale, dato anche lo spazio su cui si svolgono le partite di golf, ma, nella malaugurata ipotesi in cui il golfista, con un colpo assolutamente errato, invece di far proseguire la pallina sul campo da gioco, la faccia arrivare sugli spettatori, ferendone alcuni, l’ipotesi di responsabilità colposa non è da escludere, poiché si tratterebbe di imperizia grave, sicuramente tale da eccedere il rischio consentito. 4. La giurisprudenza della Suprema Corte (e non solo): il caso del gioco del calcio Per effetto della classificazione delle attività sportive qui ipotizzata, è possibile altresì operare una sintesi delle condotte penalmente rilevanti che possono prospettarsi nel corso di manifestazioni calcistiche. È bene ricordare, dunque, che la distinzione principale e preliminare è quella relativa alle condotte violente avulse dalle situazioni di gioco e alle condotte violente tipiche ed immanenti alla situazione di gioco. Ferma restando, nelle prime, la responsabilità penale a titolo di dolo, merita di essere riportato un passo estremamente illuminante della sentenza n. 45210 del 21.09.2005 della Suprema Corte: “in tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva, non sussistono i presupposti di applicabilità della causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto con riferimento al cosiddetto rischio consentito (art. 50 c.p.), né ricorrono quelli di una causa di giustificazione non codificata ma immanente nell’ordinamento, in considerazione dell’interesse primario che l’ordinamento statuale riconnette alla pratica dello sport, nell’ipotesi in cui, durante una partita di calcio ma a gioco fermo, un calciatore colpisca l’avversario – che aveva realizzato una rete – con una gomitata al naso, in quanto imprescindibile presupposto della non punibilità Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e della condotta riferibile ad attività agonistiche è che essa non travalichi il dovere di lealtà sportiva, il quale richiede il rispetto delle norme che regolamentano le singole discipline, di guisa che gli atleti non siano esposti ad un rischio superiore a quello consentito da quella determinata pratica ed accettato dal partecipante medio; ne deriva che la condotta lesiva esente da sanzione penale deve essere, anzitutto, finalisticamente inserita nel contesto dell’attività sportiva, mentre ricorre, come nella fattispecie, l’ipotesi di lesioni volontarie punibili nel caso in cui la gara sia soltanto l’occasione dell’azione violenta mirata alla persona dell’antagonista”25. Appare significativo, inoltre, che si sia ricorso ai Tribunali e si sia addirittura pronunciata la Corte di Cassazione solo in occasione di interventi di verificatesi a livello amatoriale (partite di calcetto, ovvero, in quanto assimilabili, partite di pallacanestro). In due sentenze analoghe26, dalle quali si è poi sviluppata una giurisprudenza sempre conforme27, la Suprema Corte ha ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 582 c.p. (lesioni personali volontarie), poiché la condotta violenta a gioco fermo, esulando dal normale svolgimento del gioco, che finiva per divenire mera occasione della stessa, si caratterizzava per il connotato del dolo, essendo l’azione intenzionalmente diretta al solo scopo di nuocere all’avversario. Non si può negare che la ricostruzione, ormai pacifica, operata dalla Cassazione, sarebbe stata applicabile anche in casi celebri avvenuti tra i professionisti. Forse il limite alla persecuzione di tali condotte, interno al sistema penale stesso, sta nel fatto che, ai sensi del comma 2 dell’art. 582, le lesioni non gravi, che provocano una malattia di durata non superiore a venti giorni sono punibili solo a querela dell’offeso. Tra le condotte violente “di gioco”, invece, è possibile sostenere che siano consentite certamente solo quelle che rientrano nelle “esigenze di svolgimento della gara”28. Questa tipologia di condotte, assume una diversa rilevanza a seconda che ci si trovi nel corso di attività sportive ontologicamente violente, rispetto alle quali si dovranno individuare i limiti per la rilevanza del fat- 25 Molto strano, invece, è che in una serie di casi del tutto analoghi, ma occorsi durante una partita tra professionisti, non si sia apprezzata alcuna conseguenza, se non il generale biasimo della critica e della stampa. 26 Si tratta delle sentenze Cass., Sez. V, 12 maggio 1993, n. 5589 e Cass., Sez. V, 21 febbraio 2000, n. 1951, in Riv. Dir. Sport., 2000, 141 e 142, con nota di Chinè, Illecito sportivo e responsabilità penale, i nuovi confini di una scriminante non codificata. In tale ultima pronuncia, la Corte Regolatrice ha ritenuto che “si ha superamento del rischio, e dunque colpa, se il fallo doloso (volontario) sia di tale durezza da comportare la prevedibilità del pericolo dell’evento lesivo a carico dell’avversario”. 27 Tra le varie, Cass., Sez. IV, 12 novembre 1999-25 febbraio 2000, n. 2286; Cass., Sez. V, 8 agosto 2000, n. 8910. 28 Cfr. Cass., Sez. I, 20 novembre 1973, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1975, p. 660, con nota di Rampioni, Sul cd. “delitto sportivo”: limiti di applicazione. 2 0 0 9 55 to a titolo di colpa, oppure che ci si trovi nel corso di sport a contatto fisico, ma nei quali la violenza è espressamente vietata dal regolamento di gara. Quanto alla prima delle prospettate ipotesi, può ben proporsi l’esempio del pugilato. Nell’ambito di tale attività, infatti, gli incidenti non sono mancati, e si può dire che dottrina e giurisprudenza abbiano individuato in modo definitivo i limiti di rilevanza penale delle condotte lesive, finanche di quelle letali 29. Può essere opportuno riportare un caso celebre, verificatosi negli anni ‘8030. Nel corso dell’incontro di pugilato tra Lupino e Laserra, infatti, a seguito dei colpi inferti dal suo avversario nel corso del combattimento, il pugile Laserra era deceduto, e il Lupino era stato incriminato per omicidio preterintenzionale, a seguito di un’inchiesta della Procura di Milano. Nel corso del processo, il pubblico ministero sosteneva la non applicabilità, nel caso di specie della scriminante del consenso dell’avente diritto, essendo il bene leso assolutamente indisponibile. Di diverso avviso, invece, fu il Tribunale di Milano, che con un ragionamento molto corretto sul piano della logica giuridica. Ad avviso del giudice istruttore, infatti, ai fini della responsabilità per omicidio preterintenzionale, mancava il dato della volontarietà (anche) nel reato minore, dal momento che il pugile non intendeva cagionare lesioni all’avversario, ma solo vincere l’incontro. Ma il giudice si spinse anche oltre, ritenendo impossibile anche la derubricazione del fatto a omicidio colposo, poiché il combattimento si era svolto nel pieno rispetto delle norme regolamentari sugli incontri di pugilato31. È possibile, allora, concludere che egli sport a violenza necessaria, la scriminante dell’esercizio di attività sportiva sussista sempre, a condizione che gli atleti in gara rispettino tassativamente il regolamento di svolgimento della competizione. Il mancato rispetto del regolamento dovrà essere provato ai fini della responsabilità penale, e dovrà essere accertato con accuratezza e precisione se lo sconfinamento dell’atleta oltre il rischio consentito sia avvenuto a titolo di dolo, ovvero per colpa32. Di difficile apprezzamento, invece, sono le ipotesi di atti lesivi dell’integrità fisica compiute nel corso di sport che si è definito a contatto fisico, in cui la violenza è repressa dal regolamento della disciplina, ma non è escluso che si manifesti (esempi sono il calcio, il rugby, il basket, la pallanuoto). In questa sede, pare opportuna una prospettazione 29 Per una abbondante disamina della casistica, si veda Frattarolo, L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, 1ª ed., Giuffrè, Milano, 1995. 30 Ampiamente, Traversi, Diritto penale dello sport, cit., p. 53. 31 Nella sentenza il giudice sostenne che “non può essere mai illecito un evento dannoso avvenuto nel corso di un’attività sportiva che si sia estrinsecato nel rispetto dei regolamenti”. Così Uff. istr. Trib. Milano, sentenza 14 gennaio 1985. 32 Così anche Traversi, Diritto penale dello sport, cit., p. 57. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a di diverse ipotesi, nel giuoco del calcio, di “falli di gioco” che hanno portato a conseguenze anche gravi sull’integrità di chi li ha subiti. Un primo caso, forse l’unico ad avere un seguito nelle aule giudiziarie, è quello dello scontro tra l’attaccante della Fiorentina, Antognoni, ed il portiere del Genoa, Martina. Nel caso di specie, l’attaccante viola ebbe a riportare gravi lesioni a seguito di un’uscita del portiere genoano, che, saltando per afferrare il pallone, lo aveva colpito con il ginocchio proteso in avanti. In primo grado il Tribunale di Firenze ritenne il Martina responsabile di lesioni colpose. La Corte d’Appello, invece, ritenne che il comportamento del portiere, perfettamente tipico di una situazione di gioco, fosse da considerarsi attuato secondo le regole del gioco, e che la proiezione in avanti della gamba non fosse motivata dalla intenzione di arrecare danno all’avversario, ma solo dall’esigenza di evitare conseguenze sfavorevoli per la propria squadra, e che comunque il Martina non si fosse rappresentata la possibilità di cagionare lesioni all’avversario33. Più vicino ai giorni nostri è un intervento in “scivolata” che ha destato notevole scalpore tra gli sportivi, per la violenza e la spregiudicatezza dimostrate dall’autore e per le terribili conseguenze riportate dalla vittima. Il fallo in questione, rispetto al quale non a caso si è parlato di entrata “da codice penale”, è avvenuto nel campionato inglese, dove il giocatore dell’Arsenal, Eduardo da Silva, mentre si impossessava del pallone nella metà campo avversaria, veniva raggiunto da una scivolata con piede “a martello” da un difensore del Birmingham City, tale Martin Taylor. Risultato dell’intervento, frattura di tibia e perone, oltre, naturalmente, a un lungo stop dall’attività agonistica. Anche in questo caso, le immagini evidenziano come l’entrata in scivolata del difensore del Birmingham City, oltre ad essere pericolosa in sé, stante appunto la posizione del piede, parallelo alle gambe dell’avversario, non avrebbe mai potuto raggiungere il pallone, essendo essa “in ritardo”, vale a dire essendo la sfera già nella disposizione di gioco dell’avversario. In casi di tale specie, la sussistenza della scriminante dell’esercizio dell’attività sportiva non può considerarsi presupposta. Come peraltro ben chiarito dalla Suprema Corte, negli sport cd. a contatto fisico necessario, l’area del rischio consentito è delimitata dal rispetto delle regole di gioco, ma la violazione di queste va valutata in concreto, “con riferimento all’elemento psicologico dell’agente, il cui comportamento può essere – pur nel travalicamento di tali regole – la colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente intrapresa, o al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario approfittando della circostanza del gioco”34. 33 Così Corte App. Firenze, 17 gennaio 1983. 34 Cass., Sez. V, sentenza 23 maggio 2005, n. 19473. Ad avviso della p e n a l e 56 L’assunto della Suprema Corte è molto interessante, almeno per due implicazioni che da esso conseguono. In primo luogo, come ormai assodato, la violazione del regolamento di gioco comporta, sempre, la riespansione dell’ordinamento penale rispetto a fatti che cadrebbero sotto il giudizio dell’ordinamento sportivo. In tal senso, infatti, la Corte Regolatrice definisce il rischio consentito come quell’area “delineata dal rispetto di quest’ultime regole, che individuano, secondo una preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria (cioè dal regolamento sportivo), il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante deve avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare, in forma agonistica, un determinato sport. Le regole tecniche mirano, infatti, a disciplinare l’uso della violenza, intesa come energia fisica positiva, tale in quanto spiegata – in forme corrette – al perseguimento di un determinato obiettivo, conseguibile vincendo la resistenza dell’avversario”35. In secondo luogo, l’incriminazione del fatto, e la sua stessa procedibilità, si giocherebbero tutte sul piano della prova, o meglio dell’evidenza probatoria. In effetti, i due esempi sopra riportati, sono astrattamente sussumibili o nell’art. 582 comma 1 c.p. (lesioni personali volontarie, procedibilità d’ufficio), ovvero nell’art. 590 c.p. (lesioni personali colpose, procedibilità a querela dell’offeso36). La constatazione è di non poco momento, atteso che la procedibilità d’ufficio potrebbe scattare anche per ipotesi in cui si ha solo l’impressione che il fallo sia conseguenza di una ritorsione contro l’avversario per un precedente torto subito. Allo stesso modo, però, la procedibilità ex officio, e con essa il reato doloso, potrebbero rimanere in disparte se il giocatore, pur agendo nel chiaro intento di vendicarsi, riesca bene a mascherare le sue intenzioni (ad esempio facendo passare del tempo prima di scagliarsi contro l’avversario, ovvero non dando impressione di essere rimasto turbato dal fallo subito, e di non essere intenzionato ad un’imminente vendetta). Questa conclusione non pare francamente condivisibile, poiché appunto darebbe adito a troppe discriminazioni, davvero inopportune. È da ritenersi, infatti, che ancorare la distinzione tra fatto doloso e fatto colposo realizzato nell’ambito di una Suprema Corte l’approfittazione della circostanza di gioco si avrebbe non solo per i falli cd. a gioco fermo, ma anche per quei falli originati da un esclusivo spirito di rivalsa nei confronti dell’avversario, ritorsione o reazione a falli precedentemente subiti, in una logica dunque punitiva o da contrappasso. 35 Cass., Sez. V, sentenza 23 maggio 2005, n. 19473. 36 Questa è l’interpretazione più testuale del dato normativo, ove non si intende, come pure parrebbe possibile, forzare il dato normativo dell’art. 590, comma 5, che prevede la procedibilità d’ufficio per le lesioni che abbiano determinato una malattia professionale, e ritenere che per gli sportivi professionisti le lesioni derivanti da falli di gioco, che comportino impossibilità di partecipare a gare successive, siano da considerarsi malattie professionali. Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e competizione sportiva (per le conseguenze sanzionatorie, ma anche per la possibile procedibilità d’ufficio) ad una stima dell’apparente volontà dell’agente sia oltremodo fuorviante. Si condivide, certamente, che il fatto resterà doloso se l’incontro sportivo è solo occasione per compiere atti di violenza (ad esempio falli a gioco fermo, falli di reazione immediata, lesioni cagionate per motivi estranei alla situazione di gioco). Si condivide del pari che il fatto sarà colposo (pur se rilevante solo nel caso in cui si ecceda il rischio consentito) quando, invece, la violazione delle regole avvenga nel corso di un’ordinaria situazione di gioco, in quanto la violazione consapevole è finalizzata non ad arrecare pregiudizi fisici all’avversario, ma al conseguimento – in forma illecita, e dunque antisportiva – di un determinato obiettivo agonistico37. Non si condivide la possibilità di rinvenire ipotesi di reato doloso tra quelle che secondo quanto appena detto sarebbero colpose, solo perché i motivi siano – presumibilmente – di rivalsa nei confronti dell’avversario. Qualora tali fatti fossero palesemente dolosi, infatti, si potrebbe ricorrere al criterio, già esposto in precedenza, per cui la gara assumerebbe il ruolo di mera occasione. In tal modo si riaprirebbe la strada della rilevanza penale. Questo per una verità di fondo che si basa sull’abitualità degli interventi fallosi nella pratica sportiva. Il fallo, infatti, il più delle volte è commesso perché uno dei competitori si è visto superato dall’altro, e dunque, per impedirgli di andare avanti nell’azione, decide di optare per un comportamento scorretto. È evidente come ci sia sempre in questa circostanza uno spirito di rivalsa: tu mi hai superato, ma io ti butto a terra. Queste considerazioni, unite a quelle precedentemente svolte, fanno propendere per l’inopportunità di considerare come astrattamente dolosi gli interventi di gioco, anche quando siano giustificati da uno spirito di rivalsa nei confronti dell’avversario, essendo più opportuno che tali azioni siano ricompresse esclusivamente nel fatto colposo. Come chiarito dalla Cassazione, infatti, negli sport a contatto fisico necessario “è legittimo attendersi dall’avversario un comportamento rude, ma non anche la violazione del dovere di lealtà, che si risolva nel disprezzo dell’altrui integrità fisica”38. Resta, in ultimo, da prendere atto che anche per la giurisprudenza della Suprema Corte l’accertamento della sussistenza della colpa vada compiuto caso per caso, non essendo individuabili astrattamente dei criteri sicuri su cui fondare una responsabilità che deriva sempre dalle diverse modalità di manifestazione della fattispecie concreta39. 37 Cass., Sez. V, sentenza 23 maggio 2005, n. 19473. 38 Così Cass., Sez. IV, sentenza 20 giugno 2001, n. 24942; già conforme, Cass., Sez. V, sentenza 8 ottobre 1992, n. 9627. Da ultimo, in senso affine, Trib. Udine, sentenza 7 febbraio 2008. 39 In argomento, S. Sica, Lesioni cagionate in attività e sistema delle 2 0 0 9 57 Il criterio di riferimento, dunque, deve sempre essere quello del rischio consentito, da valutare anch’esso in concreto. In altre parole, se nelle manifestazioni sportive tra professionisti, per l’intensità del gioco e per le attitudini fisiche dei partecipanti, i contatti possono assumere di certo un vigore maggiore (aumentando la soglia del rischio consentito), non è da escludere che nelle manifestazioni amatoriali, per l’imperizia intrinseca dei partecipanti, per la loro scarsa preparazione fisica, il rischio consentito sia del pari aumentato in concreto. Per quanto appena sostenuto, al contrario, è lecito attendersi dai professionisti atteggiamenti rudi, ma “controllati”, cioè posti in essere nella consapevolezza della loro attitudine lesiva, mentre al contrario, non è pensabile che dei semplici amatori siano in grado di controllare la coordinazione dei loro movimenti, e dunque comprendere in anticipo le conseguenze dei loro gesti. La culpa dei professionisti, pertanto, dovrebbe essere ritenuta di grado più elevato perché relativa all’operato di soggetti esperti e nel pieno dominio della lex artis. Di contro, per gli amatori non può che essersi in presenza di una colpa lievissima, ai limiti della rilevanza penale, e non di certo adeguata sul piano della punibilità. In ragione di quanto appena esposto, non si ritiene di condividere la più recente giurisprudenza della Corte Regolatrice40, che ha ritenuto colpevole di lesioni gravi un calciatore che, nel corso di una partita tra amici, aveva commesso un fallo in gioco pericoloso (rectius uno sgambetto) contro un avversario. Nella fattispecie, infatti, la Corte ha ritenuto sussistere la penale responsabilità dell’agente sulla scorta del fatto che la condotta posta in essere dallo stesso fosse estranea al carattere amichevole della partita, essendo in una simile occasione non preventivato né accettato il rischio di lesioni così gravi. Questa giurisprudenza, come è facile comprendere, cerca di procedere attraverso l’esame di una serie di circostanze di fatto per giungere alla verifica del travalicamento del limite del rischio consentito. A sommesso avviso di chi scrive, però, la Corte compie un errore di metodo nella disamina di queste circostanze di fatto. Infatti, quanto alle partite di carattere amichevole, può parimenti sostenersi che, in primo luogo, chi partecipa ad una partita con gli amici è ben consapevole che l’inesperienza degli altri può portare a scontri fortuiti e talvolta di seria entità. Secondariamente, i luoghi dove vengono giocate tali sfide non sono abitualmente perfetti, e possono favorire perdite di equilibrio o comunque possono aggravare le conseguenze dei contrasti. In responsabilità, in Corr. Giur., 2000, p. 743. 40 Cass., Sez. V, sentenza 4 luglio – 27 novembre 2008, n. 44306. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a ultimo, è assolutamente arbitrario distinguere tra partita amichevole e partita tra professionisti in ragione della posta in palio: molto spesso, la partitella settimanale tra amici viene sentita con maggiore agonismo di una partita del campionato di serie A. La valutazione sul rischio consentito, si ritiene, deve perciò prescindere dalla disamina di “regole generali” che attengono al carattere della competizione, ovvero alle aspettative degli atleti. I criteri che devono orientare i giudici vanno tratti esclusivamente dal fatto, ossia dalla condotta concretamente posta in essere. Vanno valutate in modo preciso le circostanze (ad esempio, il terreno di gioco, le condizioni atmosferiche), le capacità dell’agente (necessarie a valutare la misura soggettiva della colpa), le modalità dell’azione, ed anche il contesto specifico in cui si è verificato l’evento. Il ricorso alla prova testimoniale sembra il metodo più opportuno per apprendere tutti questi elementi. Solo in tal modo si potrà rendere un giudizio che sia davvero conforme alle esigenze del diritto penale del fatto. E si badi, questo discorso vale allo stesso modo per le partite tra professionisti. Il fatto che la partita abbia un’importanza determinante per i competitori, ovvero che il tenore fisico ed agonistico degli atleti sia notevolmente superiore, non esonera il giudice (se e quando chiamato a decidere) dall’accertamento della responsabilità penale. Non è raro, infatti, che si vedano interventi di gioco di una tale violenza da andare ben oltre quanto consentito dalla disciplina sportiva. È opportuno segnalare che, lo scorso anno, è accaduto in Olanda che la Suprema Corte dell’Aja, giudicando di un intervento falloso accaduto durante una partita di calcio della locale serie cadetta, ha ritenuto sussistente la responsabilità penale in capo al giocatore autore della condotta lesiva41. Per chi avesse modo di 41 Si riportano, di seguito due articoli de La Gazzetta dello Sport, a firma di V. Clari, che hanno approfondito l’accaduto: “Tackle violento: 6 mesi di carcere con la condizionale” del 30-05-2006: “Un tackle da sei mesi di prigione. Non è un’ esagerazione, non è una protesta, ma una sentenza della Corte d’ Appello de L’ Aia. Sei mesi di reclusione, con la condizionale, per il giocatore dello Sparta Rotterdam Rachid Bouaouzan, colpevole di un fallo di gioco che provocò una grave fattura a un avversario. La vicenda risale al dicembre 2004, la vittima era Niels Kokmeijer: l’ impatto fu tanto violento da provocare una frattura con complicazioni, che mise fine alla sua carriera. Bouaouzan si prese 12 giornate di squalifica, a Kokmeijer non bastò, e lo portò in Tribunale. Ad agosto scorso la condanna in primo grado, ora confermata dai giudici d’ appello, perché il giocatore «era consapevole di quello che poteva accadere all’ avversario”; “Quando un brutto fallo vale 6 mesi di galera” del 25.04.2008: “Avete presente il terribile infortunio di Eduardo, attaccante dell’ Arsenal a cui Taylor del Birmingham spezzò di netto tibia e perone con un tackle? È una versione light di quanto accadde, nel dicembre 2004, in Olanda, fra Rachid Bouaouzan e Niels Kokmeijer. Il secondo stava rinviando quando l’ esterno marocchino partì con un tackle volante che era un colpo di kung fu: impatto fortissimo, Kokmeijer che vola per aria e gamba spezzata che si muove in direzione diversa. Il video, su Youtube, è consigliato a un pubblico adulto: molto pulp, molto tarantiniano. La vicenda è vecchia di quasi quattro anni, ma ieri la Corte suprema de L’ Aia ha condannato Bouaouzan a 6 mesi p e n a l e 58 valutare le immagini del fallo incriminato, non si può fare a meno di constatare come il calcio sferrato dal giocatore poi condannato sia un intervento posto in essere in assoluto disprezzo dell’integrità fisica altrui, con un fare più simile alle arti marziali che al gioco del calcio. Questa giurisprudenza della Suprema Corte olandese dovrebbe fare scuola anche nel resto del continente. 5. La scriminante dell’esercizio di attività sportiva tra le cause di giustificazione codificate e l’emersione di una scriminante non codificata La ricostruzione della giurisprudenza che negli anni ha affrontato il problema della rilevanza penale dell’attività sportiva, si inserisce nel solco dell’annosa e forse mai sopita polemica circa l’ammissibilità delle cd. scriminanti non codificate42. Come si è potuto apprezzare in alcuni passi delle sentenze richiamate, la stessa Suprema Corte, talvolta, per non ammettere l’esistenza della scriminante atipica dell’esercizio di attività sportiva, ha preferito inquadrare il fenomeno dello sport, alternativamente, nell’ipotesi dell’esercizio del diritto, ovvero in quella del consenso dell’avente diritto. Le argomentazioni della Corte Regolatrice non erano affatto ignote alla dottrina più risalente, che anzi si divideva proprio tra coloro che propendevano per l’una piuttosto che per l’altra delle citate soluzioni. È il caso di cominciare con l’analisi delle ragioni di coloro che hanno ricostruito l’attività sportiva nell’ambito della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto 43. di prigione: il fatto, oltre a suggerire che i tempi della Giustizia non sono lenti solo in Italia, è quasi una prima assoluta. Una sentenza definitiva di condanna per un fallo di gioco. La Corte ha stabilito che si tratta di «un intervento sconsiderato che presuppone coscienza di poter recare danno all’ avversario». Kokmeijer, dopo anni di interventi, ha chiuso la carriera, con 100 mila euro di risarcimento (fuori processo) dallo Sparta, club di Bouaouzan. Il marocchino oggi è al Wigan, e non andrà in galera, grazie alla condizionale. Ma la sentenza resta, e farà giurisprudenza, almeno in Olanda. In Italia una causa simile porterebbe alla stessa conclusione? L’ avvocato Mattia Grassani, esperto di diritto sportivo, lo esclude: «Quella sentenza secondo il nostro codice è praticamente impossibile. Un fallo, con palla in movimento, gode dell’ “esimente sportiva”. Chi compie un gesto lesivo, per quanto fuori tempo e duro, ma all’ interno di una dinamica del gioco, non può essere condannato penalmente». Lo conferma una sentenza di marzo: l’ attaccante Andrea Fregona è stato assolto a Feltre (Belluno). In una gara di Eccellenza aveva rotto il naso a un difensore, sgomitando per liberarsi da una trattenuta in contropiede. Nasi rotti, gambe spezzate, condanne penali: un altro calcio è possibile. Si spera”. 42 Si confronti, approfonditamente, Marinucci, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1983, p. 1190 e ss.; Miele, Cause di giustificazione, in Enc. Dir., VI, p. 596. 43 Si vedano in particolare, Nuvolone, I limiti taciti del diritto penale, 1947; Bricola, Aspetti problematici del rischio consentito nei reati colposi, in Bollettino dell’Istituto di diritto e procedura penale dell’Università di Pavia, 1960-1961, p. 123; Zaganelli, L’illecito penale nell’attività sportiva, in Riv. Dir. Sport., 1963, p. 222; De Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e Secondo questa dottrina, le condotte sportive violente, in quanto previste dai regolamenti delle varie discipline riconosciute dallo Stato, possono essere ricomprese fra le attività autorizzate dall’ordinamento. In altre parole, coloro che partecipano ad una competizione sportiva sono autorizzati all’esercizio della violenza tipica di tale disciplina, atteso che una certa dose di fisicità è legittimata dall’ordinamento stesso44. Il riferimento all’esercizio del diritto consente di affermare che colui che esercita un proprio diritto, non può essere ritenuto responsabile nell’ipotesi in cui leda un interesse altrui, poiché si avvale di una posizione di vantaggio, riconosciutagli dall’ordinamento, capace di prevalere sugli altri interessi in conflitto45. Le critiche che possono muoversi ad una simile ricostruzione sono diverse. In primo luogo, non è dato capire, ed è controverso tra gli stessi sostenitori di questa teoria, se la scriminante operi solo nell’ambito delle manifestazioni organizzate dal CONI, essendo la legge istitutiva di tale organo la fonte del diritto, ovvero se il diritto abbia un riconoscimento più generale da parte dell’ordinamento, e dunque ricorra anche nel corso di competizioni amatoriali, o comunque di carattere privato46. Ben più complesso, invece, è il problema che si viene a creare in presenza di condotte violente attuate in violazione di regole di gioco: queste condotte risulterebbero ex se necessariamente punibili. Il ragionamento è evidentemente il seguente: se il diritto ricorre solo per quella dose di violenza riconosciuta dalla disciplina di gara, esso cessa di esistere non appena la condotta violenta ecceda tale disciplina. L’imbarazzo applicativo sarebbe davvero enorme, poiché allora ogni violazione del regolamento di gioco dovrebbe essere considerata penalmente rilevante. In ragione di tali difficoltà applicative, altra parte della dottrina ha preferito cercare di rinvenire il fondamento dommatico della non punibilità dell’attività sportiva nella scriminante del consenso dell’avente diritto47. 44 45 46 47 Francesco, La violenza sportiva ed i suoi limiti scriminanti, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1983, p. 597; Mantovani, Esercizio del diritto (Diritto Penale), in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Milano, p. 647; Crugnola, La violenza sportiva, in Riv. Dir. Sport., 1960, p. 73; De Sanctis, Il problema della illiceità della violenza sportiva, in Arch. Pen., 1967, I, p. 98; Caianello, L’attività sportiva nel diritto penale, p. 273. Sferrazza, La scriminante sportiva nel gioco del calcio, cit., p. 58. Sferrazza, La scriminante sportiva nel gioco del calcio, loc. ult. cit. Per il valore scriminante solo nell’ambito delle manifestazioni del CONI, si veda Frattarolo, La responsabilità civile per le attività sportive, Milano, 1984, p. 34; di diverso avviso, invece, Dellacasa, Attività sportiva e criteri di selezione della condotta illecita tra antigiuridicità e colpevolezza, in Danno e Resp., 2003, p. 532. Si tratta di una ricostruzione molto diffusa: si vedano, al riguardo Delogu, La teoria del delitto sportivo, in Annali di Diritto e Proce- 2 0 0 9 59 Secondo questa ricostruzione, la partecipazione a competizioni sportive comporterebbe l’accettazione implicita dei rischi ad essa connessi e, quindi, anche il consenso alle condotte di violenza sportiva ed alle conseguenze lesive a queste riconducibili. Anche tra gli Autori che propendono per questo inquadramento dommatico, tuttavia, si apprezzano delle distinzioni, specie per quel che riguarda i limiti di applicazione della scriminante in parola. Secondo alcuni, infatti, risulta comunque invalicabile il limite stabilito dall’art. 5 c.c.48, che sancisce il divieto di atti di disposizione del proprio corpo. Altri, invece, ritengono non congrua, perché troppo restrittiva, questa impostazione, e si avvalgono di limiti alla disponibilità del diritto di gran lunga più ampi, rintracciati sulla base di norma consuetudinarie. Si segnala, in particolare, la posizione di chi ritiene che l’ambito dei comportamenti giustificati vadano ricompresi tutti i comportamenti violenti che, pur non previsti dai regolamenti sportivi, sarebbero giustificati dal consenso in quanto rientranti nella inevitabile e normale realtà della competizione 49 . Più in generale, comunque, è il caso di ricordare che la maggior parte dei sostenitori della teorica in questione, propende per una limitazione di operatività del consenso ai soli casi in cui le lesioni siano conseguenza di un comportamento comunque conforme alle regole del gioco50. Senza dilungarsi oltre circa le ragioni a sostegno della ricostruzione in parola, è opportuno, invece, analizzare più dettagliatamente i motivi che portano ad escludere radicalmente l’opportunità di ricomprendere l’esercizio dell’attività sportiva nell’ipotesi scriminante del consenso dell’offeso. In primo luogo, seguendo un insegnamento tradizionale della dottrina penalistica51, si suole obiettare che la 48 49 50 51 dura Penale, 1932, p. 1034; Chiarotti, La responsabilità penale nell’esercizio dello sport, in Riv. Dir. Spor., 1959, pp. 259 e ss.; Carli, Le lesioni colpose nel gioco del calcio, in Riv. Dir. Sport., 1963; Rampioni, Sul cosiddetto delitto sportivo: limiti di applicazione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1975, pp. 661 e ss.; Riz, Il consenso dell’avente diritto, Padova, 1979, pp. 250 e ss.; Marini, Violenza sportiva, in Nss. D. I., XX, 1975, p. 987; Pedrazzi, Consenso dell’avente diritto, in Enc. Dir., IX, p. 151. Chiarotti, La responsabilità penale nell’esercizio dello sport, cit., p. 261; Marini, Violenza sportiva, cit. Riz, Il consenso dell’avente diritto, cit., p. 246. Ampio riconoscimento a questa impostazione si rinviene nella dottrina tedesca: Stree, in Schönke e Schröder, Strafgesezbuch Kommentar, Munchen, 1985, p. 1422. Non a caso, chi si è interessato delle conseguenze civilistiche dei danni riportati in occasione di simili lesioni ha provveduto a circoscrivere la sfera della irrisarcibilità (dovuta al ricorrere della scriminante) ai soli fatti rientranti nell’alea fisiologica dello sport praticato: così Galligani – Piscini, Riflessioni per un quadro generale della responsabilità civile nell’organizzazione di un evento sportivo, in Riv. Dir. Ec. Sport., vol. III, n. 3, 2007, p. 119. La dottrina, tradizionalmente, usa richiedere la necessaria sussistenza dei seguenti requisiti di validità del consenso: libertà o spontaneità, proveniente da un soggetto legittimato, avente ad oggetto diritti Gazzetta 60 F O R E N S E causa di giustificazione di cui all’art. 50 c.p. non possa operare al fine di rendere lecite lesioni all’integrità fisica del disponente. In altre parole, nessun individuo è legittimato a disporre validamente della propria sfera fisica e pertanto nessun valore avrebbe l’atto con cui dovesse acconsentire a subire lesioni da parte di terzi52. L’argomento più solido per screditare la teorica del consenso, comunque, resta quello collegato al requisito della conformità alle regole del gioco, esposto appena sopra. Si suole evidenziare, infatti, che per essere valido un consenso di tal fatta, il disponente dovrebbe fare espresso riferimento ai soli comportamenti conformi alle regole del gioco. Infatti, la partecipazione all’evento sportivo non implica, di per sé considerata, alcuna accettazione alla lesione dei propri diritti53. Non si dimentichi inoltre che, per essere validamente prestato secondo i canoni del diritto penale, il consenso deve avere ad oggetto una specifica circostanza di lesione, il che imporrebbe che lo sportivo, al momento della partecipazione, possa prefigurarsi ogni possibile ed eventuale conseguenza dannosa patibile durante il gioco54. In ultimo, va detto che nei casi di condotte violente conformi alle regole del gioco, il consenso non verrebbe affatto in rilievo, trattandosi di comportamenti già autorizzati dall’ordinamento giuridico. Alla luce di quanto esposto sinora, sembra preferibile prospettare una diversa ricostruzione dommatica dell’esercizio dell’attività sportiva. La tesi che in questa sede si ritiene di condividere è quella, peraltro già fatta propria dalla Suprema Corte in diverse occasioni, secondo la quale l’esercizio dell’attività sportiva configuri essa stessa una scriminante, non codificata ma immanente l’ordinamento, che si ricava da un’interpretazione analogica del consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p. e dell’esercizio del diritto ex art. 51 c.p., idonea a superare il limite dell’indisponibilità dell’integrità fisica attraverso l’applicazione del concetto di rischio consentito55. In altre parole, in ragione del principio di non contraddizione, che informa l’intero ordinamento penale quanto alle ipotesi di giustificazione, lì dove viene riconosciuto ai consociati il diritto di praticare una de- 52 53 54 55 disponibili, specificità. Cfr. Fiore, Diritto Penale, Parte Generale, vol. I, pp. 314-318; Fiandaca – Musco, Diritto Penale, Parte Generale, pp. 258 – 264. Questa argomentazione fonda essenzialmente sul portato dell’art. 5 c.c. In argomento, Nuvolone, I limiti taciti del diritto penale, cit., p. 170; Cordero, Appunti in tema di violenza sportiva, in Giurisprudenza Italiana, 1950, p. 316; Perseo, Sport e responsabilità, in Riv. Dir. Sport., 1962, p. 265; Zaganelli, L’illecito penale nell’attività sportiva, cit., p. 207; Tomaselli, La violenza sportiva e il diritto penale, cit., p. 319; Salazar, Consenso dell’avente diritto e indisponibilità dell’integrità fisica, in Cass. Pen., 1983, pp. 53-62. Salazar, Consenso dell’avente diritto e indisponibilità dell’integrità fisica, cit. Così Dinacci, Violenza sportiva e liceità penale: un mito da superare, in Giur. Merito, 1984, II, p. 1210. Così Cass., Sez. IV, 12 novembre 1999 – 25 febbraio 2000, cit. terminata condotta, non può successivamente inserirsi la sanzione penale, se non al ricorrere di ben determinate circostanze eccezionali, che configurano una sorta di eccesso nel ricorso alla giustificazione e fanno sconfinare la condotta oltre la soglia di rischio ammessa. Per saggiare la validità della ricostruzione appena prospettata, è il caso di fare riferimento alle critiche più comuni che pure le sono state mosse. Preliminare risulta una breve digressione circa la vexata quaestio dell’ammissibilità di ipotesi di giustificazione non codificate e per di più ricavate in via analogica56. È un dato incontrovertibile, infatti, quello secondo cui il ricorso all’analogia in materia penale sia espressamente vietato. Esulano da tale divieto quelle norme che, seppure ricomprese nel codice penale, non hanno natura penalistica, essendo anzi ontologicamente dirette alla neutralizzazione degli effetti di altra norma penale57. È questo il caso, infatti, delle cause di giustificazione, rispetto alle quali, si dice, è sempre possibile il ricorso all’analogia in bonam partem, in senso cioè favorevole al reo. Purchè questa costruzione sia corretta, però, la norma di favore suscettibile di interpretazione analogica deve essere espressione di un principio generale dell’ordinamento. Risolto, dunque, il quesito circa l’ammissibilità delle cd. scriminanti non codificate, resta da definire il sistema di operatività della causa di giustificazione dell’esercizio di attività sportiva. In primo luogo, va detto che esulano dall’applicabilità di alcuna forma di giustificazione quelle condotte violente rispetto alle quali la competizione sportiva sia mera occasione58. In tali circostanze, infatti, si è in presenza di condotte dolose che non vivono di alcun legame con la competizione sportiva, se non, appunto, per il dato che esse siano intervenute a margine della gara stessa. Le condotte per le quali, invece, è astrattamente applicabile la scriminante in parola sono tutte le condotte “di gioco”, nelle quali, cioè, l’agente persegue una finalità propria della disciplina praticata, cercando di avere la meglio sull’avversario. Per avere astratta rilevanza penale, inoltre, si deve trattare di condotte che, in qualsiasi modo, eccedano i 56 Cfr. Nuvolone, I limiti taciti della norma penale, 1947; Marinucci, Fatto e scriminanti, cit., p. 1228; Miele, Cause di giustificazione, cit., p. 597, il quale precisa che “le situazioni relative alle cause di giustificazione non previste acquistano rilevanza o per via indiretta da norme dell’ordinamento giuridico, o esclusivamente dai principi che riguardano le altre cause di giustificazione”. 57 Cfr. Fiore, Diritto Penale, cit., p. 81, secondo cui “le norme che ˝tolgono˝ illiceità al fatto penalmente sanzionato, infatti, non sono norme penale, ma autonome norme non penali, aventi effetto sull’intero ordinamento giuridico: ne segue senza strappi la loro possibile estensione analogica”. 58 Cass. sentenza n. 45210 del 21.09.2005, cit. Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e limiti posti dallo stesso regolamento dei gioco59, poiché diversamente si rientrerebbe nella mera accidentalità. Detto questo, occorre comprendere in che misura la condotta fallosa debba eccedere la normale tollerabilità per divenire penalmente rilevante. Valgono, infatti, le considerazioni svolte all’inizio in tema di rischio consentito. Assumono di certo rilevanza penale tutte le condotte che dimostrano di essere poste in essere in assoluto spregio dell’integrità fisica altrui60. In occasioni del genere, infatti, non ha alcun rilievo né il carattere della competizione, né le abilità individuali dell’agente, poiché la condotta posta in essere è di certo irragionevole, e dunque non consentita, in quanto in aperto contrasto con gli stessi valori che orientano l’attività sportiva. In casi simili, non si può invocare alcun criterio di adeguatezza sociale, ovvero di meritevolezza di tutela dello sport, poiché, al contrario, è socialmente riprovevole chi pone in essere un comportamento caratterizzato da un elevato grado di imprudenza. Per fare un esempio, ci si può riferire a quagli interventi fallosi in cui l’agente si prefigura l’eventualità di impattare con l’avversario come più probabile rispetto all’impatto con il pallone e, nonostante ciò non si astiene dall’azione. È evidente come l’esempio appena prospettato rientri nella categoria della colpa cosciente, poiché si deve presumere, fino a prova contraria, che la risoluzione ad agire dell’agente non sia dovuta al desiderio di far male all’avversario, quanto invece a quello di tentare un intervento disperato al fine di prevalere su di esso. Unitamente al dato della irragionevolezza dell’azione, poi, deve sussistere un evento di danno apprezzabile in termini di lesioni. Non è decisiva (se non ai fini della sanzione) l’entità delle conseguenze dannose, ma è necessario che l’azione abbia prodotto delle lesioni penalmente apprezzabili. In ogni altra circostanza, al contrario, potrà ritenersi operante la scriminante dell’esercizio dell’attività sportiva. Ogni condotta fallosa, infatti, costituisce una violazione del regolamento di gara, e come tale assume rilevanza in termini di colpa. L’applicabilità della causa di giustificazione dell’attività sportiva, però, esonera dalla sanzione penale tutti i comportamenti che sono connaturati alla disciplina praticata. Non assumono, pertanto, alcuna rilevanza né il carattere della competizione, né tantomeno l’abilità dei competitori: questi dati, semmai, potranno valutarsi ai fini del giudizio per il grado della colpa in presenza di comportamenti irragionevoli. Ed infatti, addirittura, nelle competizioni amichevoli, i cui interpreti sono per lo più amatori, la capacità di 59 Fiore, L’azione socialmente adeguata, cit., p. 173. 60 Cass. Sez. IV, 29 gennaio 1988, n. 1021, cit.. 2 0 0 9 61 controllo della vis sportiva risulta più difficile. Chi non gode di una adeguata preparazione atletica, avrà maggiori difficoltà a controllare gli impulsi del proprio corpo, ed avrà di conseguenza più probabilità di colpire accidentalmente altri giocatori. In casi del genere, l’unico criterio per affermare la penale responsabilità dell’agente attiene all’effettiva adeguatezza dell’intervento rispetto alla circostanza di gioco. E si badi che quando ci si esprime in termini di adeguatezza, non si vuole individuare una generica categoria di difficile apprezzamento perché rapportata ad un dato vago ed inafferrabile come la socialità61. L’adeguatezza deve consistere in un giudizio di conformità rispetto alla disciplina sportiva praticata. Un esempio potrà forse essere utile per comprendere quel che si va dicendo: il “placcaggio” è un comportamento tipico del rugby, che consiste nell’afferrare con violenza l’avversario per impedirgli ogni avanzamento. Può spingersi fino all’eventualità che l’agente si scagli con tutto il suo corpo contro il proprio antagonista, fino ad atterrarlo. Un comportamento del genere, se praticato in una partita di calcio, sarebbe del tutto irragionevole, poiché assolutamente inconferente con quella disciplina sportiva. Infatti, nel calcio l’uso delle braccia non solo è espressamente vietato, ma è anche illogico, visto che si tratta di uno sport in cui il pallone viene giocato con i piedi. È ovvio, allora, che usando le mani non sia affatto possibile prevalere sull’avversario, poiché comunque la condotta configurerebbe una violazione del regolamento di gioco. Discorso analogo vale, sempre nel gioco del calcio, per gli interventi di piede in scivolata, in cui il pallone sia irraggiungibile da parte dell’agente, ovvero ancora nel gioco del calcio a cinque, in cui, ad esempio, le scivolate sono espressamente vietate. In tutti questi casi, l’agente non avrebbe motivo “sportivo”di porre in essere la condotta lesiva, e dunque, con assoluta imprudenza, pone in essere un comportamento potenzialmente aggressivo dell’integrità fisica altrui, senza che ricorrano più i requisiti di sussistenza della scriminante62. Anche le scriminanti non codificate, infatti, devono sottostare agli stessi principi che governano il sistema delle scriminanti, primi fra tutti quelli di necessità e di proporzionalità. Specialmente con riferimento alla proporzionalità, e tenendo a mente la ricostruzione che si è proposta della scriminante dell’esercizio dell’attività sportiva, è possibile concludere che in tutti i casi ora esposti la rilevanza penale del fatto come delitto colposo è ascrivibile ad una 61 Sferrazza, La scriminante sportiva nel gioco del calcio, cit., p. 62. 62 Non deve dimenticarsi, inoltre, che la sussistenza di una causa di giustificazione rende il fatto non antigiuridico, e come tale improduttivo di alcuna conseguenza sanzionatoria a carico dell’autore, anche in ambito civilistico. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a fondamentale norma di parte generale: l’art. 55 c.p., che sanziona l’eccesso colposo nella commissione di uno dei fatti previsti dagli artt. 51-52-53-5463. Tale norma spiega i motivi che portavano, in precedenza, ad escludere l’ammissibilità di un’imputazione dolosa per i fatti di gioco, in quanto la sua applicazione comporta che qualora ricorrano i presupposti oggettivi di una causa di giustificazione, e l’autore, agendo nella consapevolezza di realizzare una condotta conforme a quella prevista nella norma permissiva, cagioni una lesione di beni più grave di quella strettamente 63 Che l’elenco non abbia carattere tassativo pare un dato ormai acquisito in dottrina. In argomento, si veda Fiore, Diritto Penale, cit., p. 362. p e n a l e 62 funzionale alla realizzazione del fine contemplato nell’ipotesi giustificatrice, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è previsto come delitto colposo 64. Più precisamente, si verserebbe in quella particolare figura di eccesso costituita dall’uso improprio dei mezzi di azione. 64 Si badi che l’eccesso, per essere configurabile, deve seguire un comportamento colposo, e non volontariamente lesivo: cfr. Cass. Sez. I, Sentenza n. 45425 del 25/10/2005, secondo cui “occorre poi procedere ad un’ulteriore differenziazione tra eccesso dovuto ad errore di valutazione ed eccesso consapevole e volontario, dato che solo il primo rientra nello schema dell’eccesso colposo delineato dall’art. 55 c.p., mentre il secondo consiste in una scelta volontaria, la quale comporta il superamento doloso degli schemi della scriminante”. Gazzetta F O R E N S E M a r z o • a p r i l e ● Coltivazione di stupefacenti e valutazione dell’offensività concreta della condotta Nota a Cass. Pen., Sez. IV, 14 gennaio 2009, n. 1222 ● Valeria Parlato Dottore in giurisprudenza e specializzata presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali “Federico II” 2 0 0 9 63 STUPEFACENTI E TOSSICODIPENDENZA – ATTIVITÀ ILLECITE – COLTIVAZIONE – PIANTE NON ANCORA GIUNTE A MATURAZIONE – INOFFENSIVITÀ DELLA CONDOTTA- FATTISPECIE. (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, Art. 73; Art. 49 c.p.) Non è punibile la condotta di coltivazione di piante da stupefacenti allorquando si tratti di piante non ancora giunte a maturazione e che, quindi, non abbiano ancora prodotto sostanza avente efficacia stupefacente o psicotropa. (Nella specie, trattavasi di 23 piantine di cannabis sativa, che, per il mancato completamento del ciclo produttivo, solo in via prognostica poteva prevedersi che avrebbero prodotto una notevole quantità di principio attivo). Cass. Pen., Sez. IV, sent. 28 ottobre 2008 – 14 gennaio 2009, n. 1222 Presidente Mocali; Relatore Bevere *** Nota a sentenza In materia di stupefacenti la giurisprudenza ha avuto più volte occasione di affrontare il tema dell’offensività della condotta di coltivazione di piantine di cannabis, sia in relazione alla tipologia dell’attività posta in essere sia in relazione alla tipologia di sostanze oggetto di coltivazione. Con la sentenza n. 1222 del 14 gennaio 2009 la Corte di Cassazione, passando in rassegna gli orientamenti giurisprudenziali fino ad oggi seguiti dalla stessa Suprema Corte e dalla Corte Costituzionale, analizza il delicato tema del rispetto del principio di offensività nell’ambito dei reati di pericolo presunto e, più in particolare, quello dell’individuazione del bene tutelato dal legislatore con la normativa in materia di stupefacenti1. In primo luogo, va precisato che il principio di offensività – in forza del quale “nullum crimen sine iniuria” – trova riconoscimento, sia pure implicito, nella Costituzione, dal momento che la sanzione penale, che si sostanzia nella compressione di valori costituzionali quali la libertà o la dignità personale, si giustifica solo se volta a compensare l’offesa a beni-interessi di pari rango costituzionale. Si è attribuito a tale principio un duplice connotato, in astratto ed in concreto: sotto il primo profilo, si impone al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo o comunque l’esposizione a pericolo di un bene-interesse oggetto di tutela penale (principio di offensività in astratto); sotto il profilo della concretezza, si richiede al giudice che, nel giudizio di conformità al tipo, verifichi anche l’effettiva lesione o esposizione a pericolo del bene-interesse protetto (principio di offensività in concreto)2. 1 cfr. D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, artt. 73 e 75 2 Corte Cost., 7 luglio 2005, n. 265, in Foro it., 2006, I, 18; Giur. Cost., Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a Per quanto il rispetto del principio di offensività sia più agevolmente assicurato nella formulazione di reati di danno o di pericolo concreto, i problemi rilevano qualora il legislatore scelga di considerare la fattispecie come reato di pericolo presunto. In quest’ultimo caso, infatti, la descrizione del reato è limitata alla condotta che di per sé è già considerata pericolosa, al giudice è affidato solo il compito di accertare che il reo abbia posto in essere quella condotta, essendo escluso, infatti, il potere di verificare che dalla condotta sia effettivamente derivato un pericolo. Sul tema, la Corte Costituzionale3 ha ritenuto che “la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanza stupefacente integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta”. Ad opinione della Suprema Corte, di conseguenza, in ossequio al principio di offensività inteso nella sua componente concreta, al giudice spetta solo di verificare se la condotta posta in essere dall’agente corrisponda o meno a quella che la normativa in materia di stupefacenti considera idonea a mettere in pericolo il bene giuridico tutelato. Tant’è vero che la sussistenza del reato ex art. 73 D.P.R. 309/1990 è stata esclusa tutte le volte che la sostanza stupefacente o psicotropa oggetto di coltivazione, pur essendo ricompresa nelle tabelle allegate alla legge, fosse priva di qualsiasi efficacia farmacologica e, quindi, inidonea a determinare l’effetto drogante; in definitiva, il reato non sussiste ogni qualvolta la condotta sebbene tipica sia inoffensiva. Per verificare l’idoneità offensiva della condotta a ledere o porre in pericolo il bene-interesse protetto, va preliminarmente individuato il bene giuridico che il legislatore ha inteso tutelare attraverso il D.P.R. 309/1990. La Corte di Cassazione nella sentenza in commento individua nel diritto alla salute il bene tutelato dalla disciplina sugli stupefacenti4, conformemente alle opinioni espresse dalla stessa Corte con sentenza 1679/19955 e dalla Corte Costituzionale con sentenza 360/19956; più nel dettaglio, il Giudice delle leggi precisa che “il bene della salute va inteso non come diritto soggettivo individuale, ma come bene di cui l’individuo è portatore nell’interesse della collettività”. 3 4 5 6 2005, 2432; Cass. pen., 2005, 3320; Cass., Sez. II, 13 gennaio 1995, n. 360, Massime ufficiali, Mass., 1995; Corte Cost., 11 luglio 2000, n. 263, in Cons. Stato, 2000, II, 1181, Giust. pen., 2000, I, 263. Cass., Sez. IV, 15 novembre 2005, in Ced Cass., rv. 232794 (m), Foro Repertorio: 2006, Stupefacenti [6550], n. 39. Cfr. D.P.R. 9 ottobre 1990 n.309 artt.73 e 75. Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 13 novembre 1995, n. 1679, in Cass. pen. 1997, 175 nota Gallucci, Giust. pen., 1997, II, 230 Dir. e giur. agr. 1997, 522 nota Lamantea. Cass., Sez. II, 13 gennaio 1995, n. 360, cit. p e n a l e 64 Risulta evidente, a questo proposito, la dissonanza tra quest’affermazione e la recente sentenza della stessa Corte che, sul medesimo tema, aveva affermato che l’oggettività giuridica non si limitasse alla salute pubblica estendendosi altresì all’ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, nonché al normale sviluppo delle giovani generazioni, di certo messi in pericolo da una qualsiasi attività di diffusione di sostanze stupefacenti. A tal proposito, la Corte ha precisato che questi ulteriori beni-interessi, per lo più strumentali alla tutela del bene della salute, non sono contemplati dalla Carta Costituzionale e non sono idonei, quindi, da soli a giustificare, sotto il profilo della ragionevolezza, quel sacrificio di valori costituzionali quali la libertà o la dignità personale derivanti dall’applicazione della sanzione penale; nel doveroso bilanciamento tra principi di rango costituzionale, come il diritto alla salute ed il diritto cardine alla libertà personale, questi beni potranno tuttavia ricorrere “come valori guida di scelte di politica criminale, prevalentemente contingenti”. In conformità a questi ragionamenti, la Corte ha sancito che “dinanzi al paradosso di condotte tipiche ma in concreto non pericolose per la salute individuale e collettiva tutelata dalla Costituzione, il giudice, guidato dal combinato disposto dei principi di offensività e ragionevolezza, deve chiedersi se possa esercitare il potere punitivo dello Stato, sacrificando la libertà personale, per tutelare il bene della salute, dinanzi a una offensività, non ravvisabile neanche in grado minimo, nella singola condotta dell’agente”. Già di recente le Sezioni Unite sono intervenute nel riconoscere rilevanza penale alla condotta di coltivazione domestica di piantine di cannabis quale reato di pericolo presunto, a prescindere dalla destinazione del prodotto ad uso personale; il pericolo che si intende scongiurare è quello della diffusione del principio attivo della sostanza stupefacente, che è insito nella mera condotta di coltivazione. La messa a dimora di piantine, infatti, qualunque sia il metodo utilizzato – sia esso imprenditoriale, sia esso domestico – costituisce in ogni caso illecito penale, poiché la coltivazione implica di per sé un incremento del principio attivo della sostanza da cui deriva il pericolo di diffusione. Tuttavia, la stessa Corte aveva previsto, in quella sede, la possibilità che il giudice in concreto riscontrasse l’inoffensività del reato, qualora la coltivazione risultasse inidonea in concreto a produrre ulteriori piantine o ad incrementarne il principio attivo, escludendone così la rilevanza penale. Nel caso esaminato con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione esclude proprio la rilevanza penale della condotta tipica che, per essere meritevole di punizione, oltre ad avere ad oggetto sostanze stupefacenti rientranti tra quelle di specifici elenchi e tabelle, deve anche avere efficacia psicotropa o stupefacente. Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e Nella fattispecie in esame i Supremi Giudici attestano l’assenza del requisito sostanziale della effettiva capacità o potenzialità lesiva della condotta concreta di coltivazione poiché, se le piantine messe a dimora non sono ancora giunte a maturazione, non è possibile accertare in concreto, ma solo in via prognostica, la possibilità di produrre una quantità di principio attivo 2 0 0 9 65 idonea alla diffusione. Ne discende, dunque, che sebbene la coltivazione di piantine di cannabis costituisca, secondo la giurisprudenza unanime, un reato di pericolo presunto, ciò non esclude che, in conformità al principio costituzionale di offensività, la sussistenza del pericolo vada accertata in concreto in base ad elementi certi e non meramente ipotetici. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a p e n a l e 66 ● • SS.UU., Sentenza n. 6591 del 27 novembre 2008 Ud. (dep. 16 febbraio 2009) Rv. 242152 Presidente: Carbone V. Estensore: Rotella M. Relatore: Rotella M. Imputato: Infanti. P.M. Palombarini G. (Conf.) (Rigetta, App. Palermo, 2 Aprile 2007) Rassegna di legittimità DIFESA E DIFENSORI – PATROCINIO DEI NON ABBIENTI – Dichiarazioni sostitutive e altre comunicazioni o indicazioni sul limite di reddito – Falsità e omissioni – Effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione – Reato di cui all’art. 95 D.P.R. n. 115 del 2002 – Sussistenza. Integrano il delitto di cui all’art. 95 D.P.R. n. 115 del 2002 le false indicazioni o le omissioni anche parziali dei dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio. ● Andrea Alberico Dottorando di Ricerca in Diritto Penale Università degli Studi di Napoli “Federico II” Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli • Sez. III, Sentenza n. 2872 del 11 dicembre 2008 Cc. (dep. 22 gennaio 2009) Rv. 242163 Presidente: Vitalone C. Estensore: Amoresano S. Relatore: Amoresano S. Imputato: P.M. in proc. Corimbi. P.M. Passacantando G. (Diff.) (Dichiara inammissibile, Trib. Nuoro, 25 Febbraio 2008) EDILIZIA – COSTRUZIONE EDILIZIA – Reati edilizi – Ordine di demolizione – Estensione ad altri manufatti – Condizioni – Individuazione. In tema di reati edilizi, a seguito dell’irrevocabilità della sentenza di condanna è consentita l’estensione dell’ordine di demolizione ad altri manufatti a condizione che gli stessi siano stati realizzati successivamente all’opera abusiva originaria e, per la loro accessorietà a quest’ultima, rendano ineseguibile l’ordine medesimo. • Sez. III, Sentenza n. 3445 del 17 dicembre 2008 Cc. (dep. 26 gennaio 2009) Rv. 242168 Presidente: Altieri E. Estensore: Petti C. Relatore: Petti C. Imputato: Criscuolo. P.M. Montagna A. (Parz. Diff.) (Dichiara inammissibile, Trib. lib. Salerno, 29 Dicembre 2007) EDILIZIA – IN GENERE – Reati edilizi – Mutamento di destinazione d’uso – Immobili compresi in zone omogenee A) – Interventi che modificano la sagoma o il volume del preesistente manufatto – Permesso di costruire – Necessità. In tema di reati edilizi, integra il reato di costruzione edilizia abusiva per assenza del permesso di costruire l’esecuzione d’interventi edilizi comportanti un mutamento di destinazione d’uso in immobili compresi nelle zone omogenee A) ovvero modificativi della sagoma o del volume del preesistente manufatto. (Fattispecie rela- Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e 2 0 0 9 67 tiva a modifica della destinazione d’uso di un ripostiglio in vano abitabile). è deciso in camera di consiglio con le forme del rito non partecipato di cui all’art. 611 c.p.p.. • Sez. III, Sentenza n. 2877 del 11 dicembre 2008 Cc. (dep. 22 gennaio 2009) Rv. 242165 Presidente: Vitalone C. Estensore: Amoresano S. Relatore: Amoresano S. Imputato: Zaccari. P.M. Passacantando G. (Conf.) (Rigetta, Trib. lib. Latina, 11 Luglio 2008) • SS.UU., Sentenza n. 8388 del 22 gennaio 2009 Cc. (dep. 24 febbraio 2009) Rv. 242292 Presidente: Gemelli T. Estensore: Canzio G. Relatore: Canzio G. Imputato: Novi. P.M. Palombarini G. (Conf.) (Rigetta, Trib. Genova, 25 Febbraio 2008) EDILIZIA – IN GENERE – Reati edilizi – Mutamento di destinazione d’uso – Realizzazione d’opere – Ristrutturazione edilizia – Permesso di costruire – Necessità. In tema di reati edilizi, integra il reato di costruzione edilizia in assenza di permesso di costruire il mutamento di destinazione d’uso di un immobile mediante realizzazione d’opere edilizie, in quanto l’esecuzione dei lavori, anche se di modesta entità, determina la creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. (Fattispecie relativa a modifica della destinazione d’uso di una serra in un deposito adibito a rimessa di velivoli). • Sez. III, Sentenza n. 3445 del 17 dicembre 2008 Cc. (dep. 26 gennaio 2009) Rv. 242168 Presidente: Altieri E. Estensore: Petti C. Relatore: Petti C. Imputato: Criscuolo. P.M. Montagna A. (Parz. Diff.) (Dichiara inammissibile, Trib. lib. Salerno, 29 Dicembre 2007) IMPUGNAZIONI – CASSAZIONE – COGNIZIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE – Natura pertinenziale di un intervento edilizio – Deducibilità per la prima volta davanti alla Corte di cassazione – Possibilità – Esclusione. In tema d’impugnazioni, non è deducibile per la prima volta davanti alla Corte di Cassazione la censura tendente a dimostrare la natura pertinenziale di un intervento edilizio, in quanto la stessa comporta accertamenti di fatto sottratti alla cognizione di legittimità. • SS.UU., Sentenza n. 9857 del 30 ottobre 2008 Cc. (dep. 04 marzo 2009) Rv. 242291 Presidente: Gemelli T. Estensore: Carmenini SL. Relatore: Carmenini SL. Imputato: Manesi. P.M. Monetti V. (Conf.) (Dichiara inammissibile, Gip Trib. Livorno, 20 giugno 2007) IMPUGNAZIONI – CASSAZIONE – PROCEDIMENTO – CAMERA DI CONSIGLIO – Ricorso avverso l’ordinanza ex art. 263, comma quinto, c.p.p. – Rito camerale – Individuazione – È quello non partecipato di cui all’art. 611 c.p.p.. Il ricorso per cassazione contro l’ordinanza emessa dal G.I.P. a norma dell’art. 263, comma quinto, c.p.p., MISURE CAUTELARI – PERSONALI – IMPUGNAZIONI – IN GENERE – Misura coercitiva – Custodia cautelare – Revoca nel corso del giudizio di impugnazione – Prospettazione di carenza di domanda cautelare – Interesse – Persistenza. L’interesse all’impugnazione dell’ordinanza applicativa di una misura coercitiva (nella specie degli arresti domiciliari) persiste, ai fini del giudizio di riparazione per ingiusta detenzione, pur quando le censure contro il provvedimento, che nelle more sia stato revocato con la conseguente rimessione in libertà dell’interessato, non attengano alla mancanza delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., ma alla prospettata carenza di domanda cautelare. • SS.UU., Sentenza n. 4932 del 18 dicembre 2008 Cc. (dep. 04 febbraio 2009) Rv. 242028 Presidente: Gemelli T. Estensore: Brusco CG. Relatore: Brusco CG. Imputato: Giannone. P.M. Ciani G. (Conf.) (Rigetta, Trib. lib. Napoli, 11 Marzo 2008) MISURE CAUTELARI – PERSONALI – PROVVEDIMENTI – INTERROGATORIO – IN GENERE – Aggravamento del regime cautelare in seguito alla trasgressione delle prescrizioni imposte – Interrogatorio di garanzia – Necessità – Esclusione. Nell’ipotesi di aggravamento delle misure cautelari personali a seguito della trasgressione alle prescrizioni imposte, il giudice non deve procedere all’interrogatorio di garanzia in alcuno dei casi contemplati dall’art. 276, commi primo e primo-ter, c.p.p.. • SS.UU., Sentenza n. 8388 del 22 gennaio 2009 Cc. (dep. 24 febbraio 2009) Rv. 242292 Presidente: Gemelli T. Estensore: Canzio G. Relatore: Canzio G. Imputato: Novi. P.M. Palombarini G. (Conf.) (Rigetta, Trib. Genova, 25 Febbraio 2008) MISURE CAUTELARI – PERSONALI – PROVVEDIMENTI – RICHIESTA DEL PUBBLICO MINISTERO – Assenso scritto del procuratore della Repubblica – Condizione di ammissibilità – Esclusione – Condizione di validità Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a della conseguente ordinanza cautelare – Esclusione. L’ammissibilità della richiesta di applicazione di misure cautelari personali, presentata dal magistrato dell’ufficio del pubblico ministero, assegnatario del procedimento non implica l’assenso scritto del procuratore della Repubblica, previsto dall’art. 3, comma secondo, D.Lgs. n. 106 del 2006, che, pertanto, non è condizione di validità della conseguente ordinanza cautelare del giudice. • Sez. III, Sentenza n. 2893 del 18 dicembre 2008 Cc. (dep. 22 gennaio 2009) Rv. 242171 Presidente: Altieri E. Estensore: Gazzara S. Relatore: Gazzara S. Imputato: Capasso. P.M. Salzano F. (Parz. Diff.) (Rigetta, Trib. lib. Napoli, 1 Settembre 2008) NOTIFICAZIONI – IN GENERE – Notificazioni d’atti urgenti – Negligenza del professionista – Rilevanza – Sussiste. In tema di validità delle notificazioni al difensore, rileva il comportamento negligente del professionista, in quanto egli ha l’obbligo di assicurare con l’ordinaria diligenza, in costanza di mandato difensivo, la ricevibilità delle notifiche a lui dirette. (Fattispecie in tema di riesame di misura cautelare personale nella quale è stata ritenuta valida la notifica dell’avviso ex art. 309 c.p.p. con consegna al portiere dello stabile in cui era allocato lo studio del difensore, trovato reiteratamente chiuso dall’ufficiale giudiziario). • Sez. IV, Sentenza n. 1866 del 02 dicembre 2008 Ud. (dep. 19 gennaio 2009) Rv. 242017 Presidente: Zecca G. Estensore: Licari C. Relatore: Licari C. Imputato: Toccafondi e altri. P.M. Galati G. (Parz. Diff.) (Annulla in parte con rinvio, App. Genova, 4 febbraio 2008) PROFESSIONISTI – MEDICI E CHIRURGHI – Colpa professionale medica – Istituzioni sanitarie complesse – Struttura sanitaria operante in ambito carcerario – Posizione di garanzia – Individuazione – Soggetto in posizione apicale. In tema di colpa professionale, il medico che, all’interno di una struttura sanitaria complessa, riveste funzioni apicali è titolare di un pregnante obbligo di garanzia ed è, pertanto, tenuto a garantire la correttezza delle terapie praticate ai pazienti. (Fattispecie nella quale il Dirigente di una struttura sanitaria operante all’interno di una Casa circondariale è stato ritenuto responsabile, a titolo di colpa omissiva, del decesso di una detenuta affetta da tubercolosi, per non avere diagnosticato in tempo la malattia, avendo omesso di assicurare l’esecuzione degli accertamenti diagnostici e della visita infettivologica prescritti da un medico consulente esterno) p e n a l e 68 PROFESSIONISTI – MEDICI E CHIRURGHI – Colpa professionale medica – Istituzioni sanitarie complesse – Struttura sanitaria operante in ambito carcerario – Posizione di garanzia – Individuazione – Medici non in posizione apicale – Medici di guardia – Posizione di garanzia derivante dall’instaurazione del rapporto terapeutico – Contenuto – Limiti. In tema di colpa professionale medica, ai fini dell’affermazione di responsabilità penale, in relazione al decesso di una paziente, dei medici operanti – non in posizione apicale – all’interno di una struttura sanitaria complessa, a titolo di colpa omissiva, è priva di rilievo la mera instaurazione del c.d. rapporto terapeutico, occorrendo accertare la concreta organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza ed ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda. (Fattispecie nella quale si contestava a due medici di guardia in servizio presso una struttura sanitaria operante all’interno di una Casa circondariale, succedutisi nel compimento di singoli atti diagnostici o terapeutici, di non avere diagnosticato per tempo la tubercolosi dalla quale era affetta una detenuta, avendo omesso di eseguire gli accertamenti diagnostici e la visita infettivologica prescritti da un medico consulente esterno). • SS.UU., Sentenza n. 9857 del 30 ottobre 2008 Cc. (dep. 04 marzo 2009) Rv. 242291 Presidente: Gemelli T. Estensore: Carmenini SL. Relatore: Carmenini SL. Imputato: Manesi. P.M. Monetti V. (Conf.) (Dichiara inammissibile, Gip Trib. Livorno, 20 giugno 2007) PROVE – MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA – SEQUESTRI – RESTITUZIONE – PROCEDIMENTO – Fase delle indagini preliminari – Richiesta di restituzione – Rigetto da parte del pubblico ministero – Opposizione – Decisione del giudice per le indagini preliminari – Ricorso per cassazione – Motivi deducibili – Individuazione. L’ordinanza del G.I.P., che a norma dell’art. 263, comma quinto, c.p.p., provvede sull’opposizione degli interessati avverso il decreto del P.M. di rigetto della richiesta di restituzione delle “cose” in sequestro o di rilascio di copie autentiche di documenti, è ricorribile per cassazione per tutti i motivi indicati dall’art. 606, comma primo, c.p.p.. • Sez. VI, Sentenza n. 1122 del 07 gennaio 2009 Cc. (dep. 13 gennaio 2009) Rv. 242151 Presidente: Agro’ A. Estensore: Carcano D. Relatore: Carcano D. Imputato: Hajdini. P.M. Stabile C. (Conf.) (Rigetta, App. Milano, 22 Ottobre 2008) Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE – ESTRADIZIONE PER L’ESTERO – PROCEDIMENTO – DECISIONE – CONDIZIONI – Convenzione europea di estradizione – Necessità di valutare l’efficacia dei titoli esecutivi in base ai quali viene richiesta l’estradizione – Esclusione – Fattispecie. In tema di estradizione per l’estero, a fronte di una richiesta avanzata da uno Stato aderente alla Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, ratificata dall’Italia con la L. 30 gennaio 1963, n. 300, l’autorità giudiziaria italiana non è tenuta a verificare, ai sensi dell’art. 12, comma secondo, lett. a), della predetta Convenzione, l’efficacia dei titoli esecutivi in base ai quali è richiesta l’estradizione, non trattandosi di un requisito menzionato nella disposizione sopra citata. (Fattispecie relativa ad una domanda di estradizione proposta dal Governo della Repubblica di Albania). • SS.UU., Sentenza n. 2437 del 18 dicembre 2008 Ud. (dep. 21 gennaio 2009) Rv. 241752 Presidente: Gemelli T. Estensore: Macchia A. Relatore: Macchia A. Imputato: Giulini e altro. P.M. Ciani G. (Conf.) (Annulla senza rinvio, App. Bologna, 5 Febbraio 2007) REATI CONTRO LA PERSONA – IN GENERE – Trattamento chirurgico – Mancata acquisizione del consenso informato del paziente – Intervento eseguito nel rispetto dei protocolli e delle “leges artis” e con esito fausto – Rilevanza penale ex artt. 582 e 610 c.p. – Esclusione. Non integra il reato di lesione personale, né quello di violenza privata la condotta del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, nel caso in cui l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle “leges artis”, si sia concluso con esito fausto, essendo da esso derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte dello stesso. • Sez. V, Sentenza n. 4404 del 18 novembre 2008 Ud. (dep. 02 febbraio 2009) Rv. 241887 Presidente: Pizzuti G. Estensore: Bruno PA. Relatore: Bruno PA. Imputato: Ricci e altri. P.M. D’Angelo G. (Conf.) (Annulla con rinvio, App. Perugia, 21 Maggio 2007) REATI FALLIMENTARI – BANCAROTTA FRAUDOLENTA – IN GENERE – Amministratore di società – Appropriazione indebita di beni sociali – Decisione irrevocabile di estinzione per prescrizione – Successiva dichiarazione di fallimento della società – Bancarotta fraudolenta 2 0 0 9 69 per distrazione dei medesimi beni – “Ne bis in idem” – Inesistenza – Ragioni. La decisione irrevocabile d’estinzione per prescrizione del delitto d’appropriazione indebita imputato all’amministratore di una società non preclude, dopo l’intervento della dichiarazione di fallimento della società, l’esercizio dell’azione penale nei confronti dello stesso per il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione dei medesimi beni. La Corte ha precisato che le due fattispecie sono strutturalmente diverse, integrando, se consumate contestualmente, un reato complesso con assorbimento del delitto d’appropriazione indebita in quello di bancarotta fraudolenta, e, se realizzate in tempi diversi, un reato progressivo, con conseguente applicazione, nel caso di specie, dell’art. 170 c.p.). • SS.UU., Sentenza n. 3286 del 27 novembre 2008 Ud. (dep. 23 gennaio 2009) Rv. 241755 Presidente: Carbone V. Estensore: Fiale A. Relatore: Fiale A. Imputato: Chiodi. P.M. Palombarini G. (Conf.) REATO – REATO CONTINUATO – CIRCOSTANZE – Riparazione del danno ex art. 62 n. 6 c.p. – Risarcimento integrale nei confronti di tutti i reati avvinti dal vincolo della continuazione – Esclusione – Ragioni. In tema di continuazione, la circostanza attenuante dell’integrale riparazione del danno va valutata e applicata in relazione a ogni singolo reato unificato nel medesimo disegno criminoso. • SS.UU., Sentenza n. 5941 del 22 gennaio 2009 Ud. (dep. 11 febbraio 2009) Rv. 242215 Presidente: Gemelli T. Estensore: Agro’ A. Relatore: Agro’ A. Imputato: Pagani e altro. P.M. Palombarini G. (Parz. Diff.) (Rigetta, App. Milano, 12 Giugno 2003) REO – CONCORSO DI PERSONE NEL REATO – VALUTAZIONE DELLE CIRCOSTANZE (ESTENSIONE AL CORREO) – AGGRAVANTI O ATTENUANTI – Attenuante della riparazione del danno – Risarcimento effettuato da uno dei correi – Estensione agli altri concorrenti – Condizioni. In tema di concorso di persone nel reato, ove un solo concorrente abbia provveduto all’integrale risarcimento del danno, la relativa circostanza attenuante non si estende ai compartecipi, a meno che essi non manifestino una concreta e tempestiva volontà di riparazione del danno. • Sez. III, Sentenza n. 833 del 04 dicembre 2008 Cc. (dep. 13 gennaio 2009) Rv. 242159 Presidente: Lupo E. Estensore: Petti C. Relatore: Petti C. Imputato: P.M. in proc. Lettica. P.M. Passacantando G. (Conf.) Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a p e n a l e 70 (Annulla con rinvio, Trib. lib. Napoli, 21 giugno 2008) (Annulla con rinvio, Gip Trib. Latina, 30 Aprile 2008) SANITÀ PUBBLICA – IN GENERE – Gestione dei rifiuti – Materia prima secondaria – Regime antecedente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 4 del 2008 – Esclusione dalla disciplina dei rifiuti – Condizioni. In materia di rifiuti, prima delle modifiche introdotte dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, le materie prime secondarie, ancorché non provenienti da attività di recupero, dovevano considerarsi escluse dal campo d’applicazione della disciplina dei rifiuti a condizione che avessero sin dall’origine le caratteristiche della materia prima secondaria riportate nei decreti ministeriali sul recupero agevolato. SPORT – Misure volte a prevenire i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive – Ordinanza di convalida del G.I.P. – Annullamento con o senza rinvio – Casi – Individuazione. In tema di misure volte a prevenire i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive, l’annullamento dell’ordinanza di convalida del G.I.P. deve essere disposto “con rinvio” nel caso di mancata concessione all’intimato del termine per l’esercizio del diritto di difesa ed in quello di mancato rispetto del termine, concesso con il provvedimento del Questore, per la presentazione di memorie e deduzioni difensive, mentre deve essere disposto “senza rinvio” nel caso di mancata osservanza da parte del P.M. del termine di 48 ore dalla notifica per richiedere la convalida ed in quello di mancata osservanza da parte del G.I.P. del termine delle 48 ore successive per la pronuncia sulla convalida. • Sez. III, Sentenza n. 3437 del 17 dicembre 2008 Cc. (dep. 26 gennaio 2009) Rv. 242167 Presidente: Altieri E. Estensore: Fiale A. Relatore: Fiale A. Imputato: Arcifa e altro. P.M. Montagna A. (Diff.) (Rigetta, Gip Trib. Genova, 24 Novembre 2007) SPORT – Misure di prevenzione della violenza occasionata da manifestazioni sportive – Obbligo di presentazione ad un ufficio o comando di polizia – Riferibilità agli incontri “amichevoli” – Legittimità – Condizioni. In tema di misure di prevenzione della violenza occasionata da manifestazioni sportive, la prescrizione del Questore impositiva dell’obbligo di presentazione ad un ufficio o comando di polizia può legittimamente riferirsi agli incontri amichevoli, ad eccezione di quelli decisi in rapporto ad esigenze peculiari del momento e senza una preventiva programmazione. • Sez. III, Sentenza n. 377 del 16 dicembre 2008 Cc. (dep. 09 gennaio 2009) Rv. 242166 Presidente: De Maio G. Estensore: Franco A. Relatore: Franco A. Imputato: D’Onorio De Meo e altro. P.M. Salzano F. (Diff.) • Sez. III, Sentenza n. 837 del 10 dicembre 2008 Cc. (dep. 13 gennaio 2009) Rv. 242161 Presidente: Lupo E. Estensore: Squassoni C. Relatore: Squassoni C. Imputato: Allkanjari. P.M. Izzo G. (Diff.) (Restituisce nel termine, App. Perugia, 13 Maggio 2008) TERMINI PROCESSUALI – RESTITUZIONE NEL TERMINE – SENTENZA CONTUMACIALE – Requisiti previsti dall’art. 175 c.p.p. – Ostatività alla restituzione – Loro coesistenza – Necessità. In tema di restituzione in termine, condizione ostativa alla restituzione è la coesistenza di tutte le condizioni previste dalla legge, ovvero la conoscenza del procedimento, la rinuncia volontaria a comparire e la rinuncia volontaria ad impugnare, sicché, in difetto di una sola di esse, il giudice deve accogliere la richiesta. (Fattispecie nella quale risultava solo la prova della conoscenza del procedimento). Gazzetta F O R E N S E M a r z o • a p r i l e 2 0 0 9 71 • G.U.P. del Tribunale di Napoli dr.ssa Marzia Castaldi, sentenza n. 2300/08, pronunciata il 21 ottobre 2008 e dep. il 12 dicembre 2008 ● Rassegna di merito ● Giuseppina Marotta Avvocato Alessandro Jazzetti Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli CONCORSO DI PERSONE NEL REATO – CONTRIBUTO APPREZZABILE – PRODUZIONE DELL’EVENTO – PRESUPPOSTI Ai fini della configurabilità del concorso di persone nel reato, il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà. Ne deriva che, a tal fine, è sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti, e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato. Le minacce reiteratamente rivolte all’Au., per le loro modalità e per il contesto nel quale venivano rese, in ultimo con la presentazione dei coimputati “in gruppo” in occasione della riscossione, risultano idonee ed univocamente dirette a coartare la vittima e ad indurla ad ottemperare alla richiesta estorsiva, conseguendone altrimenti la inibizione alla prosecuzione dei lavori di ristrutturazione già intrapresi. D’altronde l’immediata comunicazione alla PG della richiesta estorsiva ricevuta operata dall’Au., la cui qualità di agente di PS era evidentemente ignota agli imputati, consentiva l’organizzazione del servizio di osservazione venendo pertanto interrotto l’iter criminoso per cause del tutto indipendenti dalla loro volontà. • Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli dott. G. Vinciguerra, Sentenza n. 9972/08 Pronunciata il 04 novembe2008 e dep. il 10 dicembre 2008 CONCORSO DI REATI – TRUFFA E CONTRAFFAZIONE – CONFIGURABILITÀ I reati di truffa e quelli di contraffazione ex art. 485, possono concorrere tra loro, trattatasi infatti di reati istantanei, consumatisi appunto il primo nell’aver ottenuto il finanziamento, il secondo nella contraffazione da parte delle imputate della documentazione che doveva comprovare il rapporto lavorativo alle dipendenze della Ta. di Napoli. Va evidenziato che sul punto è pacifico l’orientamento giurisprudenziale secondo cui i due reati, posti a tutela di diversi bene giuridici, ben possono concorrere tra loro (cfr. Cass. Sez. II 81/150652 e Sez. II 81/151881). Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a • Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli, dr.ssa Maria Alaia, sentenza n. 10275/08 pronunciata il 11 novembre 2008 e depositata il 11 dicembre 2008 CONTINUAZIONE – PRESUPPOSTI OGGETTIVI E SOGGETTIVI Secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, per ritenere la sussistenza della continuazione tra reati, occorre che “le diverse violazioni siano state previste, sia pure genericamente, sin dal primo momento, nel senso che, sin da quando si commette la prima, già siano deliberate, almeno nelle componenti essenziali, tutte le altre, come facenti parte di un unico programma” ( Cass. 87/179325 ). Nel caso di specie, il lasso temporale di sei mesi tra i due fatti, in assenza di elementi dai quali desumere l’esistenza, sin dalla commissione del primo reato, anche della previsione, sia pure generica, del secondo, induce a ritenere l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’istituto della continuazione. • G.U.P. del Tribunale di Napoli dr.ssa Marzia Castaldi, sentenza n. 2300/08, pronunciata il 21 ottobre 2008 e dep. il 12 dicembre 2008 CONTINUAZIONE: REITERATO TENTA- TIVO DI ESTORSIONE – MODALITÀ ESECUTIVA DELLA CONDOTTA – CONFIGURABILITÀ DELL’ISTITUTO IN PRESENZA DI DIVERSE CONDOTTE DOTATE DI UNA PROPRIA COMPLETA INDIVIDUALITÀ PROTESE AD UN UNICO FINE. Quanto alla contestata continuazione deve peraltro rilevarsi che in tema di tentativo di estorsione, nell’ipotesi in cui il comportamento intimidatorio sia reiterato, risulta necessario accertare se ci si trovi in presenza di una azione unica o meno, e ciò alla stregua del duplice criterio finalistico e temporale. Azione unica, infatti, non equivale ad atto unico, ben potendo la stessa essere composta da una molteplicità di “atti” che, in quanto diretti al conseguimento di un unico risultato, altro non sono che un frammento dell’azione, una modalità esecutiva della condotta delittuosa. L’unicità del fine a sua volta non basta per imprimere all’azione un carattere unitario essendo necessaria, la così detta contestualità, vale a dire l’immediato succedersi dei singoli atti, sì da rendere l’azione unica. Ne consegue che, in caso di estorsione tentata, i diversi conati posti in essere per procurarsi un ingiusto profitto costituiscono autonomi tentativi di reato, unificabili con il vincolo della continuazione, quando singolarmente considerati in relazione alle circostanze del caso concreto e, in particolare, alle modalità di realizzazione e soprattutto all’elemento temporale, appaiono dotati di una propria completa individualità. Mentre si ha un solo tentativo di estorsione, pur in presenza di molteplici atti di minaccia, allorché gli stessi, alla stregua dei criteri sopra enunciati, costituiscono singoli momenti di un’unica azione. Tali p e n a l e 72 considerazioni inducono ad escludere nel caso di specie la contestata continuazione, apparendo la condotta tentata realizzata dagli imputati inequivocamente unitaria in quanto diretta al conseguimento di un unico risultato e realizzata senza soluzioni di continuità nell’arco della medesima giornata. • G.U.P. del Tribunale di Nola dr.ssa Tamara De amicis sentenza n. 476/08 emessa in data 11 novembre 2008 e dep. il 1 novembre 2008 ESTORSIONE – MINACCIA –NOZIONE E REQUISITI L’elemento costitutivo del delitto non richiede necessariamente che la coartazione avvenga mediante la prospettazione di un male irreparabile alle persone o alle cose, tale da non lasciare al soggetto passivo una libertà di scelta, essendo sufficiente la prospettazione di un male che in relazione alle circostanze che l’accompagnano sia tale da far insorgere nella vittima il timore di un concreto pregiudizio. (vds. Cass. Pen., Sez. VI, 29.11.90, n. 15971). Nel caso di specie, dunque, appare verosimile ed idonea al raggiungimento dello scopo la minaccia di rivelare alla madre della ragazza l’esistenza della relazione sentimentale, essendo ben prevedibili gli effetti negativi di tale gesto sui rapporti familiari della p.o. essendo l’imputato soggetto tossicodipendente. • Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli dr.ssa Anna Maria Allagrande Sentenza n. 11149/08, pronunciata il 28 novembre 2008 e dep. il 10 dicembre 2008 EVASIONE – CONFIGURABILITÀ – PRESUPPOSTI. Nel delitto di evasione per allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari, in vero, una volta accertato il legittimo stato di arresto, provato con l’allegazione della documentazione sopra indicata, la violazione delle prescrizioni previste per il regime della detenzione domiciliare a norma dell’art. 47 ter, c. VIII, Ordinamento Penitenziario (L. 26.7.1975 n. 354: allontanamento dal luogo ove trovasi ristretto) integra automaticamente il reato di evasione di cui all’art. 385 c.p. Bisogna pertanto concludere che l’imputato, che non è comparso e non ha introdotto alcun elemento in sua discolpa, non abbia risposto al suono del citofono in quanto si era arbitrariamente allontanato dal domicilio ove era ristretto • G.U.P. del Tribunale di Nola dr. G. Sessa – sentenza n. 16/09 emessa in data 20 gennaio 2009 e dep. Il 21 gennaio 2009 FALSO IN SCRITTURA PRIVATA – PROCEDIBILITÀ In merito al reato di falso in scrittura privata ex art. Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e 485 c.p., mette conto evidenziare – in punto di diritto – che tale illecito è procedibile a querela della p.o., conformemente a quanto sancito dall’art. 493 bis c.p. introdotto dall’art. 89 L.689/81. Ciò perchè il Legislatore, nel prevedere, con il citato art. 493 bis c.p., la perseguibilità a querela delle ipotesi di falso contemplate dagli artt. 485, 486, 488, 489 e 490 c.p., ha fatto riferimento a tutte le scritture private, menzionando, come unica eccezione, il testamento olografo. Nel caso in disamina, tuttavia, non risulta presentata formale e tempestiva querela ad opera della parte lesa, limitatasi a denunziare la vicenda alla Procura della Repubblica senza avanzare al riguardo alcuna istanza punitiva. Discende da tale circostanza l’improcedibilità dell’azione penale nei confronti degli imputati relativamente al contestato falso in scrittura privata. • Giudice di Pace di Marigliano dr. Domenico Chianese sentenza emessa in data 24 settembre 2008 LESIONI COLPOSE – ATTRIBUZIONE DELLA COMPETENZA PER MATERIA AL GIUDICE DI PACE ANCHE DOPO LA L. 102/06 – PROVA DI DURATA SUPERIORE DELLA MALATTIA EMERSA NEL DIBATTIMENTO – ESCLUSIONE DEL POTERE DI UFFICIO DEL GIUDICE DI PACE DI RIQUALIFICARE IL FATTO. In subjecta materia, la novella dell’art.590 c.p. per mezzo della L. 21.02.2006 n. 102, ha certamente aggravato la pena edittale delle fattispecie delittuose rappresentate dalle lesioni effetto della circolazione stradale ma non ha sottratto la competenza di questo Giudice come per il reato di cui all’art.187 CDS (cfr D.L. 117 del 03.08.2007, pubblicato su G.U. n.180 del 04.08.2007 e di cui alla L.160 del 02.10.2007, nonché D.L. 247/2007). Fermo restando quindi il trattamento sanzionatorio più lieve, trattandosi di commissione antecedente all’innalzamento, anche la competenza è legittima. Tale deduzione è, per altro, coerente con il principio già affrontato in giurisprudenza (cfr Cass. pen., Sez. I, 18/01/2007, n.1294). Deve invece dirsi che l’allegazione di ulteriore certificazione medica (aumentante l’arco temporale della malattia) non ha comportato alcuna modifica delle contestazioni ex art.518 c.p.p. da parte dell’Accusa impedendo quindi ogni applicazione di aggravanti e di modifica del fatto contestato ope iudicis, non potendo questi decidere ex art.521 n. 2 c.p.p., essendo egli investito della competenza in ogni caso, né applicando una diversa qualificazione ex n. 1 norma citata, trattandosi di stesso fatto e risolvendosi una eventuale riformulazione in una illegittima applicazione di aggravante in violazione dell’art. 522 c.p.p.. • Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli dr. G. Vinciguerra, sentenza n. 9973/08, pronunciata il 04 2 0 0 9 73 novembre 2008 e depositata il 10 dicembre 2008 LESIONI COLPOSE DA INFORTUNIO SUL LAVORO: COMPORTAMENTO IMPRUDENTE DEL LAVORATORE TALE DA INTERROMPERE IL NESSO DI CAUSALITÀ TRA LE VIOLAZIONI CONTESTATE E L’EVENTO LESIVO – REQUISITI. Indipendentemente dalla veridicità della presupposta condotta da parte dell’operaio, la giurisprudenza che si ritiene di dover seguire è assolutamente consolidata nel non riconoscere tale valenza al concorrente comportamento imprudente del lavoratore (vedi Cass. Sez. IV 88/179373). Ed in un’affatto analoga fattispecie, in cui l’operaio, spostandosi dal posto assegnatogli nell’ambito del cantiere, incorse in infortunio a causa della mancata realizzazione dì presidio ad un impalcato sul quale si trovava a passare la S.C. ha statuito che: “Le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro impongono determinate cautele in funzione del cantiere nel suo complesso e non delle specifiche mansioni di ogni singolo lavoratore, rientrando nell’id quod plerumque accidit la circostanza che i dipendenti (sia pure per imprudenza e negligenza) si muovano nell’ambito di esso, anche al di fuori del posto predeterminato ed in maniera occasionale, e che estranei vengano a trovarsi in situazioni di pericolo causate dalla mancata adozione dei presidi di sicurezza previsti dalla legge.” Vedi Cass. Pen., Sez. IV, 29.1.1990 n. 1031. • Giudice di Pace di Marigliano dr. Domenico Chianese sentenza emessa in data 24 settembre 2008 MINACCIA: ESPRESSIONI INTIMIDA – TRICI ESPRESSE IN FORMA CONDIZIONATA – ESCLUSIONE DEL REATO La frase indicata in querela (ed acquisita agli atti ex art.512 c.p.p.), “…se voglio ti rovino” e “sei mezzo morto ma non sei morto”, sono ben lontane da quelle riportate nel decreto di citazione. La prospettazione della rovina, in particolare, è equivoca e interpretabile in più sensi, non necessariamente di ingiustizia o di danno illecito per il minacciato. La ritenuta ingiustizia delle rivendicazioni economiche, o persino la qualificata sproporzione dei danni quantificati rispetto alla personale stima, deve certamente essere tenute in considerazione poiché il Tizio x ha agito come reazione ad una asserita speculazione. Si condivide sul punto che “non integrano il delitto di minaccia le locuzioni intimidatrici espresse in forma condizionata quando siano dirette, non già a restringere la libertà psichica del soggetto passivo, ma a prevenirne un’azione illecita o inopportuna e siano rappresentative della reazione legittima determinata dall’eventuale realizzazione di dette azioni” ( cfr Cass. pen., Sez. V, 04/05/2007, n. 29390). Così la seconda frase, sei mezzo morto ma non morto, è del tutto silente su di un effettivo intendimento minatorio atteso che l’evento morte non è prospettato o augurato, Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a né soprattutto è legato all’azione del dichiarante. Semmai sembra più aderire alla consueta constatazione nella prassi di un’esaltazione dell’esito del sinistro fortunoso per l’incolumità, sì da indurre il danneggiato ad una migliore contezza dei fatti in relazione alla possibilità scongiurata di ben peggiori conseguenze. • Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli dr.ssa Anna Maria Allagrande, Sentenza n. 10478/08 pronunciata il 14 novembre 2008 e dep. il 10 dicembre 2008 RICETTAZIONE: ELEMENTO OGGETTIVO: ACCERTATA PROVENIENZA ILLECITA DEL BENE – ELEMENTO SOGGETTIVO: CONSAPE- VOLEZZA DELL’ILLECITA PROVE- NIENZA DEL BENE. Alla stregua dell’esposto quadro probatorio risulta pienamente verificata la ipotesi delittuosa ascritta all’imputato al capo A) tanto nell’elemento oggettivo quanto in quello soggettivo. In merito all’elemento oggettivo del reato di ricettazione, basta rilevare che risulta accertata la provenienza delittuosa degli assegni che, dopo essere stati indebitamente sottratti ai legittimi possessori, sono stati contraffatti, taluno con la cancellazione e sostituzione del nome del beneficiario e la apposizione della firma di girata a tergo e altri con la loro integrale falsa compilazione e, quindi, versato alla ditta dall’imputato che, nella sua qualità di agente, riferiva di averli ricevuti in pagamento delle forniture eseguite dai clienti. Al riguardo, a fine di completezza, è opportuno precisare che, in materia di ricettazione, per riaffermazione della responsabilità non è necessario l’accertamento giudiziale della commissione del delitto presupposto, né dei suoi autori, né dell’esatta tipologia del reato, dato che tale accertamento può essere dedotto attraverso prove logiche e nello specifico la traccia della illecita provenienza dei titoli è costituita dalle denunce di furto e di smarrimento degli stessi da parte dei legittimi possessori, denunce tutte ritualmente acquisite e, sull’accordo delle parti, dichiarate utilizzabili ai fini della decisione, (arg. da Cass. Pen., Sez. IV, 7.11.1997 n. 11303). Quanto all’elemento soggettivo del reato, inoltre, è opportuno rilevare che nel delitto di ricettazione, ai fini della verifica della sussistenza di tale componente del reato ascritto è necessario verificare la consapevolezza, da parte dell’imputato di tale illecita provenienza, e tale consapevolezza può essere desunta anche dagli elementi considerati dall’art. 712 c.p., allorquando i sospetti siano così gravi ed univoci da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e secondo la più comune esperienza la certezza che non possa trattarsi di cose legittimamente possedute. Orbene rientra nella comune esperienza di ciascuno che i moduli per assegno non costituiscono merce di scambio ma strumenti di pagamento per i quali il possesso legittimo p e n a l e 74 viene giustificato attraverso la dimostrazione della lecita apprensione che deve essere confortata da una regolare serie di girate, in applicazione di un principio mutuato dal diritto civile. Nel caso in esame è accertato che l’imputato ha versato i titoli in pagamento di merci apponendovi la falsa firma di girata o di traenza, e da ciò si evince che sapesse perfettamente che i titoli erano di illecita provenienza. • Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli sott. G. Vinciguerra, Sentenza n. 10791/08, Pronunciata il 20 novembre 2008 e Depositata il 12 dicembre 2008 RISSA – PRESUPPOSTI OGGETTIVI E SOGGETTIVI – SUSSISTENZA DEL REATO. Presupposto per la sussistenza del delitto di cui all’art. 588 c.p. è l’accertamento di una “violenta contesa tra tre o più persone, che siano animate dalla volontà di recare offesa agli avversari e di difendersi dalla violenza degli stessi” (Cass., Sez. V, 30/1/79 n. 1054). Deve, inoltre, sussistere il duplice intento di recare offesa agli avversari e di difendersi dalla loro violenza. Nel caso di specie, lo stato dei luoghi, così come descritto dall’ufficiale di PG, fanno ragionevolmente desumere al giudicante che vi sia stata una violenta colluttazione tra più persone, essendosi i tre “azzuffati” tra loro. Orbene va ricordato che secondo la S.C. “è necessario che nella contesa violenta esistano più fronti di aggressione, con volontà vicendevole di attentare all’altrui personale incolumità; il che può realizzarsi anche quando qualcuna delle “parti” protagoniste sia rappresentata da un solo soggetto, con l’unico limite che il numero dei corrissanti non sia inferiore a quello di tre” (cfr. Cass. Sez. V 88/179757). • Corte di Appello di Napoli sez. VII, Sentenza n. 534 emessa in data 23 gennaio 2009 SOTTRAZIONE DI BENE SOTTOPOSTO A SEQUESTRO: USO MOMENTANEO DEL VEICOLO SOTTOPOSTO A SEQUESTRO AMMINISTRATIVO – ESCLUSIOJNE DEL REATO DI CUI ALL’ART. 334 CP La condotta consistente nel circolare abusivamente alla guida di un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo integra l’illecito previsto dall’art. 213 del D.Lvo 30/04/1992 n. 285 e non il reato di cui all’art. 334 c.p. (Cass. Pen., Sez. III, sent. N. 25116 del 20/3/08 dep. 19/6/08). La Corte nell’enunciare il predetto principio, ha escluso che tali norme possano concorrere, ostandovi il disposto dell’art. 9 L. 24/11/1981 n. 689; ha ritenuto che nel caso di guida di un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo la sanzione penale sia inoperante perché la regolamentazione amministrativa Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e della materia presenta estremi specializzanti. Pertanto, chiunque è sorpreso a circolare con mezzo sottoposto a sequestro ai sensi dell’art. 213 CDS risponde solo dell’illecito amministrativo (in senso conforme sent. N. 40345 del 27/9/07, n. 17837 del 24/1/08). Va rilevato altresì che con sentenza n. 3178 del 31/10/07 dep. il 21/1/08 la S.C. Sez. VI, ha affermato che il custode sorpreso a circolare con veicolo, sottoposto a sequestro amministrativo, risponde sia dell’illecito amministrativo di cui all’art. 213 co. IV CDS, sia del reato ex art. 314 cp, solo se la circolazione è sintomatica della volontà di sottrarre il bene, al fine di eludere il vincolo della indisponibilità del sequestro, ovvero comporti il deterioramento del bene; quindi anche secondo questo diverso orientamento della S.C. il mero uso momentaneo del veicolo, occasionale e circoscritto nello spazio, non integra il reato di cui all’art. 334. • G.U.P. del Tribunale di Nola dr. G. R. Ulmo, sentenza n. 49/09 emessa in data 10 febbraio 2009 e dep. il 12 febbraio 2009 TRUFFA PROCESSUALE IN MATERIA DI SINISTRI STRADALI: NON CONFIGURA- BILITÀ DEL REATO PER CARENZA DEL PRESUPPOSTO DELL’ATTO DI DISPOSIZIONE PATRIMONIALE. TRUFFA COMMESSA AI DANNI DELLA CONSAP SPA (FONDO GARANZIA VITTIME DELLA STRADA) – AGGRAVANTE DI CUI AL CO. II DELL’ART. 640 CP – ESCLUSIONE. Il maggior numero di imputazioni consiste in varie ipotesi di truffa, consumate o tentate, ipotizzate come commesse ai danni delle imprese assicuratrici attraverso una serie di artifizi e raggiri, rivolti alle imprese assicuratrici stesse nonché al giudice di pace ed aventi lo scopo di far apparire come avvenuti sinistri stradali in realtà inesistenti. Va subito detto che, rispetto all’ipotesi di induzione in errore del giudice di pace, le contestazioni sono chiaramente riconducibili all’ambito della cosiddetta truffa processuale, la quale, secondo la giurisprudenza assolutamente predominante della Suprema Corte (applicata già più volte anche dallo scrivente giudice), non integra gli estremi dell’illecito penale, non rientrando essa nella previsione dell’art. 640 c.p. per mancanza del requisito (implicito, ma pur tuttavia pacificamente ritenuto imprescindibile elemento costitutivo del reato di truffa) dell’atto di disposizione patrimoniale: invero, pur assumendosi che il giudice possa essere tratto in inganno dagli artifizi e raggiri posti in essere da una parte del giudizio, resta il fatto che l’atto che il giudice compie come conseguenza di tali artifizi e raggiri non è un atto di disposizione patrimoniale bensì è l’emissione di una sentenza (o, comunque, di un provvedimento giurisdizionale), la quale, pur andando ad incidere sul patrimonio di una parte processuale, non è un atto di disposizione patrimoniale, ma è 2 0 0 9 75 invece l’espressione di un potere, quale quello giurisdizionale, di natura eminentemente pubblicistica, la cui finalità è l’attuazione di norme giuridiche e la risoluzione dei conflitti (vedi, in tal senso, tra le pronunce più recenti, Cass., Sez. V, del 6.6.1996, n. 7346, Schiavone; Cass., Sez. VI, 6.11.1996, Ortis; Cass., Sez. VI, 2.12.1999, n. 4026; Cass., Sez. II, n. 42333/07, quest’ultima pubblicata su Guida al diritto n. 48/07). Tuttavia nei fatti nel caso di specie contestati è ricompresa anche l’attività rivolta a tentare di indurre in errore le stesse imprese di assicurazione (che non possono ovviamente sapere, per conoscenza diretta, se nella realtà gli incidenti denunciati si siano verificati o meno) sull’effettivo verificarsi del sinistro: attività concretizzatasi nell’inoltro di mendaci denunce di sinistri e di messe in mora, ai sensi degli artt. 5 del D.L. n. 857/1976, convertito in L. n. 39/77, e 22 della L. n. 990/69 (norme vigenti all’epoca dei fatti), nonché nell’ulteriore artifizio della presentazione di mendaci querele per lesioni ed omissione di soccorso aventi lo scopo di rafforzare l’idea dell’effettivo verificarsi del sinistro; il tutto al fine di tentare di ottenere dalle imprese di assicurazione, già in via stragiudiziale e spontanea, il risarcimento dei presunti danni. Attualmente il denunciare all’impresa di assicurazione un sinistro non accaduto integra lo specifico delitto previsto dal comma 2 dell’art. 642 c.p. nella formulazione risultante a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 273 del 12.12.2002; ma non appare discutibile che prima dell’introduzione di tale specifico reato il comportamento sopra descritto avesse tutti i requisiti per rientrare nel paradigma della truffa, consumata o tentata a seconda dell’effettivo conseguimento o meno dell’indennizzo, rispetto alla quale, infatti, la Suprema Corte (cfr. Cass., Sez. VI, n. 2506 del 13.11.2003) non dubita che la fattispecie di cui all’art. 642 c.p. costituisca un’ipotesi speciale (punita con pena più grave). Così puntualizzato il motivo per il quale non è possibile in relazione alle truffe in contestazione pervenire ad una declaratoria di inconfigurabilità del reato, va comunque per esse ritenuta la procedibilità a querela e conseguentemente rilevata la mancanza della stessa. Nei capi di imputazione tali truffe vengono contestate come aggravate ai sensi del comma 2 n. 1 dell’art. 640 c.p., il che renderebbe il reato procedibile d’ufficio ai sensi dell’ultimo comma del medesimo articolo. Va tuttavia rilevato che, pur essendo le richieste di risarcimento destinate in ultima analisi a gravare (dopo l’anticipazione delle somme ad opera dell’impresa designata ai sensi dell’art. 20 della L. n. 990/69, nella fattispecie le Generali S.p.A.) sulla Consap S.p.A. – gestione autonoma del Fondo di garanzia per le vittime della strada – ai sensi dell’art. 19 della L. n. 990/69 (vigente all’epoca dei fatti), ciononostante la truffa non può essere qualificata come perpetrata ai danni dello Stato o di un altro ente pubblico. Infatti, la Suprema Corte ha Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o e p r o c e d u r a più volte ribadito il principio che, allorquando la truffa è commessa ai danni di società aventi natura giuridica di enti di diritto privato, quali sono le società per azioni (e quindi la Consap S.p.A.), l’aggravante in esame non è configurabile nonostante che tali società siano partecipate o costituite dallo Stato o da altri enti pubblici e gestiscano un pubblico servizio (cfr. Cass., Sez. II, n. 7226 del 7.2.2006; Cass., Sez. II, 28 gennaio 2005, n. 8771; Cass., Sez. II, n. 8797 dell’11.2.2003, quest’ultima in relazione alle Poste Italiane S.p.A.; Cass., Sez. II, n. 5028 del 17.3.1999, in relazione alle Ferrovie dello Stato; Cass., Sez. I, 23 marzo 1987, Lucarelli). • G.U.P. del Tribunale di Nola dr.ssa Tamara De amicis sentenza n. 476/08 emessa in data 11 novembre 2008 e dep. il 12 novembre 2008 p e n a l e 76 VIOLENZA PRIVATA – BENE GIURIDICO TUTELATO – ELEMENTO OGGETTIVO. Sussiste il reato di violenza privata costituito dalla minaccia finalizzata a costringere la p.o. ad astenersi dal denunciare il reato appena subito. Il delitto di violenza privata tende a garantire non la libertà fisica odi movimento, bensì la libertà psichica dell’individuo e perciò si realizza quando l’agente, con suo comportamento violento o intimidatorio, eserciti una coartazione, diretto o indiretta, sulla libertà di volere o di agire del soggetto passivo, così da costringerlo ad una certa azione, tolleranza od omissione. Nel caso di specie, dunque, sono stati integrati tutti i suddetti elementi, posto che può considerarsi minaccia idonea nel senso indicato quella di raggiungere la p.o. e “fargliela pagare”, essendo tale espressione chiaramente allusiva ad un male futuro ma imminente e concreto. diritto Amministrativo Divieto di rinnovo tacito, nel codice dei contratti pubblici 79 Avv. Gaetana Marena Dottoranda di ricerca in diritto amministrativo Il rilascio del permesso di costruire in mancanza del prescritto piano attuativo 85 Filippo Cifarelli Avvocato Il codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 94 (D.Lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) A cura di Almerina Bove Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania Gazzetta F O R E N S E ● Divieto rinnovoao tacito, òkjdsfiafdioiayfoa nel codice contratti lkfafha ahfdei asha uas uas pubblici ● Avv. Gaetana Marena Dottoranda di ricerca in diritto amministrativo M a r z o • a p r i l e 2 0 0 9 79 1. Questioni teoriche JHjhzdajdgudya duaadgya in tema di distinzione tra proroga e Dal 1975 rinnovo delilcontratto regime patrimoniale che si instaura tra i Kiuygag La tematica asgg uaydgasudyg dell’ammissibilità aagauxag o meno iauiasg del rinnovo aixuag iaa contrattuale, tacito o espresso, presenta attualmente profili di rilevante problematicità, alla luce dei diversi interventi legislativi, che si sono susseguiti negli anni e che sono confluiti nel recentissimo Codice dei contratti pubblici relativi a servizi, lavori e forniture1. Anzitutto, per comprenderne i risvolti critici, bisogna premettere che l’intera attività contrattuale della Pubblica Amministrazione è governata dal principio della gara formale ad evidenza pubblica, canone imprescindibile, per poter addivenire ad una corretta aggiudicazione del contratto in capo al migliore offerente, vale a dire colui che, secondo le condizioni del mercato, risulti essere più idoneo a soddisfare l’interesse pubblicistico2 , alla luce della prestazione concretamente offerta. Nel settore dei contratti pubblici, infatti, sono previste procedure rigide ed inderogabili, affinché sia tutelata la trasparenza e la correttezza della gestione del denaro pubblico, nonché gli interessi di tutti gli aspiranti contraenti delle Pubbliche Amministrazioni. Ma, se da un lato, l’esigenza tipicamente comunitaria impone la predeterminazione di procedure selettive3, dall’altro, si contrappone la sempre più avvertita esigenza di liberalizzare l’attività contrattuale amministrativa, in un’ottica decisamente privatistica. 1 Approvato con D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (G.U.R.I. n. 100 del 2 maggio 2006 – Suppl. Ord. n. 107 – in vigore dal 1° luglio 2006) – Codice dei contratti pubblici dei lavori, servizi e forniture in attuazione delle Direttive 2004 /17/CE e 2004 /18/CE 2 Sul punto F. Caringella, in Corso di Diritto Amministrativo, Milano, 2005, p. 2262, osserva che: “Ebbene, la normativa dell’evidenza pubblica interna aveva una chiara finalità, evincibile dall’inserimento della stessa nell’ambito della disciplina dei conti pubblici, di tutelare l’interesse della Pubblica Amministrazione al conseguimento della miscela ottimale tra qualità ed economicità. Era cioè tutta diretta ad imporre una procedura pubblicistica capace di assicurare alla Pubblica Amministrazione la stipulazione del contratto e la scelta del contraente più idoneo a consentire il conseguimento della migliore prestazione alle condizioni economicamente più favorevoli. L’evidenza pubblica nazionale non è allora diretta alla tutela dell’interesse dei contraenti potenziali a partecipare ad una procedura che consenta loro di giocare le proprie chances competitive e le proprie possibilità di teorico successo, ma è tutta, invece, proiettata verso l’interesse della Pubblica Amministrazione. Le coordinate cambiano quando passiamo all’evidenza pubblica comunitaria. Con tale normativa si vuole consentire a tutte le imprese della Comunità Europea di poter avere secondo il principio della par condicio una chance concorrenziale di partecipazione e di procedure di gara e di stipulazione del relativo contratto”. 3 La previsione di una procedura analitica ed inderogabile al tempo stesso garantisce la Pubblica Amministrazione e l’aspirante contraente, assicurando la formazione di una volontà lecita e legittima del potere pubblico, a seguito della quale nessun offerente possa ritenersi illegittimamente danneggiato. Si aderisce alla tesi espressa da A. Carullo, il quale afferma che: “la procedimentalizzazione dell’attività amministrativa diviene in questo settore particolarmente puntuale, in quanto mira da un lato a rendere trasparente l’azione stessa, dall’altro ad assicurare a tutti i concorrenti uguali possibilità di conoscenza della richiesta della stazione appaltante su cui basare l’offerta e sperare nel relativo contratto”. Cfr. A. Carullo, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, 3° edizione, Padova, p. 241. Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o a mm i n i s t r a t i v o Proprio la necessità di ampliare la discrezionalità amministrativa in tale settore ha stimolato varie interpretazioni giuridiche su certe norme del sistema, piuttosto ambigue nella loro formulazione. Dottrina e giurisprudenza, da sempre, si sono interrogate sull’ammissibilità di istituti, quali il rinnovo e la proroga4 dei contratti stipulati dalla P.A. con i privati, considerando la loro valenza essenzialmente derogatoria, data dal forte contrasto con i principi comunitari della pubblicità, della trasparenza e della tutela della concorrenza. Senza contare poi che è stato considerato regola cardine, orientativa della fase esecutiva degli appalti pubblici, l’art. 2 del R.D. 2440/1923, che sancisce che i contratti devono avere termini e durata certa, senza possibilità di variazione in corso di esecuzione. L’interesse interpretativo, pertanto, nel tentativo di fornire una soluzione univoca al problema, si è incentrato sulla necessità di differenziare, sotto un profilo tipicamente ontologico e strutturale, i due istituti della proroga e del rinnovo, la cui definizione non è stata sempre del tutto pacifica. Da un punto di vista pratico, è innegabile che entrambi consentano una prosecuzione del rapporto tra le stesse parti e ciò ha indotto una corrente giurisprudenziale a negare ogni forma di distinzione tra le due figure, pervenendo alla dubbia configurazione del rinnovo come una proroga5. In realtà, la distinzione non è meramente terminologica, posto che la proroga si atteggia come una mera modifica contrattuale, che incide sul medesimo rapporto contrattuale e che si sostanzia in un semplice spostamento in avanti del termine di durata; il rinnovo, invece, come un nuova negoziazione con il medesimo soggetto, e cioè in un rinnovato esercizio dell’autonomia negoziale, mediante il quale le parti danno vita ad rap- 4 Il problema della differenziazione tra rinnovo e proroga è stato affrontato da A. Laino, Proroga e rinnovo tacito nei contratti d’appalto pubblici di forniture e di servizi, nella Rivista trimestrale degli appalti, 2005, n. 1, p. 289, nonché da Olivieri, Differenze tra rinnovo e proroga dei contratti, nonché tra il rinnovo di cui alla legge n. 537 del 1993 ed in nuovi servizi di cui al D.Lgs. n. 157 del 1995 in www.lexitalia. it. Anche la giurisprudenza è intervenuta a tal proposito ribadendo che: “Osserva il Collegio che il rinnovo, consistente, come noto, in una nuova negoziazione tra le medesime parti per l’instaurazione di un nuovo rapporto giuridico…” (T.A.R.-Lazio, sez. I bis, 12 dicembre 2005, n. 13405, in Giur. it., 2006, p. 1310) ed ancora: “Mentre la proroga del termine finale di un appalto pubblico di servizi sposta in avanti la scadenza conclusiva del rapporto, il quale resta regolato dalla fonte originaria, il rinnovo del contratto comporta, infatti, una nuova negoziazione con il medesimo soggetto, ossia un rinnovato esercizio dell’autonomia contrattuale” (T.A.R.-Lazio, sez. I bis, 31 marzo 2005, n. 2367; T.A.R.-Lazio, sez. I bis, 13 febbraio 2006, n. 1064, in Giur.it, 2006, p. 1532). 5 Tale affinità è stata evidenziata nella nota sentenza del Consiglio di Stato (Cons. St., sez. V, 19 febbraio 2003, n. 921, in Dir. e giust., 2003, fasc. 18, p. 84), in cui si sottolinea che il rinnovo di cui all’art. 27, comma 6, L. n. 488 del 1999 (norma che in realtà conteneva una limitazione al ricorso del rinnovo e non una figura particolare dello stesso) è in effetti una proroga. 80 porto giuridicamente nuovo, ma con il medesimo contenuto. Alla diversa natura dei due atti corrisponde una differente legittimazione per la Pubblica Amministrazione, a seconda che si voglia utilizzare l’uno istituto, anziché l’altro. È infatti noto che la legittimazione a stipulare un contratto d’appalto pubblico sorga in capo alla Pubblica Amministrazione solo con un provvedimento che, di solito, segue ad una procedura concorsuale in esito alla quale si sceglie il contraente e si definisce l’oggetto del contratto medesimo. La capacità per la Pubblica Amministrazione di attuare una proroga, quindi, non può che derivare dall’originaria legittimazione sorta a seguito del procedimento attuato e sfociato nel relativo provvedimento conclusivo, proprio perché, atteggiandosi come mera modifica dell’esecuzione del contratto, si giustifica sul medesimo titolo che aveva acconsentito la stipulazione del contratto. Alla luce di ciò, dunque, essendo l’attività contrattuale della Pubblica Amministrazione preordinata alla stipula di contratti di durata certa e pertanto necessariamente preceduta dalla predeterminazione della durata stessa del contratto, anche la possibilità di proroga deve essere espressamente contemplata nel provvedimento amministrativo che legittima la conclusione del contratto. In difetto di una tale clausola, l’esercizio della proroga contrattuale esorbiterebbe dalla legittimazione a stipulare e si risolverebbe nell’adozione di un atto in carenza assoluta di potere. Lo stesso discorso interpretativo si pone per il rinnovo contrattuale, rispetto al quale si avverte l’esigenza di individuare il momento preciso in cui sorge la legittimazione a contrarre in capo alla Pubblica Amministrazione, considerando la diversità ontologica dei due istituti. Se, dunque, la proroga è una continuazione della stessa legittimazione giustificatrice del primo negozio, data la derivazione della capacità dell’organo amministrativo di attuare una proroga dall’originaria legittimazione contrattuale, il rinnovo, invece, non è una reviviscenza di una legittimazione ormai esaurita, posto che, comportando la costituzione di un nuovo rapporto giuridico, non può essere legittimato dallo stesso atto, che aveva giustificato la stipulazione del contratto6. 6 A tal punto pare che il rinnovo debba essere trattato al pari di una qualsiasi prima aggiudicazione e difatti, tanto è vero che è stato necessario per il legislatore prevedere delle norme specifiche (quali l’art. 6, L. n. 537 del 1993 abrogato dall’ art. 23, L. n. 62 del 2005) attraverso le quali riconoscere una rilevanza giuridica ad un fatto (ossia la conclusione e l’esecuzione di un primo contratto) perché in presenza di determinate circostanze (ossia un particolare interesse pubblico) la Pubblica Amministrazione potesse essere legittimata nuovamente ad esercitare un potere analogo a quello riferito al primo contratto e stipularne uno nuovo avente medesimi contraenti ed oggetto. Gazzetta F O R E N S E g e nn a i o • f e b b r a i o 2. Evoluzione storico-legislativa dell’istituto del rinnovo contrattuale Fatte le dovute premesse teoriche d’inquadramento dogmatico degli istituti afferenti al caso di specie, bisogna far riferimento all’evoluzione storica e legislativa, che li ha caratterizzati, per poi illustrare il dibattito giurisprudenziale e dottrinale che ne è seguito. Il rinnovo contrattuale vantava un solo7 riconoscimento positivo nell’ordinamento, rinvenuto nel comma 2, dell’art. 6, L. 537/938, il quale, nel sancire un generale divieto di rinnovo tacito, pena la nullità del contratto, riconosceva una particolare tipologia di rinnovo espresso, consentendo cioè alle Pubbliche Amministrazioni di poter rinnovare un contratto di pubbliche forniture entro tre mesi dalla scadenza originariamente prevista, ove ne fossero preventivamente accertate ragioni di convenienza e di pubblico interesse. In verità dottrina e giurisprudenza si erano posti il problema della sopravvivenza di tale norma e quindi della possibilità di operare il rinnovo, a seguito dell’ emanazione del D.Lgs. n. 157 del 1997, che prevedeva una serie di procedure inderogabili, nelle quali non rientrava la possibilità di rinnovare i contratti di pubbliche forniture, se non tramite l’utilizzo dell’istituto della trattativa privata. Oltretutto il problema della sopravvivenza dell’art. 6, legge n. 537 del 1993, si era posto anche a seguito dell’emanazione dell’art. 27 della legge 1999 n. 488 (legge finanziaria 2000), il cui sesto comma disponeva che “i contratti per acquisti e forniture di beni e servizi delle amministrazioni statali, stipulati a seguito di esperimento di gara, in scadenza nel triennio 2000-2002, possono essere rinnovati per una sola volta e per un periodo non superiore a due anni”. In sostanza ci si chiedeva se, a seguito dell’intervento operato dalla legge finanziaria, fosse stato abrogato 7 In effetti vi sono altre fattispecie marginali che consentono un affidamento diretto di un contratto ad un soggetto che ha già rapporti contrattuali con l’Amministrazione appaltante. Ci si riferisce, in particolare, all’art. 10, comma 2, L. 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002), relativo alla concessione del servizio di accertamento e di riscossione dell’imposta comunale sulla pubblicità e dei diritti sulle pubbliche affissioni e l’art. 26, L. 23 dicembre 1999, n. 488 (legge finanziaria 2000), relativo alla possibilità che il Ministero del Tesoro potesse stipulare convenzioni con primarie società, scelte con il sistema dell’evidenza pubblica, a seguito delle quali poter richiedere, entro determinate quantità e previa relativa richiesta, l’erogazione di servizi e forniture. Cfr. A. Massari, Sistemi alternativi all’appalto ad evidenza pubblica nell’attività contrattuale degli enti pubblici, Santarcangelo di Romagna, 2005. 8 Il testo originario dell’art. 6, comma 2, L. n. 537 del 1993, prima che venisse abrogato dall’art. 23 della legge comunitaria 2004 era il seguente: “È vietato il rinnovo tacito dei contratti delle Pubbliche Amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione di tale divieto sono nulli. Entro tre mesi dalla scadenza dei contratti, le Amministrazioni accertano la sussistenza di ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente la volontà di procedere alla rinnovazione”. 2 0 0 9 81 l’intero istituto del rinnovo oppure se si fossero previste unicamente delle limitazioni al suo utilizzo. In realtà la giurisprudenza ha sempre implicitamente riconosciuto la sopravvivenza della norma in esame9, almeno fino al successivo intervento abrogativo operato dall’art. 2310 della legge comunitaria del 2004, adottata a sua volta all’esito di una particolare procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Europea nei confronti dell’Italia. In sostanza la Comunità Europea ha sempre lamentato il contrasto della previsione del rinnovo contrattuale con i principi comunitari, dal momento che l’art. 6 della legge del 1993 consentiva alle Pubbliche Amministrazioni di stipulare contratti d’appalto, senza alcuna procedura di messa in concorrenza, vulnerando dunque i principi della trasparenza e della pubblicità. Proprio per porre fine alla procedura d’infrazione avviata nei confronti dell’Italia, volta ad accertare l’incompatibilità comunitaria della disciplina di cui all’art. 6, il legislatore è intervenuto con l’art. 23 della legge 62/2005 (legge comunitaria 2004), abrogando l’ultimo periodo dell’art. 6, comma 2, della legge 573/93 e pertanto espungendo dall’ordinamento l’unica forma di rinnovo espresso legislativamente tipizzata. Tale orientamento è stato recepito nell’art. 57, ultimo comma, del Codice dei contratti pubblici, introdotto con D.Lgs. 163/06, il quale, nel tentativo di dare una compiuta sistemazione alla materia degli appalti pubblici, ha riordinato in un unico corpo tutte le leggi finora emanate, ha semplificato l’intera materia di settore, armonizzandola con quella comunitaria ed ha introdotto nuovi istituti, nell’ottica di favorire la concorrenza e la trasparenza negli appalti. Con riferimento agli istituti del rinnovo e della proroga, l’art. 57 conferma il divieto del rinnovo tacito, estendendolo anche ai lavori e sanzionandone la violazione con la nullità del contratto. 3. Orientamenti giurisprudenziali sulla portata applicativa del divieto del rinnovo tacito Proprio il susseguirsi degli interventi legislativi in materia ha fatto sorgere il dubbio agli operatori del settore se potesse ancora ammettersi una generica fattispecie di rinnovo contrattuale o se, invece, le norme avessero per implicito sancito un divieto di rinnovo, non solo tacito, ma anche espresso. Ciò ha generato un acceso dibattito giurisprudenziale in materia, che ha visto molto spesso T.A.R. e Consiglio di Stato arroccarsi su posizioni diversificate ed alquanto contraddittorie11. 9 Sul punto, M. Comba, Il rinnovo senza gara degli appalti di servizi e forniture, in Urbanistica e Appalti, 2005, n. 2, p. 129. 10 Circa l’ambito applicativo dell’art. 23, L. 62 del 2005, cfr. M. G. Roversi Monaco, Rapporti in corso e rinnovazione nei contratti della Pubblica Amministrazione, in www.giustizia–amministrativa.it. 11 Le prime decisioni amministrative sul punto appaiono alquanto discordanti; infatti da una parte: “la norma (art. 23, L. n. 62 del 2005) non ha espressamente sancito un divieto assoluto generalizzato di Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o a mm i n i s t r a t i v o In senso contrario alla configurabilità dell’istituto del rinnovo, alla luce delle modifiche legislative, si è espresso il T.A.R. Lazio nella Decisione n. 1786 del 2006, il quale afferma che l’operazione attuata dall’art. 23 della legge comunitaria 2004 conseguiva alla necessità di eliminare dall’ordinamento italiano un istituto contrastante con i principi comunitari, in quanto derogatorio rispetto alla regola della gara ad evidenza pubblica nella scelta del contraente privato. Tale convinzione viene ribadita nella parte della decisione in cui si sostiene che nella scelta del contraente la regola orientativa cardine dell’operato della Pubblica Amministrazione è rappresentata dall’espletamento di procedure concorsuali12. Da quanto affermato si traggono importanti conseguenze. Per il T.A.R. Lazio, in altri termini, l’ordinamento italiano e quello comunitario impongono l’utilizzazione delle procedure ad evidenza pubblica nella scelta del contraente privato, rispetto alle quali la trattativa privata si pone come strumento eccezionale, utilizzato solo in presenza di particolari circostanze. Arroccato su posizioni altrettanto contrarie all’ammissibilità dell’istituto del rinnovo contrattuale è il Consiglio di Stato, con sentenza n. 2866/07, che sembra aver posto un veto definitivo sulla possibilità di rinnovare i contratti scaduti, sancendo la ineludibile contrarietà dell’istituto con i principi comunitari e configurando il rinnovo contrattuale espresso come un’ipotesi di trattativa privata senza bando, diversa da quelle tassativamente consentite dal diritto comunitario. ricorrere all’istituto del rinnovo contrattuale…” (T.A.R.-Lazio, sez. I bis, 12 dicembre 2005, n. 13405); dall’altra: “lo scopo della norma del 2005 sembra essere quello di eliminare la fattispecie del rinnovo contrattuale in sé considerato, sia esso tacito sia esso espresso, ritenendo comunque necessario, alla scadenza del contratto, l’espletamento delle gare ad evidenza pubblica in conformità con la disciplina comunitaria e con i principi generali dell’ordinamento (T.A.R.Napoli, sez. I, 20 dicembre 2005, n. 20502, con nota di D. Pantano, Il rinnovo dei contratti della Pubblica Amministrazione: istituto duro a morire, in www.lexitalia.it). Ad onor del vero, le sentenze appena citate convergono sull’applicabilità dell’art. 7 D.Lgs. 157/1995 che consente a particolari condizioni, il ricorso alla trattativa privata senza pubblicazione del bando. In effetti l’incongruenza a cui esse sembrano giungere, potrebbe essere il frutto di una non corretta individuazione della domanda che ci si dovrebbe porre nell’affrontare la presente problematica; sia le tesi delle parti contro le quali sono state pronunciate le sentenze, sia gli scritti intervenuti sul punto, infatti, sposano direttamente la tesi dell’applicabilità o meno del rinnovo da parte della Pubblica Amministrazione, senza fornirne un’interpretazione autonoma dagli altri istituti presenti nel nostro ordinamento e disciplinati dalle leggi di settore, i quali sono qualcosa di diverso dal rinnovo. Di quanto detto si riscontra una prova concreta nell’utilizzo dell’accezione di rinnovo in relazione all’istituto della trattativa privata di cui all’art. 7, D.Lgs. cit. 12 Il testo della decisione del T.A.R.-Lazio a cui ci si riferisce è il seguente: “le procedure concorsuali per la scelta del contraente da parte della Pubblica Amministrazione rappresentano la regola orientativa cardine dell’operato della Pubblica Amministrazione nella scelta del privato contraente; mentre la trattativa privata costituisce l’eccezione e quindi è suscettibile di essere legittimamente scelta laddove ricorrano le condizioni ed i presupposti di legge”. 82 In termini più dettagliati, il Consiglio di Stato ha affermato che l’art. 23, comma 1, della legge n. 62 del 2005 che ha abrogato l’ultimo periodo dell’art. 6, comma 2, legge n. 537 del 1993, ha introdotto nell’ordinamento italiano il divieto di rinnovazione dei contratti di servizi e forniture, fatte salve le limitate deroghe previste espressamente da disposizioni nazionali, attuative di corrispondenti previsioni comunitarie, da interpretarsi in modo rigoroso e restrittivo. Tale divieto è stato recepito nell’art. 57 del Codice dei contratti, non solo relativamente ai lavori (oltre che come tradizione ai servizi ed alle forniture) ma anche con riferimento al rinnovo espresso, atteso che dalla collocazione sistematica delle norme si desume che è vietata qualsiasi ipotesi di rinnovo al di fuori dei casi espressamente sanciti dal medesimo art. 57. Pertanto il Consiglio di Stato sostiene che un rinnovo espresso al di fuori dei casi contemplati dall’ordinamento (oggi dal Codice dei contratti, ieri dalla legge Merloni) darebbe luogo ad una nuova figura di trattativa privata pura non consentita dal diritto comunitario13. In senso decisamente favorevole si è espresso il T.A.R. Lazio, sez. I bis, con sentenza n. 1064/06, il quale ha definito l’ambito applicativo dell’art. 23, L. 62/05, puntualizzando che tale previsione di legge non ha inteso espungere dall’ordinamento la possibilità di rinnovazione del rapporto negoziale oltre il termine per esso originariamente fissato. La ratio sottesa all’abrogazione operata dall’art. 23 va individuata, in coerenza con gli obblighi derivanti dall’appartenenza dello Stato italiano all’Unione Europea, nell’esigenza di salvaguardia di una effettiva esplicazione della libera concorrenza del mercato, attraverso l’eliminazione di un indiscriminato ricorso a procedure derogatorie al principio della gara ad evidenza pubbli- 13 In realtà, alla luce dei recenti interventi legislativi, è possibile intravedere una deroga alla normativa dell’evidenza pubblica, in ambito contrattuale, proprio nel nuovo dettato dell’art. 1, comma 1 bis, L. n. 241 del 1990, per il quale “la Pubblica Amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Con l’introduzione del comma primo bis appena citato, infatti, si potrebbe sostenere che la Pubblica Amministrazione possa utilizzare strumenti di tipo privatistico, quali il rinnovo, purché si rispettino, sotto il profilo sostanziale, tutte le garanzia previste dalle norme di settore. Seguendo cioè la tesi illustrata, si erigerebbe la norma citata a riconoscimento legislativo di un potere all’utilizzo del rinnovo secondo il diritto privato. Non si può negare che da un punto di vista privatistico sia legittimo parlare di rinnovo contrattuale come strumento voluto dai contraenti; il fatto è, però, che, fino a quando una norma non preveda espressamente l’utilizzabilità del rinnovo contrattuale da parte della Pubblica Amministrazione, lo stesso istituto non assume pari dignità rispetto alle procedure previste dalle leggi di settore. D’altra parte, è lo stesso comma primo bis che esclude l’applicabilità del diritto privato quando vi siano delle norme che dispongano altrimenti. Consegue, pertanto, dalle affermazioni sostenute che il rinnovo contrattuale sia un istituto inapplicabile dalla Pubblica Amministrazione e che quindi tale termine venga utilizzato secondo un’accezione atecnica per definire il riaffidamento di un contratto a seguito di trattativa privata. Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE ca14, onde scongiurare una prassi generalizzata di attribuzione di pubblici servizi in assenza di uniformità e trasparenza. Conseguentemente il T.A.R. Lazio esclude che nella novella del 2005 possano essere rinvenute ragioni ostative all’esercizio del potere di procedere al rinnovo dei contratti d’appalto, ribadendo pertanto la perdurante vigenza, all’interno dell’ordinamento, del principio di rinnovabilità dei rapporti contrattuali intrattenuti tra la Pubblica Amministrazione ed i privati. Dello stesso orientamento risulta la sentenza n. 13403/05, sempre del T.A.R. Lazio, sez. I bis, la quale rileva che il rinnovo contrattuale, consistente in una nuova negoziazione tra le medesime parti per l’instaurazione di un nuovo rapporto giuridico, si atteggia quale trattativa privata, ovvero quale rinnovato esercizio dell’autonomia negoziale tra gli originari contraenti. Pertanto, la stessa trova piena praticabilità, sia pure nei limiti di un’eccezionale deroga all’esperimento di procedure selettive ad evidenza pubblica, come indicati dalla norma comunitaria. Il ricorso, dunque, a questo strumento contrattuale non si pone in contrasto con i principi di concorrenza e trasparenza tutte le volte che questa facoltà sia stata espressamente considerata in sede di indizione della prima gara e recepita nella conclusiva stipula contrattuale, e più precisamente ogniqualvolta detta facoltà sia contemplata nel bando di gara prima e nel vincolo negoziale poi. Ciò non pregiudica le regole comunitarie, dal momento che i partecipanti sono già previamente messi in condizione di conoscere l’eventuale esercizio di tale diritto ed il tutto si pone in perfetta sintonia con il principio di legalità. È noto infatti, seguendo le più ampie trattazioni manualistiche15, che l’azione amministrativa sia condi- 14 Per sistema ad evidenza pubblica s’intende quel complesso di norme disciplinanti le procedure che le Amministrazioni devono seguire per selezionare le controparti nella stipula di contratti pubblici. Più precisamente ci si riferisce ad un aspetto dell’evidenza pubblica, ossia al procedimento di formazione dell’accordo tra le parti ed in particolare al procedimento d’individuazione del contraente privato; la necessità di rispettare tale procedimento, infatti, costituisce una di quelle deroghe al diritto privato alle quali sono soggetti i contratti ad evidenza pubblica, definiti dal Virga nel suo manuale Diritto Amministrativo (Virga, Diritto Amministrativo, 6° ed., Milano, p. 315) come: “quei contratti che trovano nelle fonti del diritto pubblico una disciplina sostanziale specifica, che differisce da quella degli analoghi contratti di diritto privato. Fra tali contratti assumono rilievo il contratto d’appalto di lavori pubblici, il contratto d’appalto di servizi pubblici ed il contratto di fornitura pubblica”. 15 Cfr. tra le tante, L. Mazzarolli, Diritto Amministrativo, Bologna, p. 1291 e ss.; V. Cerulli Irelli, Corso di Diritto Amministrativo, Milano, 2001, p. 36 e ss.; G. Vignocchi e G. Ghetti, Corso di Diritto Pubblico, 6 ° ed., Milano, p. 344 e ss.; G. Virga, il quale rinvia al Giannini, Diritto Amministrativo, Milano, 1988, per una più approfondita trattazione sul principio di tipicità degli atti amministrativi. 2 0 0 9 83 zionata dal principio di legalità16 e debba agire, quantomeno nell’adozione di atti autoritativi, tramite poteri tipici, ossia provvedimenti la cui causa ed i cui effetti siano determinati dalla legge ed, in alcuni casi, per la cui adozione siano previsti speciali procedimenti di formazione. Favorevole alla piena applicabilità dell’istituto del rinnovo espresso è anche l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, la quale, con deliberazione n. 183, emessa nel corso dell’adunanza del 13 giugno 2007, esclude un’interpretazione estensiva dell’art. 23, volta a configurare un generale divieto di rinnovo, tacito ed espresso, dei contratti pubblici, sulla base di una serie di argomentazioni, tra le quali il richiamo a due disposizioni del Codice dei contratti pubblici, ex D.Lgs 163/2006, che sembrano contemplare tale istituto. Innanzitutto, l’art. 29, comma 1, che stabilisce che per il calcolo del valore stimato degli appalti e delle concessioni si deve tener conto di qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto e l’art. 57, comma 5, che fa riferimento alla diversa ipotesi della ripetizione di lavori e servizi analoghi, già affidati all’operatore aggiudicatario del contratto iniziale, ammettendo per questi la possibilità del ricorso alla procedura negoziata senza bando. Quindi, l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici giunge alle conclusioni sopra esposte, asserendo che se è ammessa la ripetizione dei servizi analoghi, non si comprende perché debba escludersi il semplice rinnovo, che è una fattispecie in qualche misura riconducibile alla prima. 4. L’opportunità di prevedere la nullità dei contratti rinnovati tacitamente Nel cercare di fornire una corretta interpretazione dell’intervento abrogativo attuato dalla legge comunitaria 2004 e confermato dall’art. 57 del Codice dei contratti pubblici, pare opportuno individuare il motivo per cui il legislatore, pur prevedendo come inderogabili le norme dell’evidenza pubblica per la selezione del contraente privato, con conseguente illegittimità dei con- 16 Sul punto, AA.VV., op. cit., p. 1219: “il principio di legalità si ricava implicitamente dalla Costituzione ed esprime la soggezione dell’attività amministrativa alla legge o, come si usa dire con un’efficace espressione dovuta a Crisafulli, la raffrontabilità dell’atto con la previa normativa…In realtà il rapporto legge-Amministrazione (e dunque il principio di legalità) richiede una distinzione tra legalità formale e legalità sostanziale. La legalità sostanziale esprime il concetto per cui l’Amministrazione deve operare secondo legge; la legalità formale, invece, esprime l’obbligo di operare nei limiti della legge o anche sulla base di semplici autorizzazioni formali legislative. La legalità sostanziale investe il provvedimento; la legalità formale, invece, le attività non autoritative; libero poi il legislatore di sottoporre quest’ultime a limiti più rigorosi e dunque alla legalità sostanziale…la legalità sostanziale…la legge determina le finalità, le procedure da seguire, l’oggetto, la forma, gli effetti del provvedimento e, del resto, trattandosi di materie coperte da riserva di legge, il legislatore è tenuto ad indirizzare la Pubblica Amministrazione con criteri obiettivi e non generici”. Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o a mm i n i s t r a t i v o tratti stipulati in violazione di tali norme, si sia preoccupato di sanzionare espressamente con la nullità un tale tipo di violazione. Sotto il profilo storico, il divieto contenuto nell’art. 6, legge n. 537 del 1993 interveniva per limitare una prassi diffusa nelle Pubbliche Amministrazioni di prevedere, anche nei contratti stipulati a seguito di pubbliche procedure, clausole che permettessero rinnovi taciti. Sotto un profilo giuridico, invece, una previsione espressa di nullità evita dubbi interpretativi sulle sorti del contratto rinnovato tacitamente; si pensi infatti alla duplice opzione di qualificare il rinnovo tacitamente intervenuto come atto adottato in carenza assoluta di potere, quindi nullo, oppure in violazione di legge, quindi semplicemente annullabile negli ordinari termini di decadenza. 84 Laddove poi si fosse seguita la seconda tesi, pur a seguito di una tempestiva impugnazione da parte di terzi, sarebbe stata vanificata ogni forma di tutela risarcitoria in forma specifica, se il contratto fosse stato anche parzialmente eseguito e se la prosecuzione del rapporto illegittimamente instaurato potesse essere giustificato da una valutazione discrezionale di perseguimento d’interesse pubblico, affidata alla stessa Amministrazione che aveva provveduto a rinnovare il contratto. Indubbiamente le norme dell’evidenza pubblica si atteggiano a principi inderogabili, la cui violazione, anche in difetto di una espressa previsione di legge, avrebbe dovuto portare ad una qualificazione del contratto rinnovato tacitamente come nullo, anziché annullabile. Ad ogni modo, un’espressa previsione della nullità contribuisce alla esigenza del diritto. Gazzetta F O R E N S E M a r z o • a p r i l e 85 2 0 0 9 PARTE PRIMA ● I PRINCIPI ISPIRATORI DELLA L.R. 16/2004 E LA PIANIFICAZIONE DI ATTUAZIONE Il rilascio del permesso di costruire in mancanza del prescritto piano attuativo* ● Filippo Cifarelli Avvocato Avvocato ● Filippo Cifarelli 1. La legge reg. n.16/2004 ed i principi ispiratori in materia di pianificazione urbanistica 1.1 Il ruolo dei comuni ed il rafforzamento della loro autonomia pianificatoria La ridefinizione delle potestà e delle competenze regionali determinate dalle modifiche al titolo V della Costituzione e dalla nuova formulazione dell’art. 117 Cost., ha dato spunto al Legislatore regionale di riorganizzare la materia urbanistica sulla base di valori e obiettivi caratterizzanti quel “governo del territorio” affidato alle autonomie locali. Difatti, già ad una prima lettura, la legge urbanistica campana, evidenzia una forte valorizzazione dei principi autonomistici. Ciò si evince, innanzitutto, dalla disciplina dei procedimenti di pianificazione urbanistica. In merito, si osserva che dallo spirito della normativa in esame emerge una situazione di sostanziale pariordinazione degli enti preposti alla predisposizione dei vari livelli di pianificazione. è sicuramente emblematico - e pertanto va rimarcato - che i Comuni siano ora coinvolti anche nella formazione dei piani sovraordinati e che addirittura possano attraverso l’approvazione del PUC determinare variazioni dei PTR e dei PTCP (cfr. art. 24 n. 9 L.R. 16/2004). Tale punto è chiaramente emblematico di un rapporto di “interferenza”, interazione e di consequenziale flessibilità che vi è tra i diversi livelli di pianificazione (PTR, PTCP e PUC), che consente, in sede di adozione di un piano sott’ordinato, di proporre varianti al piano sovraordinato. Ciò comporta una evidente inversione rispetto al modello tradizionale e induce a classificare il sistema di pianificazione non più come “modello a cascata”, ma come struttura che si caratterizza, invece, per il suo moto “ascensionale”, sia nel rapporto tra Enti, sia in quello relativo ai diversi livelli di pianificazione. In tale contesto, il Comune non è più titolare di un potere pianificatorio dall’ambito ristretto, dalla ridotta discrezionalità e circoscritto da vincoli fissati dagli altri livelli di pianificazione e dai paletti posti in sede di controllo dagli altri Enti, ma diviene protagonista del fenomeno pianificatorio locale, con ampia facoltà di incidere sui piani sovraordinati. In altre parole, la legge urbanistica sancisce la piena autonomia del Comune nella pianificazione urbanistica locale (cosa che va ben oltre la mera facoltà di occupazione di spazi residuali) e allo stesso tempo attribuisce a tale Ente un ruolo propulsivo nella variazione, nell’adeguamento e nella evoluzione dinamica dei piani sovraordinati. Da ultimo anello della catena e da ultimo stadio di un procedimento sequenziale il Comune (e conseguentemente la piani- Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o a mm i n i s t r a t i v o ficazione urbanistica comunale), rapportandosi ora su un piano paritario con gli altri Enti (e con gli altri livelli di pianificazione), diviene elemento centrale e costante “interfaccia” di collegamento reticolare con Regione e Provincia. 1.2 Il ruolo riconosciuto ai privati nella pianificazione urbanistica Ma vi è un altro aspetto della legge urbanistica che merita di essere evidenziato (e che costituisce logica conseguenza di quanto sopra esposto), ossia la rilevanza riconosciuta al principio della partecipazione dei privati, ora coinvolti a pieno titolo nel processo di formazione dello strumento urbanistico. La L.R. 16/2004, infatti, invertendo lo schema tradizionale, faculta i privati ad intervenire già nella fase di formazione del Piano, consentendo loro di fornire un prezioso contributo. Per i portatori di interessi privati, quindi, la partecipazione non si riduce alla mera facoltà di presentare osservazioni o opposizioni. La Dottrina, in merito, ha osservato che il coinvolgimento degli interessati, nel procedimento di approvazione dei piani urbanistici, si configura come espressione ed attuazione di quel principio di “sussidiarietà orizzontale”, che permea la legge urbanistica regionale. Tale aspetto emerge in tutta la sua evidenza nella predisposizione della pianificazione di tipo attuativo. L’art 27 della L.R.URB. prevede, infatti, nell’ipotesi di mancata adozione di un Piano urbanistico attuativo da parte dei Comuni, che i privati possano presentare, in via sostitutiva, una proposta di piano. All’uopo, inoltre, una serie di istituti (accordi di programma, conferenza dei servizi) vengono predisposti con il contemporaneo intento di semplificare le procedure e di prediligere la consensualità come modulo attuativo degli strumenti urbanistici generali. 1.3 Il potere di pianificazione e la sindacabilità delle scelte del Comune: orientamenti giurisprudenziali Con indirizzi esegetici univoci, che nella sostanza risultano anticipatori dei principi che, poi, sarebbero stati consacrati dal T.U. edilzia (D.P.R. 380/01) e dalla L.R. 16/04, la giurisprudenza amministrativa ha, in più circostanze, evidenziato la ampia discrezionalità che deve caratterizzare le scelte del comune nei procedimenti di pianificazione, circoscrivendo e preservando detto potere da indebite intromissioni degli altri Enti locali o di Altre Autorità e/o Poteri. Il Consiglio di Stato, infatti, ha ripetutamente asserito che in materia urbanistica “le scelte effettuate dalla Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità … essendo ormai assodato che in occasione della formazione di un piano urbanistico le scelte discrezionali della amministrazione non necessitano di apposita mo- 86 tivazione, neppure se le stesse afferiscano all’aspetto tecnico-discrezionale relativo alla scelta dei criteri seguiti nell’impostazione del piano stesso” (Cons. Stato, 20 settembre 2005, n. 4828). L’individuazione di precisi limiti cui vanno incontro Provincia e Regione negli interventi modificatori sul piano predisposto dal Comune ha dato spunto al Consiglio di Stato di ribadire in più di una circostanza l’illegittimità di “modifiche che integrino una sostanziale alterazione dell‘impostazione iniziale della pianificazione secondo le scelte effettuate in fase di adozione” (Cons. Stato, 20 settembre 2005, n. 4819). In sede di pianificazione urbanistica, quindi, la P.A. gode di ampio potere discrezionale, da esercitare nel rispetto dei limiti e dei vincoli derivanti dalle superiori fonti normative e dei criteri di logicità e razionalità delle scelte da effettuare. Ne consegue l’insindacabilità delle scelte pianificatorie dell’Ente, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o siano evidentemente illogiche (Cons. Stato, sez. IV, 7 agosto 2003, n. 4568). Il Consiglio di Stato ha altresì rimarcato la natura eccezionale delle norme (statali e regionali) che pongono dei limiti al potere discrezionale dei comuni in materia di pianificazione. Le recenti sopravvenienze normative ed il pregresso indirizzo ermeneutico espresso dalla Giurisprudenza consentono dunque di individuare un duplice ordine di obiettivi, da un lato la necessità di salvaguardare il potere di pianificazione comunale da indebite intromissioni e dall’altro la volontà di valorizzare il ruolo dei privati anche in riferimento a quegli strumenti previsti dalle norme antecedenti la L.R 16/2004. 2. La pianificazione attuativa nel T.U edil. E nella L. Urb. Reg. Camp. 2.1 Gli strumenti urbanistici di attuazione previsti dal T.U edil. e dalla normativa previdente Con la funzione di dare attuazione alle scelte urbanistiche contenute nei piani regolatori generali, i piani di attuazione -tra i quali spiccano per importanza i piani particolareggiati ed i piani di lottizzazione- sono finalizzati a disciplinare nel dettaglio l’edificazione nelle varie parti del territorio. Esplicativo della natura e delle funzioni dei piani attuativi è l’art. 13 della L. 1150/42, norma in cui si legge che: i piani regolatori generali dei comuni sono attuati di regola attraverso i piani particolareggiati di esecuzione, allorquando abbiano previsto soltanto un assetto programmatico e contengano solo previsioni di massima. In buona sostanza, posiamo affermare, sulla scorta dell’insegnamento fornito dalla Giurisprudenza, che la pianificazione attuativa nasce dalla necessità di contemperare la potenzialità edificatoria delle zone omogenee con la salvaguardia dei bisogni dell’intera collettività. In altri termini, la concretizzazione dello ius Gazzetta M ARZO • APRILE F O R E N S E aedificandi impone, attraverso le previsioni di un piano attuativo, un adeguato bilanciamento degli interessi individuali con quelli collettivi che talvolta esigono il potenziamento delle infrastrutture a servizio della collettività. Il dato normativo nazionale (D.P.R. 380/01) enuncia il principio della indefettibilità del piano attuativo prescritto dallo strumento generale (già desumibile dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, cfr. anche artt. 31 e 41 quinquies, ultimo comma, l. 17 agosto 1942 n. 1150,). Infatti, per l’art. 9, comma 2, del testo unico in materia edilizia (approvato col D.P.R. n. 380 del 2001), “nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto dell’edificazione” sono tassativamente ammessi alcuni lavori edilizi, tra cui non rientra la realizzazione di nuovi edifici, consentita solo quando sia approvato lo strumento attuativo. 2.2 I piani attuativi previsti dalla Legge urb. Reg. Analoghe per contenuto e finalità sono le norme della Legge Urb. Regionale che agli artt. 26 e 31 e ss. individua nel PUA lo strumento con cui “il comune provvede a dare attuazione alle previsioni del PUC” (art. 26), a detto piano attuativo, inoltre, compete la ripartizione sia delle quote edificatorie, sia dei diritti edificatori e degli obblighi nei confronti del comune e/o degli altri Enti pubblici. PARTE SECONDA IL RILASCIO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE IN MANCANZA DEL PRESCRITTO PIANO ATTUATIVO 3. La mancata approvazione dei piani di attuazione ed i presupposti per il legittimo rilascio del titolo abilitativo: (dis)orientamenti giurisprudenziali. Compito primario della pianificazione urbanistica è quello di coordinare l’attività edificatoria privata con la predisposizione di un adeguato sistema infrastrutturale, sicché la conformità urbanistica vale ad assicurare uno sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale. Ai sensi dell’art. 12 del d.p.r. 30 giugno 2001 n.380, il permesso di costruire va rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente. è tutt’altro che raro che i Comuni, abdicando dal ruolo fondamentale loro assegnato dalla Legge urbanistica e rinviando sistematicamente -benché urgenti- scelte ed interventi di tipo pianificatorio, omettano di predisporre i prescritti strumenti attuativi e/o non collaborino con i privati per l’approvazione dei piani attuativi che gli stessi hanno facoltà di proporre. Tali situazioni spesso culminano in contenziosi che hanno come Giudice naturale il Tribunale amministrativo. 2 0 0 9 87 3.1 Il principio originariamente affermato dalla Giurisprudenza amministrativa Come si è detto, il secondo comma dell’art. 9, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che “Nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell’articolo 3 del presente testo unico che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse. Tali ultimi interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell’interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo”. Il testo di tale norma è nella sua sostanza riproduttivo dell’art. 27 L. 457/78 che recitava: “Ove gli strumenti urbanistici generali subordinino il rilascio della concessione alla formazione degli strumenti attuativi… sono consentiti (solo) gli interventi previsti dalle lettere a-b-c-d dell’art 31…” (manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione). In ordine al dato normativo da ultimo menzionato, sin dai primi anni ’80, si era affermato un orientamento giurisprudenziale (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 20 maggio 1980 n. 18) secondo il quale “L’esigenza di un piano attuativo (di lottizzazione o particolareggiato), quale presupposto per il rilascio della concessione di costruzione, si pone allorché si tratti di asservire per la prima volta un’area non ancora urbanizzata ad un insediamento edilizio di carattere residenziale o produttivo, mediante la costruzione di uno o più fabbricati che obiettivamente esigano per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo la realizzazione o il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria; pertanto, è illegittimo il diniego di concessione edilizia fondato sulla carenza di un piano attuativo, anche se richiesto dal piano regolatore, quando l’area sia urbanizzata e difetti una rigorosa valutazione del nuovo insediamento progettato in rapporto alla situazione generale del comprensorio, e cioè quando non sia adeguatamente ponderato il grado di edificazione e lo stato di urbanizzazione già presente nella zona interessata, né siano in modo congruo evidenziate le concrete, ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione” (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 20 maggio 1980 n. 18 e 6 dicembre 1992 n. 12; sez. V, 13 novembre 1990 n. 776; 6 aprile 1991 n. 446 e 7 gennaio 1999 n. 1; T.A.R. Campania, sez. IV, 2 marzo 2000 n. 596; C.d.S., sez. IV, 4 dicembre 2007, n. 6171 e da ultimo C.d.S., sez. IV, 29 luglio 2008 n. 3771; nello stesso senso anche Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o a mm i n i s t r a t i v o alcune pronunce del T.A.R. Campania-Napoli tra cui da ultimo spicca la sentenza n. 4854/2001). Secondo il succitato consolidato indirizzo esegetico, la necessità della previa approvazione di un piano attuativo sussisterebbe per quelle aree non urbanizzate, sulle quali si edifica per la prima volta. Ricorrendo questi presupposti ben “può prescindersi dalla previa predisposizione di un piano esecutivo” (piano di lottizzazione o piano particolareggiato). Precipitato logico dell’enunciato principio è che non può considerasi legittimo il diniego di rilascio del titolo abilitativo, che sia basato sul solo argomento formale della mancata attuazione della strumentazione urbanistica di dettaglio… (cfr., per tutte, T.A.R. Campania, sez. IV, 6 giugno 2000 n. 1819 e da ultimo T.A.R. Campania –Napoli, sez. II, 24 aprile 2008, n. 496). Le successive puntualizzazioni della Giurisprudenza amministrativa sui presupposti per il rilascio in via diretta del titolo abilitativo alla edificazione Sul principio di diritto innanzi citato si sono innestate una serie di pronunce tese a precisarne i punti fondanti ossia: grado di edificazione-urbanizzazione, e reale necessarietà dello strumento attuativo. Il primo nodo da sciogliere è se nella valutazione del grado di urbanizzazione l’Amministrazione si debba attenere a parametri rigorosi e predeterminati o se invece detta valutazione debba essere condotta di volta in volta attraverso una verifica di fatto circa l’effettiva necessità dello strumento attuativo. Il grado di edificazione e di urbanizzazione Anche negli orientamenti improntatati ad un maggior favor verso il rilascio in via diretta del permesso di costruire, si riscontrano significative differenze in ordine al grado di edificazione e allo stato di urbanizzazione occorrente per poter prescindere dal piano attuativo. Così, per quanto concerne il grado di urbanizzazione, si è parlato di volta in volta di un’area che deve risultare sufficientemente urbanizzata oppure adeguatamente urbanizzata, mentre in altre circostanze il G.A. ha preteso che fosse riscontrabile “una sostanziale, anche se non integrale urbanizzazione”, o addirittura una totale urbanizzazione o quanto meno uno stato di sviluppo delle urbanizzazioni tale da rendere assolutamente superflui gli strumenti attuativi. Non dissimilmente è accaduto per la valutazione del grado di edificazione, in ordine al quale, nelle sentenze dei giudici di legittimità e di merito, si rinvengono i riferimenti di vario genere richiedendosi a volte una ampia edificazione, o la sussistenza di “zone largamente edificate”, oppure totalmente edificate (il lotto intercluso). A titolo esemplificativo si riportano di seguito i passaggi più significativi della recente giurisprudenza di merito campana: “qualora si sia in presenza di un lotto 88 intercluso o in altri analoghi casi in cui la zona risulti adeguatamente urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni connessi al realizzando insediamento edilizio -quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell’acqua e dell’energia elettrica, scuole, etc.- lo strumento urbanistico esecutivo non può ritenersi più necessario e non può, pertanto, legittimarsi un rifiuto da parte del Comune che sia basato sul solo argomento formale della mancata attuazione della strumentazione urbanistica di dettaglio” (cfr., per tutte, T.A.R. Campania, sez. IV, 6 giugno 2000 n. 1819 e da ultimo T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, 24 aprile 2008, n. 4969); “nei casi caratterizzati da una sostanziale, anche se non integrale urbanizzazione, la mancanza ovvero l’incompleta esecuzione dello strumento attuativo non può essere invocato ad esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia (cfr., per tutte, T.A.R. Campania, sez. IV, 8 maggio 2003, n. 5330; sez. II, 1 marzo 2006, n. 2498). In questa prospettiva, si ritiene che la reiezione possa giustificarsi soltanto nel caso in cui l’Amministrazione abbia adeguatamente ponderato lo stato di urbanizzazione già presente nella zona e abbia congruamente evidenziato le concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione” (T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, 19885/08); “per la soluzione della controversia, va richiamato l’orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, per cui nei casi caratterizzati da una sostanziale, anche se non integrale urbanizzazione, la mancanza ovvero l’incompleta esecuzione dello strumento attuativo non può essere invocato ad esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia” (cfr., per tutte, T.A.R. Campania, sez. IV, 8 maggio 2003, n. 5330; sez. II, 1 marzo 2006, n. 2498). “In questa prospettiva, si ritiene che la reiezione possa giustificarsi soltanto nel caso in cui l’Amministrazione abbia adeguatamente ponderato lo stato di urbanizzazione già presente nella zona e abbia congruamente evidenziato le concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione” (T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, 298/08). “In vista del rilascio del permesso di costruire è, dunque, necessario che esistano –ovvero se ne preveda l’imminente realizzazione– almeno le opere di urbanizzazione primaria stimate in concreto necessarie, in modo che la zona possa dirsi sistemata per l’insediamento e per il soddisfacimento delle esigenze delle famiglie che debbono fissarvi la dimora in armonia con le generali condizioni di igiene, di estetica e di viabilità che le norme sull’urbanistica tendono ad assicurare alle comunità locali. A tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di urbanizzazione primaria sono elencate dall’art. 4 della L. 29 settembre 1964 n. 847 e comprendono strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato” (T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, 2944/08). Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE Dall’esame degli orientamenti che precedono, si comprende che la posizione della più recente giurisprudenza di legittimità e di merito non distingue più in maniera netta le due contrapposte situazioni (area inedificata e non urbanizzata per la quale occorre la predisposizione dello strumento attuativo e area totalmente edificata e urbanizzata che da tale strumento può invece prescindere), ma sofferma la sua attenzione su quelle situazioni intermedie (nella prassi sicuramente molto frequenti) non necessariamente identificabili, né sovrapponibili con le fattispecie di “lotto intercluso” oppure con altre similari, nelle quali l’area interessata dall’intervento può risultare anche solo in parte, edificata, e, parallelamente, può essere più o meno asservita da opere di urbanizzazione. In tali casi, dove si era in presenza di una anche parziale edificazione e non completa urbanizzazione, si è affermata una soluzione interpretativa, ispirata alla esigenza di assicurare un equilibrato contemperamento dei diversi interessi in gioco, volta a valorizzare e rendere più pregnante l’onere motivazionale gravante a carico della amministrazione interessata. In tali casi, si ritiene che l’amministrazione non possa, né debba, invocare a fondamento del diniego di permesso di costruire la sola mancanza del piano attuativo, ma sia tenuta a verificare e valutare quale sia lo stato di urbanizzazione già presente nella zona e debba congruamente evidenziare e motivare quali siano le concrete e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione (sic T.A.R. Campania–Napoli, sez. II, 24 aprile 2008, n. 4969; cfr. anche, C.d.S., Ad. Plen., 6 ottobre 1992, n. 12; sez. V, 3 ottobre 1997 n. 1097; 25 ottobre 1997, n. 1189 e 18 agosto 1998, n. 1273; T.A.R. Lazio, sez. II, 29 settembre 2000, n. 7649; T.A.R. Campania, sez. IV, 2 marzo 2000, n. 596 e 18 maggio 2000, n. 1413). In altre parole, secondo l’orientamento da ultimo citato, non si può effettuare la valutazione della necessità del piano attuativo sulla base di schemi rigidi e attraverso la predeterminata individuazione di situazioni tipo (quali ad es. quella del “lotto intercluso”) in presenza delle quali sarebbe possibile ritenere, in maniera “automatica”, inutile la pianificazione di dettaglio, ma occorre procedere caso per caso ad una analisi in concreto dello stato di fatto che accerti l’effettiva indispensabilità del piano esecutivo. Tale indirizzo interpretativo appare sostanzialmente condiviso e avvalorato dalla recentissima giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. C.d.S., sez IV, 29 luglio 2008, n. 3771) che, sul punto, ha ribadito che “la necessità del piano attuativo viene meno allorché l’intervento costruttivo si collochi in aree nelle quali – per la configurazione acquisita a seguito della edificazione delle aree circostanti e per la esistenza delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria ritenute necessarie – la adozione di un qualsiasi strumento di dettaglio risulti 2 0 0 9 89 priva di concreta utilità” (cfr. anche C.d.S., sez. IV, 4 dicembre 2007, n. 6171). L’orientamento in questione appare permeato da una visione estremamente pragmatica del problema e rifiuta in partenza soluzioni ispirate ad un ossequio meramente formale della legge. In situazioni come quelle sopra descritte (esistenza dalla rete elettrica, fognaria, idrica e del metano ossia di tutte quelle opere indici di un adeguato grado di urbanizzazione – cfr. C.d.S., sez IV, 29 luglio 2008, n. 3771) la pretesa della preventiva approvazione dello strumento attuativo risulterebbe volta a dare un ossequio meramente formale alla astratta previsione di piano, e non già a realizzare concretamente le specifiche finalità dello strumento, attinenti proprio alla indicazione ed alla disciplina delle esigenze di carattere urbanistico ancora da soddisfare. Come si evince dalla citata sentenza (C.d.S., sez. IV, sent. n. 3771/08) il Consiglio non fa più riferimento ai presupposti predeterminati quali sono quelli del lotto intercluso e dell’area interamente urbanizzata, ma si limita a richiedere l’esistenza di una sufficiente urbanizzazione e di una larga edificazione. Nel caso di specie il Collegio ha avallato la condotta del Comune, che aveva rilasciato concessione diretta prescindendo dalla prescritta approvazione del piano esecutivo, osservando “che la zona di cui si tratta è in realtà dotata di tutte le infrastrutture necessarie, in quanto già largamente edificata e sufficientemente urbanizzata, risultando servita dalla rete elettrica, fognaria, idrica e del metano, nonché dotata di idonea viabilità. L’affermazione del principio in questione si rinviene anche in alcune sentenze del Giudice amministrativo campano secondo il quale: “il principio affermato dalla giurisprudenza prevalente secondo il quale, ai fini del rilascio della concessione edilizia, nelle zone già urbanizzate è consentito derogare all’obbligo dello strumento attuativo (piano particolareggiato o piano di lottizzazione convenzionata), può trovare applicazione solo nell’ipotesi, del tutto eccezionale, che si sia già realizzata una situazione di fatto che da quegli strumenti consenta con sicurezza di prescindere, in quanto risultano oggettivamente non più necessari, essendo stato pienamente raggiunto il risultato (id est: l’adeguata dotazione di infrastrutture, primarie e secondarie previste dal piano regolatore) cui sono finalizzati” (T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, n. 19813/08); “per l’applicazione del principio, insomma, è necessario che lo stato delle urbanizzazioni sia tale da rendere assolutamente superflui gli strumenti attuativi. Tale situazione, del tutto peculiare, deve essere ovviamente accertata dall’amministrazione con una concreta e puntuale verifica che deve riguardare l’intero contenuto previsto dal piano regolatore generale per tali strumenti attuativi. La stessa, cioè, deve concernere non soltanto le urbanizzazioni primarie ma anche quelle secondarie e l’assetto definitivo dell’intero ambito ter- Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o a mm i n i s t r a t i v o ritoriale di riferimento” (T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, n. 5542/08). Sulla rilevanza dell’enunciato motivazionale (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 6 ottobre 1992, n. 12; sez. V, 3 ottobre 1997, n. 1097; 25 ottobre 1997, n. 1189 e 18 agosto 1998, n. 1273; T.A.R. Lazio, sez. II, 29 settembre 2000, n. 7649; T.A.R. Campania, sez. IV, 2 marzo 2000, n. 596 e 18 maggio 2000, n. 1413 e da ultimo T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, n. 19364/08) “ciò che rileva, sotto il profilo della legittimità dei permessi di costruire in oggetto, è la congruità della motivazione, che deve rispecchiare la corretta rappresentazione e valutazione della situazione di fatto, la coerenza e non contraddittorietà dell’operato della P.A. Invero, nel caso di zone parzialmente urbanizzate il diniego può essere opposto soltanto nel caso in cui l’Amministrazione abbia adeguatamente valutato lo stato di urbanizzazione già presente nella zona e abbia congruamente evidenziato le concrete e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione”. 3.2.2 L’onere probatorio e la natura giuridica degli atti di valutazione della P.A in merito alla problematica in questione In maniera costante e pressoché unanime la giurisprudenza amministrativa ha posto a carico del ricorrente l’onere della prova dello stato di edificazione e della adeguatezza delle opere di urbanizzazione esistenti (prova da fornirsi attraverso una perizia tecnica giurata, descrittiva dello stato dei luoghi). Ovviamente, le deduzioni in merito svolte dal soggetto che richiede il rilascio (in via diretta) del permesso di costruire, può spesso non collimare con le valutazioni del competente Ufficio tecnico comunale, sicché si pone il problema di qualificare la natura dell’atto di accertamento svolto dall’ente per verificarne la correttezza e la legittimità. Va sul punto rimarcato che, secondo una consolidata e costante giurisprudenza amministrativa (di legittimità e di merito), “la valutazione operata dalla Amministrazione, quanto alla compiuta urbanizzazione della zona interessata costituisce espressione di una discrezionalità tecnica dell’Ente e si presta ad essere sindacata esclusivamente ove risulti manifestamente erronea o illogica” (ex plurimis, T.A.R. Lazio– Latina, n. 143/2006). In merito, però, si segnalano posizioni in senso contrario, assunte dal T.A.R. Campania che a riguardo ha osservato che l’Ente locale “avendo la disponibilità dei dati tecnici attestanti la reale consistenza del reticolo connettivo del suo territorio, sia per quanto concerne la urbanizzazione primaria, sia per le opere di urbanizzazione secondaria, è senza dubbio in grado di stabilire se e in che misura un eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell’assetto del territorio… Ed infatti la esistenza delle opere di urbanizzazione, rilevante ai fini della necessità o meno della previa redazione di un 90 piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo, prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, la valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione di un’area – va rimessa all’apprezzamento di merito dell’amministrazione (cfr. T.A.R. Campania 4969/08, cit.). Tale valutazione, secondo l’insegnamento del Consiglio di Stato non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli standards urbanistici di cui al combinato disposto del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 e art. 17 l. 6 agosto 1967 n. 765, onde l’equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione non è configurabile quando non si riscontri l’esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità minime prescritte (così C.d.S., sez. V, 29 aprile 2000, n. 2562; v. anche T.A.R. Campania-Napoli, sez. 8, sent. n. 9539/08). Tale posizione appare ben coerente con l’articolazione delle competenze delineate dalla disciplina di settore, che prevede, da un lato, una competenza pianificatoria riservata all’organo consiliare e, dall’altro, un potere autorizzatorio attribuito all’organo burocratico; tali poteri e competenze vanno tenuti distinti sia sul piano logico, che su quello cronologico. Si è pertanto affermato che “in tale contesto ordinamentale la definizione dell’assetto urbanistico delle singole zone del territorio – pur nella anomala forma che impinge nella presa d’atto delle intervenute trasformazioni del territorio – implica una visione di insieme che ontologicamente evoca una valutazione tipicamente politica. Dalla mediazione di un intervento ricognitivo dell’organo preposto alla pianificazione del territorio potrà allora prescindersi nei soli eccezionali casi in cui essa si riveli manifestamente superflua. Tanto in ragione di una rigorosa e coerente rappresentazione dello stato dei luoghi che evidenzi, di per se stessa, la condizione di pieno ed effettivo inserimento dell’area interessata dall’intervento in un contesto già totalmente urbanizzato in maniera qualitativamente e quantitativamente conforme alle esigenze recepite nella previsione di piano” (T.A.R. Campania–Napoli, sez. II, n. 19813/08). Ne discende che in mancanza della suddetta condizione (e cioè vale a dire in una situazione di urbanizzazione parziale), “per disattendere i vincoli rinvenienti dalla prescrizione di piano, occorre allora una rituale e formale modifica della previsione di P.R.G. ovvero una revisione al ribasso degli standard urbanistici programmati, apprezzamenti che dovrebbero rimanere riservati all’organo (politico) dotato di competenze pianificatorie” (sent 19813/08 cit.). 3.2.3 L’edificazione e l’urbanizzazione di fatto: il fenomeno dell’abusivismo edilizio Alla problematica in esame appare inevitabilmente collegato il fenomeno dell’abusivismo edilizio. Diversa- Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE mente sarebbe difficile configurare situazioni di larga edificazione e adeguata urbanizzazione di lotti ricadenti in zone per le quali il Piano generale prescrive lo strumento attuativo. Così, paradossalmente, questo triste fenomeno assurge al rango di presupposto di fatto affinché coloro che vogliono edificare in base a regolare permesso, possano conseguire lo stesso. In realtà, però, non sempre la condotta di coloro che edificano in assenza di titolo, rappresenta un “vantaggio” per chi in un momento successivo avanza istanza di permesso. Talvolta, infatti, le condotte di coloro che hanno deliberatamente violato la normativa (amministrativa e penale) edilizia finiscono per pregiudicare gravemente le facoltà di quelli che, dopo aver inutilmente atteso l’approvazione dello strumento attuativo, per ultimi, richiedono il titolo abilitativo alla edificazione invocando la sopravvenuta edificazione ed urbanizzazione di fatto della zona interessata. Sul problema si riportano di seguito alcune pronunce del Giudice amministrativo campano: “La sezione non può che ribadire poi quanto già espresso in precedenza e riaffermare in termini generali che in una qualsiasi zona, fortemente urbanizzata, in cui la funzione pianificatoria sia stata sinora completamente negletta, si pone con maggiore urgenza la necessità di un intervento programmatorio dell’Amministrazione Comunale, onde procedere alla verifica della conformità delle opere d’urbanizzazione primaria alle esigenze della popolazione già residente, nonché di realizzare le opere d’urbanizzazione secondaria ancora compatibili con la già avvenuta edificazione spontanea, reperendo le aree a ciò necessarie sia tra i lotti ancora inedificati, sia tra quelli, abusivamente edificati, per i quali non sia stata o non possa essere concessa la sanatoria delle opere edilizie realizzate” (T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, n. 19364/08). Nell’area edificata di fatto abusivamente, ma non correttamente urbanizzata, non potrebbe prescindersi dal preventivo varo di un piano attuativo in vista del suo definitivo recupero (T.A.R. Campania, n. 1875/08); l’esigenza di un piano attuativo, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedono una necessaria pianificazione della «maglia» (cfr. C.d.S., sez. IV, 01 ottobre 2007, n. 5043; T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, n. 19813/08). 3.3 Gli orientamenti giurisprudenziali particolarmente “restrittivi”: puntualizzazione di un principio o negazione dello stesso? Sovrapponendo ad ogni considerazione di ordine pragmatico, l’esigenza di assicurare l’ossequio formale alla lettera della Legge e alla prescrizione del Piano 2 0 0 9 91 generale, il lento processo volto a puntualizzare i principi in origine espressi dall’Adunanza plenaria (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 20 maggio 1980, n. 18) culmina in un surrettizia negazione degli stessi. 3.3.1 Gli orientamenti di alcuni giudici di merito Aderisce, talvolta, ad un siffatto indirizzo anche il Giudice amministrativo campano (sez.II e VIII) che ha, in diverse circostanze, preso le distanze dal descritto orientamento esegetico “pragmatico”, sposando ex adverso la tesi che considera legittimo il diniego di titolo abilitativo fondato sul mero rilievo formale della necessità di un piano attuativo per il rilascio in una determinata zona di concessioni edilizie: “Il Tribunale ritiene, tuttavia, di doversi motivatamente discostare da tale orientamento, valorizzando altri indici interpretativi, del pari rinvenibili nella giurisprudenza amministrativa. Secondo l’opinione che il Collegio ritiene preferibile, se viene manifestata una volontà pianificatoria, attraverso la redazione di piani di esecuzione, di iniziativa pubblica o privata, volti a realizzare concretamente le scelte urbanistiche delineate nello strumento generale, anche con riferimento alle zone di completamento, la circostanza della loro più o meno completa urbanizzazione ed edificazione (pur in assenza dell’approvazione del piano attuativo, e per effetto di fenomeni d’abusivismo edilizio), non può valere, di per sé, a giustificare un giudizio di superfluità del piano attuativo medesimo, e a giudicare illegittimo il diniego di concessione, motivato in base all’assenza, nella pianificazione del territorio, dello strumento di dettaglio” (T.A.R. CampaniaNapoli, sez. II, n. 19364/08); e ancora che “La verifica (del grado di urbanizzazione), pertanto, non può essere limitata alle sole aree di contorno dell’edificio progettato, ma deve riguardare l’intero comprensorio che dagli strumenti attuativi dovrebbe essere pianificato. Ogni altra soluzione avrebbe evidentemente il torto di trasformare lo strumento attuativo in un atto sostanzialmente facoltativo, non più necessario ogniqualvolta, a causa di precedenti abusi edilizi sanati, di preesistenti edificazioni ovvero del rilascio di singole concessioni edilizie illegittime, il comprensorio abbia già subito una qualche urbanizzazione, anche se la stessa non soddisfa pienamente le indicazioni del piano regolatore” (cfr. T.A.R. Campania-Napoli, II, sez. 15 marzo 2004, n. 2925 e da ultimo T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, n. 5542/08). “È congruamente motivato il provvedimento di diniego di concessione edilizia che si richiama alla mancanza di un piano di lottizzazione convenzionato, qualora tale piano costituisca il presupposto necessario per il rilascio della concessione in forza della normativa vigente” (T.A.R. Veneto-Venezia, sez. II, 7 marzo 1991, n. 164; nello stesso senso C.d.S., sez. V, 27 gennaio 1986, n. 70). Ed in ultimo: “Il principio secondo cui va esclusa la Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o 92 a mm i n i s t r a t i v o necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate è applicabile solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche alle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che assai più di altre esige un piano attuativo idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora addirittura definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (T.A.R. Campania-Napoli, sez. VIII, n. 9539/08). 3.3.2 Gli orientamenti restrittivi espressi dal Consiglio di Stato: A) Il ritorno al principio di indefettibilità A ben vedere anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato è apparsa ispirata ora ad impostazioni pragmatiche, ora a logiche formalistiche. Appartengono sicuramente a tale ultimo orientamento le sentenze in cui si afferma la possibilità di prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme tecniche di p.r.g., ai fini del rilascio della concessione edilizia in assenza del piano attuativo richiesto dal piano regolatore generale, solo ove nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione della lottizzazione stessa, ovvero la presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti (C.d.S., sez. V, 1 dicembre 2003, n. 7799). La decisione in esame chiarisce che il principio non trova applicazione –riemergendo la regola della necessità del previo strumento attuativo- non solo nelle ipotesi estreme di zone assolutamente inedificate, ma anche in quella intermedia di zone parzialmente urbanizzate, nelle quali viene per lo meno a configurarsi una esigenza di raccordo col preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione (sez. V, 8 ottobre 2002, n. 5321; 1 luglio 2002, n. 5387; 14 febbraio 2003, n. 802; 9 maggio 2003, n. 2449) e che lesonero dal piano di lottizzazione è da riferirsi ai casi assimilabili a quello del lotto intercluso, nel quale, come è evidente, nessuno spazio potrebbe rinvenirsi per una ulteriore pianificazione. Non è così, invece, in caso di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire leffetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (sez. V, 27 ottobre 2000, n. 5756; 17 maggio 2000, n. 2874). Si segnalano altresì quelle decisioni in cui il Consiglio di Stato, ha ribadito il principio secondo cui “quando lo strumento urbanistico generale preveda che il permesso di costruire possa essere rilasciato solo dopo l’approvazione di un piano esecutivo, va senz’altro respinta, con un diniego avente natura vincolata, l’istanza volta a costruire nuovi manufatti, ove non sia stato approvato il medesimo piano attuativo” (C.d.S., sez. IV, n. 6625/2008). Inoltre, secondo quanto si rinviene in talune recenti pro- nunzie, “l’art. 9, comma 2, D.P.R. 380/01 ha previsto che – “nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto dell’edificazione”sono tassativamente ammessi alcuni interventi, tra cui non rientra la realizzazione di nuovi edifici. Con tale disposizione, il legislatore avrebbe, secondo il Consiglio, enunciato il principio della indefettibilità del piano attuativo prescritto dallo strumento generale (già desumibile dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come affermato da C.d.S., sez. V, 23 marzo 2000, n. 1594; sez. V, 8 luglio 1997, n. 772; sez. V, 16 giugno 1997, n. 640; sez. V, 30 aprile 1997, n. 412; sez. V, 22 marzo 1995, n. 451). B) L’indagine e la valutazione sulla situazione di fatto In evidente contraddizione con altre coeve sentenze, il Consiglio di Stato (sez. IV), nella citata sent. n. 6625/08, giunge addirittura ad affermare l’irrilevanza delle indagini di fatto sulla sussistenza o meno “nei pressi” o “nella zona” delle opere di urbanizzazione, anche se, in precedenza, l’amministrazione abbia violato le previsioni dello strumento generale, rilasciando permessi di costruire in assenza del prescritto piano attuativo, tranne il caso del piccolo lotto intercluso (cfr. anche sez. IV, 5 marzo 2008, n. 940). Anche in altre precedenti sentenze il Consiglio non ha ammesso equipollenti al piano attuativo (sez. IV, 8 giugno 2007, n. 3007), nel senso che in sede amministrativa – per l’esame di una istanza di permesso – o in quella giurisdizionale non possono essere effettuate le indagini spettanti all’autorità competente ad approvare il medesimo piano (sulla base del relativo procedimento), in assenza delle quali il legislatore considera lesa l’assoluta esigenza che vi sia un razionale assetto del territorio. Sotto tale profilo, va rimarcato che l’interessato può stimolare con gli strumenti consentiti dal sistema l’approvazione del piano attuativo, considerato indefettibile dallo strumento generale (di per sé non riconducibile alla tematica dei vincoli di natura espropriativa: sez. IV, 8 giugno 2007, n. 3007; C.d.S., sez. IV, n. 6625/2008). PARTE TERZA 4. Considerazioni conclusive Il quadro che emerge dalla analisi dei vari orientamenti giurisprudenziali è sicuramente connotato da significative incertezze. è facile comprendere come agli occhi del cittadino comune risulti incomprensibile una situazione di totale incertezza del diritto. 4.1. Inerzia della P.A e supplenza giudiziale Può il cittadino “inerme” comprendere come sia possibile che lo stesso organo giudicante, a volte la medesima sezione o addirittura lo stesso collegio richiedano presupposti diversi per ritenere legittimo e doveroso il rilascio del titolo abilitativo? Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE Certamente l’uomo della strada (ma, talvolta, anche il giurista) rimane sconcertato e non riesce a dare risposta ad alcuni concreti interrogativi, quali ad esempio: - Perché, per il rilascio in via diretta del permesso di costruzione in assenza di piano attuativo, a volte si pretende che l’area sia edificata totalmente, oppure che lo sia in buona parte o che, invece, addirittura ricorra l’ipotesi (residuale) del lotto intercluso mentre, altre volte, si pretende l’approvazione del piano attuativo solo per le aree da destinare per la prima volta ad insediamenti residenziali o produttivi? - Perché il grado di urbanizzazione deve risultare in alcuni casi “adeguato” (limitatamente alle opere di urbanizzazione primaria) in rapporto all’insediamento edilizio da realizzare e altre volte si richiede la completa urbanizzazione dell’intero comparto? - Perché se gli strumenti attuativi previsti dai piani generali sono indispensabili per l’armonico sviluppo del territorio, tanto da risultare indefettibili, il Comune non se ne dota con la dovuta tempestività? - Perché l’Ente attende che le zone vengano gravemente compromesse dal fenomeno dell’abusivismo, per poi addossarne le conseguenze su quei cittadini che rispettosi delle prescrizioni di legge e di piano subiscono una consequenziale inedificabilità di fatto dei loro lotti? -Se la vigilanza sul territorio è un compito dello Stato, prima ancora che un onere/facoltà del cittadino, perché l’inerzia dello stato viene fatta ricadere sul cittadino? Sul punto si impone uno spunto di riflessione sull’atteggiamento dell’Amministrazione. Il contenzioso in cui inevitabilmente viene coinvolto il cittadino “inerme” il più delle volte riguarda ricorsi avverso il diniego o (peggio) l’annullamento in autotutela del permesso di costruire, ciò avviene perché spesso il Comune, sottraendosi alle proprie responsabilità, trova comodo e facile risolvere ogni problema rispondendo “NO” ad ogni istanza, laddove, correttamente, dovrebbe fornire le risposte e le soluzioni al problema dello sviluppo ordinato del territorio. Risposte e soluzioni vengono così demandate, in palese violazione del principio della separazione dei poteri, alla Autorità giudiziaria che, di volta in volta, con la decisione dei ricorsi avalla ricostruzioni e interpretazioni diverse. Se ci soffermiamo sul ruolo svolto dalla Amministrazione, appare inspiegabile la diversa valutazione che assume il potere esercitato dagli Uffici burocratici. Ma se quando il Comune diniega il permesso (in quanto valuta insufficienti le opere di urbanizzazione ed incompleto il grado di edificazione o, in quanto reputa indefettibile la prescrizione di piano che impone lo strumento attuativo) effettua una valutazione di tipo tecnico discrezionale – non sindacabile salvo vizi logici e/o incongruenze nella motivazione – perché quando qualche (illuminato) Tecnico comunale che non vuole abdicare al proprio ruolo e alla 2 0 0 9 93 propria funzione e sceglie la strada (pericolosa) della valutazione della effettiva necessarietà del piano attuativo e motivando in merito rilascia il permesso di costruire, le sue scelte – non sono più espressione di discrezionalità tecnica, ma divengono valutazioni di merito (come tali spettanti all’organo politico)? Perché in queste circostanze, quei funzionari chi si assumono le responsabilità connesse al loro ruolo e non ricorrono a facili tattiche elusive, si ritrovano - inevitabilmente - davanti al Giudice penale per difendersi dall’accusa di abuso di ufficio? Perché nell’esercizio del medesimo potere chi dice “NO” ha più credibilità di chi dice “SI” e perché su quest’ultimo grava una sorta di presunzione di colpevolezza? 4.2. Il ruolo dell’avvocato e la difesa del cittadino vittima della … legalità Quante volte nei nostri studi ci troviamo a discutere con clienti che ci prospettano situazioni paradossali e quante volte noi stessi, ascoltando le domande sopra formulate, ci siamo chiesti se è davvero un’antinomia l’espressione “vittime della legalità”. Ebbene, agli interrogativi che precedono – indubbiamente retorici e che appaiono forse mal posti agli occhi di un giurista (ma sacrosanti a quelli del cittadino inerme) – non è facile rispondere. Certo potremmo scomodare i romani invocando la necessità dell’ossequio anche formale della legge (dura lex sed lex), o ex adverso, citare Celso, che invita a considerare la forza e la potestà della legge, o forse, pensando al ruolo pilatesco a volte assunto dalle amministrazioni, potremmo, più semplicemente, citare Ennio Flaiano secondo cui sulla bandiera italiana dovrebbe campeggiare la scritta “tengo famiglia”. Nessuna di queste risposte, però, tiene conto del fatto che, il più delle volte, chi, sconcertato, pone i suddetti interrogativi, è proprio quel cittadino: - che non ha costruito abusivamente confidando in un condono; - che, magari, ha inutilmente atteso che l’Amministrazione, esercitando le proprie prerogative, approvasse un piano attuativo, compulsandola vanamente; - che ha confidato nella validità di un permesso di costruire, poi annullato, per l’affermarsi di un diverso orientamento giurisprudenziale; - che ha confidato nella attenta vigilanza del territorio da parte dello Stato, ritrovandosi, invece, vittima dell’abusivismo; - che, con fiducia, ha scelto la strada della legalità rifuggendo facili e redditizie scorciatoie. Ebbene, proprio il cittadino è chiamato a pagare il prezzo di una legalità che a volte sa essere cieca e implacabile contro coloro che la invocano ed inefficace e latitante verso coloro che ogni giorno in modo sprezzante l’attaccano. Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o 94 Osservatorio di giurisprudenza amministrativa ● Il codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (D.Lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) ● A cura di Almerina Bove a mm i n i s t r a t i v o Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania AVVALIMENTO – RATIO DELL’ISTITUTO – 2. RICORSO ALL’AVVALIMENTO PER IL REQUISITO RELATIVO AL FATTURATO IVA PER LAVORI ANALOGHI – è CONSENTITO. (Codice dei contratti, art. 49) Consiglio di Stato, sez. V, 17 marzo 2009, n. 1589 1. La finalità dell’istituto dell’avvalimento non è quella di arricchire la capacità tecnica o economica del concorrente, ma quella di consentire ai soggetti che ne siano privi di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, senza che rilevino per la stazione appaltante -conformemente alla ratio dell’istituto quale ricavabile dalla sua genesi comunitaria- i rapporti sottostanti esistenti fra il concorrente e il soggetto “avvalso”, ed essendo invece indispensabile unicamente che il primo dimostri di poter disporre dei mezzi del secondo, in adesione all’attuale normativa comunitaria (artt. 47 e 48 Direttiva n. 118/2004/CE ed art. 54 Direttiva n. 17/2004/ CE), la quale espressamente prevede che “un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con quest’ultimi”. 2. Deve ritenersi consentito ricorrere all’avvalimento per il requisito relativo al possesso di un determinato fatturato IVA per lavori analoghi nel triennio antecedente, posto che il fatturato IVA non è altro che un requisito di carattere economico-finanziario ai sensi dell’art. 41 e che l’art. 49 D.Lgs. n. 163/2006 ricomprende, tra quelli che possono essere soddisfatti avvalendosi di altre imprese, tutti i “requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA”. COLLEGAMENTO TRA IMPRESE – È CONFIGURABILE, IN GUISA DA COMPORTARE UN DIVIETO DI PARTECIPAZIONE ALLE GARE PUBBLICHE, NON SOLO QUANDO VI SIA RELAZIONE TRA LE IMPRESE PARTECIPANTI, MA ANCHE QUANDO TALE RELAZIONE SUSSISTA CON ALTRA IMPRESA, ESTRANEA ALLA STESSA GARA, MA IN GRADO, TUTTAVIA, DI ESERCITARE QUEL CONTROLLO O QUELL’INFLUENZA CHE COMPORTA, EX ART. 34, LA DIRETTA ESCLUSIONE DALLA GARA. (Codice dei contratti, art. 34) Consiglio di Stato, sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1459 Il fine perseguito dal legislatore del Codice dei contratti con la norma di cui all’art. 34, comma 2, del D.Lgs. n. 163 del 2006 – secondo cui “Non possono partecipare alla medesima gara concorrenti che si trovino fra di loro in una delle situazioni di controllo di cui all’art. 2359 c.c. Le stazioni appaltanti escludono altresì dalla gara i concorrenti per i quali accertano che le relative offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale, Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE sulla base di univoci elementi”- è stato quello di pervenire ad una completa ed efficace disciplina della materia della partecipazione delle imprese alle gare, non soltanto rendendo diritto positivo quella che prima era solo un’interpretazione giurisprudenziale, ma anche cumulando quest’ultima con la previsione dell’art. 10, comma 1 bis, della L. 109 del 1994 in un unico contesto, volto ad esprimere un’unitaria regola sostanziale di protezione effettiva della concorrenza nel mercato degli appalti, al fine di escludere ogni possibile falla nel disegnato perimetro dell’apprestata garanzia attraverso l’introduzione di un concetto oggettivo di controllo che, prescindendo dalla forma diretta od indiretta con la quale si manifesta, comunque sia idoneo a far emergere l’esistenza di un’influenza dominante di un soggetto su altri ai fini dell’assegnazione di una gara pubblica. L’art. 2359 c.c. svolge, in tale ottica, una funzione complementare all’applicazione del citato art. 34 nel senso che fornisce al microsistema di garanzia predisposto dal Legislatore – che opera avendo riguardo al dato oggettivo esistente in concreto, avendo valenza di normativa di ordine pubblico – soltanto lo strumento necessario per tipizzare le situazioni nelle quali debba ritenersi, in via di presunzione juris et de jure, che si sia verificata una delle ipotesi di controllo per le quali debba scattare, automaticamente, il divieto di partecipazione alle gare pubbliche di appalto e, quindi, l’altrettanto automatica esclusione del soggetto imprenditoriale che si trovi in una delle relative situazioni. Tale essendo la ratio sottesa alle norme in questione, merita condivisione, tra i diversi orientamenti interpretativi espressi anche in seno al Consiglio di Stato, quello secondo cui il divieto di partecipazione alle pubbliche gare opera, senza bisogno di acquisire ulteriori elementi a tal fine, non solo nel caso in cui la relazione sussista tra le imprese partecipanti alla gara, ma anche quando detta relazione sia rinvenibile con altra impresa, ben vero estranea alla stessa gara, ma in grado tuttavia, come detentore di pacchetti di maggioranza delle diverse partecipanti, di esercitare quel controllo o quell’influenza che comporta, ex art. 34, la diretta esclusione. (Riforma T.A.R. Lazio, sez. II, 23 aprile 2008, n. 3418, secondo cui il controllo totale di più imprese concorrenti in formazioni distinte ad una pubblica gara, da parte di un’unica società non partecipante alla stessa gara, non è di per sè sufficiente a compendiare la violazione della norma sopra riportata, se non accompagnato da indici concreti di collegamento sostanziale tali da far emergere l’esistenza di un unico centro di interessi). 1. DICHIARAZIONE AI SENSI DELL’ART. 38 DEL CODICE DEI CONTRATTI – DEVE CONTEMPLARE ANCHE LE CONDANNE RELATIVE A REATI DEPENALIZZATI PER IMPOSSIBILITÀ DI EQUIPARAZIONE CON LE IPOTESI DI ESTINZIONE E DI RIABILITAZIONE – DEVE CONTEMPLARE, ALTRESì, LE SENTENZE DI 2 0 0 9 95 CONDANNA CON IL BENEFICIO DELLA NON MENZIONE (CHE, PERTANTO, NON RISULTANO DAL CASELLARIO) – 2. CONSEGUENZE DELLA MANCATA DICHIARAZIONE – 3. GRAVE NEGLIGENZA O GRAVE ERRORE NELL’ESECUZIONE DI PRESTAZIONI PROFESSIONALI – PRESUPPOSTI DI RILEVANZA AI FINI DELLA ESCLUSIONE DALLA GARA (Codice dei contratti, art. 38) T.A.R. Lazio – Roma, sez. III quater, 27 marzo 2009, n. 3215 1. Dall’art. 38, comma 1, lettera c, e comma 2 del D.Lgs. n. 163 del 2006, letti in combinato disposto con l’art. 178 c.p. e con l’art. 445, comma 2, c.p.p. deriva che solo le condanne penali oggetto di estinzione e di riabilitazione non debbano essere dichiarate ai sensi di detto art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006, mentre sussiste l’obbligo di dichiarare tanto i reati depenalizzati quanto le condanne con il beneficio della non menzione (quest’ultime, con apposita autodichiarazione). 2. La mancata dichiarazione costituisce una circostanza che ha valore autonomo e che incide sulla moralità professionale del soggetto, a prescindere da ogni valutazione circa la rilevanza del reato non dichiarato, così come la non veridicità della dichiarazione integra una autonoma causa di esclusione dalla gara, a prescindere dalla valutazione in ordine all’idoneità della condanna riportata ad incidere sulla moralità professionale dell’impresa. 3. La regola di cui all’art. 38, comma 1, lett. f, del D.Lgs. 163 del 2006, secondo la quale va esclusa dalla gara di appalto l’impresa che si sia resa responsabile di errore professionale grave nella esecuzione di un contratto pubblico, non ha introdotto nell’ordinamento una sorta di incapacità a contrattare con le Pubbliche Amministrazioni, ma deve essere intesa nel senso che essa vale unicamente se il grave errore sia stato commesso nei rapporti intercorsi con la stessa Amministrazione aggiudicatrice e non con una diversa stazione appaltante. Ciò comporta che l’esclusione dalle gare pubbliche per inaffidabilità delle imprese concorrenti per grave negligenza e malafede commessa nel corso di esecuzione di precedenti contratti pubblici può essere pronunciata in termini di automaticità soltanto quando il comportamento di deplorevole trascuratezza e slealtà sia stato posto in essere in occasione di un pregresso rapporto negoziale intercorso con la stessa stazione appaltante che indice la gara; in caso contrario, invece, il giudizio di inaffidabilità professionale su un’impresa partecipante ad una gara pubblica è subordinato alla preventiva motivata valutazione della stazione appaltante o della commissione giudicatrice, che è tenuta a valorizzare i precedenti professionali delle imprese concorrenti nel loro complesso, nonché a valutare gravità e rilevanza sul piano professionale di precedenti risoluzioni contrattuali comminate da altre Amministrazioni. Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o a mm i n i s t r a t i v o 1. IMPUGNATIVA DEL BANDO DI GARA CHE PRECLUDA LA PARTECIPAZIONE PREVEDENDO REQUISITI IRRAGIONEVOLI O DISCRIMINATORI – È AMMISSIBILE ANCHE LADDOVE L’INTERESSATO NON ABBIA PRESENTATO DOMANDA DI PARTECIPAZIONE ALLA GARA – 2. AVVALIMENTO – LE LIMITAZIONI A TALE ISTITUTO GENERALE SONO IN CONTRASTO CON LE DISPOSIZIONI DELLE DIRETTIVE APPALTI PUBBLICI. (Codice dei contratti, art. 49) Consiglio di Stato, sez. V, 19 marzo 2009, n. 1624 1. Merita condivisione l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, quando la partecipazione alla procedura sia preclusa dallo stesso bando, sussiste l’interesse a gravare la relativa determinazione a prescindere dalla mancata presentazione della domanda, posto che la presentazione della stessa si risolverebbe in un adempimento formale inevitabilmente seguito da un atto di esclusione, con un risultato analogo a quello di un’originaria preclusione e perciò privo di una effettiva utilità pratica (C.d.S., sez. V, 8 agosto 2005, n. 4207 e 4208; sez. V, 11 novembre 2004, n. 7341; sez. V, 11 febbraio 2005, n. 389; sez. IV, 30 maggio 2005, n. 2804). L’orientamento contrario, pur espresso in seno alla giurisprudenza, non appare più sostenibile, alla luce della decisione 12.2.2004 – C 230/02 della Corte di Giustizia C.E., la quale ha rilevato che nell’ipotesi in cui un’impresa non abbia presentato un’offerta a causa della presenza di specifiche che asserisce discriminatorie nei documenti relativi al bando di gara o nel disciplinare, le quali le avrebbero impedito di essere in grado di fornire l’insieme delle prestazioni richieste, essa avrebbe tuttavia il diritto di presentare un ricorso direttamente avverso tali specifiche e ciò prima ancora che si concluda il procedimento di aggiudicazione dell’appalto pubblico interessato. 2. Il bando di gara che limiti eccessivamente l’istituto dell’avvalimento, consentendolo solo per due requisiti di ordine tecnico (che devono essere posseduti al 75% in capo all’impresa che partecipa alla gara) ed escludendolo totalmente per i restanti sei requisiti tecnici richiesti nonché per tutti i requisiti di carattere economico-finanziario, è illegittimo in quanto si pone in violazione della normativa comunitaria di massima partecipazione alle gare pubbliche creando una disparità di trattamento tra gli operatori economici del settore circoscrivendo eccessivamente il ventaglio delle imprese partecipanti. È pur vero che l’art. 49, comma 7, del codice degli appalti, (ora soppresso interamente dal D.Lgs. 152/2008 con il c.d. terzo decreto correttivo) ammette che il bando di gara possa prevedere, con riguardo ad appalti di particolare natura o importo, che il ricorso all’avvalimento sia limitato solo ai requisiti economici o a quelli tecnici, oppure all’integrazione di un preesistente requisito tecnico o economico già in possesso dell’impresa avvalente in misura o percentuale indicata dal bando. La previsione tuttavia deve essere messa in relazione con la normativa comunitaria di riferimento posta dagli artt. 47, par. 2, e 48, par. 3, della 96 direttiva 2004/18/CE, nonché dall’art. 54, par. 5 e 6 della direttiva 2004/17/CE che riconoscono agli operatori economici il diritto di avvalersi della capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei loro legami e senza alcuna limitazione. L’interpretazione fornita in sede comunitaria infatti è nel senso che poiché “la sola condizione è quella di permettere all’amministrazione aggiudicatrice di verificare che il candidato/offerente disporrà delle capacità richieste per l’esecuzione dell’appalto”, le limitazioni al diritto di avvalersi della capacità di altri soggetti, previste dall’art. 49, commi 6 e 7, del D.Lgs. n. 163/2006, “sono in contrasto con le citate disposizioni delle direttive appalti pubblici” (cfr. nota della Commissione delle Comunità europee n. 2007/2309/C -2208- 0108 in data 30 gennaio 2008, inviata al Ministro degli affari esteri, con cui si è iniziata la procedura di infrazione ai sensi dell’art. 226 del Trattato, richiamata in C.d.S., sez. VI, 11 luglio 2008, n. 3499). 1. POSSESSO DI CERTIFICAZIONE DI QUALITÀ AI FINI DEL BENEFICIO DELLA RIDUZIONE DELLA CAUZIONE – PUò ESSERE ATTESTATO MEDIANTE AUTOCERTIFICAZIONE – 2. È SOTTOPOSTO AD UN REGIME DI PIÙ ATTENUATO RIGORE FORMALE RISPETTO AI REQUISITI DI CAPACITÀ TECNICA ED ECONOMICA, NEL QUALE TROVA AMPIO SPAZIO IL POTERE-DOVERE DELL’AMMINISTRAZIONE DI PROCEDERE A REGOLARIZZAZIONE O INTEGRAZIONE DELLA DOCUMENTAZIONE – 3. REGOLARIZZAZIONE DOCUMENTALE – RAPPORTI CON I L PRINCIpiO DEL FAVOR PARTECIPATIONIS. (Codice dei contratti, artt.46 e 75) TAR Lazio-Roma, sez. I bis, 28 gennaio 2009, n. 871 1. L’art. 75, comma 7, del D.Lgs. n. 163 del 2006, nel prevedere il beneficio della riduzione del 50% dell’importo della garanzia per gli operatori economici in possesso della certificazione di qualità, precisa che: “l’operatore economico segnala, in sede di offerta, il possesso del requisito, e lo documenta nei modi prescritti dalle norme vigenti”. Il rinvio alle norme vigenti consente di far ricadere la dimostrazione del possesso del suddetto requisito nell’ambito di operatività della disciplina dettata dal D.P.R. n. 445 del 2000, potendo conseguentemente il possesso della certificazione di qualità essere documentato mediante dichiarazione sostitutiva di certificazione, resa ai sensi dell’art. 46 del citato regolamento e salva ogni successiva verifica, senza alcun ulteriore onere di attestazione documentale circa la persistente validità della stessa, essendo a tal fine sufficiente la produzione di autocertificazione che espressamente rechi l’indicazione della confermata validità della certificazione di qualità per effetto del positivo esito della visita ispettiva. 2. Con riferimento al beneficio della riduzione della cauzione vige un regime di più attenuato rigore formale rispetto a quanto previsto per i requisiti di capacità tecnica ed economica, posto che per il primo trova spazio il Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE potere-dovere dell’Amministrazione di interlocuzione procedimentale finalizzata alla regolarizzazione o integrazione della documentazione nelle ipotesi in cui manchino previsioni espresse della disciplina di gara che tanto precludano con espressa comminatoria dell’esclusione dalla gara per il caso di mancanza o irregolarità della documentazione prodotta (salvo poi eventualmente verificare, se impugnate, la legittimità in termini di ragionevolezza e di rispondenza all’interesse pubblico di siffatte prescrizioni). 3. Il principio del cosiddetto “dovere di soccorso istruttorio”, codificato normativamente ed ispirato ai criteri della buona fede, come delineato dall’art, 6, comma 1, lett. b) della legge n. 241 del 1990, costituisce un normale modus procedendi al quale le Amministrazioni devono attenersi ammettendo il concorrente, nella fase di valutazione dei requisiti di partecipazione, alla regolarizzazione del documento o del certificato affetto da vizi formali, laddove manchi l’esplicitazione di una clausola di esclusione volta a sanzionare l’inosservanza della formalità onde trattasi. La regolarizzazione, peraltro -non traducendosi il principio del favor partecipationis in un dovere assoluto ed incondizionato posto a carico della commissione di gara- risulta preclusa con riferimento a dichiarazioni o documenti espressamente richiesti a pena di esclusione o con riguardo agli elementi essenziali dell’offerta, ed incontra i limiti discendenti dall’inderogabile necessità del rispetto della parità di trattamento tra i concorrenti. In virtù di tale principio, consacrato anche nel codice dei contratti all’art. 46, consegue, conformemente ad un orientamento consolidato in giurisprudenza, che non può farsi luogo all’esclusione di una ditta da una gara d’appalto per irregolarità formali della documentazione presentata ove tali irregolarità non costituiscano, per chiara ed espressa previsione della disciplina di gara, causa di esclusione e siano suscettibili di regolarizzazione senza pregiudizio per la par condicio. 1. REQUISITI DI MORALITÀ – PORTATA DELL’ART. 38 DEL CODICE DEI CONTRATTI RISPETTO ALLA DISCIPLINA PREVIGENTE E NOZIONE DI “REATO IN DANNO DELLO STATO” – 2. VERIFICA DELL’INCIDENZA DEI REATI NON TIPIZZATI SULLA MORALITÀ PROFESSIONALE – ATTIENE ALL’ESERCIZIO DEL POTERE DISCREZIONALE DELLA STAZIONE APPALTANTE. (Codice dei contratti, art.38) Consiglio di Stato, sez. V, 23 marzo 2009, n. 1736 1. L’art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 deve interpretarsi nel senso che con la dizione reato grave “in danno dello Stato o della Comunità” il legislatore non ha inteso circoscrivere la facoltà di esclusione in capo alle stazioni appaltanti a determinate tipologie di reato qualificate dal soggetto passivo. Con la disposizione in parola, invero, il legislatore nazionale non ha inteso riscrivere in senso più restrittivo le norme di cui 2 0 0 9 97 ai previgenti artt. 75 del D.P.R. n. 554 del 1999 e 17 del D.P.R. n. 34 del 2000; ha, piuttosto, inteso, in linea con la disciplina previgente, esercitare la facoltà, stabilita al paragrafo 2 dell’art. 45 della menzionata direttiva 2004/18/CE, di prevedere cause preclusive ulteriori rispetto a quelle obbligatorie di cui al paragrafo 1 dello stesso articolo, anche estendendo la sfera dei reati rilevanti a quelli che interessano altri Stati membri della Comunità europea o la stessa Comunità. Nella dizione “in danno dello Stato” il termine “Stato” va interpretato come Stato-comunità e non come Stato-apparato o Statopersona, e la dizione stessa non va letta isolatamente, ma nel contesto della più ampia formula “reati gravi in danno dello Stato (…) che incidono sulla moralità professionale”; contesto in cui appare evidente che quanto rileva non è di certo il soggetto passivo (Stato o Comunità) del reato, bensì l’idoneità di qualsiasi reato ad incidere sulla moralità professionale del soggetto che intenda partecipare ad una gara – quindi la sua affidabilità – in ragione della capacità offensiva dello stesso reato nei confronti di tutti i consociati. 2. Eccettuati i reati indicati testualmente, circa i restanti, in assenza di parametri normativi fissi e predeterminati, la verifica della loro incidenza sulla moralità professionale attiene all’esercizio del potere discrezionale della p.a. e deve essere operata attraverso la disamina in concreto delle caratteristiche dell’appalto, del tipo di condanna, della natura e delle concrete modalità di commissione del reato (cfr., tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 12 aprile 2007, n. 1723), in guisa che tale valutazione è insindacabile laddove, valutati tutti gli elementi inerenti in concreto al reato commesso, sulla scorta della specificità, dell’epoca e delle circostanze del fatto concluda per la gravità e l’incidenza della condanna sull’affidabilità contrattuale in relazione ai lavori da affidare, e quindi per l’insussistenza del requisito in argomento. (Fattispecie concernente un decreto penale di condanna divenuto irrevocabile per il delitto, ritenuto incidente sulla moralità professionale, di cui all’art. 590, co. 3, c.p. a carico dell’amministratore delegato con delega alla sicurezza – e direttore tecnico – della società, avendo il medesimo, in qualità di datore di lavoro, cagionato per colpa lesioni personali gravi riportate dalla persona offesa in un incidente occorsole in cantiere. Tale decreto penale di condanna era stato menzionato ed allegato dalla concorrente in sede di dichiarazione resa ai fini della partecipazione alle gare, con l’indicazione “relativo a fattispecie ritenuta non grave”). REQUISITI DI PARTECIPAZIONE ALLA GARA E REFERENZE – DIFFERENZA – INCOMMUTABILITÀ DEI REQUISITI, SALVA L’UNICA ECCEZIONE, CONCERNENTE IL CASO DI INIZIO DELL’ATTIVITÀ INFERIORE AL TRIENNIO (Codice dei contratti, art. 41) Consiglio di Stato, sez. V, 25 febbraio 2009, n. 1132 Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o a mm i n i s t r a t i v o È illegittima per contrasto con l’art. 41 del Codice dei contratti la clausola del bando di gara che, dopo l’indicazione dei requisiti di fatturato (globale e per forniture analoghe), disponga che il concorrente privo dei predetti requisiti possa provare con altrimenti la propria capacità economico finanziaria, in quanto tale previsione si atteggia in modo tale vanificare la peculiare distinzione, ben presente nel testo di legge, tra requisiti e referenze in generale. Per requisito deve, invero, intendersi la qualità, lo stato, la relazione, il modo di essere di un soggetto o di una cosa come prescritti da una disposizione che, dalla presenza di tali elementi nella loro coerente integralità, ne faccia discendere conseguenze di solito legittimanti, e si iscrivono in fattispecie caratterizzate da una assoluta unidirezionalità ed esclusività, deducibile dall’alternativa secca tra il possesso e la carenza del requisito stesso, in guisa che, se l’individuazione del fatturato è conseguenza di una specificazione ad opera dell’Amministrazione, non si vede come il requisito così previsto possa essere commutato con una referenza obiettivamente diversa. La previsione del terzo comma dell’articolo 41 non può, dunque, essere interpretata quale clausola generale di commutazione dei requisiti, tutte le volte che un soggetto non li possegga: ciò equivarrebbe a una legittimazione obliquo modo consentita dalla disposizione così da completare la prova delle referenze attingendo ad altre specie di documenti, ma intende, piuttosto, consentire che chi vanti il possesso dei requisiti ai sensi della specifica previsione di gara (ad esempio: un determinato fatturato nel triennio), ma non sia in grado di dimostrarli con i documenti indicati nella lex specialis della gara possa essere facultato, ove sussistano giustificati motivi, a produrre una documentazione alternativa. L’unica eccezione che soffre la regola dell’obbligo del possesso dei requisiti riguarda il caso, pure espressamente disciplinato, dell’inizio di attività inferiore al triennio la quale mira ad impedire una incongrua e illecita barriera all’ingresso di nuove imprese nel mercato. SOCIETÀ MISTE – OPERANO NEI LIMITI DELL’AFFIDAMENTO INIZIALE E NON POSSONO OTTENERE, SENZA GARA, MISSIONI NON PREVISTE DAL BANDO ORIGINARIO – INAMMISSIBILITÀ DI SOCIETÀ MISTA “APERTA” O “GENERALISTA” (Codice dei contratti, art. 32) Consiglio di Stato, sez. V, 13 febbraio 2009, n. 824 La risposta alla questione se gli appalti pubblici possano essere affidati a società miste in via diretta, o se occorra seguire procedure di evidenza pubblica, deve 98 essere differenziata, occorrendo distinguere l’ipotesi di costituzione di una società mista per una specifica missione, sulla base di una gara che abbia per oggetto sia la scelta del socio che l’affidamento della specifica missione, e l’ipotesi in cui si intendano affidare ulteriori appalti ad una società mista già costituita. Con riferimento al primo caso, a seguito di una complessa evoluzione, la giurisprudenza nazionale (cfr. da ultimo C.d.S.ì, Ad.Plen., 3 marzo 2008, n. 1; sez. V, 23 ottobre 2007, n. 5587; sez. II, 18 aprile 2007, n. 456/07) e comunitaria (cfr. Corte giust. CE, sez. I, 11 gennaio 2005, n. C-26/03) è pervenuta alla conclusione che, nel rispetto di precisi paletti, è sufficiente una unica gara. Nel secondo caso, invece, occorre una gara per l’affidamento degli appalti ulteriori e successivi rispetto all’originaria missione. Già prima del D.Lgs. n. 163 del 2006, invero, sembrava preferibile la soluzione secondo cui, limitatamente ai lavori e servizi specifici e originari per i quali fosse stata costituita la società, fosse sufficiente una sola procedura di evidenza pubblica, e dunque bastasse quella utilizzata per la scelta dei soci privati, da intendersi come finalizzata alla selezione dei soci più idonei anche in relazione ai lavori e servizi da affidare alla società. Tale soluzione è stata sostanzialmente recepita dal D.Lgs. n. 163 del 2006 c.d. codice dei contratti pubblici, il cui art. 32, comma 3, del D.Lgs. n. 163 cit., stabilisce che le società miste non sono tenute ad applicare le disposizioni del medesimo D.Lgs. (e dunque non sono tenute a seguire procedure di evidenza pubblica), limitatamente alla realizzazione dell’opera pubblica o alla gestione del servizio per le quali sono state specificamente costituite, se ricorrono le condizioni specificamente indicate dalla norma. Ne discende che la società mista opera nei limiti dell’affidamento iniziale e non può ottenere senza gara ulteriori missioni che non siano già previste nel bando originario. Con riferimento alla materia degli appalti e delle concessioni in caso di partenariato pubblico–privato, anche la Commissione europea, con la comunicazione 5 febbraio 2008, si è mossa lungo la medesima traiettoria argomentativa, affermando che sia sufficiente una sola procedura di gara se la scelta del partner oggetto di preventiva gara è limitata all’affidamento della missione originaria, il che si verifica quando la scelta di quest’ultimo è accompagnata sia dalla costituzione del partenariato pubblico-privato istituzionale (id est attraverso la costituzione di società mista), sia dall’affidamento della missione al socio operativo. Non è dunque ammissibile una società mista “aperta” o “generalista” cui affidare in via diretta, dopo la sua costituzione, un numero indeterminato di appalti o di servizi pubblici. diritto Tributario I nuovi strumenti deflattivi del contenzioso e le conseguenze sull’istituto del ravvedimento operoso 101 Clelia Buccico Ricercatore, Professore aggregato di Diritto Tributario presso Seconda Università degli Studi di Napoli L’impugnabilità del provvedimento di diniego di autotutela alla luce delle più recenti pronunce di legittimità 115 Fiorella Feola Funzionario dell’Agenzia delle Entrate – Dottorando di ricerca in Diritto Tributario – Facoltà di Economia – Seconda Università degli Studi di Napoli La tutela del contribuente avverso i provvedimenti emessi durante l’istruttoria fiscale: l’impugnabilità degli ordini di verifica A cura di Raffaele Cantone Magistrato presso il Massimario della Cassazione 121 Gazzetta F O R E N S E M a r z o • a p r i l e ● I nuovi strumenti deflattivi del contenzioso e le conseguenze sull’istituto del ravvedimento operoso* ● Clelia Buccico Ricercatore, Professore aggregato di Diritto Tributario presso Seconda Università degli Studi di Napoli * Intervento svolto al Convegno “La Manovra finanziaria –Programmazione triennale– in un contesto di crisi economico finanziaria” organizzato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti contabili del Tribunale di Napoli – Napoli 13 febbraio 2009. 2 0 0 9 101 Premessa Oggetto dell’intervento è da un lato il D.L. 25 giugno 2008, n. 112 dall’altro il D.L. 29 novembre 2008, n. 185. Il decreto 112/2008 è rubricato “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza e la perequazione tributaria” ed è entrato in vigore lo scorso 25 giugno. Tale Decreto facente parte della così detta “manovra d’estate 2008” (la cui legge di conversione è la n. 133 del 6 agosto 2008) registra, come evidenziato dalla relazione illustrativa al Disegno di legge della finanziaria 2009, l’anticipazione temporale dell’adozione delle misure tese al miglioramento dei conti pubblici ed al perseguimento degli obiettivi programmatici del Governo. Il decreto 185/2008 è invece rubricato “Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti‑crisi il quadro strategico nazionale”, (la cui legge di conversione è la n. 2 del 28 gennaio 2009), è stato denominato decreto “anti‑crisi”. In entrambi questi provvedimenti sono stati previsti nuovi strumenti deflattivi del contenzioso. In particolare il procedimento dell’accertamento con adesione ha subito importanti modifiche, prima con il D.L. 25 giugno 2008, n. 112 con il quale è stata estesa la particolare metodologia ai verbali di constatazione e, successivamente, con il D.L. 29 novembre 2008, n. 185 con il quale si è proceduto, in particolare, a integrare l’art. 5 del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 introducendo l’adesione anche per l’invito a comparire, nell’ottica, da un lato, di incentivare ulteriormente l’adesione da parte dei contribuenti; dall’altro, di accentuare le garanzie per quest’ultimo e ridurre le sanzioni irrogabili. Proprio in riferimento alla riduzione delle sanzioni queste sarebbero diventate notevolmente inferiori a quelle previgenti azionabili con il ravvedimento operoso, a tal fine nella fase di conversione del decreto anti‑crisi sono state modificate le riduzioni premiali di quest’ultimo. 1. Adesione ai verbali di constatazione L’istituto dell’accertamento con adesione del contribuente contenuto nel D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 è stato integrato dall’art. 83, comma 18/18 quater, del D.L. 25 giugno 2008 n. 112, così come convertito dalla L. 6 agosto 2008, n. 133 che ha introdotto l’art. 5 bis intitolato «Adesione ai verbali di constatazione». La previsione dell’ennesimo strumento “premiale” viene giustificata, dall’incipit del citato comma 18, in quanto avente lo scopo di semplificare la gestione dei rapporti con l’Amministrazione fiscale, ispirandoli a principi di reciproco affidamento e agevolando il contribuente mediante la compressione dei tempi di definizione. Il nuovo istituto, ancorché rubricato come «adesione» al verbale di constatazione, presenta caratteristiche ad Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o un primo esame un po’ ambigue, che lo pongono a metà strada tra l’adesione e l’acquiescenza (con quest’ultima, in particolare, ha in comune l’accettazione necessariamente integrale dei rilievi di cui al verbale): e del resto lo stesso legislatore, nel prevedere, al comma 2 dell’art. 5 bis, l’atto con cui l’Ufficio sancisce l’accettazione della comunicazione inviata dal contribuente, lo definisce atto di definizione dell’accertamento parziale: abbiamo quindi un atto che avrà gli stessi contenuti dell’art. 7 (Atto di accertamento con adesione), ma che formalmente non sarà intestato come «atto di accertamento con adesione» ma come «atto di definizione dell’accertamento parziale». Questo rilievo, che può apparire formalistico, pone invece la questione centrale intorno alla quale ruoterà la corretta applicazione dell’istituto: stabilire l’effettiva natura di questa forma di definizione, che certamente presenta aspetti peculiari nei presupposti, nelle procedure e negli effetti, ed è regolata da un testo normativo che sembra, per certi versi, procedere su di un percorso autonomo, ma che tuttavia ha una collocazione sistematica ben precisa all’interno del decreto legislativo che disciplina le altre forme di accertamento con adesione, sicché sembra destinata ad essere interpretata favorendo un coordinamento che crei una coerenza sistematica con le altre regole base previste da quel decreto legislativo. Il senso della norma, quale risulta appunto dalla collocazione sequenziale come art. 5 bis (poteva forse essere ancora più chiaro numerare la nuova disposizione come art. 4 bis, dato che la definizione da essa contemplata precederà sia l’avviso a comparire – art. 5, sia l’istanza del contribuente di accesso alla procedura di adesione – art. 6), è evidentemente quello di rendere possibile con estrema rapidità la definizione di un processo verbale di constatazione, redatto ai sensi della L. 7 gennaio 1929, n. 4 (art. 24), senza dover attendere l’invito a comparire, da parte dell’Ufficio accertatore (art. 5), anticipando e rendendo inutile la presentazione dell’istanza del contribuente, di cui all’art. 6, che tra l’altro non garantisce l’effettivo avvio della procedura di adesione. D’altra parte, il comma 18 dell’art. 83 del D.L. n. 112/2008 esplicita il fine dell’intervento proprio nella compressione, tra l’altro, dei tempi di definizione. Il comma 18 prevede che il D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, “Disposizioni in materia di accertamento con adesione e di conciliazione giudiziale”, venga integrato dall’art. 5 bis, recante “Adesione ai verbali di constatazione”, secondo cui il contribuente può prestare adesione anche ai verbali di constatazione che consentano l’emanazione di atti di accertamento parziale in materia di imposte sui redditi e di imposta sul valore aggiunto (art. 5 bis, comma 1). Il nuovo art. 5 bis del D.Lgs. n. 218/1997, inoltre, precisa che l’adesione di cui al comma 1 può avere ad oggetto esclusivamente il contenuto integrale del processo verbale di constatazione e deve intervenire entro t r i b u ta r i o 102 trenta giorni successivi a decorrere dalla data della consegna del verbale medesimo mediante comunicazione, ad opera del contribuente, al competente Ufficio dell’Agenzia delle Entrate e all’organo che ha redatto il verbale (art. 5 bis, comma 2, primo capoverso). L’ufficio, ricevuta la comunicazione di adesione del contribuente, è, comunque, tenuto a verificare, nel dettaglio, se dalle violazioni formalizzate nel processo verbale di constatazione può derivarne l’accertamento parziale ai sensi degli artt. 41 bis del D.P.R. n. 600/1973 e 54, comma 4, del D.P.R. n. 633/1972, eventualmente comunicando al contribuente che, nonostante tutto –in tutti i casi, cioè, in cui non ritenga possa essere applicato l’art. 5 bis–, i rilievi non danno la possibilità di poter usufruire dell’adesione de qua. Quello che di fatto rileva nell’“adesione ai verbali di constatazione”, dunque, è la necessaria “accettazione passiva” del contenuto integrale del processo verbale, da parte del contribuente, in relazione al maggiore imponibile o alla maggiore imposta constatati nell’atto di indagine (più che “accettazione passiva” verrebbe da dire “acquiescenza”, ma il termine potrebbe indurre in errore poiché relativo all’istituto ex art. 15 del D.Lgs. n. 218/1997, con il quale, tuttavia, l’“adesione ai verbali di constatazione” presenta l’importante tratto comune, giustappunto, dell’accettazione passiva della pretesa fiscale). Se la comunicazione di adesione è vincolante per il contribuente, lo è, però, anche per l’Amministrazione finanziaria, alla quale compete un giudizio pur non discrezionale sulla validità della richiesta. È il caso, ad esempio, delle comunicazioni presentate in ritardo, di quelle non effettuate utilizzando il modello approvato o inoltrate senza allegare copia del documento di riconoscimento del sottoscrittore o di quelle presentate da soggetti non legittimati ad effettuare l’adesione. Più in generale, in tutti i casi in cui l’Agenzia ritenga non sussistenti i presupposti della definizione, dovrà darne «tempestiva notizia al contribuente con apposita comunicazione». La quale non potrà non avere i crismi di un atto definitivo di diniego da notificare al contribuente «tempestivamente», e quindi, verosimilmente, entro lo stesso termine previsto per la notifica dell’atto di definizione dell’accertamento parziale. Il provvedimento espresso di diniego sarà senz’altro impugnabile, ben potendo rientrare tra gli atti di diniego esplicito di definizioni agevolate previsti dall’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Il D.L. n. 112/2008, all’art. 83, comma 18 quater, prevede che la disciplina delle modalità di effettuazione della comunicazione dell’adesione è rinviata ad un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, da emanarsi entro trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione (ossia entro trenta giorni a decorrere dal 22 agosto 2008). Il provvedimento, che approva l’apposito Modello delle citata comunicazione, con annesse istruzioni, è Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE stato puntualmente firmato in data 10 settembre 2008, in anticipo, dunque, rispetto al più ampio e previsto margine di trenta giorni e diffuso, in pari data, sul sito dell’Agenzia. Detto provvedimento prevede che il Modello di comunicazione è presentato, a pena di nullità, all’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate territorialmente competente, nonché all’organo che ha redatto il processo verbale di constatazione (se quest’ultimo atto si riferisce a più periodi di imposta, in relazione ai quali risultano competenti diversi uffici dell’Agenzia delle Entrate, la comunicazione deve essere presentata a tutti gli uffici interessati). Il Modello, che allo scopo deve essere sottoscritto dal contribuente o da chi legalmente lo rappresenta, con esclusione della rappresentanza tramite procuratore speciale di cui all’art. 7, comma 1 bis, del D.Lgs. n. 218/1997 (di disciplina dell’“Atto di accertamento con adesione”), può essere presentato sia mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento (la presentazione si riterrà effettuata in coincidenza con la data del timbro dell’ufficio postale accettante, che farà fede), sia tramite consegna diretta agli uffici dell’Agenzia delle Entrate ed all’organo redigente il processo verbale di constatazione che, in tal caso, devono rilasciare attestazione dell’avvenuta consegna. Il provvedimento, inoltre, prevede che, se anteriormente alla data di sua pubblicazione, quindi fino a tutto il giorno 10 settembre 2008, la comunicazione di adesione è già stata presentata, quest’ultima deve essere nuovamente presentate entro il 30 settembre 2008 attraverso la procedura ed il Modello ivi previsti (a conferma, evidentemente, della nullità che sanziona l’inutilizzo del modello). Per quanto riguarda quest’ultima previsione, non pare che la conclusione sia condivisibile. Si dice che le comunicazioni devono essere nuovamente presentate. Ma non è così. Non si può ipotizzare alcun obbligo a carico del contribuente di «mantenere fede» ad una manifestazione di volontà espressa in modo irrituale. Meglio dire che le comunicazioni presentate «ante» possono essere nuovamente presentate, ma sempre che il contribuente ne ravvisi l’opportunità. Al Modello deve essere allegata la fotocopia di uno dei documenti d’identità, o di riconoscimento (ex art. 35 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445), in corso di validità, del soggetto che provvede ad effettuare la comunicazione. Esso si compone: di un “quadro introduttivo”, in cui sono indicati l’Ufficio dell’Agenzia competente in relazione dell’annualità oggetto di definizione e l’organo che ha redatto il processo verbale di constatazione; • di una “sezione”, dove vengono evidenziati i dati che contraddistinguono il processo verbale di constatazione; • di un’altra “sezione”, che racchiude i dati del dichiarante. 2 0 0 9 103 Le istruzioni prevedono, inoltre, che in caso il processo verbale di constatazione si riferisca alle società di persone ed assimilate, di cui all’art. 5 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir), la comunicazione dell’adesione deve essere effettuata necessariamente dal legale rappresentante della società, derivandone che ai singoli partecipanti è del tutto preclusa l’autonoma definizione della propria posizione alla luce del processo verbale di constatazione (ciò perché l’atto de quo è consegnato alla società e non ai singoli soci). Analoga procedura vale per coloro che hanno optato per il regime della trasparenza fiscale ex artt. 115 e 116, Tuir. Il principio viene applicato, altresì, per le società consolidanti, nell’ambito del consolidato fiscale, le quali, dunque, non possono effettuare la comunicazione dell’adesione per le violazioni constatate in capo alle consolidate. Tuttavia, se nei confronti: • dei soggetti che partecipano alle società di persone, • di coloro che partecipano a società che hanno optato per il regime di trasparenza fiscale, • delle società consolidanti nell’ambito del consolidato fiscale, • l’Ufficio abbia già provveduto ad inviare l’atto di definizione del reddito ad essi attribuibile, tali soggetti, solo in tal caso, possono autonomamente presentare (tramite l’invio o la diretta consegna) il più volte citato Modello di comunicazione. In particolare le istruzioni per la compilazione del modello di adesione al processo verbale di constatazione, rimediando alla lacuna normativa, stabiliscono che i soci delle società di persone possono manifestare la propria adesione «entro i trenta giorni successivi alla data di ricezione dell’atto di definizione1». Entro i sessanta giorni successivi alla comunicazione dell’adesione (nei termini di cui sopra) l’Ufficio delle Entrate deve notificare al contribuente l’atto di definizione dell’accertamento parziale, recante le medesime indicazioni di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 218/1997 (“Atto di accertamento con adesione”) (art. 5 bis, comma 2, secondo cpv., del D.Lgs. n. 218/1997). L’atto di definizione conseguente all’adesione al processo verbale, deve quindi indicare, seguendo i dettami del citato art. 7, “gli elementi e la motivazione su cui la definizione si fonda nonché la liquidazione delle maggiori imposte, delle sanzioni e delle altre somme eventualmente dovute, anche in forma rateale”. 1Non è chiaro a quale atto si fa riferimento; se a quello destinato alla società o se ne prevede uno destinato ai soci per la definizione dell’accertamento parziale. Non importa fermare ora l’attenzione su questo punto. Una cosa è certa: anche i soci partecipanti alla società di persone possono «chiudere» la partita accettando (ciascuno per la propria parte) i rilievi contenuti nel processo verbale di constatazione e beneficiando, così, della particolare riduzione delle sanzioni. Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o La motivazione è naturalmente rappresentata dalla intervenuta adesione ai sensi dell’art. 5 bis, mentre gli elementi sono quelli che formano oggetto delle violazioni “sostanziali” constatate, eventualmente emendati di errori materiali e di calcolo, sulla base dei quali si provvede alla liquidazione delle imposte ed altre somme dovute ai fini della definizione. Per quanto attiene alle sanzioni che conseguono alla definizione, valgono le precisazioni fornite dalla citata circolare n. 235/E del 1997 (par. 2.7, lettera a), le quali si riferiscono a tutte le ipotesi di definizione dell’accertamento con adesione del contribuente, compreso quello parziale. Sono previsti dunque termini (trenta e sessanta giorni) entro i quali devono essere posti in essere gli adempimenti. Detti termini devono ritenersi perentori e perciò, se non rispettati, comportano la decadenza dal compimento dell’obbligo. Quindi, se la comunicazione di adesione non viene presentata entro i trenta giorni successivi alla data di consegna del processo verbale di constatazione, l’adesione al verbale di constatazione è come se non fosse mai stata manifestata. E se a non rispettare i termini fosse, per qualsiasi ragione, l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate? In concreto, l’Ufficio potrebbe non notificare «l’atto di definizione dell’accertamento parziale» nel termine previsto. Cosa accade in questa ipotesi? Si forma una sorta di «silenzio‑rifiuto» che vanifica del tutto l’iniziativa del contribuente che – nei termini – ha già comunicato la propria adesione al processo verbale di constatazione? Difficile ipotizzare una risposta positiva. Ma, in questo momento, vale la pena di sottolineare che la mancanza della notifica dell’atto di definizione rende impossibile il versamento delle somme dovute dal contribuente a seguito della sua adesione al processo verbale e pone il problema del diritto del contribuente ad avvalersi della definizione agevolata. Quanto alle modalità di disciplina della fase transitoria per la prima applicazione della norma, il D.L. n. 112/2008, all’art. 83, comma 18 ter prevede che: • per i processi verbali consegnati dal 25 giugno (entrata in vigore del D.L. n. 112/2008) fino alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto‑legge de quo, ossia fino al 22 agosto 2008, il termine per la comunicazione dell’adesione, da parte del contribuente, è comunque prorogato al 30 settembre 2008, [lettera a)]; il termine per la notifica dell’atto di definizione dell’accertamento parziale e riguardante i processi verbali consegnati al contribuente dal 25 giugno fino al 31 dicembre 2008, è comunque prorogato al 30 giugno 2009 [lettera b)]. Con la notifica dell’atto di definizione dell’accertamento parziale trova completamento il procedimento previsto dall’art. 5 bis che determina, in fine, l’insorgere in capo al contribuente dell’obbligo di versare le “somme dovute risultanti dall’atto di definizione” me- t r i b u ta r i o 104 desimo, sancito dal comma 3 della nuova disposizione, “nei termini e con le modalità di cui all’articolo 8, senza prestazione delle garanzie ivi previste in caso di versamento rateale”. Il rinvio all’art. 8 vale a stabilire che: a) il versamento delle somme dovute deve essere eseguito entro venti giorni dalla notifica dell’atto di definizione dell’accertamento parziale; b) è ammesso il versamento in un massimo di otto rate trimestrali di pari importo ovvero di dodici rate trimestrali se le somme dovute sono superiori a 51.645,69 euro, senza la prestazione di alcuna garanzia. Il comma 3, secondo periodo, dell’art. 5 bis precisa inoltre che, nella ipotesi sub b), sull’importo delle rate successive alla prima sono dovuti gli interessi al saggio legale calcolati dal giorno successivo. “In caso di mancato pagamento delle somme dovute…, il competente ufficio dell’Agenzia delle entrate provvede all’iscrizione a ruolo a titolo definitivo delle predette somme a norma dell’articolo 14 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602” (art. 5 bis, comma 4), con l’aggiunta delle sanzioni del 30% (l’Agenzia, nella circ. n. 55/E, paragrafo 5, motiva l’applicazione dell’art. 13 del D.L. 18 dicembre 1997, n. 471 – che prevede appunto, in caso di “Ritardi od omessi versamenti diretti”, la sanzione del 30% –, poiché la fattispecie in esame è in tutto analoga a quella dell’omesso versamento delle rate successive alla prima, a seguito dell’ordinario “accertamento con adesione”). L’atto di adesione ai verbali, dunque, è idoneo a costituire titolo esecutivo per la riscossione delle somme definite. Ora, il completo richiamo che il comma 4 dell’art. 5 bis fa al comma 3 implica che l’iscrizione a ruolo a titolo definitivo delle somme avvenga a seguito di un generico riferimento al mancato pagamento delle stesse, sia che si tratti dell’importo complessivo, sia di una singola rata. L’assenza di un richiamo all’iscrizione a ruolo delle rate successive alla prima, in caso di mancato pagamento (anche di una sola) di queste, come, invece, si verifica nell’“accertamento con adesione”, ex art. 8, comma 3 bis del D.Lgs. n. 218/1997, fa conseguire che l’istituto si perfezioni non all’atto del pagamento della prima rata o del complessivo importo, bensì antecedentemente, in concomitanza con la notifica dell’atto di definizione dell’accertamento parziale, da parte dell’Ufficio, in capo al contribuente. In tale direzione ha chiarito la stessa circ. n.55/E, paragrafo 5, dove è stato puntualizzato che la definizione dell’accertamento parziale conseguente all’adesione ai processi verbali, si perfeziona indipendentemente dal successivo pagamento delle somme dovute, poiché ciò avviene con la sola notifica dell’atto di definizione specificatamente previsto dal nuovo art. 5 bis. Coerentemente, in tal senso, sono volti i chiarimenti delle Entrate nella circ. n. 55/E, paragrafo 5, in cui, per Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE 2 0 0 9 105 di più, è precisato che una volta che il contribuente esterna la propria volontà a richiedere l’adesione, è “da escludere che … possa essere dal medesimo revocata nelle more della notifica dell’atto di definizione (salvo il caso di vizi che consentano di ritenerla non validamente espressa)…”. Nell’“adesione ai verbali di constatazione” al contribuente non è data la possibilità di ripensarci: effettuata la comunicazione all’Ufficio competente ad emettere l’atto di accertamento ed all’organo che ha redatto il verbale, rimane vincolato definitivamente da tale scelta che, da sola, è sufficiente a perfezionare l’iter. Ne deriva che, se egli a seguito del rilascio del processo verbale di constatazione ricorre alla procedura di cui all’art. 12, comma 72 , della L. n. 212/2000, presentando osservazioni e richieste e, successivamente, comunque entro i trenta giorni decorrenti dal rilascio del verbale, esterna la propria volontà, attraverso la comunicazione da effettuarsi con il previsto Modello, di aderire all’iter ex art. 5 bis, stando al dettame normativo, questa seconda scelta lo vincola, determinando, ipso facto, l’inevitabile estinzione dell’iter, per così dire, “ordinario”, di cui all’art. 12, comma 7. È evidente che, in tale contesto, al competente Ufficio delle Entrate è inibita l’emissione dell’avviso di accertamento a seguito della decisione del contribuente di aderire al nuovo istituto. La circ. n. 55/E, paragrafo 2, precisa che possono costituire oggetto di adesione solo i processi verbali (anche se redatti dagli stessi uffici legittimati ad emettere l’avviso di accertamento parziale) “che contengono la constatazione di violazioni – sostanziali –” e che consentono l’emissione di un accertamento di natura parziale in materia di Iva e di imposte sui redditi. Si legge ancora, chiarendo i dubbi che sul punto il silenzio della norma aveva generato, che l’istituto può essere applicato, altresì, alle medesime tipologie di violazioni afferenti l’imposta regionale sulle attività produttive (Irap), le addizionali regionali o comunali, le imposte sostitutive sui redditi. Inoltre, l’adesione sortisce effetti anche per i contributi previdenziali determinati in base al reddito dichiarato, i quali sono definiti senza l’applicazione di sanzioni ed interessi, in linea con il disposto dell’art. 2, comma 5, del D.Lgs. n. 218/1997. L’estensione è ampiamente giustificata dalla ratio della norma e dalla sua collocazione sistemica, dal momento che i presupposti impositivi sono i medesimi per tutti i tributi indicati, aventi la medesima base imponi- bile, dal che sarebbe priva di coerenza una diversa interpretazione che li escludesse dalla definizione con adesione al verbale3. Il documento di prassi, inoltre, precisa che l’adesione coinvolge il “contenuto integrale” del processo verbale, e ribadisce che l’adesione si riferisce ad imponibili ed imposte oggetto di sole violazioni sostanziali, con distinto e necessario riguardo a tutti i periodi d’imposta interessati per i quali, all’atto della consegna del processo verbale di constatazione, siano già scaduti i termini per la presentazione delle dichiarazioni. In estrema sintesi, ne deriva che, pur se contenute nel processo verbale di constatazione, non rientrano nell’oggetto dell’adesione le seguenti ipotesi: • violazioni, anche sostanziali, ma riguardanti comparti impositivi diversi da quelli citati supra (ad esempio, imposte di registro, imposta catastale, eccetera); • violazioni formali riferibili alle imposte definibili, ossia quelle violazioni che non determinano recupero di materia imponibile o applicazione di sanzioni alla maggiore imposta accertata ; • violazioni che necessitano di ulteriore attività valutativa da parte dell’Ufficio e, eventualmente, istruttoria. Attraverso un dinamico rinvio all’art. 7, comma 1, del D.L. n. 218/1997, il documento di prassi puntualizza, come già ricordato, che l’atto di definizione deve indicare “gli elementi e la motivazione su cui la definizione si fonda nonché la liquidazione delle maggiori imposte, delle sanzioni e delle altre somme eventualmente dovute, anche in forma rateale”. La circolare de qua, inoltre, alla luce del principio di collaborazione e buona fede, ma anche nel rispetto del principio di trasparenza amministrativa, ai quali deve necessariamente, oggi, informarsi il rapporto tra Fisco e contribuente, prevede che i processi verbali di constatazione devono riportare la precisazione che le violazioni possono essere definite attraverso il nuovo istituto e con l’utilizzo dell’apposito Modello di comunicazione. Al contribuente è precluso ogni dialogo con l’Ufficio e l’atto conclusivo dell’indagine costituisce il rigido parametro di riferimento su cui applicare le sanzioni, ridotte ad un ottavo del minimo (art. 5 bis, comma 3, primo cpv., prima parte). Nell’“accertamento con adesione”, ex art. 6 del D.Lgs. n. 218/1997, invece, anche precedentemente all’emissione dell’avviso di accertamento non è data 2 “7. Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”. 3Se da un unico comportamento illecito del contribuente deriva sottrazione di materia imponibile, l’ammissione alla procedura definitoria non può che riguardare ogni tributo sul quale impattano i recuperi di imponibile, altrimenti si configurerebbe una situazione discriminatoria e «zoppa», oltretutto di oggettivo ostacolo all’incentivo voluto dal legislatore, di facilitare la definizione dei rapporti Fisco‑contribuente in tempi rapidi. Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o alcuna preclusione a che le parti si accordino sui valori in contestazione: qui il processo verbale di constatazione è, per così dire, “trattabile” attraverso il contraddittorio, che costituisce presupposto essenziale dell’istituto, prefiggendosi lo scopo di consentire al contribuente l’esposizione e la documentazione dei fatti e delle circostanze non presi in esame dagli Uffici e ritenuti idonei a contestare le pretese fiscali avanzate. L’“accertamento con adesione” è in sintonia con lo spirito dello Statuto del contribuente che predilige, anzi, pretende momenti colloquiali tra Fisco e contribuente. Qui, in caso di accordo, di solito si giunge ad una variazione in diminuzione della maggiore imposta o del maggiore imponibile pretesi dal Fisco, con l’applicazione della sanzione nella misura di un quarto del minimo. Dall’esame comparato dei due istituti l’aspetto dell’“adesione ai verbali di constatazione” che dovrebbe ritenersi maggiormente conveniente per il contribuente, parrebbe essere la riduzione delle sanzioni ad un ottavo del minimo, invece che ad un quarto, come previsto nell’“accertamento con adesione”. È stato posto in rilievo, tuttavia, che i dati statistici afferenti il significativo “abbattimento” medio dei verbali di constatazione da parte degli uffici fiscali, ai fini della definizione in “accertamento con adesione” (“abbattimento” censurato in varie sedi dalla magistratura contabile, sia in sede deliberante che giudicante), dimostrano che il nuovo istituto difficilmente, allo stato attuale dei fatti, potrà ritenersi particolarmente appetibile per i contribuenti che, con buona possibilità, continueranno ad orientarsi verso il primo, “preferendolo”. D’altro canto, l’“adesione ai verbali di constatazione”, a regime, dovrebbe consentire all’Amministrazione di “liberare” molte risorse da destinare ad altre attività di controllo; tanto emerge dalla relazione illustrativa di accompagnamento al D.L. n. 112/2008, secondo cui, potenzialmente, potrebbero essere interessati alla nuova procedura circa settantacinquemila soggetti, con la conseguente diminuzione di venticinquemila avvisi di accertamento e la possibilità, per l’Amministrazione finanziaria, di poter impiegare risorse atte a realizzare almeno ulteriori altri quindicimila accertamenti, in diversi ambiti, su base annuale. Dati che, se confermati nella realtà (ferme tutte le riserve poste in evidenza), evidenzierebbero una palese propensione del nuovo istituto finalizzata ad incrementare l’efficienza dell’Amministrazione finanziaria. Altro vantaggio che si annovera per il contribuente che dovesse ricorre all’“adesione ai verbali di constatazione”, in caso di pagamento rateale della definizione, è la mancata previsione della fideiussoria a garanzia del differimento del pagamento. Inoltre, nel caso in corso di indagini fiscali gli investigatori abbiano inoltrato all’Autorità giudiziaria competente un’informativa di reato come conseguenza di un ritenuto riscontrato illecito penale‑tributario, di cui al t r i b u ta r i o 106 D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, a seguito dell’“adesione ai verbali di constatazione” al contribuente dovrebbero potersi applicare i benefici ex art. 13 di detto decreto. Secondo l’art. 13, recante “Circostanza attenuante. Pagamento del debito tributario”, le pene stabilite per i delitti previsti dal D.Lgs. n. 74/2000, “sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’art. 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie” (comma 1), con la precisazione, al comma 2, che “A tale fine, il pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste per la violazione di norme tributarie …”. Nonostante la questione non sia stata trattata dal dato normativo di riferimento, né dalla circ. n. 55/E, si è del parere che la nuova procedura, ex art. 5 bis, possa rientrare nella previsione della norma penale‑tributaria (alla stessa stregua dell’“accertamento con adesione”), quindi, nel novero delle “speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”, consentendo al contribuente di usufruire in sede penale, in caso di rinvio a giudizio, dell’importante beneficio. Infatti, la genericità con cui il legislatore ha strutturato l’art. 13 del D.Lgs. n. 74/2000, riferito alle “speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”, porta a ritenere che l’“adesione ai verbali di constatazione” possa rientrare, a pieno titolo, nell’ambito dell’operatività della “circostanza attenuante” ivi disciplinata, che dovrebbe ricomprendere “qualsiasi strumento che permette la definizione di una pretesa, fosse anche in fieri, tanto vigente all’epoca di entrata in vigore del decreto quanto di futura, possibile introduzione”. Un altro aspetto che potrebbe essere rilevante per il contribuente che si trovi nella necessità di valutare se scegliere o meno di aderire al nuovo istituto, riguarda la preclusione per l’Ufficio delle Entrate, in caso di ricezione del processo verbale di constatazione, unitamente all’istanza del contribuente con cui questi formalizza la propria volontà di definire l’atto conclusivo di indagine, di ogni valutazione sulla bontà dei rilievi indicati nello stesso atto e, quindi, la scongiura di ulteriori attività istruttorie. L’assenza di ogni critica e l’asettico recepimento del processo verbale di constatazione, infatti, preclude all’Ufficio fiscale di appesantire le conclusioni alle quali pervengono gli investigatori a sfavore del contribuente: la posizione fiscale di quest’ultimo, in relazione all’oggetto dell’atto definito e, naturalmente, in caso di perfezionamento del procedimento, determina la sicura chiusura della sua posizione fiscale. Non che questo rappresenti un divieto per gli inve- Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE stigatori per un’altra attività di controllo nei confronti del medesimo soggetto (medesima osservazione vale in relazione all’“accertamento con adesione”). È noto, infatti, che l’oggetto dell’art. 5 bis comprende “i verbali di constatazione” in materia di imposte sui redditi e di imposta sul valore aggiunto che consentono l’emissione degli “accertamenti parziali” previsti dall’art. 41 bis del D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 54, comma 4, del D.P.R. n. 633/1972. Trattandosi, dunque, di “accertamenti parziali”, la loro definizione non impedisce l’esercizio di ulteriore attività accertativa che non risulta nemmeno vincolata dalle condizioni previste dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 57, comma 4, del D.P.R. n. 633/1972. Nonostante la potenziale verificabilità della previsione di un nuovo controllo, anche poco dopo la definizione in adesione in ambito amministrativo (in specie in relazione al processo verbale di constatazione, ma anche all’avviso di accertamento), di fatto, nella realtà, questo dovrebbe verificarsi raramente: lo impongono vincoli di obiettiva scelta dei soggetti da sottoporre a controllo, per cui i verificatori sono indirizzati, tendenzialmente, a controllare i contribuenti che da più tempo non “subiscono” l’attenzione del Fisco: esigenza che rientra nella previsione costituzionale, ex art. 97, dell’imparziale organizzazione dei pubblici uffici (imparzialità che, in questo, si concretizza anche attraverso una corretta turnazione temporale delle attività ispettive fiscali, in relazione, naturalmente, anche ad altre priorità tese alla tutela del credito erariale). C’è chi si è chiesto se l’introduzione dell’istituto dell’“adesione ai verbali di constatazione” nell’ordinamento tributario non trovi anche altre motivazioni, al di là di quelle che emergono dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 83, comma 18 (individuate, nella semplificazione dei rapporti tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, nel reciproco affidamento e nella compressione dei tempi di definizione). L’osservazione fa riflettere anche, tra l’altro, alla luce delle considerazioni che si pongono in relazione all’introduzione di un istituto che forse avrebbe richiesto tempi maggiori per una sua più coerente e matura collocazione nell’ordinamento tributario. Non è stato escluso, infatti, che la nuova procedura sia stata (anche) dettata dall’esigenza di far fronte alle recenti polemiche inerenti la distribuzione dei c.d. premi di incentivazione, da destinare ai dipendenti dell’Amministrazione finanziaria e che non hanno interessato, altresì, gli appartenenti alla Guardia di finanza, nonostante, come noto, il ruolo fondamentale che il Corpo di polizia ha nell’avversare l’evasione fiscale. In quest’ottica il nuovo istituto premiale dovrebbe consentire, attraverso una procedura volta ad anticipare all’atto endoprocedimentale il momento in cui giuridicamente il Fisco incide sulla sfera giuridica del contribuente, di quantificare con certezza e direttamente i 2 0 0 9 107 risultati ottenuti dalla Guardia di finanza in relazione agli effettivi recuperi di imposta. Potenzialmente, in questo modo, dovrebbe esser dato di individuare un sorta di confine tra l’operato dell’Agenzia delle Entrate e quello della Guardia di finanza in relazione all’efficacia delle relative attività. In tale direzione, è stato osservato che se questo è lo spirito della nuova norma, volta a monitorare le somme riscosse, non è da escludere che nel tratto a venire potrebbe cambiare, da parte della Guardia di finanza, l’approccio ispettivo e, dunque, l’attività diretta a constatare le violazioni. Il diretto legame tra l’attività svolta e gli esiti ottenuti, è stato aggiunto, potrebbe indurre gli appartenenti al Corpo di polizia a vagliare con spirito diverso il proprio operato: la possibilità che il contribuente aderisca al nuovo istituto premiale, infatti, è tanto maggiore quanto più sono ritenute inconfutabili le violazioni constatate e, dunque, difficilmente attaccabili dalla difesa del contribuente nelle fasi successive del procedimento amministrativo‑tributario o, “quanto meno, fondate a tal punto da non poter prevedere, nonostante la discrezionalità dell’Ufficio nell’ambito del procedimento con adesione, l’abbattimento della pretesa impositiva in una misura superiore rispetto allo sconto sulle sanzioni che invece si ottiene mediante l’adesione in toto al p.v.c.”. Ciò che realmente verrà valutato, e premiato, sarà la rapida definizione del contesto in relazione all’efficiente impiego di risorse volto a realizzare l’obiettivo prefisso. Quali sono le prevedibili sorti di questo nuovo istituto? Il legislatore ha premesso che, attraverso la sua applicazione, il rapporto tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente, addivenendo ad immediata definizione, gioverà al decongestionamento del contenzioso tributario, senza trascurare, anche se sul punto il testo tace, i vantaggi realizzabili attraverso l’integrale e sollecito pagamento dell’imposta e, seppure in misura notevolmente ridotta, delle stesse sanzioni. Posto che queste sono le finalità dell’intervento legislativo, in via di previsione si può ritenere che quei contribuenti che sono consapevoli della non fruttuosità dell’impugnazione dell’avviso di accertamento, possono ritenersi stimolati a definire con questa nuova formula la loro pendenza con l’Amministrazione finanziaria. Anche perché l’esperimento della adesione attraverso la formula tradizionale non dovrebbe sortire esiti migliorativi e non comporterebbe alcun vantaggio sensibile sul piano temporale. Diverso sarà invece l’atteggiamento di chi confida nel buon esito dell’impugnazione dell’avviso, nel qual caso l’alternativa della definizione con l’attuale procedimento non consente di fare previsioni attendibili, dipendendo dalle valutazioni che ciascuno farà nel caso concreto, senza che si possano intuire orientamenti al riguardo. Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o 2. Adesione sull’invito a comparire L’art. 27 del Decreto legge cd. anti‑crisi n. 185 del 28 novembre 2008, convertito con L. 28 gennaio 2008, n.2, ha modificato l’art. 5 del D.Lgs. n. 218/97, prevedendo sostanzialmente un sistema simile a quello introdotto con l’art. 5 bis, dall’art. 83, comma 18, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133. Verifichiamo le novità introdotte. Il legislatore, dopo aver previsto la possibilità di definire il pvc, con la riduzione delle sanzioni ad 1/8, attraverso un particolare meccanismo teso a velocizzare la monetizzazione della pretesa, in cambio di una adesione totale, sulla stessa falsariga ha introdotto, attraverso l’art. 27 del D.L. n. 185 del 28 novembre 2008, l’adesione sull’invito a comparire di cui all’art. 5 del D. Lgs. n. 218/97. Aldilà del reistyling operato per aggiornare il testo al nuovo contesto accertativo (superamento dei coefficienti presuntivi) e alla nuova struttura dell’Amministrazione finanziaria (gli uffici locali sono ormai presenti su tutto il territorio da tanti anni, e anzi oggi sono superati dalle Direzioni provinciali), operato attraverso l’eliminazione dei commi 24 e 3 dell’art. 5 del D.Lgs. n. 218/97, sono state inserite due lettere al comma 1 di tale articolo. Ne consegue che l’invito dell’ufficio deve ora specificare i seguenti elementi: a) i periodi d’imposta suscettibili di accertamento; b) il giorno e il luogo della comparizione; c) le maggiori imposte, ritenute e obblighi, contributi e sanzioni e interessi dovuti in caso di definizione agevolata di cui al comma 1 bis; d) i motivi che hanno dato luogo alla determinazione delle maggiori imposte, ritenute e contributi di cui alla lettera c). Al riguardo, si evidenzia che, mentre i primi due elementi sono stati previsti già con la formulazione originaria della norma giuridica, il terzo e il quarto sono stati introdotti dall’indicato art. 27 e si applicano –come previsto dal comma 3 di tale disposizione– “con riferimento agli inviti emessi dagli uffici dell’Agenzia delle Entrate a decorrere dal 1° gennaio 2009”. In esito a quest’ultima decorrenza non saranno sollevati i soliti interrogativi in ordine all’efficacia retroattiva della norma tributaria in quanto la stessa è dettata, in modo inequivoco, nell’interesse del contribuente. Ne 4 Ai fini dell’accertamento per adesione, per conseguire evidenti economie procedimentali, l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 218/1997 aveva disposto che “la richiesta di chiarimenti inviata al contribuente ai sensi dell’articolo 12, comma 1, del decreto‑legge 2 marzo 1989, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 aprile 1989, n. 154, riguardante la determinazione induttiva di ricavi, compensi e volumi d’affari sulla base di coefficienti presuntivi, costituisce anche invito al contribuente per l’eventuale definizione dell’accertamento con adesione”. t r i b u ta r i o 108 deriva che, ai fini della decorrenza, non rileva il periodo d’imposta interessato bensì la data di notifica dell’invito a comparire per cui continua a trovare applicazione la previgente disciplina per i procedimenti già avviati dagli uffici alla data del 31 dicembre 2008. Si aggiunga che con la nuova procedura, lo schema giuridico utilizzato è stato completamente riscritto per cui è da escludere che l’invito possa continuare a rivestire carattere meramente informativo della possibilità di aderire. Come sottolinea la Circolare 4/E del 16 febbraio 2009 l’introduzione del nuovo istituto richiede una specifica attenzione da parte degli Uffici nel momento in cui decidono di avviare il procedimento di accertamento con le modalità previste dall’art. 5 del decreto legislativo n. 218 del 1997. “Posto, infatti, che l’invito a comparire mantiene, comunque, finalità propedeutiche alla instaurazione del contraddittorio, il procedimento finalizzato all’adesione (compresa quella, preventiva, all’invito) trova la sua più idonea applicazione in tutti i casi in cui l’accertamento si basi essenzialmente su prove di natura presuntiva (iuris tantum) o su altri elementi comunque suscettibili di apprezzamento valutativo da parte dell’Ufficio5”. È stato poi inserito il comma 1 bis, attraverso il quale il contribuente può prestare adesione ai contenuti dell’invito a comparire di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 218/97 mediante comunicazione al competente ufficio da effettuare secondo le modalità previste dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate emanato in data 10 settembre 2008 e versamento delle somme dovute entro il quindicesimo giorno antecedente la data fissata per la comparizione. Il modello di comunicazione per l’adesione è cioè lo stesso dell’adesione al PVC. Tale modello però non contiene alcuna indicazione del nuovo strumento ex D.L. 185/08 sollevando così dubbi compilativi. Si aggiunga che con la R.M. 482/E/08 l’Agenzia delle Entrate ha istituito i codici tributo per il versamento delle somme indicate nell’invito al contraddittorio, senza nulla specificare in merito alle modalità di compilazione del modello. A tal proposito la Circolare 4/E del 16 febbraio 2009 afferma solo che il modello citato deve essere “opportunamente adattato alle esigenze del nuovo istituto”. 5Situazioni del genere ricorrono, tipicamente, a titolo esemplificativo, nelle seguenti ipotesi: • accertamenti d’Ufficio, per i casi di omessa presentazione della dichiarazione, basati su presunzioni anche prive dei requisiti della gravità, precisione e concordanza; • rettifiche di cui all’art. 38, terzo comma, ed all’art. 39, primo comma, lettera d) del D.P.R. n. 600 del 1973, nonché di cui all’art. 54, secondo comma del D.P.R. n. 633 del 1972, basate su presunzioni semplici; • accertamenti induttivi di cui all’art. 39, secondo comma, del D.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 55 del D.P.R. n. 633 del 1972; • accertamenti con metodo sintetico di cui all’art. 38, quarto comma del D.P.R. n. 600 del 1973. Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE A differenza di quanto previsto per l’adesione al verbale di constatazione, nel caso in esame, quindi, l’adempimento degli obblighi di versamento – sia pure limitati alla prima rata in caso di rateizzazione del debito – si pone come presupposto essenziale per la validità del procedimento. In caso di pagamento rateale, la comunicazione di adesione deve contenere l’indicazione del numero delle rate prescelte. Alla comunicazione, in ogni caso, deve essere unita la quietanza dell’avvenuto pagamento della prima o unica rata. In presenza dell’adesione la misura delle sanzioni applicabili indicata nell’art. 2, comma 5, è ridotta alla metà (1/8). Il legislatore subordina il beneficio sanzionatorio all’accettazione integrale delle risultanze dell’attività istruttoria interna, contenuta nell’invito a comparire. Il procedimento ideato dal legislatore per incentivare la definizione delle liti potenziali prima dell’emissione dell’atto di accertamento precisa che la stessa deve intervenire «…entro il quindicesimo giorno antecedente la data fissata per la comparizione». La rilevata circostanza che il perfezionamento della definizione determina in capo al contribuente l’obbligo di versare quanto dovuto in base all’atto di definizione porta a ritenere che il mancato versamento degli importi dovuti vada sanzionato ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 471/97, in quanto si tratta di fattispecie in tutto analoga a quella dell’omesso versamento delle rate successive alla prima, a seguito dell’ordinario accertamento con adesione, per la quale già la circolare n. 65/E del 28 giugno 2001 (par. 4.4) ha a suo tempo ravvisato la ricorrenza della violazione di cui al citato art. 13 (omesso versamento, anche parziale, entro il termine previsto). È di tutta evidenza che il bonus sanzionatorio – seppure particolarmente consistente – non escluderà il ricorso all’adesione “tradizionale” (art. 5, 6, 1° e 2° comma, del D. Lgs. 218/1997), per tutte quelle fattispecie che sono, come precisa la circ. n. 235/1997, “… interessate dall’applicazione di metodologie induttive di accertamento (… che…) possono trovare il loro sbocco fisiologico nel procedimento di adesione in contraddittorio con il contribuente, in ragione di una più fondata e ragionevole misurazione del presupposto impositivo che tenga conto degli elementi di valutazione offerti dal contribuente”. Pertanto, l’adesione agli inviti a comparire riguarderà piuttosto i rilievi in cui l’esistenza dell’obbligazione tributaria è determinabile sulla base di elementi certi, in quanto analiticamente determinati e provati, non suscettibili di ridimensionamento in occasione del contraddittorio. Una regola rigida – ovviamente non modificabile in sede interpretativa – impone che l’adesione può avere ad oggetto esclusivamente il contenuto integrale e sostanziale dell’invito a comparire. In tali casi, il contribuente 2 0 0 9 109 dovrà comparare la (sicura) perdita del beneficio della riduzione delle sanzioni ad un ottavo con la (eventuale) riduzione dell’imposta accertata, a seguito del contraddittorio con l’ufficio, con conseguente riduzione delle sanzioni irrogabili nella misura di un quarto del minimo, come previsto dall’art. 2, co. 5, del D.Lgs. 218/1997. Il comma 1 ter, del nuovo istituto sancisce poi la possibilità di versare le somme dovute risultanti dall’atto di definizione nei termini e «… con le modalità di cui all’articolo 8, senza prestazione delle garanzie ivi previste…». Come già detto, tale norma prevede la possibilità di rateizzare gli importi dovuti in forza dell’adesione, previo rilascio di idonea garanzia, nel numero massimo di otto rate trimestrali di pari importo fra loro, ovvero di dodici rate in caso di pagamenti di somme superiori a € 51.646,00, importo che tiene conto dell’intera somma dovuta, comprensiva di imposte, interessi e sanzioni. In caso di opzione per il pagamento rateale, il contribuente deve versare, entro venti giorni dalla data di redazione dell’atto di adesione, solo l’importo della prima rata e presentare all’ufficio la polizza cauzionale: l’importo delle rate successive, maggiorato degli interessi legali calcolati dal giorno successivo a quello di perfezionamento dell’atto di adesione e fino alla scadenza di ciascuna rata, sarà versato con cadenza trimestrale. La predetta disposizione è inscindibilmente connessa al successivo art. 9, nel quale si precisa che «La definizione si perfeziona con il versamento di cui all’articolo 8, comma 1, ovvero con il versamento della prima rata e con la prestazione della garanzia, previsti dall’articolo 8, comma 2». Pertanto, l’efficacia dell’atto di adesione “tradizionale” è subordinata all’esatto, integrale e tempestivo pagamento dell’obbligazione tributaria nascente dall’accordo sottoscritto, o, in caso di pagamento rateale, con il versamento della prima rata e la presentazione della garanzia. L’adesione – senza contraddittorio –, invece, omettendo il richiamo all’art. 9 del D.Lgs. n. 218/1997, svincola l’efficacia dell’atto dal relativo pagamento, subordinando la spettanza dei benefici esclusivamente all’invio tempestivo della comunicazione e mantenendo la spettanza dell’agevolazione sanzionatoria anche in caso di omesso pagamento delle somme dovute. In altri termini, considerata l’articolazione del procedimento previsto, è da escludere che l’adesione prestata dal contribuente possa essere dal medesimo revocata (salvo vizi tali da ritenerla non validamente espressa). Il comma 1 quater aggiunge che in caso di mancato pagamento delle somme dovute il competente ufficio dell’Agenzia delle entrate provvede all’iscrizione a ruolo a titolo definitivo delle predette somme a norma dell’art. 14 del D.P.R. n. 602/73. Tale norma non trova applicazione nei confronti degli inviti preceduti da processi verbali di constatazio- Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o ne definibili ai sensi del successivo art. 5 bis e ha vigore con riferimento agli inviti emessi dagli uffici a decorrere dal 1° gennaio 2009. Con le menzionate modifiche il legislatore sembra muoversi nella logica del coordinamento e dell’unificazione delle procedure nell’evidente quanto apprezzabile intento di agevolare la chiusura del rapporto del Fisco con il contribuente prima ancora di arrivare alla fase contenziosa. Restano, tuttavia, alcuni punti da chiarire. Innanzitutto, non sono state esplicitamente previste le conseguenze a carico del contribuente qualora ometta di presentarsi nel luogo e nell’ora indicati nell’atto dell’Ufficio né il valore giuridico dell’invito a comparire6. Trattasi, comunque, di un atto che, al di là della sua denominazione, presenta, sotto l’aspetto sostanziale, tutte le caratteristiche e i requisiti richiesti per l’avviso di accertamento. Di qui l’interrogativo in ordine alla sua eventuale diretta impugnazione dinanzi al giudice tributario. La risposta, tuttavia, deve essere negativa –pur essendo innegabile che trattasi di atto con il quale l’Amministrazione finanziaria avanza, nella sostanza, una pretesa creditoria – in considerazione della natura del provvedimento che, in quanto “invito” a pagare una determinata somma fruendo delle agevolazioni, non può essere considerato sostitutivo dell’atto impositivo ordinario. Ed è proprio tale considerazione che induce fondatamente a ritenere che il contribuente, laddove ritenga di non aderire all’invito, potrebbe pur sempre recarsi –nel luogo e nella data stabiliti– presso l’Ufficio per avviare un contraddittorio di carattere formale. In tal caso, però, oltre agli interessi, trovano applicazione i principi di carattere generale di cui all’art. 2, comma 5, del D.Lgs n. 218/1997 per cui le sanzioni saranno irrogate nella misura di un quarto del minimo. Non è difficile prevedere, poi, che ove l’interessato si orienti a non presentarsi, nella fase successiva possano configurarsi ulteriori spazi per tentare di addivenire ad una riduzione della pretesa erariale. D’altra parte, laddove il contribuente disponga realmente di elementi idonei a provare l’infondatezza della maggiore pretesa del Fisco, a meno che non sussistano particolari motivazioni, è quantomeno opportuna l’adesione all’invito a presentarsi. Sarà quella la sede per far valere le sue ragioni e, ove necessario, chiedere anche una dilazione del contraddittorio qualora, per un compiuto esercizio dei diritti difensivi, necessiti di una proroga per acquisire, ad esem- 6La Circolare 4/E del 16 febbraio 2009 ribadisce però che l’invito a comparire inviato dall’Ufficio, assume una valenza esclusivamente informativa e non vincolante; pertanto, il contribuente può non aderire all’invito a comparire e recarsi, nel luogo e nella data stabiliti, presso l’Ufficio per avviare un contraddittorio. t r i b u ta r i o 110 pio, documentazione bancaria, documentazione non immediatamente reperita e/o reperibile, eccetera. 2.1. Acquiescenza In forza della disposizione dell’art. 15 del D.Lgs. 218/1997 il contribuente può ottenere una riduzione ad un quarto delle sanzioni irrogate nell’avviso di accertamento a condizione che: • rinunzi ad impugnare l’atto emesso dall’ufficio; • rinunzi a presentare istanza di adesione di cui agli artt. 6, comma 2, e 12, comma 1, del D.Lgs. n. 218/1997; • provveda al pagamento delle somme dovute, anche in forma rateale, con la riduzione delle sanzioni entro il termine della proposizione del ricorso. Quindi, in seguito all’entrata in vigore della disposizione in oggetto, in calce agli avvisi di accertamento compare la seguente dicitura “Ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. n. 218/1997, le sanzioni irrogate sono ridotte ad un quarto qualora il presente atto non venga impugnato, non sia presentata istanza di accertamento con adesione e si provveda al pagamento, entro il termine per la proposizione del ricorso, delle somme complessivamente dovute, tenendo conto della predetta riduzione. Le somme dovute possono essere versate anche ratealmente secondo le disposizioni dell’art. 8, comma 2, del citato decreto legislativo”. Qualora nell’avviso di accertamento vengano irrogate sanzioni per le quali non compete la riduzione ad un quarto in caso di mancata impugnazione, tale circostanza dovrà essere opportunamente evidenziata nell’atto. Con l’art. 27, comma 4 bis del Decreto 185/2008 viene introdotto un nuovo comma all’articolo 15 del D.Lgs. 218/1997. Il comma 2 bis sancisce che fermo restando quanto previsto dal comma 1, le sanzioni ivi indicate sono ridotte alla metà (si passa cioè da 1/4 a 1/8) se l’avviso di accertamento e di liquidazione non è stato preceduto dall’invito di cui all’articolo 5 o di cui all’articolo 11, cioè non è preceduto dall’invito al contraddittorio. La disposizione non si applica nei casi in cui il contribuente non abbia prestato adesione ai sensi dell’articolo 5 bis, se non ha prestato adesione al PVC. 3. Conseguenze sull’istituto del ravvedimento operoso Con il D.L. 29 novembre 2008, n. 185 sono state modificate le riduzioni «premiali» del ravvedimento operoso. La nuova misura si deve probabilmente al fatto che sia lo stesso D.L. n. 185/2008 che il D.L. n. 112/2008 hanno provveduto ad inserire, rispettivamente, due nuovi istituti «premiali»: la possibilità di adesione agli inviti al contraddittorio da accertamento con adesione (nuovo art. 5, comma 1 bis, del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218) e l’adesione ai processi verbali di constatazione (nuovo art. 5 bis del D.Lgs. n. 218/1997). Entrambe le Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE nuove forme di adesione prevedono la riduzione delle sanzioni ad un ottavo del minimo, riduzioni che sarebbero risultate notevolmente inferiori a quelle previgenti stabilite per il ravvedimento operoso. L’istituto del ravvedimento operoso ha trovato una organica collocazione con la riforma del sistema sanzionatorio non penale, ad opera del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, e risulta disciplinato dall’art. 13 dello stesso decreto legislativo. La ratio dell’istituto risulta quella di consentire all’autore di omissioni o di irregolarità di rimediare spontaneamente alle violazioni commesse, usufruendo di significative riduzioni delle sanzioni amministrative applicabili, purché la regolarizzazione intervenga entro precisi limiti temporali. Questo all’ulteriore condizione che la violazione non sia stata constatata e non siano iniziati accessi, ispezioni e verifiche ovvero altre attività amministrative di accertamento. Dalla data della loro entrata in vigore, le disposizioni dell’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997 hanno già subito numerosi ritocchi, di cui il più significativo è sicuramente quello derivante dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, conseguente alla delega contenuta nell’art. 16 della L. 27 luglio 2000, n. 212, cd. Statuto del contribuente. A seguito di tale intervento normativo, è stata introdotta una nuova causa di non punibilità nell’art. 6 del D.Lgs. n. 472/1997, mediante l’aggiunta di un nuovo comma 5 bis, il quale dispone: «non sono inoltre punibili le violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo». Contestualmente, è stata disposta l’abrogazione del comma 4 dell’art. 13, il quale stabiliva che, «nei casi di omissione o di errore che non ostacolano un’attività di accertamento in corso e che non incidono sulla determinazione o sul pagamento del tributo, il ravvedimento esclude l’applicazione della sanzione, se la regolarizzazione avviene entro tre mesi dall’omissione o dall’errore». Attualmente la possibilità di regolarizzazione delle violazioni formali risulta disciplinata, di fatto, dalla lett. b) dello stesso art. 13, di cui si dirà infra. L’intervento effettuato dall’art.16, comma 5, del D.L. n. 185/2008 riguarda l’entità delle riduzioni delle penalità stabilite dalle lettere a), b) e c) dell’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997. La norma ora dispone che le sanzioni edittali vengono ridotte, rispettivamente: a) a un dodicesimo del minimo nei casi di mancato pagamento del tributo o di un acconto, se esso viene eseguito nel termine di trenta giorni dalla data della sua commissione; b) a un decimo del minimo, se la regolarizzazione degli errori e delle omissioni, anche se incidenti sulla determinazione o sul pagamento del tributo, avviene entro il termine per la presentazione della dichiara- 2 0 0 9 111 zione relativa all’anno nel corso del quale è stata commessa la violazione ovvero, quando non è prevista dichiarazione periodica, entro un anno dall’omissione o dall’errore; c) a un dodicesimo del minimo di quella prevista per l’omissione della presentazione della dichiarazione, se questa viene presentata con ritardo non superiore a novanta giorni ovvero a un dodicesimo del minimo di quella prevista per l’omessa presentazione della dichiarazione periodica prescritta in materia di imposta sul valore aggiunto, se questa viene presentata con ritardo non superiore a trenta giorni». La regolarizzazione degli omessi o insufficienti versamenti di un tributo o di un acconto In relazione alla previsione di cui alla lett. a), la stessa risulta riferita alla possibilità di effettuare la regolarizzazione dell’omesso o carente versamento di un tributo entro trenta giorni dal termine di scadenza dello stesso. In questo caso la sanzione «ordinaria» del 30%, prevista dall’art. 13 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, si riduce a un dodicesimo, cioè risulta pari al 2,5% dell’imposta non versata7. Le violazioni di carattere sostanziale La previsione di cui alla lett. b) contempla ulteriormente sia la possibilità di provvedere alla regolarizzazione di violazioni di carattere sostanziale che formale. In relazione alle prime e con specifico riferimento alle violazioni in materia di imposte sui redditi, va rilevato che la regolarizzazione può essere distinta a seconda che la stessa riguardi errori ed omissioni rilevabili in sede di liquidazione delle imposte ai sensi degli artt. 36 bis e 36 ter del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 o meno. Nel primo caso – errori materiali o di calcolo nella determinazione degli imponibili e delle imposte ovvero indicazione in misura superiore a quella spettante di detrazioni d’imposta, di oneri deducibili o detraibili, di ritenute d’acconto, ecc. – il ravvedimento comporta il pagamento della sanzione ridotta del 3% (un decimo della sanzione edittale del 30%). Nella seconda ipotesi rientrano, invece, tutte quelle situazioni che non sono rilevabili in sede di liquidazione delle imposte ai sensi dei citati artt. 36 bis e 36 ter del D.P.R. n. 600/1973. Si tratta, a titolo esemplificativo, di regolarizzazioni concernenti l’omessa o errata indicazione di redditi ovvero di indebite deduzioni dell’imponibile. In pratica, di errori od omissioni che determi- 7Si precisa che, ai fini del computo dei trenta giorni entro cui è possibile procedere alla regolarizzazione, il dies a quo deve essere considerato in ogni caso quello di scadenza del termine previsto per il pagamento. Pertanto, se l’imposta è stata versata in misura insufficiente in data antecedente a quella di scadenza, i trenta giorni per la regolarizzazione non decorrono dal giorno dell’inesatto inadempimento, ma da quello di scadenza del termine originario. Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o nano la violazione di infedele dichiarazione, per la quale l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 471/1997 prevede la sanzione dal 100 al 200% della maggiore imposta o della differenza del credito. La regolarizzazione in questione comporta quindi il pagamento di una sanzione ridotta al 10% (un decimo del 100%), oltre al pagamento della maggiore imposta o del minor credito e degli interessi legali. Le violazioni formali La lett. b) dell’art. 13 disciplina anche la possibilità di regolarizzare le violazioni di carattere formale con le sanzioni ridotte ad un decimo del minimo. Questo in ragione della previsione della norma, la quale sancisce la riduzione delle sanzioni a un decimo del minimo in relazione alla regolarizzazione degli errori o delle omissioni «anche se incidenti sulla determinazione e sul pagamento del tributo8». L’omessa dichiarazione In relazione alla violazione dell’omessa presentazione della dichiarazione, occorre rilevare che ora la sanzione edittale risulta ridotta «a un dodicesimo del minimo … se questa viene presentata con ritardo non superiore a novanta giorni9». 4. Limiti al potere di accertamento presuntivo in caso di adesione L’art. 27, comma 4, del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, ha aggiunto, dopo l’art. 10 bis della L. 8 maggio 1998, n. 146, l’art. 10 ter, ove viene previsto che per gli inviti a comparire da studi di settore, relativi ai periodi d’imposta in corso al 31 dicembre 2006 e successivi, qualora il contribuente presti adesione integrale ex art. 5, comma 1 bis, del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, gli ulteriori accertamenti basati su presunzioni semplici10 non possono essere effettuati qualora l’ammontare delle attività non dichiarate, con un massimo di 50.000 euro, sia pari o inferiore al 40% dei ricavi o compensi definiti. 8In proposito, va evidenziato che l’abrogazione del comma 4 dell’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997 e la contestuale introduzione della nozione di «violazione meramente formale», individuata come causa di non punibilità dal nuovo comma 5 bis dell’art. 6 dello stesso decreto, ha creato una situazione di notevole incertezza interpretativa, in particolare sulla stessa nozione di violazioni «meramente formali». Queste ultime, vale a dire quelle che non incidono sulla determinazione o sul versamento del tributo e nello stesso tempo non arrecano pregiudizio all’attività di controllo, non sono punibili e non richiedono in via di principio, quindi, alcuna regolarizzazione. Ovviamente, possono formare oggetto di correzione spontanea, senza alcun limite temporale, e senza applicazione di alcuna sanzione. 9Tale previsione, circa i tempi della regolarizzazione, risulta in linea con quanto disposto dall’art. 2, comma 7, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, il quale considera valida la dichiarazione presentata entro novanta giorni dal termine di scadenza. 10 Art. 39, comma 1, lettera d), secondo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ed art. 54, comma 2, ultimo periodo, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. t r i b u ta r i o 112 Il legislatore, quindi, lega il beneficio alla preventiva adesione integrale all’invito a comparire appena introdotto sempre dall’art. 27 del D.L. n. 185/2008. Lo strumento non si applica agli inviti preceduti da processi verbali di constatazione definibili ai sensi del successivo art. 5 bis11, per i quali non sia stata prestata adesione e con riferimento alle maggiori imposte ed altre somme relative alle violazioni indicate nei processi verbali stessi che consentono l’emissione di accertamenti parziali. La preclusione accertativa introdotta non trova applicazione per i contribuenti nei cui confronti sussistono le condizioni per l’irrogazione di sanzioni per omessa o infedele comunicazione dei dati rilevanti per gli studi di settore, previste dall’art. 1, comma 2 bis, e dall’art. 5, comma 4 bis, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, nonché dall’art. 32, comma 2 bis, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446. In pratica, la preclusione è sottoposta alla condizione che le informazioni indicate dal contribuente nei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore non siano viziate da irregolarità tali da rendere applicabili le ulteriori sanzioni introdotte con la L. n. 296/2006, ai commi da 25 a 27 dell’art. 1 (aumento del 10% della sanzione pecuniaria applicabile in sede di accertamento, ai fini delle imposte sui redditi, dell’Iva e dell’Irap, per le violazioni di: omessa o infedele indicazione dei dati previsti nei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore; indicazione di cause di esclusione o inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti). Allora le Entrate –circ. n. 31/E del 2007– affermarono che “per superare la preclusione in sede di accertamento, non è necessario che sia intervenuta l’effettiva irrogazione della sanzione, ma piuttosto che risultino verificati i presupposti oggettivi posti a base della norma sanzionatoria”. La disposizione sembra orientata al raggiungimento del seguente obiettivo: ridurre l’atteggiamento di ostilità dei contribuenti nei confronti degli studi di settore, evitando che l’applicazione di tali strumenti sfoci nel contenzioso e determini, conseguentemente, l’insorgere del rischio – concreto, a nostro avviso – di soccombenza. Sono numerose, infatti, le sentenze delle commissioni di merito che dichiarano l’illegittimità degli avvisi di accertamento incentrati sulle predeterminazioni di cui all’art. 62 sexies del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427. In quest’ottica, la scelta effettuata attraverso l’art. 27 cit. sembra non rispondere ad esigenze di miglioramento della disciplina e di orientamento nel senso 11 Adesione su p.v.c. di cui all’art. 83, comma 18, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133. Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE della «giusta imposizione», bensì a logiche di matrice meramente opportunistica, dietro le quali fa capolino – lo si capisce – anche l’idea di aggiustamento del gettito tributario. In breve, il contribuente il quale, invitato all’adesione sulla base degli studi di settore, chini il capo e ne accetti passivamente il verdetto, viene in qualche misura «premiato» attraverso la previsione di una paralisi dell’attività di accertamento nei suoi confronti, secondo le modalità previste dal più volte richiamato art. 27 del D.L. n. 185/2008. Si tratta di una disposizione che rappresenta, a nostro modo di pensare, un corpo estraneo nella disciplina dell’accertamento tributario, se solo si considera che, attraverso questa particolare funzione, l’Amministrazione finanziaria dovrebbe fare emergere quella ricchezza che il contribuente non ha correttamente manifestato attraverso il riversato nel circuito dichiarativo. «Corpo estraneo», si è detto, perché, quale che sia l’ammontare dei ricavi definiti in sede di adesione, il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. imporrebbe di non trascurare il prelievo dell’imposta sugli ulteriori ricavi che dovessero emergere nell’ambito di altre attività di controllo. Detto altrimenti, il bonus previsto dall’art. 27 cit. si traduce in una preventiva rinuncia all’accertamento ed alla successiva riscossione di imposte che potrebbero risultare dovute sulla base degli ordinari schemi impositivi. Non c’è dubbio che tale rinuncia non proviene da una scelta degli Uffici amministrativi e che, conseguentemente, non si può parlare di un atto di disposizione di un credito già accertato da parte del Fisco. Si tratta, invece, di un atto dispositivo che connota il comparto della potestà impositiva, calata dal legislatore sull’attività di accertamento con adesione e deputata, quindi, a scontrarsi con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria al quale anche il suddetto legislatore deve sottostare. Nessuno dubita del fatto che, soprattutto in una fase storica dominata da una crisi finanziaria che si è rapidamente trasferita al comparto dell’economia reale, lo Stato abbia interesse a ridurre ai minimi termini le posizioni di conflittualità e ad assicurare, allo stesso tempo, stabilità di gettito. Si tratta di interessi che manifestano un’evidentissima connotazione pubblicistica, ma che, a nostro modo di pensare, non possono porsi in così evidente marcato contrasto con il principio di uguaglianza. Detto altrimenti – e portando il ragionamento sulle fattispecie di evasione – a noi sembra difficile spiegare al contribuente estraneo alla disciplina degli studi di settore come, nel suo caso, un’eventuale definizione in adesione non produca alcun effetto di stand‑by del potere accertativo. Paralisi che, invece, opera nei confronti del soggetto il quale, rientrante nello spettro applicativo della disciplina sugli studi di settore, abbia accettato la definizione nei termini proposti dal Fisco. L’art. 27 cit. presuppone, pertanto, che il contribuen- 2 0 0 9 113 te scelga un atteggiamento di non conflittualità nei confronti del Fisco. La disposizione è strutturalmente orientata nel senso di collocare il destinatario dell’invito all’adesione nella posizione di colui che è chiamato ad effettuare un vero e proprio «arbitraggio»: da una parte, egli potrà assumere un atteggiamento remissivo, sottoscrivere l’atto di adesione, acquisire il bonus ed evitare, così, l’avviso di accertamento e le conseguenti sanzioni in misura piena; dall’altra parte, il medesimo soggetto potrebbe assumere un atteggiamento non remissivo, di conflittualità e sprezzo nei confronti di una strumentazione (quella rappresentata dagli studi di settore, appunto) che fa della «normalità» economica il proprio punto di forza. A noi pare che la vera scelta non oscilli soltanto tra il riconoscimento del bonus e l’accettazione del contenzioso fiscale. Si tratta di una scelta che va ad incastonarsi nel quadro generale della giusta imposizione e che sottende l’accettazione o la rinuncia dei principi fondamentali del nostro sistema fiscale. Definire l’ammontare dei ricavi risultanti dall’invito al contraddittorio equivale ad un vero e proprio atto di fede circa la capacità degli studi di settore di rappresentare la situazione economica non già del cluster, bensì del singolo imprenditore che a tale adesione sia stato invitato. La disciplina in commento può apparire del tutto innocua ad un lettore frettoloso. In realtà, è una disciplina che manifesta un elevatissimo grado di devianza dai principi fondamentali che governano la nostra materia, dato che le sue ricadute possono generare una situazione di disuguaglianza tra contribuenti «aderenti» alla proposta del Fisco e contribuenti che, per contro, a tale proposta abbiano fatto spallucce. Il quadro della disciplina qui rapidamente descritto sembra, ad un primo esame, assai netto. Il consenso alla definizione concordata della pretesa fiscale viene barattato con il riconoscimento di una posizione soggettiva di favor che impedisce al Fisco di procedere ad ulteriori accertamenti. Quest’ultima posizione soggettiva, peraltro, non è priva di limitazioni ed è, anzi, sottoposta ad una serie di condizioni che la circoscrivono in modo significativo. Si tratta di condizioni che incidono ora sul quantum accertabile, ora sul metodo accertativo utilizzabile, ora sulla veridicità dei dati dichiarati ai fini dell’applicazione degli studi di settore. Non vogliamo soffermarci sui profili tecnici o, se si vuole, di mero funzionamento della disposizione, se non per rilevare come essa veda nell’importo di 50.000 euro il limite massimo all’interno del quale deve collocarsi il suddetto bonus. A codesta previsione di stampo oggettivo si affianca l’ulteriore statuizione che individua nel 40% dei ricavi definiti la soglia all’interno della quale opera la suddetta limitazione del potere di accertamento. È evidente che, nel collegare tale soglia all’importo di ricavi definiti, il legislatore manda un messaggio assai chiaro: Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o tanto più il contribuente è disposto a concedere in fase di adesione, adeguandosi alla proposta che gli viene inoltrata, tanto più l’Amministrazione è obbligata a concedere in fase di accertamento, attraverso la paralisi dell’attività di rettifica della dichiarazione (ciò, ovviamente, entro i limiti dei quali si è detto più in alto). Chi scrive si rende conto del fatto che un ammontare di ricavi pari a 50.000 euro, inserito nel corpo dell’art. 27 cit. quale limite massimo di proventi non accertabili, potrebbe considerarsi, in una valutazione attenta al dato macroeconomico, cifra modesta, irrisoria se non addirittura bagatellare. In fin dei conti, un’evasione di 50.000 euro riferita ad un soggetto che, sulla base delle più recenti modifiche in tema di presupposti soggettivi per l’applicazione degli studi, può presentarsi con un fatturato di qualche milione di euro (7,5 è il limite massimo per ricadere nella disciplina de qua) potrebbe rappresentare un dato trascurabile. Nella nostra materia, tuttavia, la giustizia distributiva, qui intesa nel senso di equilibrata distribuzione dei pesi fiscali in ragione della capacità contributiva di ciascuno, passa attraverso la giusta tassazione del singolo. Tanto più si riduce l’ammontare del fatturato dell’imprenditore di riferimento, tanto più incisivo è l’impatto del bonus sul modello costituzionale della giusta imposizione siccome fissato dagli artt. 3 e 53 Cost. In altre parole, per un imprenditore di piccole dimensioni, un’evasione di 20, 25 o 30 mila euro può incidere in modo significativo sull’ammontare del fatturato. Ribadiamo, pertanto, il concetto: la scelta di limitare il potere accertativo va sicuramente nella direzione della tutela dell’interesse fiscale. Non però in quella di salvaguardia dei meccanismi di giusta imposizione. Poiché, come rilevato, l’art. 27 cit. invita, pur tra i numerosi problemi di costituzionalità, allo svolgimento di un vero e proprio calcolo di opportunità, è bene che il contribuente sappia che la limitazione del potere accertativo prevede il rispetto di alcuni requisiti riferiti al metodo della rettifica. In altre parole, non tutti gli accertamenti sono inibiti dalla definizione in adesione. La disposizione, infatti, richiama testualmente soltanto gli «ulteriori accertamenti basati sulle presunzioni semplici di cui all’articolo 39, primo comma, lettera d), secondo periodo del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54, secondo comma, ultimo periodo del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633». È facile osservare, sulla base di un così inequivocabile dato testuale, come, una volta esclusi gli accertamenti incentrati sull’impiego di presunzioni gravi, precise e concordanti, l’Ufficio rimanga legittimato alla rettifica sulla base delle lettere a), b) c) e d) (quest’ultima, limitatamente al primo periodo). Ciò significa che la definizione di ricavi in sede di adesione non blocca gli accertamenti basati su prove dirette o sulla ispezione t r i b u ta r i o 114 delle scritture contabili. Non blocca gli accertamenti presuntivi che scavalchino le soglie sopra indicate e nemmeno sembra ostacolare gli accertamenti di tipo sintetico, i quali, notoriamente, vengono effettuati sulla base dell’art. 38, non già dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973. Pertanto, la consistenza del bonus si riduce fortemente in ragione di quanto sopra esposto, giacché sono molteplici i percorsi alternativi all’art. 39, primo comma, lett. d), cit. che l’Ufficio può impiegare per rettificare la dichiarazione. Le osservazioni richiedono un approfondimento anche sul fronte della compatibilità con i principi del diritto comunitario. È recente la sentenza con la quale la Corte di giustizia, occupandosi del condono IVA, ha stabilito che lo Stato non può rinunciare preventivamente all’accertamento in quanto codesta rinuncia è lesiva del principio di uguaglianza. Tale lesione si verifica in quanto la paralisi del potere di controllo e di rettifica poneva i soggetti che avessero aderito al condono in una posizione più favorevole rispetto a coloro che non vi abbiano aderito. La Corte comunitaria impiega argomentazioni incentrate sulla eguaglianza, i termini sono diversi, la sostanza non cambia e v’è ampio spazio per la riflessione. Conclusioni In conclusione, l’ordinamento giuridico pone al contribuente differenti alternative che vanno dal ravvedimento operoso fino all’acquiescenza all’atto di accertamento passando per l’adesione semplificata e per quella ordinaria. Con il ravvedimento operoso, possibile fino all’inizio dell’attività di accertamento, si ha la riduzione delle sanzioni da un decimo ad un dodicesimo. Con la definizione del processo verbale di constatazione si avranno sanzioni ridotte ad un ottavo del minimo entro trenta giorni dal ricevimento del verbale utilizzando l’apposito modello con la conseguenza che se non si accetta viene preclusa l’adesione all’invito a comparire. Con l’invito a comparire, se si aderisce entro quindici giorni si avrà l’applicazione di sanzioni ridotte ad un ottavo del minimo, se non si aderisce si ha la possibilità di andare in contraddittorio e aderendo si avranno sanzioni ridotte ad un quarto del minimo. Se dopo il contraddittorio, invece, non si aderisce e viene emesso l’atto di accertamento, ci potrà essere acquiescenza e vedersi irrogate le sanzioni per un quarto o per un ottavo se non c’è stato invito a comparire. Esiste cioè sufficiente spazio per evitare il contenzioso a meno che una delle parti non si ostini nel ritenere la giurisdizione tributaria l’unica sede idonea per far valere le proprie ragioni con tutte le conseguenze che tale scelta comporti, anche in termini di costi. Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE ● L’impugnabilità del provvedimento di diniego di autotutela alla luce delle più recenti pronunce di legittimità ● Fiorella Feola Funzionario dell’Agenzia delle Entrate – Dottorando di ricerca in Diritto Tributario – Facoltà di Economia – Seconda Università degli Studi di Napoli 2 0 0 9 115 1. Premessa Gli uffici possono procedere all’annullamento o alla revoca di propri atti ritenuti illegittimi o infondati attraverso il c.d. istituto dell’autotutela. L’istituto è stato legislativamente definito come il “potere di annullamento d’ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, degli atti illegittimi o infondati”, il cui esercizio è devoluto ai competenti organi dell’Amministrazione finanziaria. Si tratta di una capacità riconosciuta dall’ordinamento all’Amministrazione che si manifesta in un riesame critico dell’attività svolta nell’intento di garantire l’interesse pubblico al buon andamento dell’Amministrazione. Presupposto per l’esercizio dell’autotutela è la presenza di un vizio dell’atto e la sussistenza di un interesse pubblico alla sua rimozione. L’ambito normativo di questo istituto è stato inizialmente definito dall’art. 68 del D.P.R. n. 287 del 27 marzo 1992 secondo cui “salvo che sia intervenuto giudicato, gli uffici dell’Amministrazione finanziaria possono procedere all’annullamento, totale o parziale, dei propri atti ritenuti illegittimi o infondati con provvedimento motivato comunicato al destinatario dell’atto”. A completare la disciplina è intervenuto successivamente l’art. 2 quater del D.L. n. 564/19941 (convertito in L. n. 656/1994) e, infine, il D.M. n. 37 dell’11/2/1997 recante il Regolamento per l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione finanziaria. Indagare su questo istituto, anche alla luce delle più recenti pronunce di legittimità, richiede un preventivo approfondimento delle finalità sottese alla sua definizione, già dalla originaria previsione del 1992. Tali finalità vanno ricercate nell’esigenza di assicurare il più efficace perseguimento dell’interesse pubblico che, in ambito tributario, può ragionevolmente tradursi nell’affermazione dei principi di trasparenza e di giustizia sostanziale tesi a garantire che il contribuente sia tassato in misura giusta e conforme alle previsioni normative. L’autotutela esercitata dagli uffici finanziari presenta, inoltre, caratteristiche proprie che la distinguono dal generico potere di annullamento in autotutela previsto dal diritto amministrativo e ciò in forza del carattere tipico, peculiare, del potere amministrativo tributario. Se nel diritto amministrativo l’annullamento di un atto è espressione di una valutazione discrezionale volta a contemperare esigenze di legalità, da un lato, ed interesse dell’Amministrazione dall’altro, nel diritto tributario questo potere si inserisce, invece, nell’esercizio di un’attività vincolata in cui non si rinvengono elementi di discre- 1 Anche secondo l’art. 2 quater del D.L. 564/1994 rimangono fuori dall’ambito applicativo dell’autotutela gli atti su cui sia intervenuto un giudicato. Solo con il D.M. n. 37/1997 si prevede, all’art. 2, comma 2, l’annullabilità di questi ultimi salvo che non sia intervenuta una sentenza passata in giudicato favorevole all’Amministrazione finanziaria. Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o zionalità essendo i rimedi di annullamento o di revoca, a cui conduce l’esercizio del potere in esame, giustificati solo dal principio garantistico di ripristino della legalità di cui all’art. 97 Cost. Questa distinzione come vedremo più avanti non manca di determinare significative implicazioni sul concreto esercizio di tale potere. Il potere di annullare gli atti illegittimi o infondati è attribuito all’Ufficio che ha emanato l’atto, il quale può procedere, valutatane i presupposti, all’eliminazione dell’atto o al suo annullamento parziale, anche senza istanza di parte. Questa facoltà in caso di “grave inerzia” dell’Ufficio impositore può essere esercitata, in via sostitutiva, dalla Direzione Regionale o compartimentale da cui lo stesso Ufficio dipende2. L’autotutela non è esperibile solo d’ufficio essendo legittimati ad attivarla anche i contribuenti, a norma dell’art. 5 del D.M. n. 37/1997, con l’inoltro di un’apposita istanza all’Ufficio dell’Amministrazione finanziaria che ha emanato l’atto con l’evidenza dei motivi che ne giustificano la richiesta. Lo Statuto del contribuente3 ha previsto, inoltre, tale facoltà in capo al Garante del Contribuente il quale, su segnalazione del contribuente o di altri soggetti interessati, può presentare istanza di autotutela4. Gli atti annullabili sono tutti gli atti di emanazione dell’Amministrazione idonei ad incidere negativamente nella sfera giuridica del destinatario, si pensi ad un avviso di accertamento, ad un ruolo, ad un diniego di rimborso di imposte indebitamente versate. Il D.M. n. 37/1997 indica le ipotesi in cui il potere di autotutela può essere esercitato, come anzi detto, riconducibili a tutte le circostanze in cui impropriamente si sia lesa la sfera giuridica soggettiva del contribuente. Si tratta di una elencazione dal carattere meramente esemplificativo contenuta nell’art. 2, riferita alle diverse ipotesi verificabili ictu oculi quali un errore di persona, un evidente errore logico o di calcolo, un errore sul presupposto dell’imposta, un’ipotesi di doppia imposizione, ecc. Su tale istituto sono sorte numerose questioni controverse in dottrina e in giurisprudenza che, prendendo spunto dalle più recenti pronunce di legittimità, saranno analizzate nel presente articolo5. 2 In tal senso l’art. 1 del già citato D.M. n. 37/1997. 3 L. n. 212 del 27 luglio 2000. 4 Ci si è poi chiesto a tale riguardo se all’esercizio da parte del Garante di questa facoltà, prevista dall’articolo 13, comma 6, della L. 27 luglio 2000, n. 212, consegua il dovere per l’Ufficio di annullare o ridurre la pretesa, oppure si tratti di un potere meramente sollecitatorio. L’Amministrazione finanziaria ha fornito chiarimenti in tal senso precisando che la disposizione non ha carattere innovativo della materia ma definisce semplicemente una facoltà di impulso in capo a quest’organo con la conseguenza che tale previsione non incide sul contenuto sostanziale dell’istituto (Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 59 del 18 giugno 2001). 5 Cass. SS.UU. n. 2870/2009. t r i b u ta r i o 116 2. La sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione n. 2870 del 6 febbraio 2009 In un quadro generalmente favorevole all’impugnabilità del diniego espresso o tacito di autotutela, si inserisce la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 2870 del 6 febbraio 2009 con la fissazione di un significativo limite all’impugnabilità del rifiuto di autotutela. Secondo i Supremi giudici è inammissibile il ricorso avverso il provvedimento di rigetto, espresso o tacito, dell’istanza di autotutela promossa dal contribuente volta ad ottenere l’annullamento di un atto divenuto definitivo (nella specie, per l’intervenuto giudicato formatosi sulla decisione di reiezione del ricorso davanti alla Commissione Tributaria Regionale), in conseguenza sia della discrezionalità nell’esercizio del potere di autotutela quanto dell’inammissibilità di un nuovo sindacato giurisdizionale sull’atto di accertamento munito del carattere di definitività. Analizziamo il caso a base della sentenza. Il contribuente impugnava dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano due avvisi di accertamento contenenti un’induttiva determinazione del reddito d’impresa. Il ricorso era dichiarato inammissibile e la sentenza, non impugnata in appello, diveniva definitiva. Il contribuente presentava, poi, all’Ufficio impositore istanza di annullamento in autotutela richiedendo che fosse esteso al rapporto tributario l’esito favorevole nel frattempo intervenuto in sede penale sugli stessi fatti assoggettati ad accertamento. L’istanza di autotutela veniva respinta dall’Ufficio e impugnata dal contribuente. L’impugnazione era stata ritenuta inammissibile dal Giudice Tributario di primo grado ritenendosi non autonomamente impugnabile, a norma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, il diniego di autotutela. Tale decisione veniva confermata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia. Avverso questa sentenza si proponeva ricorso in Cassazione. I giudici del Collegio nel riaffermare il carattere generale della giurisdizione tributaria6 -che si estende, dunque, anche al rifiuto espresso o tacito di procedere ad autotutela- decidono per la non impugnabilità del diniego di autotutela relativo ad un atto divenuto inoppugnabile perché definitivo in quanto, osservano, “di- 6 “Secondo la giurisprudenza ormai consolidata di queste Sezioni Unite, le cause aventi ad oggetto il rifiuto espresso o tacito di procedere ad autotutela debbono essere proposte davanti alle Commissioni Tributarie, in quanto a seguito della riforma operata dall’art. 12 della L. n. 448/2001, la giurisdizione di queste ultime ha acquisito carattere generale, nel senso che dipende dalla materia, per cui sussiste ogni qual volta si discuta di uno specifico rapporto tributario (Cass. 16776/2005 e 7388/2007)”. Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE versamente opinando si darebbe inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo.” Da quanto sancito dai Supremi giudici se ne deduce che, se si ammettesse una generale impugnabilità di un atto di diniego di autotutela su un atto definitivo, si rimetterebbe impropriamente in termini il contribuente per ricorrere contro l’atto stesso. La sentenza in commento evidenzia come l’impugnabilità del diniego di autotutela non possa in alcun modo tradursi in un’elusione dei termini perentori per l’impugnazione di un atto; ben potrebbe, altrimenti, attraverso il ricorso avverso un diniego di autotutela addursi l’illegittimità dell’atto sottostante divenuto ormai definitivo per effetto del decorso del tempo. Tale interpretazione appare apprezzabile poiché permette di delineare un segno di confine alla seppur legittima tutela del contribuente che sia stato destinatario di un diniego di autotutela. Dunque riconoscerne l’autonoma impugnabilità non deve debordare in una violazione del principio di certezza del diritto. Se così non fosse, si è correttamente osservato, si avrebbe la conseguenza di rimettere in discussione in maniera indiscriminata il rapporto tributario in sede giurisdizionale, anche se definitivo7. Sebbene ampiamente condivisibile, non sembra, tuttavia, che l’eco di tale pronuncia possa spingersi oltre fino ad enunciare una generalizzata immodificabilità di un atto definitivo e ciò poiché l’Amministrazione finanziaria, infatti, ha sempre la facoltà di modificare un proprio atto anche se siano spirati i termini per la sua impugnazione a norma dell’art. 2, comma 2, del D.M. n. 37/1997, rimuovendolo o annullandolo se ingiusto o illegittimo. La pronuncia in commento costituisce l’ultima voce in un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale che ha coinvolto l’istituto dell’autotutela. La decisone di inammissibilità del ricorso avverso un diniego espresso o tacito di autotutela relativo ad un atto sottostante definitivo rappresenta, invero, il punto di arrivo di una ricostruzione interpretativa, peraltro molto articolata, che ha riguardato diversi aspetti. Questo istituto ha generato, infatti, sin dalla sua originaria introduzione nell’ordinamento tributario, risalente al 1992, numerose problematiche di carattere dogmatico ed operativo -all’esame della posizione giuridica dei soggetti coinvolti nell’autotutela fino all’individuazione di quale sia l’autorità giurisdizionale competente a valutare la legittimità della decisione dell’Amministrazione- che saranno sinteticamente riassunte nei paragrafi successivi. 7 In tal senso E. Cormio, Autotutela negata, inammissibile il ricorso avverso il provvedimento, Fiscooggi del 18 febbraio 2009. 2 0 0 9 117 3. Le posizioni soggettive delle parti coinvolte nell’istituto dell’autotutela 3.1. La posizione dell’Amministrazione finanziaria In primo luogo si è a lungo dibattuto della posizione dell’Amministrazione finanziaria, rispetto all’esercizio dell’autotutela interrogandosi se essa vanti un potere o sia vincolata ad un dovere di esercizio della stessa. Si ritiene che essa sia investita di un potere ossia di una facoltà, non di un obbligo giuridico di ritirare l’atto viziato e, per contro, che il contribuente non vanti un diritto soggettivo a che l’Ufficio eserciti tale potere. L’esistenza di una facoltà, ovvero di un potere ma non di un dovere di pronunciarsi, non significa però che l’Ufficio a fronte di un atto illegittimo possa decidere in via del tutto arbitraria se riesaminare criticamente il proprio operato. E se è vero, a stretto rigore, che l’Ufficio ha il potere ma non il dovere giuridico di ritirare l’atto viziato (mentre è certo che il contribuente, a sua volta, non ha un diritto soggettivo a che l’Ufficio eserciti tale potere), è tuttavia indubbio che l’Ufficio stesso non possieda un potere discrezionale di decidere a suo piacimento se correggere o meno i propri errori8. Facciamo poi opportunamente osservare che tale discrezionalità, conformemente anche a quanto affermato dal T.A.R. Toscana9, è affievolita anche dall’obbligo di comunicare espressamente l’esito del riesame compiuto in sede di autotutela susseguente ad istanza del contribuente poiché, sottolineano i giudici, se così non fosse si avrebbe un’incoerenza sul piano ermeneutico ove all’iniziativa non fosse associato un obbligo di risposta da parte dell’interpellato. Un orientamento che trova del resto conferma nella L. n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo la quale, all’art. 2, pone l’obbligo per la Pubblica Amministrazione di concludere con l’adozione di un provvedimento espresso il procedimento che consegue obbligatoriamente ad un’istanza. In altri termini l’Amministrazione Finanziaria pur essendo investita di discrezionalità nella concreta mani- 8 In tal senso anche l’Amministrazione finanziaria che con la Circolare n. 198/S del 5 agosto 1998 intitolata “Esercizio del potere di autotutela. Applicazione delle disposizioni di cui al Regolamento approvato con D.M. 11 febbraio 1997 n. 37” osserva come sia “indubbio che l’Ufficio stesso non possiede un potere discrezionale di decidere a suo piacimento se correggere o meno i propri errori. Infatti da un lato il mancato esercizio dell’autotutela nei confronti di un atto patentemente illegittimo, nel caso sia ancora aperto o comunque esperibile il giudizio, può portare alla condanna alle spese dell’Amministrazione con conseguente danno erariale (la cui responsabilità potrebbe essere fatta ricadere sul dirigente responsabile del mancato annullamento dell’atto); dall’altro, essendo previsto che in caso di “grave inerzia” dell’Ufficio che ha emanato l’atto può intervenire, in via sostitutiva, l’organo sovraordinato, è evidente che l’esercizio corretto e tempestivo dell’autotutela viene considerato dall’Amministrazione non certo come una specie di “optional” che si può attuare o non attuare a propria discrezione ma come una componente del corretto comportamento dei dirigenti degli uffici e, quindi, come un elemento di valutazione della loro attività dal punto di vista disciplinare e professionale”. 9 T.A.R. Toscana, sez. I, 22 ottobre 1999, n. 767. Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o festazione del potere di autotutela, in relazione alla valutazione di ritirare o meno un atto viziato, è tenuta ad un esercizio vincolato di tale potere ossia a riesaminare l’atto controverso che sia sottoposto al suo vaglio da parte del contribuente. Nel formare il proprio convincimento sul se procedere ad autotutela spontanea -o accogliere/respingere l’istanza in caso di iniziativa- l’Ufficio dovrà valutare la prevalenza dell’interesse pubblico specifico, concreto ed attuale ad una corretta ed equa imposizione rispetto alla stabilità ed alla certezza delle situazioni giuridiche. È questo quanto emerge dall’art. 3 del D.M. n. 37/199710. Il legislatore non pone limiti all’esercizio del potere di autotutela sia per ciò che attiene agli atti annullabili sia per i tempi entro i quali l’annullamento può essere fatto valere. Dal primo punto di vista, ossia quanto allo stato dei provvedimenti oggetto di annullamento in autotutela, a norma dell’art. 2, comma 1, del D.M. n. 37/1997, può trattarsi di atti non definitivi, in pendenza di giudizio o di atti definitivi. Dispone infatti la norma che “L’Amministrazione finanziaria può procedere, in tutto o in parte, all’annullamento o alla rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento, senza necessità di istanza di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, nei casi in cui sussista illegittimità dell’atto o dell’imposizione…”. Da ciò discende che possono essere senz’altro annullati in autotutela gli atti non ancora definitivi, cioè quelli per cui non sia ancora spirato il termine di impugnazione. La definitività dell’atto, non costituisce, ex se un impedimento all’annullamento in autotutela essendo lo stesso ammesso anche per i provvedimenti resi definitivi dal decorso, in assenza di valida contestazione, dei termini decadenziali di impugnativa degli stessi11. Allo 10 Esso dispone infatti che “nell’attività di cui all’articolo 2 è data priorità alle fattispecie di rilevante interesse generale e, fra queste ultime, a quelle per le quali sia in atto o vi sia il rischio di un vasto contenzioso”. 11 Osserva opportunamente la dottrina che “Di fronte ad un accertamento divenuto definitivo perché non impugnato nei termini, l’intervento dell’Amministrazione, diretto a rimuovere in via di autotutela l’atto illegittimo, ancorché inoppugnabile, risponde all’esigenza di assicurare la corretta esazione del tributo effettivamente dovuto e la correttezza dei comportamenti dell’Amministrazione finanziaria, la quale deve evitare di penalizzare il contribuente che ha sostanzialmente ragione, ma ha omesso di impugnare tempestivamente l’atto. Solo così, infatti, può mantenere inalterata quella fiducia reciproca su cui si basa l’attuale sistema fiscale, sempre più ispirato allo spontaneo adempimento del contribuente. In tale logica, potrebbe condividersi l’idea che l’autotutela tributaria risponda non solo e non tanto ad una funzione giustiziale o di mera imparzialità, quanto all’obiettivo di assicurare il buon andamento e, dunque, l’efficienza del sistema fiscale”. Cfr. Carugno e Gianandrea, in Lineamenti di Diritto amministrativo, p. 151-153. In riferimento al concetto di definitività degli atti tributari si vedano tra gli altri Tremonti, Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano 1977, p. 325 e t r i b u ta r i o 118 stesso modo sono impugnabili le sentenze passate in giudicato favorevoli all’Amministrazione finanziaria, a condizione che l’annullamento non sia basato sugli stessi motivi sui quali sia già intervenuta la sentenza12. Un precedente giudicato, dunque, non cristallizza un atto nella sua efficacia se l’illegittimità scaturisce da motivi diversi rispetto a quelli precedentemente valutati. Ne deriva che siano sempre annullabili in autotutela gli atti in pendenza di giudizio non essendosi per essi neppure verificata una causa di definitività dell’atto impugnato. La possibilità di annullare in autotutela un atto in pendenza di ricorso ha la finalità di evitare un contenzioso destinato a chiudersi sfavorevolmente con l’ulteriore rischio di dovere rimborsare al contribuente le spese di giudizio13. Per ciò che attiene ai tempi entro cui può essere esercitata l’autotutela, non si rinviene nelle disposizioni legislative, alcun termine finale per l’esercizio di questo potere tant’è che può essere trascorso anche un periodo di tempo più o meno lungo tra l’emanazione dell’atto ed il suo successivo annullamento non essendo presenti in questo caso né termini di decadenza dell’azione amministrativa né termini di prescrizione per l’esercizio del diritto da parte del contribuente. Unico limite è costituito dal passaggio in giudicato della sentenza favorevole all’Amministrazione finanziaria. In questo caso, infatti, non è ammissibile il ricorso all’autotutela se non per motivi diversi da quelli precedentemente valutati dal giudice. Si pensi ad una sentenza passata in giudicato che accerti l’esistenza di cause pregiudiziali quali l’irri- ss., Lupi, Definitività degli atti impositivi: il rigore scompare quando il contribuente è in buona compagnia, in Riv. Dir. Trib., 1992, II, p. 915 e ss., Stevanato, L’autotutela dell’Amministrazione finanziaria. L’annullamento d’Ufficio a favore del contribuente, Padova, 1996, p. 171 e ss. 12 L’annullabilità in autotutela dopo il passaggio in giudicato della sentenza che si è pronunciata sul rapporto tributario era esclusa in un primo tempo dalla formulazione dell’art. 68, comma 1, del D.P.R.. n. 287/1992, poi ammessa legislativamente dall’art. 2, comma 2, del D.M. n. 37/1997 secondo cui “non si procede all’annullamento d’Ufficio, o alla rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento, per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all’Amministrazione”. Si osserva a riguardo che tale statuizione è stata intesa come superamento del principio processuale secondo cui la cosa giudicata copre il dedotto e il deducibile senza distinzioni tra ragioni formali e sostanziali (…) giustificata dall’attuale “favor legis” per l’esercizio dell’autotutela in diritto tributario, rinvenibile nella vigente normative.” V. G. S. Toto, Considerazioni attuali sul giudicato tributario, www.judicium.it, p. 17. 13 Lo stesso D.M. n. 37/1997 afferma questo principio riferendosi al criterio della “probabilità della soccombenza”, peraltro ripreso dalla successiva circolare n. 195 dell’8 luglio 1997 su “Articolo 68, comma 1, del D.P.R. 27 marzo 1992 n. 287 e relativo Regolamento di attuazione – Annullamento totale o parziale di atti illegittimi in via di autotutela”, ove si afferma che l’autotutela costituisce uno strumento fondamentale per la realizzazione di quel particolare interesse che l’Amministrazione ha “a che sia assicurata equità e trasparenza alla propria azione e siano evitate, ovvero eliminate, controversie nelle quali appare certa, o quanto meno probabile, la soccombenza dell’Amministrazione stessa”. Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE cevibilità del ricorso, il difetto di giurisdizione o l’incompetenza dell’organo giudicante: in tal caso essendo mancato il giudizio sul merito del rapporto controverso l’Amministrazione ne conserva il potere di riesame14. Resta da precisare quale sia la posizione del contribuente e, conseguentemente, la giurisdizione competente a conoscere delle controversie concernenti il mancato ritiro dell’atto ritenuto illegittimo. 3.2. La posizione del contribuente di fronte all’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione finanziaria. Il giudice competente a conoscere in tema di esercizio di autotutela Un aspetto di rilievo del dibattito dottrinale e giurisprudenziale ha riguardato la posizione del contribuente di fronte all’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione finanziaria. Come si è già avuto modo di affermare al potere dell’ente impositore non si contrappone un diritto soggettivo del contribuente, data la natura discrezionale del potere amministrativo di autotutela. La soluzione della questione non è stata di poco conto avendo determinato implicazioni ragguardevoli circa la posizione giuridica soggettiva del contribuente a fronte del potere dell’Amministrazione e la conseguente possibilità di adire un organo giurisdizionale per la tutela della propria posizione. In altre parole ci si è chiesto, in primo luogo, se il contribuente possa vantare un interesse a ricevere una risposta e se, in caso di diniego di autotutela, egli possa richiedere l’intervento dell’autorità giurisdizionale affinché sia verificata la legittimità della decisione. Il problema della tutelabilità del contribuente trovava soluzione secondo una parte della dottrina15 nella constatazione che l’istanza di autotutela manifesti l’esercizio di un interesse legittimo cd. pretensivo. Posizione avallata anche dalla giurisprudenza amministrativa riassunta dalla nota sentenza del T.A.R. Toscana16 e dal Consiglio di Stato17, che, ravvisando nella istanza di autotutela l’esercizio di “un interesse legittimo di tipo pretensivo e a contenuto procedimentale a che l’istanza venga esaminata e decisa alla luce della sussistenza di quei determinati presupposti che il legi- 14 Con la già citata circ. 195/1997 è, tra l’altro, venuto in rilievo un ulteriore aspetto non di poco conto ossia il fatto che l’Ufficio pur di fronte ad un atto del tutto legittimamente annullabile non proceda all’annullamento perché ritenga prevalente l’interesse alla certezza ed alla stabilità delle situazioni giuridiche: ben può accadere cioè che gli effetti dell’atto si siano medio tempore esauriti e non possa procedersi al rimborso di quanto già pagato dal contribuente. 15 In tal senso gli autori, Stevanato, L’autotutela dell’Amministrazione finanziaria: l’annullamento d’Ufficio a favore del contribuente, Padova, 1996 e Porcaro, Diniego di autotutela e giurisdizione delle commissioni tributarie, in Dialoghi di diritto tributario, 2004, p. 667 e ss. 16 T.A.R. Toscana, sez. I, 22 ottobre 1999, n. 767. 17 Cons. di Stato, sez. IV, 9 novembre 2005, n. 6269. 2 0 0 9 119 slatore, sia pure non tassativamente, ha elencato nella norma regolamentare”, portava a concludere che a fronte della discrezionalità dell’Ufficio il contribuente vantasse un interesse legittimo, su cui è giurisdizionalmente competente il giudice amministrativo. Codesta soluzione mal si coniuga però con la competenza di carattere generale delle Commissioni tributarie in materia di tributi. In materia tributaria, infatti, la ripartizione della competenza giurisdizionale è basata sulla natura degli atti impugnati piuttosto che sulla posizione giuridica del soggetto ricorrente. L’art. 2 del D.Lgs. 546/1992 non lascia dubbi in tal senso affermando che “appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie”. Da ciò discende che, indipendentemente dalla posizione del ricorrente, che sia cioè portatore di un interesse legittimo o di un diritto soggettivo, la competenza debba essere attribuita al giudice tributario per ragioni di materia18. Da queste osservazioni si concludeva che sulle liti che riguardano il diniego di autotutela in materia tributaria dovesse conoscere il giudice tributario19. La problematica risultava ben più ampia a causa della delimitazione oggettiva del sindacato tributario. L’art. 2 del citato decreto n. 546/1992 nell’affermare la competenza generale delle Commissioni definisce i limiti esterni della giurisdizione cui vanno associati i limiti interni relativi agli specifici atti tributari che possono essere oggetto di impugnativa. Gli atti autonomamente impugnabili sono elencati all’art. 19 che prevede l’impugnabilità di quelli non inclusi nel catalogo contenuto in detto articolo solo congiuntamente all’atto successivo impugnabile. Il rifiuto di autotutela espresso o tacito non è contemplato nell’art. 19 pertanto, prima facie, ciò sembrava ostativo alla sua autonoma impugnabilità dinanzi al Giudice Tributario. A ben vedere però la questione si presenta molto più complessa. Senza dubbio la riforma del 2001 ha evidenziato la mancanza di coordinamento tra l’art. 2, riformato ed ampliato nella sua generale accezione e l’art. 19 che, al contrario, continua a mantenere una elencazione tassativa degli atti dotati di autonoma impugnabilità 20. Co- 18 L’ampliamento della competenza delle commissioni tributarie a tutti i tributi di ogni genere e specie, come è noto, è stato previsto dall’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, che, con effetto dall’1 gennaio 2002, ha riformulato l’art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che nella precedente versione la limitava alle liti relative ad un elenco di tributi vedendo invece competente per tutte le altre controversie il giudice ordinario. 19 Così anche autorevole dottrina tra cui F. Tesauro, Riesame degli atti impositivi e tutela del contribuente, Giust. Tributaria, n. 1/2008. 20 L’art. 19 del D.Lgs 546/92 rubricato “Atti impugnabili e oggetto del ricorso” al comma 1 dispone che “Il ricorso può essere proposto avverso: Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o me osservato efficacemente dalla suprema Corte con la sentenza n. 10958 del 2005 è ammessa l’impugnabilità di quegli atti che, pur non rientrando nell’elencazione di cui all’art. 19 svolgono di fatto la stessa funzione degli atti elencati. Una soluzione peraltro non applicabile al nostro caso dal momento che il diniego di autotutela non assolve alla funzione di un atto impugnabile non avendo una diretta funzione impositiva. Le SS.UU. della Cassazione, aderendo a quanto già in passato era stato affermato dalla Corte Costituzionale21, hanno, ad ogni buon conto, risolto la questione in maniera positiva affermando che per effetto della modifica dell’art. 2 del D.Lgs. 546/1992 “l’aver consentito l’accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi comporta infatti la possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario ogni qualvolta l’Amministrazione manifesti (anche attraverso la procedura del silenzio rigetto) la convinzione che il rapporto tributario debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare (…). Dunque sussiste nella materia in esame la giurisdizione tributaria anche in ordine alle impugnazioni proposte avverso il rifiuto espresso o tacito dell’Amministrazione a procedere ad autotutela 22”. • l’avviso di accertamento del tributo; • l’avviso di liquidazione del tributo; • il provvedimento che irroga le sanzioni; • il ruolo e la cartella di pagamento; • l’avviso di mora; • e-bis) l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973, e succ. modificazioni; • e-ter) il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del D.P.R.n. 602/1973, e succ. modificazioni; • gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’art. 2, comma 3; • il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti; • il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari; • ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle commissioni tributarie”. 21 Già con la risalente sentenza n. 313 del 1985 la Corte Costituzionale ha affermato che “non si può dubitare che tutti gli atti che hanno la comune finalità dell’accertamento della sussistenza e dell’entità del debito tributario siano equivalenti, qualunque sia la denominazione data ad essi dal legislatore…”. 22 Cosi la sent. Cass., SS.UU., n. 16776 del 2005 e, da ultima, la sent. 7388/2007. L’attribuzione al giudice tributario di una controversia che può concernere la lesione di interessi legittimi non incontra un limite nell’art. 103 Cost.. Infatti, secondo una costante giurisprudenza costituzionale, non esiste una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo, potendo il legislatore attribuire la relativa tutela ad altri giudici (da ultime, ordinanze 165 e 414 del 2001 e sentenza 240/2006). t r i b u ta r i o 120 Secondo la citata sentenza delle Sezioni Unite, l’allargamento della giurisdizione tributaria comporta, come conseguenza, un allargamento degli stretti confini dell’art. 19, necessario per evitare che il nuovo testo dell’articolo 2 del D.Lgs. 546/92 resti lettera morta. Dunque sul diniego di autotutela conosce il giudice tributario23. E, inoltre, lo stesso è da ritenere atto autonomamente impugnabile come ulteriormente ribadito dalla Cassazione, sez. trib., con la Sentenza 20 febbraio 2006, n. 3608 e, da ultimo con la sentenza n. 2870 del 2009. Il Collegio con la recente sentenza n. 7388/2007 riconferma tale orientamento. Nel riaffermare la giurisdizione tributaria in materia di diniego di autotutela, la Suprema Corte inoltre limita il sindacato del giudice tributario “al solo controllo della legittimità del rifiuto nel caso di giudizio instaurato contro il mero ed espresso rifiuto di agire in autotutela, pena un’indebita sostituzione del giudice in attività tipicamente amministrative”. La sentenza delle SS.UU. del 6 febbraio 2009 n. 2870 costituisce il completamento di questo quadro ricostruttivo poiché fissa un limite alla tutela riconosciuta al destinatario di un atto ritenuto viziato ma consolidatosi nella propria efficacia. In altre parole, il sindacato dei giudici tributari nei ricorsi avverso atti di rifiuto di autotutela, si osserva, condivisibilmente, può sicuramente avere ad oggetto il corretto esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione finanziaria, ma non dei vizi del rapporto tributario sottostante ove lo stesso avesse consolidato i propri effetti perché divenuto definitivo per effetto dello spirare dei termini d’impugnazione poiché se così non fosse si svuoterebbe di contenuto il principio di certezza del diritto rendendo l’atto modificabile anche se il decorso del tempo lo ha 23 Per completezza d’indagine va peraltro rilevato che la stessa Suprema Corte ha in alcune pronunce negato che si tratti di un atto impugnabile, in quanto discrezionale: Cass. civ., sez. I, n. 13412/2000; Cass. civ., sez. trib. n. 1547/2002. In tal senso anche Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela, p. 201. V., inoltre, F. Tesauro, op.cit., secondo cui se può ritenersi autonomamente impugnabile il provvedimento di diniego espresso di autotutela, – se riconducibile ad una forma «di -rinnovazione- dell’atto precedente conseguente ad una uova istruttoria, e se l’l’impugnazione è sorretta da motivi diversi da quelli che erano proponibili contro l’atto confermato»-, deve concludersi, invece, per la non autonoma impugnabilità del silenzio a causa della sua mancata natura impositiva che possa consentirne di ricondurlo ad alcuna fattispecie di cui all’art. 19. Il silenzio, secondo l’autore, sarebbe pertanto impugnabile non di per sé bensì solo in via differita con ricorso contro un atto successivo. Gazzetta F O R E N S E M a r z o • a p r i l e Osservatorio di giurisprudenza tributaria ● La tutela del contribuente avverso i provvedimenti emessi durante l’istruttoria fiscale: l’impugnabilità degli ordini di verifica ● A cura di Raffaele Cantone 121 2 0 0 9 Magistrato presso il Massimario della Cassazione RIPARTO DI GIURISDIZIONE – OGGETTO DELLA GIURISDIZIONE TRIBUTARIA – ITER PROCEDIMENTALE PRECEDENTE L’EMANAZIONE DEL PROVVEDIMENTO IMPOSITIVO – SINDACABILITÀ – IMPUGNAZIONE DI ATTI PRODROMICI DI CARATTERE ISTRUTTORIO – POSSIBILITÀ – MODALITÀ – LIMITI. La giurisdizione del giudice tributario, fissata dall’art. 2 del D.Lgs. n. 546 del 1992, non ha ad oggetto solo gli atti finali del procedimento amministrativo di imposizione tributaria (e cioè quelli definiti come “impugnabili” dall’art. 19 D.Lgs. citato) ma investe tutte le fasi del procedimento che ha portato all’adozione ed alla formazione di quell’atto, tanto che l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità e/o regolarità (formale o sostanziale) su un qualche atto istruttorio prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, di quello finale impugnato. Spetta, quindi, al giudice tributario vagliare i vizi riguardanti gli atti istruttori anche se, inserendosi gli atti in esame in una sequenza procedimentale, i vizi medesimi potranno essere dedotti soltanto in uno al provvedimento impositivo che conclude l’iter procedimentale di accertamento. Solo qualora l’attività di accertamento, nel quale l’atto prodromico si inserisce, si concluda negativamente, gli atti istruttori medesimi che siano ipoteticamente lesivi di diritti soggettivi del contribuente a non subire, al di fuori dei casi previsti dalla legge, verifiche fiscali e connesse compressioni dei propri diritti anche costituzionali (in particolare libertà di domicilio, di corrispondenza, di libertà di iniziativa economica etc.) saranno autonomamente impugnabili rivolgendosi, in relazione alle posizioni soggettive lese, al giudice ordinario. (In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza del Consiglio di Stato che aveva dichiarato l’inammissibilità, per difetto di giurisdizione, del ricorso del contribuente avverso ordini di verifica, emessi da un Ufficio ispettivo Regionale dell’Agenzia delle Entrate, all’esito dei quali l’Ufficio finanziario aveva espletato l’accertamento ed emesso un provvedimento di natura impositiva). Cass., SS.UU., sent. 16 marzo 2009, n. 6315 Presidente: S. Mattone – Estensore: M. D’Alonzo …[Omissis]… SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso notificato il 17 gennaio 2007 alla Direzione Regionale per la Campania dell’Agenzia delle Entrate ed al MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE (depositato il 6 febbraio 2007), la s.p.a. A*** – premesso che con ricorso depositato il 18 settembre 2002 aveva chiesto al Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (cui riteneva spettare l’afferente “controllo di legittimità… sulla scorta, del disposto Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 4”) l’“annullamento” (1) “degli ordini di verifica” (“n. 1009 del 2 settembre 2002 e n. 1126 del 9 settembre 2002”) della sua “contabilità aziendale per gli anni 1997-1998”, “emessi dall’Ufficio Ispettivo Regionale dell’Agenzia delle Entrate”, nonché (2) di “tutti gli atti dell’amministrazione relativi alle procedure indicate, coevi, precedenti o successivi” in quanto (a) “del tutto carenti sotto il profilo del rispetto dell’obbligo di motivazione (L. n. 241 del 1990, art. 3 e L. n. 212 del 2000, art. 7)” e (b) “successivi alla verifica generale ai fini delle imposte dirette e dell’IVA per gli anni ‘97 e ‘98, già conclusasi in data 28 dicembre 2000…, cui erano seguiti avvisi di rettifica dell’Ufficio IVA…, per le stesse annualità ‘97 e ‘98, notificati in data 11 marzo 2002 e divenuti definitivi a seguito di pagamento delle imposte richieste” -, in forza di un solo, complesso motivo, chiedeva di cassare (con “vittoria” delle spese processuali) la sentenza n. 3199/06 depositata il 26 maggio 2006 con la quale il Consiglio di Stato aveva rigettato il suo appello avverso la decisione (n. 2806/04, depositata il 9 marzo 2004) del giudice amministrativo di primo grado che aveva dichiarato “l’inammissibilità del suo ricorso… per difetto di giurisdizione”. Nel controricorso notificato il 21 febbraio 2007 (depositato il giorno 8 marzo 2007) il Ministero intimato e l’Agenzia delle Entrate instavano per il rigetto dell’impugnazione, con “ogni consequenziale pronuncia, in ordine alle spese del … giudizio”. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Nella sentenza gravata, il Consiglio di Stato – premesso aver la spa A*** dedotto “da un lato che il provvedimento impugnato (…ordine di rinnovo della verifica) non rientra tra gli atti tributari devoluti ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, alla giurisdizione del giudice tributario; dall’altro che tale provvedimento, costituendo esercizio di potestà amministrativa, esibisce profili di autonomia rispetto alla determinazione finale ed è dunque ex se ed immediatamente contestabile avanti al giudice amministrativo” -, confermando l’inammissibilità del ricorso (“per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo”) dichiarata dal TAR, ha disatteso l’appello della società (la quale aveva eccepito “l’insussistenza dei presupposti legali in base ai quali poteva essere ordinata la verifica e dunque aziona, in sostanza, la pretesa a non essere sottoposta a tale forma di controllo amministrativo”) osservando: - “l’appellante non deduce il carattere lesivo delle specifiche modalità con le quali è stata in concreto espletata la verifica”: di conseguenza “non viene qui in rilievo il dibattuto problema della tutela (specie cautelare) del contribuente a fronte di indagine istruttoria dell’amministrazione che si svolga in modo potenzialmente lesivo del diritto del professionista o dell’imprenditore alla riservatezza o ad evitare in- t r i b u ta r i o 122 tralci nell’esercizio dell’attività economica”; “tale tutela”, comunque, “in quanto volta a proteggere diritti soggettivi non degradabili”, “non potrebbe… essere richiesta al giudice degli interessi”; - essendosi “conclusa con l’adozione di un atto di accertamento”, la “verifica fiscale” contestata “costituisce espletamento di attività istruttoria finalizzata alla determinazione autoritativa dell’imposta” per cui “l’ordine di rinnovo della verifica e la verifica stessa costituiscono momento strumentale e prodromico rispetto alla esatta, determinazione del presupposto di imposta, contenuta, nell’atto di accertamento eccesso corrige: emesso nei confronti del destinatario del controllo, concretizzandosi perciò in attività giuridicamente infraprocedimentale e dunque non immediatamente lesiva”: conseguentemente (“dunque”) “spiega… effetto il principio consolidato secondo cui gli atti istruttori ancorché illegittimi non sono autonomamente impugnabili per difetto di concreta lesività, dovendo la relativa contestazione essere differita al momento dell’impugnazione, per illegittimità derivata, del provvedimento finale” si che, “per quanto… interessa”, “i vizi del procedimento tributario non sono immediatamente contestabili ma, ridondando in vizi del provvedimento finale e cioè dell’atto di accertamento, vanno… dedotti nell’ambito dell’impugnazione di questo”; “nel caso in esame, dunque, l’illegittimità della verifica o dell’ordine di rinnovo della stessa non può essere fatta valere anticipatamente ed in via autonoma ma va invece dedotta mediante impugnazione del provvedimento finale avanti alla commissione tributaria, rientrando pacificamente l’atto di accertamento in questione fra quelli sui quali solo il giudice tributario è fornito di giurisdizione (cfr. D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2)” (come “di fatto avvenuto, avendo la società impugnato con successo avanti al giudice tributario l’atto di accertamento”). Il giudice a quo osserva, ancora: - “in tal modo l’attività di verifica fiscale”, diversamente da quanto sostenuto dall’appellante, non risulta “sottratta al controllo giurisdizionale, con violazione del precetto di cui all’art. 113 Cost., comma 2” perché “il differimento della impugnazione… non incide sulla giustiziabilità dell’atto istruttorio ma costituisce mera applicazione della regola processuale secondo la quale per agire in giudizio (ed ottenere una pronuncia di merito) occorre avere quell’interesse concreto il quale, al cospetto della funzione amministrativa procedimentalizzata, si radica e diventa attuale solo al momento dell’adozione del provvedimento finale”; - “sulle conclusioni sin qui raggiunte non incide il disposto della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 4, (Statuto del contribuente) secondo cui la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE presupposti” in quanto lo stesso “non attribuisce… al giudice amministrativo nuovi ambiti di cognizione in materia tributaria, ma si limita a confermare la sussistenza della giurisdizione di amministrativa ove la stessa discenda dal criterio di riparto ordinario, come acquisito in giurisprudenza”: “la giurisdizione generale di legittimità può tuttora essere adita solo se la controversia non sia devoluta al giudice tributario e solo se la posizione giuridica che si pretende lesa abbia consistenza di interesse legittimo (cfr. 6^ Sez. 30 settembre 2004 n. 6353)”. In definitiva, per il Consiglio di Stato, “la controversia rientra nell’area, riservata alla giurisdizione del giudice tributario speciale e non sussiste quindi il presupposto per il ricorso agli organi di giustizia amministrativa”. 3. La spa A*** – denunziando “violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo”, “violazione dell’art. 103 Cost., comma 1” nonché “violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 4” – chiede di cassare tale decisione formulando (ex art. 366 bis c.p.c.) il seguente “quesito di diritto” “dichiarare la spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 4, recante “Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente”, in relazione all’impugnazione degli ordini di verifica con cui l’Agenzia delle Entrate, in difetto dei presupposti che legittimano la riapertura di una verifica e violando l’obbligo di motivazione prescritto per gli atti dell’Amministrazione finanziaria dallo Statuto del contribuente, ha autorizzato il compimento di atti di indagine tributaria con riferimento ad un periodo di imposta per cui si era già svolta ed era stata conclusa una verifica generale, in quanto nella fattispecie ricorrono tutti i presupposti della giurisdizione amministrativa: ovvero in senso negativo, la non spettanza della controversia al giudice tributario, per la mancata inclusione degli ordini di verifica nel novero degli atti assoggettati a tale giurisdizione dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19; e, in senso positivo, la presenza di una situazione giuridica che si pretende lesa, avente la consistenza dell’interesse legittimo, ma anche di libertà costituzionalmente garantite, e l’interesse concreto ed attuale ad agire per la rimozione degli, atti impugnati. A. A sostegno di tale richiesta la ricorrente – assumendo avere “entrambi i Collegi… posto a fondamento della, propria decisione la negazione che possa darsi un’incidenza immediata nella sfera giuridica del contribuente sottoposto a verifica prima che un atto di accertamento sia adottato, e… quindi negato che il medesimo contribuente possa avere un interesse ad agire avverso l’ordine di verifica che ritenga illegittimo” -, in primo luogo, osserva: - “il principio… in base al quale gli atti istruttori, in quanto aventi carattere infraprocedimentale, non 2 0 0 9 123 sono autonomamente impugnabili per inidoneità a creare una lesione immediata nella sfera giuridica del privato, non può ritenersi… applicabile nel caso dell’attività di indagine fiscale della p.a., la quale si connota per gli incisivi poteri riconosciuti all’amministrazione, i quali sono in grado di comprimere fortemente, in modo da esigere una tutela immediata avverso i medesimi, le libertà (di domicilio, di corrispondenza, di libertà di iniziativa economica, ecc.) del soggetto che li subisce (talvolta imponendo non solo un pati, ma anche un obbligo positivo, un tacere), e che, proprio in considerazione di ciò, si caratterizza altresì per la minuziosa regolamentazione dei presupposti e delle modalità di esercizio del potere medesimo, in chiave prettamente garantistica nei confronti del contribuente”; - “in relazione alla situazione azionata (da essa) A***… non vale obiettare l’esistenza di una dualità di situazioni giuridiche in capo al contribuente” (“diritti soggettivi/interessi legittimi, di cui i primi tutelabili di fronte al giudice ordinario”) in quanto “laddove egli si dolga di una verifica che ritiene illegittima, ad essere lesa non è solo la posizione complessiva del contribuente (…) a che la potestà amministrativa venga esercitata in conformità alle regole poste dall’ordinamento per l’esercizio della stessa, ovvero l’interesse legittimo, ma anche, inevitabilmente, le posizioni soggettive aventi rango costituzionale, per l’evidente ragione che le stesse possono essere limitate solo nei casi e “nei modi indicati dalla legge (… TAR, a pag. 3)”, “l’indicazione di effettuare le verifiche presso i locali del contribuente solo in presenza di effettive esigenze, durante l’orario di lavoro e con modalità tali da arrecare la minore turbativa possibile, così come quelle che inducono a limitare la permanenza nei locali e che impongono di esaminare i documenti in luoghi diversi da quelli del contribuente, ove questi lo richieda”, infatti, “si muovono nell’ottica di attuare il bilanciamento delle contrapposte posizioni secondo i criteri della necessarietà e della proporzionalità, i quali discendono direttamente dai precetti costituzionali racchiusi negli artt. 2, 13, 14 e 15 Cost., che sovrintendono alle libertà inviolabili”; - “gli stessi criteri sono ritraibili dai principi di imparzialità e buon andamento dettati dall’art. 37 Cost., il quale… è menzionato dall’art. 1 dello Statuto (assieme agli artt. 3, 23 e 53 Cost.), come disposizione alla cui attuazione è diretto lo Statuto medesimo”; “ai medesimi principi rispondono, poi, le prescrizioni che concernono la motivazione di tutti gli atti dell’amministrazione (secondo l’ampia formula utilizza dal legislatore all’art. 7, comma 1, dello Statuto del contribuente), l’esposizione delle ragioni che hanno giustificato la verifica, il divieto di richiedere documenti e informazioni di cui l’amministrazione Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o già dispone, e, non ultimo, l’obbligo di improntare il rapporto con i contribuenti ai principi di buona fede e collaborazione”. Secondo la ricorrente, invero, “lo stesso Consiglio di Stato” “richiamando l’orientamento sul punto di questa… Corte (… Sez. Un. civ. 15 ottobre 1998 n. 10186 e… 28 ottobre 2005 n. 20994)” ha riconosciuto che “quando la vertenza ha ad oggetto la contestazione della legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, ossia quando l’atto amministrativo sia assunto nel giudizio non come fatto materiale o come semplice espressione di una condotta illecita, ma sia considerato nel ricorso quale attuazione illegittima di un potere amministrativo, di cui si chiede l’annullamento, la posizione del cittadino si concreta come posizione di interesse legittimo” (CdS, sez. 6^, n. 556/2006…), per cui il fatto che l’azione sia proposta a tutela (anche) di un diritto costituzionale non è discriminante ai fini della giurisdizione, risultando invece decisiva la circostanza che l’azione sia diretta (o meno) contro un atto che costituisce esercizio di un pubblico potere (… in tal senso anche la sentenza delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione dell’8 marzo 2006 n. 4908, che afferma la giurisdizione del G.O. in relazione alla domanda di risarcimento dei danni alla salute, sulla base del rilievo dato alla mancanza, nella fattispecie, “di provvedimenti della pubblica amministrazione o di suoi concessionari, che siano stati impugnati o dei quali si chiede l’annullamento” e ivi ravvisando solo “comportamenti (…), che non possono incidere negativamente sulle posizioni di diritto soggettivo fatte valere dagli interessati”): “nel caso di specie essa istante si doleva dell’illegittimità degli atti adottati dall’Amministrazione nell’esercizio del proprio potere (discrezionale) di autorizzare la verifica tributaria, per cui, anche sotto questo profilo, doveva ritenersi correttamente incardinata la controversia dinanzi al giudice amministrativo”. A conclusione del punto la società afferma che il giudice a quo (il quale ha ritenuto “la controversia rientrante nell’area riservata alla giurisdizione tributaria”) ha “errato… nel considerare l’art. 7, comma 4, dello Statuto non applicabile” perché nella fattispecie ricorrono “tutti i presupposti della giurisdizione amministrativa”: - “in senso negativo, la non spettanza della controversia al giudice tributario, per la mancata inclusione degli ordini di verifica nel novero degli atti assoggettati a tale giurisdizione dall’art. 19 D.Lgs. n. 546 del 1992” peraltro “il carattere “residuale” del ricorso al G.A. in caso di atti aventi natura tributaria, che i due Collegi sembrano porre a presupposto delle decisioni prese, non si deduce dalla disposizione in esame” (scilicet, quella dell’art. 7, comma 4) “che, viceversa, costituisce applicazione dell’art. 103 Cost., comma 1, il quale espressamente dispone che il ples- t r i b u ta r i o 124 so giurisdizionale costituito dai TAR e dal Consiglio di Stato sia il giudice “naturale” degli interessi legittimi, principio cui si deroga nel caso della giurisdizione tributaria, ma solo nei casi previsti dalla legge (e cioè per l’impugnazione degli atti elencati al D. Lgs. n. 546 del 1992, art. 19), per cui a fronte dell’esercizio illegittimo dell’attività di indagine fiscale, ed in presenza delle condizioni per agire in giudizio, si riespande la regola (generale, non residuale) della giurisdizione del G.A.”; - “in senso positivo, la presenza di una situazione giuridica che si pretende lesa, avente la consistenza dell’interesse legittimo, ma anche di libertà costituzionalmente garantite, e l’interesse concreto ed attuale ad agire per la rimozione degli atti impugnati”. B. “In relazione”, poi, “all’interesse ad agire”, “la ricorrente sostiene che “negare la tutela immediata a fronte degli ordini di verifica che costituiscono reitera di altre verifiche già effettuate, senza il rispetto dei requisiti di forma e di sostanza previsti dalla legge, ed affermare l’esistenza di una tutela differita, equivalga a negarla del tutto” atteso che “invece di bloccare un’attività di indagine, di cui essa A*** contestava fondamento e modalità,… ha dovuto subire per ben due volte le conseguenze negative dei processi verbali di constatazione redatti in esito alla verifica illegittima, vedendosi costretta ad adire la commissione tributaria per ottenere l’annullamento degli avvisi di rettifica adottati su quella base, con… inutile dispendio anche delle risorse pubbliche”. Secondo la società, invero, “non è fondato asserire che il “differimento” della tutela non incida sulla giustiziabilità dell’atto, ai sensi dell’art. 113 Cost., (pag. 6 della sentenza del Consiglio di Stato)” perché, pur essendo “vero… che nell’ordinamento tributario (e solo in questo) si conosce la figura del “differimento della tutela”, “questa risulterebbe (costituzionalmente) ammissibile non semplicemente per via della non lesività attuale dell’atto” (“condizione che… non ricorre nel caso di specie, in cui sono immediatamente ed autonomamente rilevabili i vizi della reitera della verifica”) ma “sulla base della circostanza che le ragioni della lesione sono esternate (o pienamente conoscibili) solo con il provvedimento finale”. La ricorrente, infine (“conclusivamente”), osserva che “ammettere la giurisdizione del giudice amministrativo nella fattispecie in esame non equivale” (come “affermato dalle Amministrazioni resistenti”) “ad introdurre una giurisdizione concorrente a quella delle Commissioni tributarie” attesa “la diversità della tutela ottenibile, in quanto il giudizio (in sede di tutela differita) davanti alle Commissioni avrebbe ad oggetto solo la pretesa del singolo, quale contribuente, di pagare imposte e sanzioni in misura non superiore a quella dovuta, ma detto giudizio non tutelerebbe quegli interessi di natura patrimoniale e non patrimoniale direttamente Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE pregiudicati dall’attività ispettiva, non aventi necessariamente riflesso sull’ammontare del debito d’ imposta, quali, ad esempio, la libertà di domicilio o la riservatezza”: “quella ottenuta con l’impugnazione dell’atto di accertamento”, infatti, secondo la spa A***, “sarebbe, alla fine, una tutela incompleta, nel senso che le lesioni alla sfera della riservatezza o del domicilio, rimarrebbero tali anche se il successivo atto di accertamento venisse annullato dai giudici di merito”. C. In terzo (ed ultimo) luogo la ricorrente contesta il “contrario avviso espresso dal giudice amministrativo… sulla presenza dei presupposti per agire sulla base della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 4” affermando che “né il TAR, né il Consiglio di Stato, pervengono ad una chiara definizione dell’ambito di applicazione della norma di cui all’art. 7, comma 4, dello Statuto del contribuente” e sostiene di non “comprende re, in particolare, che significato abbia l’affermazione in base alla quale “tale disposizione non attribuisce (…) al giudice amministrativo nuovi ambiti di cognizione in materia tributaria, ma si limita a confermare la sussistenza della giurisdizione amministrativa ove la stessa discenda dal criterio di riparto ordinario, come acquisito in giurisprudenza” e ancora “dunque la giurisdizione generale di legittimità può tuttora essere adita solo se la controversia non sia devoluta al giudice tributario e solo se la posizione giuridica che si pretende lesa abbia consistenza di interesse legittimo”: secondo la società “questo modo di argomentare… non solo non chiarisce realmente quale sia il concreto ambito applicativo della disposizione di cui si tratta, in relazione ai confini della giurisdizione, ma… giunge ad una conclusione che può dirsi ampiamente errata” perché, come “ricordato”, gli “stessi giudici di Palazzo Spada…, aderendo all’orientamento sul punto di questa… Corte, hanno affermato come, ai fini dell’individuazione della giurisdizione, non sia decisiva la natura della situazione fatta valere, quanto piuttosto la circostanza che ad essere impugnato sia un atto costituente esercizio di un pubblico potere, per concludere come in tale ultimo caso la giurisdizione appartenga sempre al giudice amministrativo, anche quando vengano in questione diritti fondamentali (v. CdS, sezione 6^, sentenza n. 556/2006, cit.)” (“il TAR Napoli… aveva limitato l’applicazione della disposizione di cui all’art. 7, comma 4, ai casi in cui non consegue alcun atto impositivo per intervenuta decadenza dell’azione accertatrice ovvero la verifica tributaria illegittimamente condotta non conduca ad alcun rilievo…”). “Su questo punto decisivo della controversia”, pertanto, secondo la ricorrente, “l’argomentazione del giudice di seconde cure appare totalmente erronea con riferimento alla determinazione della giurisdizione amministrativa”: “in considerazione del criterio di riparto ordinario, come acquisito in giurisprudenza”, infatti, 2 0 0 9 125 “nelle ipotesi richiamate dal TAR non si verterebbe in materia di interessi legittimi, ma di diritti soggettivi, sottoposti ad un comportamento fattuale della p.a. lesivo della loro consistenza per cui la loro violazione in ipotesi siffatte dovrebbe rilevare davanti al giudice ordinario, non già davanti a quello amministrativo”. La ricorrente, infine, non ritiene “logico il ragionamento dell’Amministrazione procedente volto a contraddire il principio della giurisdizione amministrativa, di cui all’art. 7, comma 4, cit.,… attraverso le argomentazioni espresse dal Consiglio di Stato in Adunanza Generale nel parere del 22 gennaio 2001, in quanto il tentativo di delimitare la giurisdizione del giudice amministrativo contenuto in detto parere si basava su disposizioni formulate nella proposta di decreto legislativo di dubbia costituzionalità, che non a caso non sono mai state emanate e non risultano affatto accolte dal decreto legislativo n, 32 del 2001, adottato sulla base della delega di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 16” per cui “resta… valido che con l’espressione organi di giustizia amministrativa si intenda il complesso TAR – Consiglio di Stato, come afferma non solo il parere citato, ma anche il parere del 5 dicembre 2000 del Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria”. 4. Il ricorso deve essere respinto perché infondato. A. Sul primo profilo di doglianza va, innanzitutto, ribadito (in carenza di qualsivoglia convincente argomentazione contraria) che Cass. Sez. Un., 29 aprile 2003 n. 6693 (ordinanza interlocutoria), da cui gli excerpta testuali che seguono (a) nella disciplina del contenzioso tributario quale risultante… dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (art. 2 sia nel testo originario, che in quello novellato dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 12, comma 2) la tutela giurisdizionale dei contribuenti, con riguardo ai tributi cui le norme citate hanno riferimento, è affidata in esclusiva alla giurisdizione delle commissioni tributarie, concepita comprensiva di ogni questione afferente all’esistenza ed alla consistenza dell’obbligazione tributaria (cfr. in terminis, ex multis, Cass. SS.UU. civ., sent. n. 103 del 12/3/2001) e (b) tale esclusività “non” è “suscettibile di venir meno in presenza di situazioni di carenza di un provvedimento impugnabile e, quindi, di impossibilità di proporre contro tale provvedimento quel reclamo che costituisce il veicolo di accesso, ineludibile, a detta giurisdizione” perché siffatte “situazioni” (“quando fattualmente riscontrate”) incidono “unicamente sull’accoglibilità della domanda (ossia sul merito), valutabile esclusivamente dal giudice avente competenza giurisdizionale sulla stessa, e non già sulla giurisdizione di detto giudice (cfr. in proposito; ex aliis, Cass. SS.UU. civ., sent. n. 11217 del 13.11.1997). La giurisdizione (piena ed esclusiva) del giudice tri- Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o butario fissata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, poi, non ha ad “oggetto” solo gli atti per così dire “finali” del procedimento amministrativo di imposizione tributaria (ovverosia gli atti definiti, propriamente, come “impugnabili” dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19) ma investe – nei limiti, ovviamente, dei “motivi” sottoposti dal contribuente all’esame di quel giudice ai sensi dell’art. 18, comma 2, lett. e), stesso D.Lgs. – tutte le fasi del procedimento che hanno portato alla adozione ed alla formazione di quell’atto tanto che l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità e/o alla regolarità (formale e/o sostanziale) su un qualche atto “istruttorio” prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto “finale” impugnato: “la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria”, infatti (Cass., SS. UU., 4 marzo 2008 n. 5791; ma già, Cass., SS.UU., 25 luglio 2007 n. 16412), “è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatati, allo scopo, soprattutto, di rendere possibile per questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa”. Siffatta latitudine della giurisdizione tributaria – estesa (come detto) anche al controllo della regolarità (formale e sostanziale) di tutte le fasi del procedimento di imposizione fiscale – evidenzia l’applicabilità (vanamente, pertanto, contestata dalla ricorrente) anche agli “atti istruttori” fiscali – nonostante la compressione (“comprimere fortemente”, dice la ricorrente) delle “libertà” (“di domicilio, di corrispondenza, di libertà di iniziativa economica, ecc.”) indicate dalla contribuente posta in essere dagli stessi – del principio della non autonoma (ed immediata) impugnabilità proprio in quanto “aventi carattere infraprocedimentali”. “Per quanto attiene”, inoltre, specificamente alla problematica della riconducibilità dell’atto impugnato alle categorie indicate dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, queste sezioni unite (sentenza 27 marzo 2007 n. 7388) – confermato che giusta “una consolidata giurisprudenza… (da ultima, Sez. Un., ord. n. 22245/06)” “tale problematica… non attiene alla giurisdizione, ma alla proponibilità della domanda” -, pur rilevando (“non possono non rilevare”) che la mancata inclusione degli atti in contestazione nel catalogo contenuto in detto articolo comporterebbe una lacuna di tutela giurisdizionale, in violazione dei principi contenuti negli artt. 24 e 113 Cost.”, hanno specificato esser compito della commissione tributaria verificare se l’atto in contestazione possa ritenersi impugnabile nell’ambito delle categorie individuate del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, “carattere esclusivo della giurisdizione tributaria”, ancora (Cass. un., 27 marzo 2007 n. 7388), “non consente che atti non impugnabili in tale sede siano devoluti, in via residuale, ad altri giudici, secondo le t r i b u ta r i o 126 ordinarie regole di riparto della giurisdizione (Sez. Un., ord. n. 13793/04)”: “l’attribuzione al giudice tributario di una controversia che può concernere la lesione di interessi legittimi”, infatti, come chiarito, “non incontra un limite nell’art. 103 Cost.” perché (“secondo una costante giurisprudenza costituzionale”: “da ultime, ordinanze n. 165 e 414 del 2001 e sentenza n. 240 del 2006”) “non esiste una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo, potendo il legislatore attribuire la relativa tutela ad altri giudici”. In secondo luogo, poi, deve evidenziarsi che l’incidenza della specifica attività amministrativa contestata su “posizioni soggettive aventi rango costituzionale” (in particolare, come adduce la ricorrente, su “posizioni soggettive” tutelate dai “precetti costituzionali racchiusi negli artt. 2, 13, 14 e 15 Cost., che sovraintendono alle libertà inviolabili”), limitabili quindi “solo nei casi e nei modi indicati dalla legge”, non consente affatto di ravvisare nell’eventuale lesione di quelle “posizioni” (o “situazione composita”) una “situazione giuridica… avente la consistenza di interesse legittimo” perché le condizioni fissate per la legale temporanea “violaibilità” di quelle libertà lasciano integra la originaria consistenza di diritto soggettivo delle stesse attesa la loro mera, temporalmente e funzionalmente limitata, compressione. Il preteso “difetto”, negli “ordini” qui impugnati, dei presupposti di legge – lamentato dalla ricorrente, quindi, non lede un mero interesse legittimo ma integra (se sussistente) la lesione di un vero e proprio diritto soggettivo del contribuente nei cui confronti viene eseguita la verifica ordinata perché solo l’esistenza di quei “presupposti” (che nella specie si assumono, in ipotesi, mancanti) rendono legittima l’azione accertativa e fa sorgere, a carico del contribuente verificato, gli obblighi di “pati” detta azione nonché di “facere” quanto eventualmente le afferenti norme gli impongano per consentire agli inquirenti di svolgere appieno la propria attività, il tutto sempre a prescindere dall’eventuale esito, negativo per l’Ufficio, del controllo, stesso. È appena il caso di evidenziare, di poi, che l’eventuale esito negativo per l’Ufficio dell’attività di accertamento (con conseguente non emissione di alcun provvedimento fiscale) compiuta in forza di ordini ritenuti illegittimi dal contribuente integra fattispecie del tutto diversa da quella in esame (conclusasi con l’emissione di un provvedimento impositivo, come evidenziato dal giudice a quo) e, comunque, porta la valutazione di quel fatto nell’orbita giurisdizionale del giudice ordinario (quindi, non del giudice amministrativo) siccome ipoteticamente lesiva di diritti squisitamente soggettivi del contribuente a non subire, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, verifiche fiscali e, di conseguenza, le connesse compressioni legali ai suoi corrispondenti diritti (anche costituzionalmente garantiti, come espone la stessa società ricorrente), al di fuori dei Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE casi e delle ipotesi previste dalle afferenti leggi che attribuiscono e circoscrivono il sorgere e l’esercizio del potere fiscale di controllo. B. In ordine alla legittimità del differimento al momento della impugnazione dell’atto impositivo della tutela giurisdizionale per vizi e/o per irregolarità concernenti atti compiuti nel corso dell’iter amministrativo conclusosi con l’adozione dell’atto impositivo notificato è sufficiente ricordare il pensiero (“costantemente affermato”, come dice lo stesso giudice delle leggi) della Corte Costituzionale (decisione 23 novembre 1993 n. 4 06, che ricorda “da ultimo le sentenze n. 154 del 1992; n. 15 del 1991; n. 470 del 1990; n. 530 del 1989”) secondo cui “gli artt. 24 e 113 Cost., non impongono una correlazione assoluta tra il sorgere del diritto e la sua azionabilità, la quale può essere differita ad un momento successivo ove ricorrano esigenze di ordine generale e superiori finalità di giustizia, sempre che il legislatore osservi il limite imposto dell’esigenza di non rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa, in conformità al principio della piena attuazione della garanzia stabilita dalle suddette norme costituzionali : nel caso, non si ravvisano né sono state dedotte difficoltà della “tutela giurisdizionale” relativa agli atti qui impugnati quali conseguenti al differimento di quella tutela al momento della emissione dell’atto di imposizione fiscale. C. Il “corretto ambito applicativo” della disposizione dettata dal della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 4, (secondo cui “la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti” – di cui la ricorrente lamenta la mancata delimitazione -, infine, è stato già precisato nella sentenza 13 luglio 2005 n. 14692 di queste sezioni unite per la quale quella disposizione riconferma il carattere esclusivo e pieno della giurisdizione ordinaria in materia tributaria, non fa che enfatizzare un principio già generalmente riconosciuto e “comporta”, salvo espresse previsioni di legge, “una naturale competenza del giudice amministrativo” soltanto nell’impugnazione di atti amministrativi… a contenuto generale o normativo, come i regolamenti e le delibere tariffarie e di atti” (“aventi natura provvedimentale”) “che costituiscano un presupposto dell’esercizio della potestà impositiva e in relazione ai quali esiste un generale potere di disapplicazione del giudice cui è attribuita la giurisdizione sul rapporto tributario”. Nella stessa sentenza, inoltre, si è precisato che “tale principio… non può mai comportare una doppia tutela (dinanzi al giudice amministrativo e a quello ordinario o tributario) nei confronti di atti impostivi o di atti del procedimento impositivo”. Quest’ultimo corollario, nel caso, riveste natura decisiva del punto in esame non essendo dubitabile (né essendo stato dubitato del) la sussistenza, in capo al contribuente, del potere di contestare innanzi agli organi di giustizia tributaria la legittimità anche degli “ordini di verifica” de quibus in quanto atti pro- 2 0 0 9 127 dromici del provvedimento impositivo eventualmente adottato all’esito di quanto emerso da quella verifica. In ordine al punto concernente la “tutela”, innanzi agli organi di giustizia tributaria, “nei confronti” di tutti gli “atti del procedimento impositivo”, è sufficiente ricordare le decisioni di questa Corte nelle quali si è ammessa la sindacabilità, da parte di detti organi: (a) degli atti prodromici del “procedimento impositivo” quali i provvedimenti emessi dal Procuratore della Repubblica D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 33 e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 2, di autorizzazione alla perquisizione domiciliare e/o personale da parte degli organi fiscali inquirenti (Cass. trib.:19 ottobre 2005 n. 20253; 12 ottobre 2005 n. 19837; 1 ottobre 2004 n. 19690; 3 dicembre 2001 n. 15230; 19 giugno 2001 n. 8344); (b) del preventivo invito al pagamento (contenuto nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60, comma 6), quale adempimento necessario e prodromico alla iscrizione a ruolo dell’imposta sul valore aggiunto (Cass. trib.: 18 aprile 2008 n. 10179 e 14 aprile 2006 n. 8859); (e) dell’“invito al pagamento” notificato dal Comune al contribuente quale atto prodromico all’iscrizione a ruolo (Cass. trib., 6 dicembre 2004 n. 22869); (d) dell’invito di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 2, per fornire dati, notizie e chiarimenti in ordine alle operazioni annotate nei conti bancari (Cass. trib., 18 aprile 2003 n. 6232); (c) dell’invito al pagamento menzionato nel D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, art. 67, comma 2, lett.a), (Cass. trib. 12 marzo 2002 n. 3540) e; (f) più in generale, sulla scorta dei principi affermati da queste sezioni unite (sentenza n. 16412 del 2007, cit.), sulla mancata notifica di un atto prodromico quale “vizio proprio” (D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, comma 3) dell’atto notificato al contribuente (Cass. trib., 25 gennaio 2008 n. 1652). 5. Per la sua totale soccombenza la spa A***, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., deve essere condannata a rifondere alle amministrazioni pubbliche le spese di questo giudizio di legittimità, liquidate, nella misura indicata in dispositivo, in base al valore indeterminato della controversia ed all’attività difensiva espletata da dette amministrazioni. … [Omissis]… ••• Nota a sentenza 1. Con una sentenza ampia e particolarmente motivata le Sezioni Unite della Cassazione, pur non essendo state chiamate a dirimere contrasti o a risolvere questioni di particolare rilevanza ma intervenendo su un ricorso proposto per motivi attinenti la giurisdizione ex art. 362 c.p.p., affrontano in modo completo un tema di grande interesse, sino a questo momento solo sfiorato da altri arresti giurisprudenziali. Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o In particolare, dovendo individuare modalità e limiti di impugnazione degli ordini di verifica emessi dagli uffici fiscali, atti prodromici a quelli eventualmente impositivi, indicano regole generali di tutela del contribuente (una sorta di vademecum) avverso gli atti posti in essere dagli uffici fiscali durante l’attività istruttoria, connessa all’accertamento di eventuali obbligazioni tributarie. 2. Per comprendere a fondo la decisione bisogna preliminarmente far cenno al caso concreto. Una società veniva investita di un’attività ispettiva da parte di Ufficio periferico dell’Agenzia delle entrate, attività imposta da ordini di verifica emessi dall’Ispettorato regionale dell’Agenzia delle Entrate. La ispezionanda società, ritenendo gli ordini in questione illegittimi (sia perché carenti sotto il profilo della motivazione sia perché viziati da eccesso di potere in quanto imponevano irragionevolmente un nuovo accertamento relativo ad annualità di imposta già oggetto di precedente verifica, conclusasi con l’emissione di contestazioni) li impugnava con ricorso al TAR Campania. Sosteneva, sulla scorta di vari argomenti, che fosse compito della giustizia amministrativa il sindacato su tali atti. In primo luogo, evidenziava come gli ordini di verifica non fossero impugnabili dinanzi al giudice tributario in base al D.Lgs. n. 546/92, in quanto non esplicitamente indicati nell’elenco di atti contenuto nell’art. 19 del D.Lgs. citato. Essi, però, erano espressione di potestà amministrativa che comprimeva diritti e libertà del contribuente, affievolitisi al rango di interessi legittimi, la cui tutela non poteva che essere richiesta all’articolazione “Tar – Consiglio di Stato”. Tale conclusione, già valida in astratto secondo i principi generali, trovava poi ulteriore sostegno nell’ultimo comma dell’art. 7 della L. n. 212/2000 (legge nota come Statuto del contribuente) che testualmente stabilisce che “la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti”. 3. Il Tar prima ed il Consiglio di Stato poi dichiaravano l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione. Entrambi gli organi di giustizia amministrativa evidenziavano, in primis, come l’attività istruttoria dell’amministrazione finanziaria fosse lesiva non di posizioni di interesse legittimo ma di vero e proprio diritto soggettivo. Gli atti che compongono l’istruttoria, però, inserendosi in una sequenza procedimentale che si conclude con il procedimento di accertamento, potevano essere impugnati soltanto in uno a quest’ultimo. Siccome l’atto di accertamento va censurato dinanzi la giurisdizione tributaria, era a questa che bisognava rivolgersi anche per poter ottenere il vaglio dei t r i b u ta r i o 128 provvedimenti istruttori. Il differimento al momento conclusivo del procedimento dell’impugnazione non incideva sulla giustiziabilità dell’atto ma costituiva esso stesso espressione del principio secondo cui per agire in via giurisdizionale c’è bisogno di un interesse. Infine, l’art. 7 dello Statuto del contribuente non appariva norma dirimente, non attribuendo nuovi ambiti di cognizione alla giustizia amministrativa in materia tributaria, ma confermando la giurisdizione amministrativa in caso in cui fossero in gioco interessi legittimi. 4. Investite del ricorso da parte della società, che chiedeva di annullare la declaratoria di difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato ed ex adverso affermare l’impugnabilità immediata degli “ordini di verifica” dinanzi la giurisdizione amministrativa, le Sezioni Unite per decidere sul caso concreto, hanno operato una completa disamina dell’impugnabilità degli atti istruttori in generale. Il punto di partenza non poteva che essere quello dell’estensione della giurisdizione tributaria. Di tale aspetto la Cassazione si era già occupata in altre occasioni, sia pure per ragioni diverse; da uno di quegli arresti1, le Sezioni Unite prendono spunto, in particolare valorizzando due proposizioni: nella disciplina del contenzioso tributario, quale risultante dall’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992 sia nel suo testo originario che in quello successivo all’intervento modificativo da parte dell’art. 12 L. 448/2001, la tutela giurisdizionale del contribuente è concepita comprensiva di ogni questione afferente l’esistenza e la consistenza dell’obbligazione tributaria; l’esclusività della giurisdizione tributaria non viene meno qualora sia carente un provvedimento impugnabile, situazione questa che incide soltanto sul merito della domanda (e cioè sulla sua accoglibilità). Dall’affermato principio di esclusività della giurisdizione tributaria sull’obbligazione tributaria le Sezioni Unite fanno derivare quale corollario una prima 1 Ci si riferisce in particolare a Cass. SS. UU., 29 aprile 2003, n. 6693, CED Cass. n. 562546 secondo cui “In tema di contenzioso tributario e nella disciplina risultante sia dall’art. 1 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 che dall’art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, la tutela giurisdizionale dei contribuenti è affidata in esclusiva alla giurisdizione delle commissioni tributarie, concepita comprensiva di ogni questione afferente all’esistenza ed alla consistenza dell’obbligazione tributaria e non suscettibile di venir meno in presenza di situazioni di carenza di un provvedimento impugnabile e, quindi, di impossibilità di proporre contro tale provvedimento quel reclamo che costituisce veicolo di accesso, ineludibile, a detta giurisdizione. In tal caso, dette situazioni, quando attualmente riscontrate, incidono unicamente sull’accoglibilità della domanda (ossia sul merito), valutabile esclusivamente dal giudice avente competenza giurisdizionale sulla stessa, e non già sulla giurisdizione di detto giudice”; in termini analoghi si v. pure Cass. SS. UU., 13 novembre 1997, n. 11217, CED Cass. n. 509830 e Cass. SS. UU, 12 marzo 2001, n. 103, CED Cass. n. 544676. Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE fondamentale conclusione: la giurisdizione non ha ad oggetto solo il provvedimento conclusivo con cui gli Uffici finanziari accertano i tributi da pagare ed il quantum degli stessi ma l’intera fase del procedimento che ha portato alla formazione dell’atto conclusivo perché i vizi avvenuti in quella si riverberano necessariamente sul provvedimento conclusivo2 . Gli atti prodromici che si inseriscono nella sequenza istruttoria, quindi, sono certamente suscettibili di sindacato. Aggiunge, però, la Corte – mutuando l’argomento dalle teorie sul procedimento amministrativo in generale – che gli atti istruttori, seppure possono comprimere o limitare da subito posizioni soggettive del contribuente, restano funzionali alla conclusione di un iter procedimentale (hanno natura “infraprocedimentale”) e, quindi, gli eventuali vizi degli stessi potranno essere fatti valere soltanto impugnando il provvedimento conclusivo. Il differimento del momento dell’impugnazione, del resto, non appare in contrasto con i principi costituzionali (in particolare artt. 24 e 113 Cost.), in quanto non è costituzionalmente necessaria la contemporaneità tra il sorgere del diritto e la sua azionabilità, che, quindi, può essere differita ad un momento successivo3. Giungendo, infine, al caso concreto la Suprema Nomofilichia afferma che gli ordini di verifica come atti istruttori prodromici sono certamente suscettibili di sindacato – così come già è stato riconosciuto in altri casi per altre tipologie di atti inseriti nella sequenza procedimentale 4 – ma i vizi degli stessi potranno essere dedotti soltanto in uno al provvedimento di carattere impositivo. 5. Siccome nel caso di specie, all’ordine di verifica era poi seguito un provvedimento impositivo, la Corte avrebbe potuto fermarsi qui, avendo indicato la soluzione del caso concreto. Ed invece, in funzione didascalica, va oltre, offrendo, sia pure incidentalmente, la soluzione anche all’ipotesi diversa in cui agli ordini di verifica non segua un prov- 2 . A conclusioni analoghe già Cass. SS.UU., 4 marzo 2008, n. 5791, CED Cass. n. 602254 e Cass. SS.UU., 25 luglio 2007 n. 16412, CED Cass. n. 598269. 3 . A queste conclusioni è più volte giunta anche la Corte Costituzionale, a titolo esemplificativo, C. Cost., 23 novembre 1993, n. 406, citata dalla motivazione della sentenza in commento. 4 . In particolare era già stata ammessa la tutela giurisdizionale differita contro i seguenti atti istruttori: 1) provvedimenti emessi dal P.M., ex art. 33 D.P.R. n. 600/1973, di autorizzazione alla perquisizione personale o domiciliare da parte degli organi fiscali (da ultimo Cass., Sez. Trib., 19 ottobre 2005, n. 20253, CED Cass. n. 584644); 2) preventivo invito al pagamento ex art. 60 D.P.R. n. 633/1972 (Cass., Sez. Trib. 18 aprile 2008, n. 10179); 3) invito al pagamento notificato dal Comune al contribuente quale atto prodromico all’iscrizione a ruolo (Cass., Sez. Trib., 6 dicembre 2004, n. 22869, CED Cass. n.579395); 4 invito al pagamento menzionato dall’art. 67, comma 2, D.P.R. n. 43/1988 (Cass., Sez. Trib., 12 marzo 2002, n. 3540, CED Cass. n. 552992). 2 0 0 9 129 vedimento impositivo, per non avere l’attività istruttoria individuato contestazioni da muovere al contribuente ma quest’ultimo, comunque, si ritiene leso, nelle sue posizioni soggettive, dall’atto prodromico. È un caso in cui va certamente esclusa la possibilità di ricorrere alla giurisdizione tributaria; non essendo stato emesso un provvedimento di natura fiscale, non è in gioco l’obbligazione tributaria e manca quindi il presupposto per rivolgersi alle Commissioni tributarie. Secondo la Corte, il giudice da adire va individuato ricorrendo al criterio generale di riparto fra giurisdizione amministrativa ed ordinaria e quindi giudice amministrativo per gli interessi legittimi, giudice ordinario per i diritti soggettivi. Nel caso di specie, la corretta qualificazione delle posizioni soggettive in gioco è quello di “diritti soggettivi”, in particolare il diritto del contribuente a non subire, al di fuori dei casi previsti dalla legge, verifiche fiscali e di conseguenze le connesse compressioni legali ai suoi corrispondenti diritti anche costituzionalmente garantiti, quali ad esempio, la libertà di domicilio, di corrispondenza, di iniziativa economica etc. Al giudice ordinario, quindi, bisognerà rivolgersi per contestare ordini di verifica non sfociati in un provvedimento impositivo. Nulla la Cassazione dice sul tipo di azione esperibile; dovendosi escludere, però, in base ai principi generali, la possibilità che il giudice ordinario disponga l’annullamento di un atto, comunque, amministrativo, il contribuente potrà limitarsi a richiedere soltanto il risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c.. 6. L’iter argomentativo della Corte si chiude con un breve cenno su quale dovesse essere la lettura corretta del quarto comma dell’art. 7 dello Statuto del contribuente, disposizione evocata dal ricorrente per sostenere la tesi della sindacabilità davanti al TAR degli ordini di verifica. Le Sezioni Unite sul punto si limitano a ribadire quanto già evidenziato in altra recente sentenza della Cassazione (5). 5 Ci si riferisce a Cass, Sez. Trib., 13 luglio 2005, n. 14692, CED Cass. n. 581753 secondo cui “La giurisdizione del giudice ordinario in ordine ai tributi non devoluti alla giurisdizione tributaria prima della riforma introdotta dall’art. 12, comma secondo, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, ha carattere pieno ed esclusivo, estendendosi la cognizione di tale giudice, non al solo rapporto tributario, ma anche alla legittimità, sostanziale e procedimentale, degli atti del procedimento impositivo, tanto di accertamento che di riscossione (ivi compresa la tutela cautelare). Nè può farsi leva – al fine di ritenere devolute al giudice amministrativo le controversie relative alla legittimità dei predetti atti, in quanto concernenti, in assunto, posizioni di interesse legittimo – sull’art. 7, comma quarto, della legge 27 luglio 2000, n. 212, in materia di statuto dei diritti del contribuente: stabilendo, infatti, che “la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti”, tale disposizione si limita a confermare il principio, già generalmente riconosciuto, per cui il carattere esclusivo e pieno della giurisdizione ordinaria in materia tributaria non impedisce che, ove la legge attribuisca ad organi amministrativi una Gazzetta F O R E N S E d i r i t t o La norma altro non fa che confermare un principio generale già riconosciuto, e cioè l’attribuzione al giudice amministrativo di una naturale competenza sull’impugnazione di atti amministrativi a contenuto generale o normativo, come i regolamenti e le delibere tariffarie e di atti aventi natura provvedimentale che costituiscano un presupposto dell’esercizio dell’attività impositiva ed in relazione ai quali esiste un generale potere di disapplicazione del giudice cui è attribuita la giurisdizione sul rapporto tributario. 7. Tirando le fila del discorso, la Corte, con la sentenza in commento, segna con precisione gli ambiti di intervento delle varie articolazioni della giurisdizione ed potestà discrezionale di incidere su situazioni di diritto, possa sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo secondo i normali criteri di riparto (come avviene per l’impugnazione di atti amministrativi a contenuto generale o normativo, ovvero di atti di natura provvedimentale che costituiscano un presupposto dell’esercizio della potestà impositiva). Ne consegue che, in difetto di speciale disciplina normativa, non può ritenersi sottratta alla giurisdizione ordinaria, in materia di accise, la cognizione di atti del procedimento impositivo e l’esercizio della tutela cautelare spettante al giudice competente per il merito (nella specie, si trattava di impugnazione avverso il rigetto dell’istanza di sospensione della riscossione dell’accisa liquidata su quantitativi di alcool irregolarmente svincolati dal regime di sospensione – imposta della quale il soggetto obbligato aveva chiesto l’abbuono a norma dell’art. 4 del D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504 – nonché di ripristino della garanzia fideiussoria prestata a garanzia della circolazione del prodotto in sospensione d’accisa)”. t r i b u ta r i o 130 indirettamente individua un vero e proprio reticolo di tutele a favore del contribuente. Il giudice tributario è competente esclusivo per il rapporto tributario ed a lui sarà demandato il controllo dell’intero procedimento che si conclude con l’emanazione del provvedimento impositivo. I vizi degli atti istruttori che si riverberano sull’atto conclusivo dell’iter saranno sindacabili dalle Commissioni tributarie. La tutela riservata da questa articolazione giurisdizionale avrà ad oggetto la verifica della legittimità o meno della pretesa fiscale dell’Amministrazione, attraverso l’annullamento o la rettifica degli atti attraverso cui quella pretesa si manifesta. Al giudice ordinario il contribuente potrà rivolgersi quando in seguito all’adozione di atti prodromici di natura istruttoria non venga emesso alcun provvedimento impositivo: l’azione esperibile sarà di tipo risarcitorio. Il giudice amministrativo, infine, potrà essere chiamato a sindacare atti a contenuto generale o normativo che costituiscono il presupposto giuridico della potestà impositiva. Il TAR potrà annullare questa tipologia di atti per vizi di legittimità ma il contribuente, qualora non intenda rivolgersi al giudice amministrativo, potrà, comunque, richiedere a quello tributario, che di quegli atti è chiamato a fare applicazione, una tutela limitata al caso concreto e cioè la c.d. disapplicazione del provvedimento generale e normativo. diritto Internazionale La giurisprudenza delle Corti di Common law in tema di cessazione dei trattamenti medici salvavita in pazienti in stato vegetativo persistente 133 A cura di Francesco Romanelli Avvocato, specialista in diritto ed economia della Comunità europea Osservatorio di giurisprudenza internazionale A cura di Francesco Romanelli Avvocato, specialista in diritto ed economia della Comunità europea 139 Gazzetta F O R E N S E ● La giurisprudenza delle Corti di Common law in tema di cessazione dei trattamenti medici salvavita in pazienti in stato vegetativo persistente ● Francesco Romanelli Avvocato, Specialista in diritto ed economia dell’Unione Europea M ARZO • APRILE 2 0 0 9 133 Il triste caso di E. Englaro ha suscitato nel nostro Paese un acceso dibattito con la ormai usuale divisione dell’opinione pubblica e dei suoi rappresentanti politici in opposte fazioni che, agli occhi di un osservatore distaccato, sembra non abbiano alcun punto condiviso tra loro. Al di là di quanto riportato dalla stampa, sia quotidiana che periodica, e dalle altre fonti informative, generalmente di non elevato livello e prive di precise cognizioni su ciò di cui si tratta, e di quanto affermato da numerosi esponenti istituzionali, sia civili, sia religiosi, è opportuno verificare come la questione sia stata affrontata, e risolta, dalle autorità giudiziarie di altri Paesi, così da poter ascoltare anche opinioni diverse, rispetto a quelle sinora sentite. “La questione non è relativa a terminare una vita ma solo a permettere alla natura di fare il proprio corso, come sarebbe accaduto fino a pochi anni fa o nei luoghi dove la scienza medica non è ancora avanzata come in questo paese. Ma i progressi della scienza medica possono comportare che il paziente sia trasformato in un prigioniero in una gabbia dalla quale non potrà uscire per molti anni e senza vantaggi o qualità della vita: una vita, quindi, senza nessuno di quei significati accettabili che il concetto di vita contiene; solo che attraverso meccanismi vari la vita è tenuta in un corpo”1. Le tematiche del trattamento dei pazienti in fine vita sorgono, ovviamente, in quelle realtà che offrano assistenza sanitaria ai massimi standard, sia tecnologici che scientifici, ai propri cittadini: è inutile negare, infatti, che questi sono temi che involgono solo i Paesi del primo mondo, lasciando del tutto fuori le economie dei Paesi in via di sviluppo nelle quali la morte rimane una questione naturale. Una prima questione che pare opportuno affrontare è la definizione data a quello che è stato definito “stato vegetativo persistente”2 che è la condizione clinica di inconsapevolezza di sé e dell’ambiente circostante nella quale il paziente respira spontaneamente, ha una circolazione stabile e mostra cicli di chiusura ed apertura degli occhi che possono sembrare sonno e veglia. Nella sentenza resa dal Queensland Guardianship and Administration Tribunal il 13.9.20033, il giudice tutelare australiano ha affermato che, sulla base delle evidenze scientifiche disponibili, non vi sia alcuna differenza tra lo stato vegetativo persistente e lo stato vegetativo permanente. 1 Supreme Court of Arizona, in Rasmussen v. Fleming (1987) 154 Ariz. 207. 2 B Jennett, F Plum, ‘Persistent vegetative state after brain damage’ (1972) 1 Lancet 734; D T.Wade, C.Johnston, British Medical Journal, 1999; 319:841-844: “a clinical condition of unawareness of self and environment in which the patient breathes spontaneously, has a stable circulation, and shows cycles of eye closure and opening which may simulate sleep and waking”. 3 MC, Re [2003] QGAAT13, 19, in www.auslii.edu.au Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o In t e r n a z i o n a l e La sentenza pronunciata dalla Cout of Appeal (England and Wales) nel caso Bland, definisce il P.V.S. come “quella condizione medica chiaramente distinta da altre condizioni conosciute talvolta come “coma irreversibile”, “sindrome di Guillan‑Barre”, “sindrome del chiavistello o locked‑in syndrome”4, e morte celebrale. Le sue caratteristiche distintive sono che il tronco encefalico rimane vivo e funzionante mentre la corteccia cerebrale perde le sue funzioni e la sua attività. Ma sebbene gli occhi del paziente siano aperti egli non può vedere. Egli non può udire. Sebbene capace di riflessi, soprattutto in risposta a stimoli dolorosi, il paziente è incapace di movimenti volontari e non può sentire dolore. Egli non può assaporare o odorare. Non può parlare o comunicare in alcun modo. Egli non ha funzioni cognitive e non può perciò provare alcuna emozione né piacevole né spiacevole”. Il problema del quale si tratta è stato mirabilmente riassunto dalla sentenza della Camera dei Lords nel caso Airedale N.H.S. Trust v. Bland 5 dove si legge: “Non c’è dubbio che sia compito del Parlamento, non dei Tribunali, decidere le vaste questioni che il caso solleva. Fino a pochi anni fa non vi erano dubbi su cosa fosse la vita e cosa fosse la morte. Un uomo era morto se cessava di respirare ed il suo cuore smetteva di battere. Non c’erano mezzi artificiali in grado di sostenere tali indicatori di vitalità per poco tempo in più. La morte, nel senso tradizionale, era al di là dell’umano controllo. A parte i casi di omicidio, la morte occorreva naturalmente quanto le funzioni naturali del corpo non erano più in grado di sostenere i polmoni ed il cuore. I recenti sviluppi della scienza medica hanno intaccato alla base le antiche certezze. In medicina, la cessazione del respiro o del battito cardiaco non comporta più la morte. Attraverso l’uso di un ventilatore, i polmoni che, senza interventi sul corso naturale avrebbero cessato di respirare, possono essere fatti funzionare, sostenendo 4 La sindrome del chiavistello o Locked‑in syndrome è una rara patologia neurologica caratterizzata dalla completa paralisi dei muscoli volontari di tutto il corpo tranne quelli che controllano il movimento degli occhi. Può essere provocata da traumi al cervello, malattie del sistema circolatorio, malattie che distruggono la mielina posta sulle cellule nervose o sovradosaggi di medicinali. Gli individui affetti dalla sindrome del chiavistello sono coscienti e possono pensare e ragionare ma non possono parlare o muoversi. La patologia lascia il paziente completamente muto e paralizzato. Comunicazioni possono essere possibili attraverso il movimento degli occhi. Definizione data dal National Institute of Neurological Disorders and Stroke – struttura del National Health Institute americano. Cfr. www.ninds.nih.gov/disorders/lockedinsyndrome/lockedinsyndrome.htm. 5 in [1993] A.C. 789, p. 878. Così si legge nella sentenza: Anthony David Bland, all’epoca dei fatti diciassettenne, andò allo stadio di Liverpool per tifare la propria squadra. Nel corso degli incidenti che si verificarono in quel giorno, i suoi polmoni furono compressi e perforati con la conseguente interruzione nell’ossigenazione del cervello. Come risultato egli soffrì un catastrofico ed irreversibile danno ai centri superiori del cervello. La condizione in cui egli versa sin dall’aprile 1989 è conosciuta come stato vegetativo persistente. 134 in tal modo il battito cardiaco. Coloro come Anthony Bland che in precedenza sarebbero morti per incapacità di ingerire cibo possono essere tenuti in vita attraverso l’alimentazione artificiale. Ciò ha portato la professione medica a ridefinire la morte in termini di morte del tronco encefalico, cioè la morte di quella parte del cervello senza il quale il corpo non può funzionare del tutto senza assistenza. In alcuni casi ciò è ora possibile in apparenza, con l’uso di ventilatori per sostenere il battito cardiaco anche prescindendo dal tronco encefalico e perciò, in termini medici, il paziente è morto: “un cadavere ventilato”. Una seconda questione che è opportuno trattare in questa sede, così come fatto dai Giudici che si sono occupati delle tanti vicende simili a quella della povera E. Englaro, è quella dell’alimentazione artificiale del paziente in P.V.S. Scrive la Corte Suprema irlandese6: “Il sondino naso gastrico fu sviluppato all’inizio del secolo XX. È fastidioso e molti pazienti hanno grande difficoltà a tollerarlo. La gastrostomia è stata sviluppata nei primi anni ’80. È molto meno spiacevole per il paziente ed è adesso largamente usata nei casi in cui l’alimentazione artificiale sia necessaria per un lungo termine. Il sondino non permette al paziente di provare piacere nel mangiare e bere: il gusto e il profumo del cibo sono eliminati. Non può ritenersi, comunque, che un metodo di nutrizione che è chiaramente artificiale e perciò anomalo in conclusione, possa cambiare la propria essenziale natura ed essere considerato e divenire normale o comune, semplicemente perché esso si prolunghi per lungo tempo. Può essere che il paziente si abitui all’anomalo ed artificiale metodo di nutrizione e non lo consideri più come un peso, ma ciò non rende l’alimentazione attraverso un sondino normale. Nel caso che ci occupa è anche chiaro che la paziente non si sia mai abituata al sondino naso-gastrico. La paziente ha reagito espellendolo un gran numero di volte, probabilmente più di mille volte anche a causa di un riflesso a uno stimolo spiacevole e, se ci fosse un qualche elemento di cognizione nel suo rifiuto del sondino nasogastrico, ciò renderebbe tutto più doloroso. La sua reinserzione, prima della sua sostituzione con una sonda attraverso la gastrostomia nell’aprile del 1992 provocava grande sofferenza nella paziente. La sonda attraverso un gastrostoma è utilizzata sulla paziente da tre anni. È un modo molto più semplice e molto più soddisfacente di somministrare nutrimento alla paziente ed è molto meno pesante per lei. Ciò non lo rende in alcun senso un modo normale di ricevere nutrimento. Le prove fornite evidenziano che ci sono 6 [1995] IESC 1, [1995] 2 ILRM 401, [1996] 2 IR 73. In tale caso la paziente, una ragazza di 22 anni all’epoca dei fatti si sottopose ad un intervento ginecologico minore. A causa di una reazione all’anestesia, la paziente subì tre arresti cardiaci che provocarono gravissimi danni cerebrali per anossia. Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE 2 0 0 9 135 pazienti in grado di nutrirsi da soli attraverso la sonda gastrica. Tali pazienti, naturalmente, perdono il piacere della tavola ma hanno molto altro per cui vivere. Anche nel caso di questi pazienti, comunque, l’alimentazione attraverso una sonda gastrica è un modo anomalo ed artificiale di ricevere nutrimento ed è un trattamento medico. Nel loro caso, il beneficio del prolungamento della vita sopravanza di molto il peso dell’auto-trattamento di nutrizione attraverso il sondino gastrico, così come per i pazienti diabetici il beneficio del prolungare la vita attraverso un medicinale auto-iniettato supera il peso dell’iniezione stessa. Devo dire che non vedo differenze di principio tra fornire artificialmente aria attraverso un ventilatore e fornire artificialmente nutrizione attraverso una sonda”. Scrive la Camera dei Lords7: “La somministrazione di nutrizione attraverso i mezzi adottati (l’alimentazione artificiale – ndt) comporta l’adozione di tecniche mediche”. Prosegue: “l’introduzione del sondino naso-gastrico è di per sé un compito delicato anche in un paziente privo di coscienza. Esso deve quindi essere monitorato per assicurarsi che non muti la propria posizione e per controllare le infiammazioni, irritazioni ed infezioni che possono insorgere. Il catetere deve essere monitorato: può causare infezioni (e ripetutamente ciò è avvenuto); deve essere rimesso in sede, con un’operazione eseguita senza anestesia. La bocca ed altre parti del corpo devono essere costantemente curate. Il paziente deve essere continuamente mosso per evitare danni pressori. Senza un’assistenza infermieristica adeguata e cure mediche attente un paziente in stato vegetativo persistente soccombe rapidamente alle infezioni. Con tali cure, un paziente giovane e, per altri versi, sano può vivere per molti anni”. Una ulteriore questione che si pone è quella della straordinarietà o ordinarietà del trattamento medico8. Il Giudice Denham della Corte Suprema irlandese ha affermato9 che non sia pertinente discutere se il trattamento medico cui sottoporre il paziente o da interrompere sia straordinario o ordinario, poiché è sempre necessario il consenso dell’adulto capace in entrambi i casi. “Ma – continua – la natura del trattamento è in questo caso pertinente in ragione delle condizioni della paziente10. Il trattamento medico è invasivo. Ciò comporta la perdita dell’integrità del corpo e della dignità. Esso rimuove il controllo di sé e delle funzioni corporali. Quando il trattamento è amministrato attraverso una sonda o un ago, l’elemento di cooperazione del paziente è perduto. Mentre un paziente in stato di incoscienza in emergenza deve ricevere tutti i trattamenti secondo il suo miglior interesse, la terapia invasiva non deve essere continuata in modo casuale o sbagliato”. Una prima conclusione che può trarsi dall’esame delle sentenze soprariportate, costituenti quelli che vengono definiti leading-case ovvero precedenti per le successive pronunce delle Corti di common law, è dunque che lo stato vegetativo persistente o permanente è uno stato irreversibile di perdita di coscienza derivante dai danni gravissimi riportati alle funzioni superiori cerebrali. Stato da tener distinto da altre gravi patologie neurologiche. Una seconda preliminare conclusione cui giungono concordemente le sentenze riportate è che l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono trattamenti medici, al pari della ventilazione forzata, particolarmente invasivi e che necessitano di particolari capacità e competenze tecniche per evitare l’insorgere di altre patologie ad esse conseguenti che potrebbero portare alla morte del paziente. Un terzo punto da esaminare è se sia lecito rifiutare i trattamenti medici. Secondo la Camera dei Lords stabilito che il principio di autodeterminazione impone che sia rispettato il desiderio del paziente, così che se un adulto pienamente capace rifiuti, anche se irragionevolmente, di consentire il trattamento o la terapia attraverso la quale la sua vita può essere prolungata, il medico responsabile deve comportarsi di conseguenza11. Ma in molti casi non solo il paziente non è in condizione di dire se consente o no al trattamento in parola, ma potrebbe non aver dato in anticipo alcuna indicazione circa la propria volontà. In tali casi, Lord Goff of Chieveley afferma12: “Sono dell’opinione che non vi sia alcun obbligo per il medico che abbia un paziente in cura prolungare la sua vita senza riguardo per le circostanze. Sarebbe, infatti, stupefacente e potrebbe portare ai più negativi e crudeli effetti sul paziente, se una tale regola assoluta dovesse esistere. Sarebbe poco compatibile con la rilevanza primaria data al principio di autodeterminazione in quei casi nei quali il paziente capace abbia rifiutato di dare il proprio consenso, che la legge non dovesse fornire gli strumenti per sospendere i trattamenti, quando le circostanze lo richiedano, qualora il paziente non sia in grado di indicare quale sia la sua volontà e che egli non intende prestare il proprio consenso”13. 7 Airedale N.H.S. Trust v. Bland cit., p. 4 8 Ad essa fa riferimento l’insegnamento della Chiesa Cattolica: v. Nutrition and Hydration: Moral and Pastoral Reflections (1992), documento della Conferenza episcopale statunitense, in www.usccb. org/prolife/issues/euthanas/nutindex.shtm.l 9 [1995] IESC 1, [1995] 2 ILRM 401, [1996] 2 IR 73, p. 323. 10 Sottoposta a tutela su istanza dei familiari nel 1972. 11 Schloendorff v. Society of New York Hospital 105 N.E. 92, 93, per Cardozo J. (1914); S. v. McC. (Orse S.) and M (D.S. Intervene); W v. W [1972] A.C. 24, 43, per Lord Reid; and Sidaway v. Board of Governors of the Bethlem Royal Hospital and the Maudsley Hospital [1985] AC 871, 882, per Lord Scarman 12 Airedale N.H.S. Trust v. Bland cit., p. 10 13 La Supreme Judicial Court of Massachusetts in Superintendent of Belchertown State School v. Saikewicz (1977) 370 N.E. 2d. 417, 428, Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o In t e r n a z i o n a l e Ciò posto, la successiva questione che si pone è se cessare tali trattamenti possa essere considerato un atto di eutanasia o meno14. La Corte Suprema degli Stati Uniti15 ha affermato: “Noi riteniamo che la distinzione tra il suicidio assistito e la cessazione del trattamento di sostegno vitale, una distinzione ampiamente riconosciuta e sostenuta dalla professione medica16 e nella nostra tradizione giuridica, sia importante e logica; essa è certamente razionale. Primo, quando un paziente rifiuti un trattamento medico di sostegno vitale, egli muore a causa della malattia fatale o della patologia di cui soffre; ma se un paziente ingerisce farmaci letali prescritti dal medico, egli è ucciso dal medicinale17. Inoltre, un medico che interrompa, o rispetti il rifiuto del paziente di iniziare un trattamento medico di sostegno vitale, intende rispettare il desiderio del paziente e cessare inutili, infruttuosi o degradanti cure al paziente quando questi non ne tragga più beneficio”18 . 14 15 16 17 18 ha affermato: “Presumere che la persona incapace debba essere sempre soggetta a ciò che molte persone razionali ed capaci possono rifiutare significa degradare lo status della persona incapace riconoscendogli una vitalità e un intrinseco valore umano inferiore” La Corte irlandese distingue tra eutanasia, che deriva dal compimento di un atto positive che determina la cessazione della vita, dall’interruzione di trattamenti medici invasive per permettere alla natura di seguire il proprio corso Vacco, Attorney General of New York v. Quill, 117 S.Ct. 2293, 138 L.Ed.2d (1997) – relatore Chief Justice Renhquist L’American Medical Association sottolinea la fondamentale differenza tra il rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale e la richiesta di eutanasia (life ending treatment) American Medical Association, Council on Ethical and Judicial Affairs, Physician Assisted Suicide, 10 Issues in Law & Medicine 91, 93 (1994). Vedi anche American Medical Association, Council on Ethical and Judicial Affairs, Decisions Near the End of Life, 267 JAMA 2229, 2230-2231, 2233 (1992) (“La cessazione o il ritiro del trattamento di sostegno vitale non è di per sè contrario ai principi di beneficio e non danneggiamento ma il suicidio assistito è contrario alla proibizione di uso degli strumenti della medicina per causare la morte del paziente); New York State Task Force on Life and the Law, When Death is Sought: Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context 108 (1994) (“[Le associazioni professionali] distinguono costantemente il suicidio assistito e l’eutanasia dal ritiro o dalla cessazione di trattamenti di sostegno vitale e dalla previsioni di trattamenti palliativi o altri cure mediche con possibili effetti collaterali letali”); Brief for the American Medical Association et al. as Amici Curiae 18-25. New York Task Force, When Death is Sought, supra, at 104-109. Council on Ethical and Judicial Affairs, Physician Assisted Suicide, 10 Issues in Law & Medicine 91, 92 (1994) (“Quando un trattamento di sostegno vitale viene meo, il paziente muore innanzitutto per la patologia sottostante”) People v. Kevorkian, 447 Mich. 436, 470-472, 527 N. W. 2d 714, 728 (1994), cert. denied, 514 U.S. 1083 (1995); Matter of Conroy, 98 N. J. 321, 355, 486 A. 2d 1209, 1226 (1985) (quando un sondino di alimentazione è rimosso, la morte è provocata dalle sottostanti condizioni mediche del paziente); In re Colyer, 99 Wash. 2d 114, 123, 660 P. 2d 738, 743 (1983) (“La morte che si verifica dopo la rimozione dei sistemi di sostegno vitale è per cause naturali”) I diversi Stati, negli Stati Uniti, hanno regolamentato la questione, vietando l’eutanasia ma riconoscendo al paziente il diritto di rifiutare le terapie. In caso di paziente in stato di incoscienza sono riconosciuti i poteri ad un suo rappresentante, generalmente, i parenti più stretti. Act of Aug. 7, 1987, ch. 818, §1, 1987 N. Y. Laws 3140 (“Do Not Resuscitate Orders”) (codificato come emendamento al N. Y. 136 La Camera dei Lords sul punto ha affermato: “I trattamenti medici possono essere forniti per molti differenti scopi. Possono essere forniti, per esempio, come ausilio alla diagnosi; per il trattamento di ferite fisiche o psichiche o malattie; per alleviare dolore o pene; o per rendere le condizioni del paziente più tollerabili. Tali scopi possono comportare il prolungamento della vita del paziente, per esempio per farlo sopravvivere nel periodo della diagnosi e del trattamento. Ma a mio avviso, non ritengo che il trattamento medico sia appropriato o dovuto solo per prolungare la vita del paziente, quando tale trattamento non abbia alcuna utilità terapeutica o sia infruttuoso come quando il paziente sia incosciente e non ci sia alcuna prospettiva di miglioramento nelle sue condizioni. È ragionevole anche che sia necessario tener conto dell'invasività del trattamento e dell'indegnità alla quale, come nel presente caso, una persona sia assoggettata se la sua vita è prolungata attraverso mezzi artificiali, che deve causare un grave disagio alla sua famiglia un disagio che riflette non Pub. Health Law §§2960-2979 (McKinney 1994 and Supp. 1997)); Act of July 22, 1990, ch. 752, §2, 1990 N. Y. Laws 3547 (“Health Care Agents and Proxies”) (codificato come emendamento al N. Y. Pub. Health Law §§2980-2994 (McKinney 1994 and Supp. 1997)). Ciò facendo, comunque, lo Stato non ha sostenuto il diritto alla “morte rapida” né approvato i medici che assistano al suicidio. Anzi l’opposto: lo Stato ha riaffermato la distinzione tra “uccidere” e “lasciar morire” Cfr. N. Y. Pub. Health Law §2989(3) (McKinney 1994) (“Questo articolo non intende permettere o promuovere il suicidio, il suicidio assistito o l’eutanasia”); New York State Task Force on Life and the Law, Life Sustaining Treatment: Making Decisions and Appointing a Health Care Agent 36-42 (July 1987); Do Not Resuscitate Orders: The Proposed Legislation and Report of the New York State Task Force on Life and the Law 15 (Apr. 1986). Più di recetnte la New York State Task Force on Life and the Law ha studiato il suicidio assistito e l’eutanasia e nel 1994 si è unanimemente raccomandata contro la loro legalizzazione.. When Death is Sought: Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context vii (1994). Secondo la Task Force, “consentire la decisione di interrompre i trattamenti di sostegno vitale o consentire il suicidio assistito o l’eutanasia ha conseguenze e significato completamente diverso nella politica pubblica” Id., at 146. La Corte Suprema degli SS.UU. ha anche riconosciuto la distinzione tra il lasciar morire un paziente ed il far morire un paziente. In Cruzan v. Director, Mo. Dept. of Health, 497 U.S. 261, 278 (1990), la Corte concluse che “il principio che una persona capace ha il diritto costituzionalmente protetto di rifiutare un trattamento medico non voluto può essere rilevato dai precedenti di questa stessa Corte”. L’affermazione della Corte di basa non sul presupposto che il paziente abbia diritto ad una morte rapida, come ritenuto dalla Corte d’Appello, 80 F. 3d, at 727-728, ma sulla base del consolidato e tradizionale diritto all’integrità del proprio corpo ed alla libertà di non essere toccati. Cruzan, 497 U. S., at 278-279; id., at 287-288 (O’ Connor, J., concurring). Infatti, la Corte ha osservato che “la maggioranza degli Stati in questo Paese ha leggi che sanzionano penalmente chi assista un altro mentre si suicida.” Id., at 280. Cruzan quindi non dà conforto all’idea che il rifiuto del trattamento di sostegno vitale sia né più né meno che un suicidio. Per tutte queste ragioni la Corte non è d’accordo con la pretesa dell’appellato che la distinzione tra il rifiutare i trattamenti medici di sostegno vitale ed il suicidio assistito sia “arbitraria” ed “irrazionale”. Il disegno di legge in discussione in queste settimane nel Parlamento italiano appare muoversi in direzione del tutto opposta rispetto a quella delle normative in materia già in approvate negli altri Paesi. Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE soltanto i loro sentimenti ma la loro percezione della situazione del loro parente che è tenuto in vita. Ma in conclusione, in un caso come quello presente, è l'infruttuosità del trattamento che giustifica la sua cessazione. Io non considero che, in circostanze come queste, un medico sia tenuto ad iniziare o continuare un trattamento di sostegno vitale nel miglior interesse19 del suo paziente… le cui condizioni sono quelle di una morte vivente, e per la quale tali trattamenti sarebbero, in termini medici, infruttuosi. Nel presente caso, si è proposto che i medici siano abilitati a non continuare sia l'alimentazione artificiale di Anthony, sia l'uso di antibiotici. E' evidente dalle prove che Anthony, nella sua attuale condizione, è incline alle infezioni e che, entro un periodo di tempo incerto ma non molto lungo, egli soccomberà all'infezione che, se incontrollata, si diffonderà causando la sua morte. Ma l'effetto di non continuare l'alimentazione artificiale sarà quello che egli inevitabilmente morirà entro una o due settimane. Obiezioni possono essere sollevate su quest'ultima fase, sulla base del fatto che Anthony morirà quindi di fame e ciò costituirebbe un violazione dell'obbligo di nutrirlo che forma parte essenziale dei doveri di cura e assistenza che ogni persona ha nei confronti di colui che sta assistendo. Ma qui di nuovo è necessario analizzare precisamente cosa significa ciò nel caso di Anthony. Anthony non è soltanto incapace di nutrire se stesso. Egli è incapace di ingoiare e quindi di mangiare o bere nel senso normale delle parole. Vi sono abbondanti prove che, secondo la professione medica, l'alimentazione artificiale è una forma di trattamento medico; e anche se non fosse un trattamento strettamente medico, esso fa parte della cura medica di un paziente. Infatti, la funzione dell'alimentazione artificiale nel caso di Anthony, attraverso un sondino naso-gastrico, è di fornire una forma di supporto vitale analogo a quello fornito da un ventilatore che artificialmente immette e emette aria dai polmoni di un paziente incapace di respirare normalmente, così da consentire all'ossigeno di raggiungere il flusso sanguigno. Gli stessi principi devono applicarsi in entrambi i casi quando la questione sia se il medico curante possa legittimamente sospendere il trattamento di sostegno vitale o le cure: e se in entrambi i casi il trattamento è infruttuoso nel senso sopra descritto, può propriamente concludersi che non sia più nel miglior interesse del paziente continuare. E' vero che, 19 Suzanne Ost, Blinking Subjects; Blinking Justice? – Law, Medicine and the PVS Patient, in Liverpool Law Review Vo. 23, 1, 2001: L’applicazione del best interests test nei casi PVS comporta l’adozione di un approccio paternalistico ed oggettivo che manca di rispetto nei confronti dell’individuo capace che una volta era il paziente in PVS. Se invece fosse adottato il test del giudizio sostitutivo, il principio dell’autonomia dell’individuo diventerebbe centrale nel decidere se il trattamento debba essere interrotto o meno. L’applicazione di tale test, inoltre, permetterebbe di continuare a considerare il paziente in PVS come persona. 2 0 0 9 137 nel caso di interruzione dell'alimentazione artificiale, può essere detto che il paziente morirà, in conseguenza, di fame; e ciò può portare ai nostri occhi la visione di una comune persona che lentamente muoia di fame, soffrendo tutte le pene e i disagi associati con quella morte. Ma qui l'istruttoria ha chiarito che tali pene o disagi non saranno sofferti da Anthony, che non può sentire nulla. Inoltre, ci è stato detto che i sintomi esterni di tale tipo di morte, che possono essere fonte di disagio per le infermiere che si prendono cura di lui o per i membri della sua famiglia che lo visitino, possono essere eliminati attraverso l’uso di sedativi. In presenza di tali circostanze, non vedo motivi, nel presente caso, per modificare quanto disposto solo perché il corso delle azioni proposte comporti l'interruzione dell'alimentazione artificiale”. La Corte Suprema irlandese20 ha affermato che i benefici per il paziente di sostenere la sua vita attraverso i mezzi di nutrizione artificiale siano di gran lunga superato dal peso che una vita così sostenuta senza assolutamente alcuna prospettiva di miglioramento delle condizioni del paziente e che, per tale motivo, fosse nel miglior interesse del paziente che l’alimentazione artificiale, sia attraverso un sondino naso-gastrico, sia attraverso un sondino gastrostomico, fosse interrotta, così cessando il prolungamento artificiale senza scopo della vita permettendo alla paziente di morire secondo natura con tutte le cure ed i farmaci palliativi necessari per assicurare una morte pacifica e senza dolore. La sentenza della Corte Suprema irlandese è di particolare interesse comparativistico giacché l’Irlanda è una repubblica con una costituzione scritta e di estremo fervore religioso21. Affermano i giudici irlandesi che il diritto alla vita sia uno dei diritti fondamentali che sotto la Costituzione lo Stato garantisce di rispettare nelle sue leggi e, così come possibile, difendere, sostenere e proteggere al meglio da ogni attacco ingiusto. La santità della vita umana è riconosciuta in tutti gli ordinamenti civili ed è fondata sulla natura dell’uomo22. La Costituzione irlandese, proseguono i supremi giudici di Dublino, riconosce questo diritto e ne garantisce la protezione. La Corte ha affermato che il diritto alla vita sprigiona dal diritto di ciascun individuo a vivere. 20 Cit. 21 È noto che in Irlanda i cattolici praticanti siano oltre il 90% della popolazione e che, ad esempio, l’aborto sia vietato. Quinn’s Supermarket v. Attorney General [1972] I.R. 1, at p. 23, the Constitution reflects a firm conviction that we are religious people. 22 House of Lords cit.: il principio fondamentale è il principio della santità della vita umana. Un principio riconosciuto non solo nella nostra società ma anche nella maggior parte, se non in tutte le società civilizzate del mondo moderno, come evidenziato dal suo riconoscimento sia nell’art. 2 della Convenzione Europea dei diritti umani, sia nell’art. 6 della Convenzione internazionale dei diritti civili e politici – adottata dall’Assemblea Generale della Nazioni Unite il 16.12.1966 ed entrata in vigore il 23.3.1976. Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o In t e r n a z i o n a l e La natura del diritto alla vita e la sua importanza impongono una forte presunzione in favore di tutte quelle misure in grado di preservarla, salvo casi eccezionali. Il problema, dunque, è definire tali circostanze. La loro definizione – secondo la Suprema Corte irlandese – deve necessariamente involgere la determinazione della natura del diritto alla vita riconosciuto dalla Costituzione23. Il diritto alla vita necessariamente implica il diritto a nascere, il diritto a preservare e difendere quella vita, e il diritto di mantenere quella vita a livelli propri di umanità in materia di cibo, di vestiario e di abitazione. Deve riconoscersi che il diritto alla vita necessariamente implica una serie di diritti ancillari che non sono individualmente o specificamente dichiarati nella Costituzione, ma questi diritti naturali trovano la loro fonte nel diritto naturale di ciascun individuo alla vita. Questi diritti includono il diritto di vivere una vita nel suo senso più pieno, di godere del sostegno e del conforto della famiglia, di contatti sociali, di educazione, di praticare la propria religione, di lavorare, di sposarsi e diventare genitore. Includono il diritto alla riservatezza, all’integrità del corpo e all’autodeterminazione. Come il morire è parte e ultima, inevitabile, conseguenza della vita, il diritto alla vita necessariamente implica il diritto che la natura segua il suo corso e di morire una morte naturale e, se questo è il desiderio dell’individuo, implica il diritto che la vita non sia mantenuta artificialmente dal nutrimento attraverso strumenti artificiali, che non abbiano effetto terapeutico e che siano intesi meramente a prolungare la vita. La 23 G. v. An Bord Uchtála [1980] I.R. 32 138 Costituzione irlandese riconosce il diritto all’integrità personale ed alla riservatezza 24. Un interessante passaggio della sentenza tratta del credo religioso della paziente e dei suoi familiari. Ma afferma la Corte: “Questa è una corte di giustizia e la Costituzione e le leggi devono essere applicate, non le norme morali”. È possibile trarre dalle pronunce sopra riportate i principi comuni che le hanno ispirate. Tutti i giudici che sono stati chiamati a decidere casi così delicati hanno ritenuto, allo stato delle conoscenze mediche, che lo stato vegetativo permanente fosse uno stato senza possibilità di recupero per il paziente; che la nutrizione e l’idratazione artificiale fosse un trattamento medico invasivo; che i pazienti capaci di intendere possano rifiutare i trattamenti medici; che uguale diritto spetta a coloro che non sono coscienti. In questo caso, a seconda delle differenti norme applicabili, i giudici hanno affermato che l’onere di esprimere la volontà del paziente spetti alla Corte, quale parens patriae25 ovvero dal tutore26. In buona sostanza, le conclusioni cui sono giunti la Corte d’Appello di Milano e la S. Corte di Cassazione si allineano alla giurisprudenza internazionale in materia. 24 Art. 40, c. 3 della Costituzione irlandese: Ryan v. A.G. [1965] I.R. 294, p. 313.; Kennedy v. Ireland [1987] I.R. 587, p.592: Benché non espressamente garantito dalla costituzione, il diritto di riservatezza è uno dei fondamentali diritti del cittadino che deriva dalla natura Cristiana e democratica dello Stato. Il suo esercizio può essere ridotto solo dal diritto costituzionale di terzi, dalle necessità del bene comune ed è soggetto ai principi di ordine pubblico e della morale 25 [1995] IESC 1, [1995] 2 ILRM 401, [1996] 2 IR 73, p. 29 26 MC, Re [2003] QGAAT13, 49 cit. Gazzetta F O R E N S E ● 2 0 0 9 139 SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE (Terza Sezione) – 26 marzo 2009 Osservatorio di giurisprudenza internazionale ● A cura di Francesco Romanelli M a r z o • a p r i l e Avvocato e Specialista in Diritto ed Economia dell’Unione Europea «Inadempimento di uno Stato – Artt. 43 CE e 56 CE – Statuti di imprese privatizzate – Criteri di esercizio di taluni poteri speciali detenuti dallo Stato» Nella causa C‑326/07, avente ad oggetto il ricorso per inadempimento, ai sensi dell’art. 226 CE, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana, Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e statuisce: 1) La Repubblica italiana, avendo adottato le disposizioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 giugno 2004, recante definizione dei criteri di esercizio dei poteri speciali, di cui all’art. 2 del decreto legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modifiche, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti: – in forza degli artt. 43 CE e 56 CE, nella misura in cui dette disposizioni si applicano ai poteri speciali previsti dall’art. 2, comma 1, lett. a) e b), del predetto decreto legge, come modificato dalla legge 24 dicembre 2003, n. 350, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004), e – in forza dell’art. 43 CE, nella misura in cui dette disposizioni si applicano al potere speciale previsto dal citato art. 2, comma 1, lett. c). 2) La Repubblica italiana è condannata alle spese. La Corte si è pronunciata sulla legittimità della cosiddetta “golden share” che il governo italiano si era riservato in occasione della privatizzazione delle imprese già a partecipazione o controllo pubblico operanti nel settore della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di energia, e degli altri pubblici servizi. In particolare il governo italiano aveva riservato a sé i seguenti poteri: opposizione all’assunzione da parte di investitori di partecipazioni rilevanti che rappresentino almeno il 5% dei diritti di voto o la percentuale minore fissata dal Ministro dell’Economia e delle Finanze con decreto. b) opposizione alla conclusione di patti o accordi tra azionisti che rappresentino almeno il 5% dei diritti di voto o la percentuale minore fissata dal Ministro dell’Economia e delle Finanze con decreto. c) veto all’adozione delle delibere di scioglimento delle società, di trasferimento dell’azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all’estero, di cambiamento dell’oggetto sociale, di modifica dello statuto che sopprimono o modificano i poteri speciali. d) nomina di un amministratore senza diritto di voto. Tali poteri potevano essere esercitati esclusivamente ove fossero ricorsi rilevanti e imprescindibili motivi di interesse generale, in particolare con riferimento all’ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, alla sanità pubblica e alla difesa, in forma e misura idonee e proporzionali alla tutela di detti interessi, anche mediante Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o In t e r n a z i o n a l e l’eventuale previsione di opportuni limiti temporali, fermo restando il rispetto dei principi dell’ordinamento interno e comunitario, e tra questi in primo luogo del principio di non discriminazione. Si prevedeva, inoltre, che detti poteri speciali fossero esercitati in relazione al verificarsi delle seguenti circostanze: a) grave ed effettivo pericolo di una carenza di approvvigionamento nazionale minimo di prodotti petroliferi ed energetici, nonché di erogazione dei servizi connessi e conseguenti e, in generale, di materie prime e di beni essenziali alla collettività, nonché di un livello minimo di servizi di telecomunicazione e di trasporto; b) grave ed effettivo pericolo in merito alla continuità di svolgimento degli obblighi verso la collettività nell’ambito dell’esercizio di un servizio pubblico, nonché al perseguimento della missione affidata alla società nel campo delle finalità di interesse pubblico; c) grave ed effettivo pericolo per la sicurezza degli impianti e delle reti nei pubblici servizi essenziali; d) grave ed effettivo pericolo per la difesa nazionale, la sicurezza militare, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica; e) emergenze sanitarie». La Corte ha rilevato che, sebbene i criteri in esame riguardino diversi tipi di interessi generali, essi sono formulati in modo generico ed impreciso. Inoltre, l’assenza di un nesso tra tali criteri e i poteri speciali ai quali si riferiscono accentua l’incertezza in ordine alle circostanze in cui i medesimi possono essere esercitati e conferisce un carattere discrezionale a detti poteri tenuto conto del potere discrezionale di cui dispongono le autorità nazionali per il loro esercizio. Un siffatto potere discrezionale è sproporzionato rispetto agli obiettivi perseguiti. SENTENZA DELLA CORTE (Quarta Sezione) – 2 aprile 2009 «Direttiva 89/105/CEE – Trasparenza delle misure che regolano la fissazione dei prezzi delle specialità per uso umano – Art. 4 – Blocco dei prezzi – Riduzione dei prezzi» Nei procedimenti riuniti da C‑352/07 a C‑356/07, da C‑365/07 a C‑367/07 e C‑400/07, aventi ad oggetto le domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con decisioni 14 febbraio, 28 marzo e 26 aprile 2007, pervenute alla Corte il 31 luglio, il 2 e il 29 agosto 2007, nella cause A. Menarini Industrie Farmaceutiche Riunite Srl e altri (C‑352/07) contro Ministero della Salute, Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), e nei confronti di: Sanofi Aventis SpA, Sanofi Aventis SpA (C‑353/07) contro Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), IFB Stroder Srl (C‑354/07) contro Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), Schering Plough SpA (C‑355/07) contro Agenzia Italiana del Farmaco 140 (AIFA), e nei confronti di: Baxter SpA, Bayer SpA (C‑356/07) contro Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), Ministero della Salute, Simesa SpA (C‑365/07) contro Ministero della Salute, Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), e nei confronti di: Merck Sharp & Dohme (Italia) SpA, Abbott SpA (C‑366/07) contro Ministero della Salute, Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), Baxter SpA (C‑367/07) contro Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), e nei confronti di: Merck Sharp & Dohme (Italia) SpA, e SALF SpA (C‑400/07) contro Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), Ministero della Salute, LA CORTE (Quarta Sezione), Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara: 1) L’art. 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/105/CEE, riguardante la trasparenza delle misure che regolano la fissazione dei prezzi delle specialità per uso umano e la loro inclusione nei regimi nazionali di assicurazione malattia, deve essere interpretato nel senso che, sempreché le condizioni poste da tale disposizione siano rispettate, le autorità competenti di uno Stato membro possono adottare misure di portata generale consistenti nella riduzione dei prezzi di tutte le specialità medicinali o di certe loro categorie, anche qualora l’adozione di simili misure non sia preceduta da un blocco di tali prezzi. 2) L’art. 4, n. 1, della direttiva 89/105 deve essere interpretato nel senso che, sempreché le condizioni poste da tale disposizione siano rispettate, possono essere adottate misure di riduzione dei prezzi di tutte le specialità medicinali o di certe loro categorie più volte nel corso di un unico anno e nel ripetersi di molti anni. 3) L’art. 4, n. 1, della direttiva 89/105 deve essere interpretato nel senso che non osta a che misure di controllo dei prezzi di tutte le specialità medicinali o di certe loro categorie siano adottate sulla base di stime di spesa, sempreché le condizioni poste da tale disposizione siano rispettate e tali stime si fondino su elementi obiettivi e verificabili. 4) L’art. 4, n. 1, della direttiva 89/105 deve essere interpretato nel senso che spetta agli Stati membri determinare, nel rispetto dell’obiettivo di trasparenza perseguito da tale direttiva nonché delle prescrizioni della suddetta disposizione, i criteri in base ai quali deve essere effettuata la verifica delle condizioni macroeconomiche di cui alla disposizione stessa e che tali criteri possono consistere nella spesa farmaceutica esclusivamente, nel complesso delle spese sanitarie ovvero in altri tipi di spesa. 5) L’art. 4, n. 2, della direttiva 89/105 deve essere interpretato nel senso che: • gli Stati membri devono prevedere comunque la possibilità, per un’impresa interessata da una misura di blocco o di riduzione dei prezzi di tutte le specialità medicinali o di certe loro categorie, di chiedere una deroga al prezzo imposto in forza di tali misure; • essi sono tenuti ad assicurare che sia adottata una Gazzetta F O R E N S E M ARZO • APRILE decisione motivata in merito ad un ogni richiesta di questo tipo, e • la partecipazione concreta dell’impresa interessata consiste, da un lato, nella presentazione di un esposto sufficiente dei motivi particolari che giustificano la sua richiesta di deroga e, dall’altro, nella trasmissione di informazioni particolareggiate supplementari nel caso in cui le informazioni fornite a sostegno di tale richiesta siano insufficienti. Le ricorrenti nelle cause principali commercializzano specialità medicinali i cui costi sono interamente a carico del SSN. Nel corso degli anni 2005 e 2006 l’AIFA, sul fondamento dell’art. 48, primo e quinto comma, del decreto legge n. 269/2003, ha adottato misure di riduzione dei prezzi delle specialità medicinali a carico del SSN allo scopo di garantire il rispetto del tetto di spesa fissato al predetto primo comma. Dalle decisioni di rinvio emerge che le misure di cui è causa sono state adottate in base ad uno sforamento prevedibile e non effettivo di tale tetto. Il giudice a quo, nutrendo dubbi in merito alla conformità del sistema di fissazione dei prezzi delle specialità medicinali quale risulta dalla normativa oggetto delle cause principali con le prescrizioni della direttiva 89/105, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se l’interpretazione dell’[art. 4, n. 1, della direttiva 89/105], nella parte che si riferisce alle “eventuali diminuzioni di prezzo”, [sia] da ritenere nel senso che, oltre al rimedio generale costituito dal blocco dei prezzi di tutte o di certe categorie di specialità medicinali, sia previsto, o meno, anche un altro rimedio generale, costituito dalla possibilità di una riduzione dei prezzi di tutte [o] di certe categorie di specialità medicinali, ovvero se l’inciso “eventuali diminuzioni” [debba] essere riferito esclusivamente alle specialità medicinali già sottoposte al blocco dei prezzi. 2) Se l’art. 4, n. 1, della direttiva [89/105] – nella parte in cui impone alle autorità competenti di uno Stato membro di verificare, almeno una volta all’anno, nel caso di blocco dei prezzi, se le condizioni macroeconomiche giustizi[chino] la prosecuzione del blocco medesimo – [possa] essere interpretato nel senso che, ammessa la riduzione dei prezzi come risposta al quesito numero 1, [sia] possibile il ricorso a tale misura anche più volte nel corso di un unico anno e nel ripetersi di molti anni (a partire dal 2002 e fino al 2010). 3) Se, ai sensi di (…) [tale art.] 4 (…) – da leggere alla luce [dei ‘considerando’ della direttiva 89/105] che si soffermano sullo scopo principale delle misure di controllo dei prezzi delle specialità medicinali individuat[o] nella “promozione della salute pubblica attraverso un’adeguata disponibilità di specialità medicinali a prezzi ragionevoli e [ne]ll’esigenza di evitare disparità di misure che possano ostacolare o falsare il 2 0 0 9 141 commercio intracomunitario di dette specialità” – possa ritenersi compatibile con la disciplina comunitaria l’adozione di misure che facciano riferimento ai valori economici della spesa solo “stimati” anziché “accertati” (il quesito riguarda entrambe le fattispecie). 4) Se le esigenze connesse al rispetto dei tetti di spesa farmaceutica che ogni Stato membro è competente a determinarsi debbano essere collegat[e] puntualmente alla sola spesa farmaceutica, oppure se possa ritenersi rientrante nella sfera di potestà degli Stati nazionali la facoltà discrezionale di tener comunque conto anche dei dati relativi alle altre spese sanitarie. 5) Se i principi di trasparenza e partecipazione delle imprese interessate ai provvedimenti di blocco o riduzione generalizzata dei prezzi dei farmaci, desumibili dalla direttiva [89/105], debbano essere interpretati nel senso che sia necessario prevedere sempre e comunque una possibilità di deroga al prezzo imposto (art. 4, [n. 2], della direttiva [89/105]) ed una partecipazione concreta dell’impresa richiedente, con conseguente necessità per l’amministrazione di motivare l’eventuale diniego». La Corte ha statuito circa la legittimità della normativa nazionale con la precisazione che è necessario prevedere la possibilità di chiedere una deroga alla fissazione dei prezzi da parte delle imprese che documentino l’esistenza di particolari motivi che giustifichino l’adozione di un provvedimento in relazione ad un determinato prodotto. CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO (V sezione) – Sentenza del 5.3.2009 nella causa BARRACO – France (No 31684/05) Presunta violazione dell’art. 11 della Convenzione – Libertà di pacifica riunione – Blocco della circolazione su un’autostrada provocata da veicoli pesanti nell’ambito dell’operazione “lumaca” In fatto: il ricorrente esercita la professione di camionista. Nel 2002, diciassette automobilisti, tra cui il ricorrente, organizzarono un’operazione chiamata “lumaca” su un’autostrada. L’operazione consisteva nel circolare su un tratto determinato in corteo, a velocità ridotta e occupando più corsie in modo da rallentare la circolazione degli altri autoveicoli. Alcuni poliziotti constatarono che tre veicoli in testa al corteo erano stati fermati e impedivano completamente l’uso della strada e provvidero ad interrogarne i conducenti, tra cui il ricorrente. Gli interessati furono citati a comparire davanti al Tribunale, per aver, al fine di bloccare la circolazione, parcheggiato o tentato di parcheggiare su una strada aperta alla circolazione, un mezzo costituente ostacolo al passaggio di veicoli, o impiegato o tentato di impiegare un mezzo qualunque per creare ostacolo e nella specie per essersi arrestato più volte con il proprio Gazzetta F O R E N S E D i r i t t o In t e r n a z i o n a l e veicolo. Il Tribunale li assolse ma, sull’appello del pubblico ministero, la Corte d’Appello modificando la decisione, dichiarò gli imputati colpevoli dei reati ascritti, condannando ciascuno a tre mesi di prigione ed al pagamento di 1.500 euro di multa. La Corte di Cassazione rigettò il ricorso. La Corte Europea rigetta il ricorso. La Corte ha ritenuto che la condanna del ricorrente non abbia riguardato la sua partecipazione ad una mani- 142 festazione in quanto tale ma in ragione dello specifico comportamento tenuto nel corso della manifestazione stessa, cioè il blocco dell’autostrada. Ha ritenuto la Corte che l’ostruzione totale del traffico vada al di là del mero disagio causato da ogni manifestazione sulla pubblica strada. Il ricorrente ha potuto esercitare, per svariate ore, il proprio diritto alla libertà di riunione pacifica e le autorità hanno tenuto la tolleranza necessaria che conviene adottare durante tali raduni. In conseguenza, la condanna penale non appare sproporzionata ai fini perseguiti. questioni A cura di Corrado d’Ambrosio DIRITTO CIVILE Locazione 145 di Luca Bavoso Avvocato PROCEDURA PENALE Esercizio dell’azione penale 146 di Andrea Alberico Dottorando di ricerca in Diritto Penale, Università di Napoli “Federico II” DIRITTO AMMINISTRATIVO Autorizzazione commerciale e condono edilizio di Alessandro Barbieri Avvocato 148 Gazzetta F O R E N S E ● DIRITTO CIVILE Locazione Se il contratto di locazione non registrato sia radicalmente nullo o inefficace sino alla registrazione ● Luca Bavoso Avvocato La legge n. 311 del 30.12.2004, meglio nota come Finanziaria 2005, ha introdotto importanti modifiche alla disciplina delle locazioni, dirette principalmente a limitare il fenomeno dell’evasione fiscale relativa ai redditi percepiti “in nero” dalla locazione di immobili. In particolare l’articolo 1, comma 346, della Finanziaria 2005 dispone che “I contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati”. Secondo la norma in esame, l’obbligo di registrazione riguarda i contratti diretti alla locazione di unità immobiliari o di loro porzioni, stipulati in qualsiasi forma (per atto pubblico, per scrittura privata, autenticata o meno, o verbali) ed i contratti di comodato di unità immobiliari o di loro porzioni, prescindendo dalla locuzione nominalistica attribuita al contratto dalle parti ed avendo riguardo agli effetti giuridici che dai medesimi scaturiscono. Dovrebbero, invece, essere esclusi dalla disciplina in parola, i contratti costitutivi di diritti reali di godimento (la norma non menziona diritti reali, bensì relativi), i contratti aventi ad oggetto terreni, posto c he l’a r t . 1 c om m a 3 4 6 L . n. 311/2004 parla di “unità immobiliare”, nonché i contratti di affit- M ARZO • APRILE 2 0 0 9 to, infatti difficilmente si potrebbe conciliare detta nozione con quella di “cosa produttiva”, a norma dell’articolo 1615 c.c.. Occorre poi evidenziare che, analizzando la formulazione del comma in esame, emerge che la sanzione della nullità è prevista qualora il relativo contratto non venga registrato, ricorrendone i presupposti. Appare utile, pertanto, stabilire quando ricorrano tali presupposti. Sul punto, l’art. 2 , D.P.R. 26.04.1986 n. 131, rubricato “Atti soggetti a registrazione”, prevede la registrazione per: - i contratti indicati nella tariffa allegata al medesimo D.P.R. 26.04.1986 n. 131, se formati per iscritto nel territorio dello Stato Italiano; - i contratti verbali indicati nell’articolo 3 comma 1 (contratti di locazione o affitto di beni immobili esistenti nel territorio dello Stato e relative cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite); - gli atti formati all’estero che hanno per oggetto la locazione di beni immobili. Dalla disciplina sulla nullità introdotta con la “Finanziaria 2005”, vanno pertanto esclusi anche quei contratti di locazione di durata annua non superiore ai 30 giorni, non essendo soggetti a registrazione ai sensi dell’art. 2 bis, parte 2, della tariffa allegata al D.P.R. 26.04.1986 n. 131. Per comprendere appieno la portata della previsione contenuta nel comma 346 dell’articolo 1, L. 30.12.2004, n. 311, occorre analizzare preliminarmente il quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale ad essa previgente. La legge 09.12.1998, n. 431, oltre a rendere obbligatoria, all’art. 1, la forma scritta per i contratti di locazione, pena la loro nullità, elevava, al fine di limitare il fenomeno dell’evasione fiscale, l’adempimento della registrazione a requisito necessario per la piena validità del relativo contratto. Infatti la citata legge all’art. 13, dispone che “è nulla ogni pattuizione volta a determi- 145 nare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato”, aggiungendo, all’art. 7, che “condizione per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile locato è la dimostrazione che il contratto di locazione è stato registrato”. Tali gravi conseguenze, derivanti dalla mancata registrazione del contratto, sono state gradualmente limitate ed annullate dalla giurisprudenza. In particolare, da un lato la Corte Costituzionale, esprimendosi sull’articolo 7 della legge 9.12.1998, n. 431 (cfr. sent. n. 333 del 5. 10.2001), ne dichiarava l’illegittimità costituzionale nella misura in cui un onere di tipo tributario condizionava l’esercizio di un diritto fondamentale, quale quello di difesa ex art. 24 Cost. Parimenti la Cassazione ebbe modo di specificare come il contratto di locazione validamente posto in essere e non registrato fosse un contratto vincolante per le parti, che poteva essere fatto valere in giudizio (cfr. ex plurimis Cassazione Civile, Sez. III, sent. n. 16089/2003). L’omessa registrazione dei contratti di locazione, pertanto, non comportava sul piano civilistico, ai sensi della previgente disciplina, alcuna inefficacia. Alla luce di tali considerazioni, appare evidente come l’introduzione dell’articolo 1, comma 346, della Finanziaria 2005, abbia immediatamente suscitato un vivace dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, in relazione alla qualifica di nullità del contratto di locazione per omessa registrazione ed ai possibili effetti giuridici da essa scaturenti. Secondo l’interpretazione della norma più rigorosa (Scarpa, Finanziaria 2005, la nullità delle locazioni non registrate, in Immobili & Dir., 2005), la perentorietà del tenore letterario e la specificità del termine utilizzato non lascerebbe spazio alcuno a dubbi, si tratterebbe di nullità in senso stretto, con quello che giuridicamente ne consegue. In particolare il contratto di locazione non registrato, secondo la normativa vigente, non produrrebbe effetti giuridici (quod nullum est, nullum producit effectum): il locatore ed il Gazzetta F O R E N S E conduttore non potrebbero pretendere alcuna prestazione inerente al contratto in questione. Per le prestazioni già effettuate, il conduttore potrebbe chiedere la restituzione di quanto indebitamente versato ed il locatore potrebbe tentare di ottenere la corresponsione di una somma a titolo di indennità, in base all’istituto dell’arricchimento senza causa, essendosi comunque attuata un’occupazione, sia pure sine titulo. Infine, nell’ottica di una nullità radicale, sarebbe altresì preclusa la possibilità di una sanatoria attraverso la registrazione tardiva del contratto. Altra parte della giurisprudenza (Trib. di Modena, 12.06.2006, in Giust. Civ. 2007; Trib. di Arezzo, 30.01.2007, in Redazione Giuffrè, 2007), considerando il suindicato orientamento della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, circa l’art. 13 della legge 9.12.1998, n. 431, ed estendendolo alla norma in esame, ritiene che il contratto di locazione non registrato rimarrebbe valido, ma soggetto ad una sorta di condizione sospensiva che lo renderebbe inefficace fino all’avvenuta registrazione, con valenza retroattiva (art. 1360 c.c.). Ciò consentirebbe di conservare parzialmente le ragioni delle parti, in virtù dell’ordinaria disciplina connessa alla condizione sospensiva, e di attutire la portata della norma che, diversamente interpretata, a molti apparirebbe “abnorme” (cfr. Cassazione Civile, Sez. III, sent. n. 16089/2003 nonché Corte Costituzionale ord. 19 luglio 2004, n. 242). A sostegno di tale interpretazione l’articolo 10, comma 3 ultima parte, L. 27.07.2000, n. 212 (meglio nota come Statuto del Contribuente) prevede testualmente che “Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”. Tali dubbi interpretativi hanno indotto per ben due volte i giudici di merito a sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma in oggetto di valutazione, in riferimento agli articoli 3, 24 e 41 della Costituzione. La Corte Costituzionale, con ordinanze di rigetto n. 420/2007 e 398/2008, ha, in primo luogo, chiarito come la norma esaminata, sancendo una nulli- 146 q u e s t i o n i tà non prevista dal codice civile, venga elevata dal rango di norma tributaria a quello di norma imperativa, la cui violazione determina la nullità del negozio ai sensi dell’art. 1418, comma 1 (“il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga altrimenti”). Viene pertanto ribadito il carattere sostanziale della norma denunciata, che non attenendo alla materia delle garanzie di tutela giurisdizionale, non introduce alcun ostacolo all’esercizio del diritto di difesa. Né viene leso il principio contenuto nell’art. 212 dello Statuto del Contribuente, il quale fa riferimento alle disposizioni di rilievo esclusivamente tributario, mentre la disposizione de qua, come si è visto, è da considerarsi norma sostanziale a carattere imperativo. Va infine segnalata una recente sentenza del Tribunale di Torre Annunziata (n. 1344/2008) la quale ha contribuito a portare chiarezza su alcune questioni non adeguatamente affrontate dal “Giudice delle Leggi”. In primo luogo il Giudice di merito chiarisce che l’orientamento giurisprudenziale formatosi intorno all’art. 13 legge 9.12.1998, n. 431, non è applicabile alla norma in questione, in quanto cozza chiaramente con il dato letterale della stessa, disattendendo la principale regola ermeneutica posta dal legislatore all’art. 12 delle preleggi al codice civile, ai sensi del quale “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore”. Più specificamente, in relazione al caso di specie, non può travisarsi il dato legislativo al fine di ricavare in via interpretativa proprio ciò che il legislatore ha inteso senza alcun dubbio escludere: la mera inefficacia del contratto, sanabile ex tunc. L’esegesi, pertanto, non può porre nel nulla il dato letterale ed è doveroso ritenere che il legislatore sia ricorso con coscienza e volontà alla categoria della nullità, ed abbia voluto ricollegare le relative conseguenze ad una situazione estranea all’accordo contrattuale, quale è la registrazione. In secondo luogo, il Tribunale di Torre Annunziata pone l’attenzione sull’ipotesi che si realizza qualora, in sede di stipulazione del contratto, interviene un accordo tra le parti al fine di pattuire un canone di importo superiore a quello risultante dal contratto registrato. In siffatta ipotesi va esclusa l’applicabilità dell’istituto della simulazione, come sostenuto da una parte della giurisprudenza (cfr. Cassazione Civile, Sez. III, sent. n. 16089/2003). Infatti, a seguito di quanto recentemente affermato dalla Corte Costituzionale, essendo la registrazione stata elevata al rango di norma imperativa, non è possibile ricorrere all’istituto de quo, giacché ex art. 1414, comma 2, c.c., il contratto dissimulato, per avere effetto, deve possedere i requisiti di sostanza e di forma del contratto diverso, id est della locazione. ● PROCEDURA PENALE Esercizio dell’azione penale Se il comma 1-bis dell’art. 405 c.p.p. comporti una sanzione di nullità ovvero di improcedibilità nel caso in cui il P.M. si risolva comunque ad esercitare l’azione penale anche dopo una pronuncia della Corte di Cassazione circa la insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ● Andrea Alberico Dottorando di ricerca in Diritto Penale, Università di Napoli “Federico II” Com’è noto, la Legge 20 febbraio 2006, n. 46, all’art. 3, ha introdotto nell’art. 405 c.p.p. un nuovo comma 1-bis, a norma del quale “Il pubblico ministero, al termine delle indagini, formula richiesta di archiviazione quan- Gazzetta F O R E N S E do la Corte di Cassazione si è pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell’art. 273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini”. Come si vede, la norma introduce una nuova ipotesi con cui il P.M. può richiedere l’archiviazione, ulteriore rispetto a quanto già previsto dall’art. 408 c.p.p., vincolando tale scelta dell’inquirente alla sussistenza di due requisiti necessariamente coesistenti: una pronuncia della Suprema Corte in merito all’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che la legge (art. 273 c.p.p.) richiede come presupposto dell’applicazione delle misure cautelari personali e l’assenza di nuovi elementi a carico dell’indagato, emersi evidentemente in un momento in cui fossero impossibili da valutare in sede di giudizio di legittimità. La formulazione della norma, però, è solo apparentemente semplice e scevra da implicazioni problematiche. Infatti, in primo luogo, viene da chiedersi cosa si intenda per pronuncia della Corte di Cassazione in ordine all’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Né è del pari chiaro se la norma postuli un obbligo in capo al Pubblico Ministero, ovvero una mera facoltà. Inoltre, ammettendo che la norma imponga un obbligo in capo al P.M., risulta oscura l’eventuale sanzione da applicare nel caso in cui si contravvenga tale obbligo. Come si vede, si tratta di problemi di non immediata soluzione, e rispetto ai quali è connessa una vicenda procedurale fondamentale come l’esercizio stesso dell’azione penale. In ordine alla prima delle prospettate questioni, si possono presentare nella pratica almeno due ipotesi incerte. Si consideri, in primo luogo, la circostanza in cui, dopo il rigetto, da parte del Tribunale del Riesame, della richiesta di irrogazione della misura cautelare, per insussistenza dei gravi indizi, il P.M. ometta di impugnare tale pronuncia, di fatto impedendo alcun sindacato da parte della Suprema Corte. Ovvero, diversamente, si consi- M ARZO • APRILE 2 0 0 9 deri il caso in cui la Cassazione venga sì adita, ma dichiari inammissibile il ricorso, senza dunque pronunciarsi sulla sussistenza dei gravi indizi. Per risolvere tali quesiti preliminari, possono essere ragionevolmente addotti i seguenti argomenti. Quanto alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, un’interpretazione testuale e sistematica della norma, che sia conforme alla sua ratio, impone di interpretare l’inciso “in ordine” nel senso di “in merito”. Solo in tale modo acquisterebbe significato la verifica da parte del Supremo Collegio, che diversamente finirebbe per essere un vincolo più simile ad un termine che ad un requisito di ordine sostanziale. Di questa lettura sembra consapevole la stessa Corte Regolatrice, che pronunciandosi recentemente in merito alla prima delle prospettate ipotesi ha stabilito che: “il dovere del pubblico ministero di richiedere l’archiviazione in seguito alla pronuncia della Corte di cassazione sull’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, e sempre che non vi siano ulteriori acquisizioni di elementi a carico, non opera nel caso di omessa impugnazione da parte del pubblico ministero dell’ordinanza di riesame che abbia annullato il provvedimento cautelare per carenza di gravi indizi di colpevolezza” (così Cass. Sez. II, sent. n. 45825 del 11.11.2008). È ovvio, allora, che se il dovere non opera in caso di omessa impugnazione (perché la Corte non ha sindacato in merito alla sussistenza dei gravi indizi), non opererà nemmeno nel caso in cui la Corte è stata adita, ma in modo non idoneo a provocare il suo giudizio, essendo stato il ricorso dichiarato inammissibile. Del pari problematico risulta fornire una risposta quanto al secondo ordine di quesiti presentati in precedenza, vale a dire in merito alla obbligatorietà della richiesta di archiviazione in seguito alla pronuncia della Corte di Cassazione. Il problema è strettamente interpretativo, e nasce dal fatto che l’interpretazione testuale non pare dare adito a dubbi. La norma, infatti, sancisce che “il pubblico ministero … formula la 147 richiesta di archiviazione”. Una dicitura siffatta, evidentemente, sembrerebbe confermare all’interprete che in capo al P.M. insiste un vero e proprio obbligo. Di diverso avviso, invece, è la giurisprudenza della Suprema Corte, che, in molteplici sentenze, ha optato per una diversa interpretazione, che qui si riporta: “la determinazione del P.M. di non richiedere l’archiviazione, nonostante la Corte di cassazione si sia pronunciata in ordine alla insussistenza di gravi indizi di colpevolezza ai sensi dell’art. 273 c.p.p. e non siano stati acquisiti ulteriori elementi a carico dell’indagato, non preclude la valida instaurazione del giudizio, perché la norma di cui all’art. 405 comma primo bis, c.p.p., inserito dall’art. 3 L. n. 46 del 2006, ha natura processuale e, trovando applicazione nella fase delle indagini preliminari, non obbliga comunque il G.i.p. a disporre l’archiviazione” (così Cass., Sez. II, sent n. 19578 del 21/04/2006). In questa pronuncia, la Corte Regolatrice propende per una qualificazione meramente processuale della norma, si potrebbe dire addirittura ordinatoria, volendo intendere, in tal modo, una norma con esclusiva funzione di disciplina. In altri termini, il pubblico ministero deve semplicemente operare una scelta circa l’esercizio dell’azione penale, dal momento che la legge gli fornisce solo un’ulteriore ipotesi in cui può legittimamente chiedere l’archiviazione. Di conseguenza, il verbo “formula” contenuto nella norma va interpretato nel senso di “può formulare”. Impostata in questi termini la soluzione del problema in parola, non resta che servirsi dei risultati fin qui acquisiti per risolvere l’ultimo dei prospettati quesiti, vale a dire quello circa la sanzione applicabile nel caso in cui il P.M. provveda all’esercizio dell’azione penale nonostante una pronuncia della Cassazione circa l’insussistenza dei gravi indizi. Come il lettore può ormai prevedere, l’interpretazione fornita dalla Cassazione non può che comportare, come risposta all’ultimo quesito, l’assoluta assenza di qualsivoglia sanzione processuale. Si tratta, infatti, di una conseguenza logica: se Gazzetta q u e s t i o n i F O R E N S E il pubblico ministero ha facoltà di archiviare, l’azione penale non potrà subire alcun pregiudizio nel caso in cui egli si risolva comunque ad esercitarla. Questo concetto è stato comunque esplicitato dalla Suprema Corte in un’ulteriore pronuncia, in cui viene osservato che: “nell’ipotesi in cui la Corte di cassazione si sia pronunciata in sede cautelare in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e non siano stati acquisiti ulteriori elementi a carico dell’indagato, la disposizione di cui all’art. 405, comma primo-bis, cod. proc. pen. non vincola il P.M. nelle determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale, né la sua inosservanza comporta la nullità prevista dagli artt. 178 lett. b) e 179, comma primo, cod. proc. pen., quanto all’iniziativa del P.M.. (Fattispecie in cui, dopo l’annullamento della ordinanza di custodia cautelare da parte del Tribunale del riesame, confermato dalla Corte di cassazione, il P.M. aveva tuttavia formulato l’imputazione esercitando l’azione penale)” (Così Cass., Sez. VI, sent. n. 27032 del 06.02.2008). ● DIRITTO AMMINISTRATIVO Autorizzazione commerciale e condono edilizio Se è legittimo o meno il rilascio di un’autorizzazione commerciale ai sensi del D. Lgs. n.114/1998, ovvero alla somministrazione di alimenti e bevande ai sensi della Legge 287/91, relativamente ad immobili per i quali pende domanda di condono edilizio non ancora esitata dall’Amministrazione ● Alessandro Barbieri Avvocato La disamina della presente questione si risolve nello stabilire se sia legittimo o meno il rilascio di un’autorizzazione commerciale, ovvero alla somministrazione di alimenti e bevande, in pendenza di una domanda di condono non ancora esitata da parte dell’Amministrazione comunale. Giova premettere, al riguardo, che l’analisi delle disposizioni normative di settore (quella commerciale, da un lato, e quella condonistica, dall’altro) hanno alimentato la querelle che, solo di recente, ha trovato soluzione nelle, non sempre univoche, pronunce dei Tribunali amministrativi territoriali. Tale incertezza, peraltro, è stata alimentata dal fatto che il massimo Consesso di Giustizia amministrativa, a tutt’oggi, non ha preso una posizione netta sulla questione. In maggior dettaglio, la normativa commerciale (D. Lgs. n. 114/1998 e Legge n. 287/1991) prescrive, quanto ai requisiti oggettivi che devono sussistere per il rilascio delle relative autorizzazioni, che le attività devono essere esercitate nel rispetto delle 148 vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienica-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici. Precedentemente all’entrata in vigore della suddetta disciplina normativa (e nel vigore dell’art. 24, comma 3, Legge 426/1971), la giurisprudenza amministrativa era pervenuta alla conclusione che non competesse all’amministrazione verificare, in sede di rilascio dell’autorizzazione, la compatibilità dell’esercizio commerciale con la disciplina urbanistica o con la normativa edilizia, in quanto gli interessi diversi da quelli commerciali, indicati nell’abrogato art. 24 della Legge 426/1971, dovevano essere tutelati con altre modalità ed in diverse sedi (cfr. Tar Lazio, Roma, Sez. III, 30 settembre 1986, n. 1957; Tar Veneto, 4 dicembre 1985, n. 942; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 6 giugno 1988, n. 177; Tar Lazio, Latina, 27 gennaio 1990, n. 41; Tar Toscana, Sez. II, 20 marzo 1996, n. 155; Tar Sardegna, 23 agosto 1996, n. 1971). Tale orientamento giurisprudenziale, rinvenibile oggi solo in alcune isolate pronunce (cfr. Cons. Stato, sez. III, 02 dicembre 2003, n. 1879), muoveva dalla considerazione per cui la disciplina dettata in materia di commercio non subordinava esplicitamente il rilascio o il mantenimento dell’efficacia dell’autorizzazione all’accertamento della compatibilità del pubblico esercizio da autorizzare con le norme e prescrizioni urbanistiche, ma si limitava a stabilire che l’esercizio dell’attività non esclude il rispetto delle norme e prescrizioni suddette, restando salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 2 agosto 1993, n. 659). Con l’entrata in vigore della Legge 287/1991, prima, e del D. Lgs. 114/98, poi, è maturata la consapevolezza che le disposizioni in materia di commercio stabiliscono un stretto collegamento tra la programmazione delle rete commerciale e la pianifica- Gazzetta F O R E N S E zione urbanistica, sicché l’apertura e degli esercizi commerciale e di quelli di somministrazione di alimenti e bevande, è subordinata alle previsioni di quest’ultima, trattandosi di un rapporto tra attività di gestione e attività programmatoria (cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 3 febbraio 2006, n. 160; Tar, Lombardia, 17 ottobre 2008, n. 5154), anche in considerazione della circostanza per cui l’amministrazione comunale non potrebbe tollerare una situazione che, per altri versi, dovrebbe reprimere (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 08 agosto 2007, n. 7409; TRGA, Bolzano, Sez. I, 1 ottobre 2003, n. 427). Con la conseguenza che l’apertura di esercizi commerciali e di somministrazione presuppongono la conformità dei relativi locali alle prescrizioni urbanistiche (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23 gennaio 2001; Cons. Stato, Sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2521; Tar Campania, Napoli, Sez. III. 23 febbraio 2003, n. 1250). Tale orientamento, peraltro, è stato di recente ribadito dal Supremo Consesso di giustizia amministrativa il quale ha avuto modo di chiarire che “in ordine alla necessaria relazione di conformità tra autorizzazione commerciale e disciplina urbanistica, del resto, dispongono norme ancora più puntuali. Così, il già citato art. 24 L. 11 giugno 1971 n. 426, al terzo comma, prevede che l’autorizzazione al commercio “fermo il rispetto dei regolamenti locali di polizia urbana, annonaria, igienicosanitaria e delle norme relative alla destinazione ed all’uso dei vari edifici nelle zone urbane, è negata solo quando il nuovo esercizio o l’ampliamento o il trasferimento dell’esercizio esistente risultino in contrasto con le disposizioni del piano e della presente legge”. Un’applicazione specifica del principio – in termini letterali indubbiamente più chiari – si rinviene, per gli esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, nell’art. 3 L. 25 agosto 1991 n. 287, il quale dispone che le attività relative devono essere eserci- M ARZO • APRILE 2 0 0 9 tate “nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienicosanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, fatta salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate” (settimo comma). Dal confronto tra i due testi, per altro, si evince agevolmente come, se non vuol considerarsi del tutto pleonastica nel primo, la salvezza delle norme in questione ha il valore, fatto palese nel secondo, di elemento costitutivo della fattispecie normativa…..Senza in alcun modo disconoscere, quindi, che nelle materie del commercio e dell’edilizia poteri diversi sono posti a tutela di interessi di diversa natura e che ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, deve ammettersi che la stretta connessione tra di esse ha indotto il legislatore ad indicare lo stesso fatto, rappresentato dalla conformità alle disposizioni più volte citate, quale presupposto per l’esercizio di poteri propri sia della materia urbanistica che di quella del commercio. A chiusura del sistema, del resto, va notato che tra le norme di cui il menzionato art. 24 L. 11 giugno 1971 n. 426 richiede l’osservanza vi sono quelle della stessa legge n. 426 e, quindi, anche quelle più sopra considerate che istituiscono tra i due ambiti, urbanistico-edilizio e commerciale, la relazione che si è detta. Si ritiene, in conclusione, di poter affermare che alla stregua della normativa vigente l’indagine sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanisticoedilizia…..rappresenta un momento istruttorio necessario, in quanto diretto ad accertare l’esistenza di un presupposto espressamente previsto dalla legge e che, pertanto, sia inibito all’autorità amministrativa il rilascio degli atti autorizzativi quando detta conformità faccia difetto” (cfr. in terminis Cons. Stato, sez. V, n. 3639/2000; Cons. Stato, sez. IV, 3027/2007). Con la conseguenza per cui “l’attività commerciale non può essere autorizzata in immobili difformi 149 dalla disciplina urbanistica” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 5 aprile 2005, n. 1543; Cons. Stato, sez. V, 8 luglio 2008, n. 3398). Nonostante l’approdo ermeneutico cui è giunta la giurisprudenza amministrativa in merito alla normativa dettata in subiecta materia, rimaneva irrisolta la questione relativa alla legittimità o meno del rilascio di un titolo autorizzatorio per immobili coperti da domanda di condono senza che la stessa fosse ancora esitata: questione, quest’ultima, alimentata dalle incertezze determinate dalla normativa condonistica di cui alla legge 47/1985. Partitamente, la disposizione a carattere generale di cui all’art. 44, primo comma della legge 47/1985 stabilisce espressamente che “dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino alla scadenza dei termini fissati dall’art. 35, sono sospesi i procedimenti amministrativi e giurisdizionali e la loro esecuzione, quelli penali nonché quelli connessi all’applicazione dell’articolo 15 della legge 6 agosto 1967, n. 765, attinenti al presente capo”. Sospensione questa che comporta, quale conseguenza concreta, che la situazione dell’immobile e di ogni rapporto sussistente con il proprietario deve restare immutata rispetto alla situazione dell’immobile stesso alla data di entrata in vigore della legge, in condizioni di reciprocità, nel senso che la menzionata situazione di fatto non può né regredire, mediante iniziative della P.A. che riducono le facoltà di utilizzazione già in atto, né tantomeno può essere fatta avanzare, attraverso delle attività del privato che aumentino le facoltà già in atto. E ciò con la ulteriore conseguenza che l’Amministrazione sarebbe tenuta a garantire al titolare dell’istanza di sanatoria, il mantenimento della destinazione commerciale e dell’uso dell’immobile in atto a quella data, con l’obbligo corrispettivo per esso “titolare” di non introdurre modificazioni rispetto a quella condizione di fatto innanzi indicate. Gazzetta F O R E N S E Pertanto, ove l’immobile oggetto di domanda di condono ha destinazione commerciale, l’Amministrazione, al momento del rilascio dell’autorizzazione, non è tenuta a verificare la conformità del menzionato locale alla normativa edilizio-urbanistica, bensì esclusivamente a garantire al privato la continuazione nell’utilizzazione dell’immobile secondo la propria destinazione. Tali conclusioni, peraltro, sarebbero avallate dal regime transitorio di utilizzazione dei beni, nella condizione fissata alla data di entrata in vigore della legge 47/1985, laddove si consideri che la disposizione di cui all’art. 40 della L. 47/1985, fino a quando l’Amministrazione non abbia espresso un provvedimento di diniego alla istanza di sanatoria, ammette sia la commerciabilità per atto tra vivi, sia la possibilità di cederli in locazione. Peraltro, con riferimento ad edifici destinati ad impianti produttivi, – esercizi commerciali, attività alberghiere – il combinato disposto dell’art. 34, ultimo comma e dell’art. 35, comma 3, lett. d), ha stabilito un’oblazione pari al 50% di quella per le “residenze”, con parametri di riduzione o maggiorazione, connessi a classi di ampiezza delle opere abusive, perché venisse prodotto un certificato di iscrizione alla C.C.I.A.A., “da cui risulti che la sede dell’impresa” alla data di entrata in vigore della legge “è situata nei locali per i quali si chiede la concessione in sanatoria”; sede dell’impresa questa costituente quindi conditio sine qua non per poter beneficiare delle riduzioni per le destinazioni produttive, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 34. Con la conseguenza che, con l’entrata in vigore della legislazione sul “condono edilizio”, sarebbe legittimata la facoltà del proprietario di poter utilizzare l’immobile per la medesima destinazione d’uso consolidatasi nell’immobile e comunque in atto alla data di presentazione della istanza di condono. Con la conseguenza che “l’abusività del fabbricato attiene soltanto al q u e s t i o n i momento genetico non potendosi escludere, nel quadro della normativa introdotta dalla legge n. 47/85, la sua postuma legittimazione e la titolarità, in capo al proprietario che di quel bene ha chiesto il condono, di una aspettativa giuridica alla citata legittimazione tramite appunto condono. Da quanto precede discende che l’abusività del fabbricato in questione (del quale è stato chiesto il condono) è condizionata al diniego del beneficio e perciò deve ritenersi sospesa in pendenza della relativa determinazione dell’Amministrazione. Orbene prima che intervenga tale diniego (che consoliderebbe l’abusività dell’edificio), appare conforme a logica e a principi di tutela della proprietà privata che il titolare dell’aspettativa possa, in pendenza della domanda di condono, compiere atti conservativi del bene e mantenere integre le sue ragioni” (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 2 febbraio 2001, n. 546/2001) In ragione di tanto, da più parti, si era ipotizzata la possibilità di rilasciare autorizzazioni commerciali relativamente ad immobili per i quali pendeva domanda di condono non ancora esitata dall’amministrazione comunale stante l’obbligo – discendente ex lege – di garantire la continuazione nella utilizzazione del locale per la destinazione commerciale. Per converso, dalla lettura della normativa di riferimento (D.Lgs. 114/1998 e Legge 287/1991) discende, in positivo, che l’esistenza di un valido titolo concessorio costituisce indispensabile presupposto per il rilascio dell’autorizzazione commerciale e alla somministrazione di alimenti e bevande e, in negativo, che la stessa preclude all’amministrazione di assentire autorizzazioni in locali privi delle necessarie autorizzazioni edilizie. Ed invero, l’autorità preposta deve verificare la sussistenza, oltre che dei requisiti di carattere soggettivo e oggettivo previsti dalla normativa di riferimento, anche degli ulteriori parametri indicati dalla legge, quali, in particolare, la conformità 150 della destinazione d’uso dell’immobile da destinare ad attività commerciale ed il rispetto delle norme, prescrizioni, autorizzazioni in materia edilizia ed urbanistica. In linea, dunque, con la granitica giurisprudenza secondo cui è “illegittima l’autorizzazione di somministrazione a causa della inidoneità dei locali, privi di concessione edilizia” (cfr. Tar Campania Napoli, sez. III, n. 4493/01; Tar Campania, 16 novembre 2000, n. 4285; Tar Campania Napoli, Sez. III, 19 luglio 2001, n. 3442; Tar Campania Napoli, Sez. IV, n. 164/1996; Tar Lazio Roma, Sez. II, 12 novembre 2003, n. 9894; Cons. Stato, Sez. V, n. 5854/04; Cons. Stato, Sez. V, 28 giugno 2000, n. 3639; Cons. Stato, Sez. V, 17 ottobre 2000, n. 5656) si è attestata la successiva giurisprudenza che ha avuto modo di chiarire come la mera presentazione dell’istanza di condono non risulta sufficiente a confortare del rispetto delle norme, prescrizioni vigenti in materia edilizia, atteso che “la domanda di sanatoria conferma l’abusività dei locali e non sostituisce certo la concessione”(cfr. sul punto Tar Campania, Napoli, sez. III, n. 7324/2005; Tar Campania, Napoli, sez. III, n. 4493/01). E ciò in quanto, le attività commerciali e di somministrazione “devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni ed autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici”. Come appare pacifico già dalla mera lettura della disposizione in esame, il legislatore ha inteso affermare che, ai fini del rilascio delle autorizzazioni per l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, l’autorità amministrativa competente deve verificare non solo la ricorrenza di presupposti e requisiti previsti…………. e, più in generale, dalle disposizioni volte alla disciplina delle attività commerciali, ma anche quelle più specificamente relative alla legittima utilizzabilità dei locali ai fini dello svolgimento dell’attività autorizzanda, sia sotto il Gazzetta F O R E N S E profilo edilizio-urbanistico sia sotto il profilo igienico-sanitario. Ne consegue che l’accertamento della conformità del locale alla disciplina edilizia ed urbanistica, in primis asseverata attraverso la verifica della realizzazione del locale stesso sulla base di idonei e legittimi titoli autorizzatori, nonché alla disciplina igienico-sanitaria, asseverata attraverso idonea verifica, costituiscono presupposti indefettibili per il rilascio dell’autorizzazione. Di modo che, laddove il locale indicato come luogo di svolgimento dell’attività non risulti conforme alle citate prescrizioni, l’autorizzazione…. Nel caso di specie, il locale indicato ai fini dello svolgimento dell’attività da autorizzarsi è oggetto di istanza di condono edilizio … sulla quale l’amministrazione comunale non si è pronunciata, come si evince sia dal certificato di agibilità provvisoria…. Orbene, tale circostanza rende illegittima l’autorizzazione rilasciata in quanto essa riguarda una attività da svolgersi in locale che risulta, per un verso, non conforme alla disciplina edilizia e urbanistica, né “ricondotto a conformità”, per effetto dell’istanza di condono presentata. …Né conduce a diversa conclusione quanto dedotto sia dal Comune sia dalla controinteressata, in ordine alla commerciabilità del bene, in pendenza di decisione sulla istanza di condono, poiché, nel caso di specie, non si discute della trasferibilità di un bene, o dei diritti sul medesimo, bensì della assentibilità di un provvedimento di natura commerciale, subordinata alla positiva verifica della conformità dei locali di svolgimento dell’attività alla normativa edilizio-urbanistica; conformità, come si è detto, assente al momento del rilascio dell’autorizzazione impugnata”.(cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. II, 3 novembre 2005, n. 9711/06) È evidente, dunque, che le enunciazioni giuridiche dei Giudici amministrativi ribadiscono, correttamente interpretando la normativa di riferimento, orientamenti giurisprudenziali assolutamente pacifici che M ARZO • APRILE 2 0 0 9 precludono il rilascio di un’autorizzazione alla somministrazione in pendenza di una domanda di condono non ancora esitata. La preclusione al rilascio di idoneo titolo commerciale in pendenza di domanda di condono non ancora esitata rileva, peraltro, sotto altro e diverso profilo. Segnatamente, come noto, il rilascio dell’autorizzazione commerciale presuppone il previo rilascio del certificato di agibilità ai sensi dell’art. 24 e ss. D.P.R. 380/2001. La normativa richiamata, così come affermato da granitica giurisprudenza, chiarisce che il certificato de quo non ha più solo finalità igienico-sanitarie – proprie della licenza di abitabilità e agibilità previste dalla legislazione previgente – ma può essere rilasciata solo ed esclusivamente allorché siano stati accertati dall’amministrazione idonei requisiti di sicurezza degli edifici, degli impianti installati nonché la conformità dello stesso alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie. Con la conseguenza che la pendenza della domanda di condono, rimarcando l’abusività dell’immobile, preclude all’amministrazione il rilascio anche del certificato di agibilità. In giurisprudenza è stato ripetutamente affermato che “se i locali sono abusivi l’agibilità non può essere rilasciata, non avendo alcun significato dichiarare agibile un locale non conforme alla disciplina urbanistico –edilizia o del quale non è stata o è stata falsamente attestata la conformità al progetto approvato, perché il progetto non è stato approvato o l’opera è stata realizzata in difformità da esso”(cfr. Tar Veneto, Venezia, Sez. III, n. 4702/03; Tar Veneto, Sez. II, 17 novembre 1997, n. 1569; Cons. Stato. Sez. VI, 15 luglio 1993, n. 535; Tar Puglia Bari, Sez. II, 15 giugno 1995, n. 467; Cass. Pen., Sez. III, 18 novembre 1997, n. 3905; Cass.Pen., Sez. III, 10 gennaio 1994, n. 72). Ed ancora “L’esercizio dissociato dei poteri che fanno capo allo stesso 151 ente per la realizzazione di più interessi pubblici, specie ove tra di essi sussista un obiettivo collegamento, contrasta con il basilare criterio di ragionevolezza e, pertanto, è in evidente contrasto con il principio di buona amministrazione esplicitato anche dalla l. n. 241 del 1990: pertanto, pur non disconoscendosi che poteri diversi sono posti a tutela di interessi di diversa natura e che ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, la stretta connessione tra diversi tipi di provvedimento può legittimamente indurre ad indicare il medesimo fatto quale presupposto per l’esercizio di poteri diversi e dunque, nella specie, è legittimo il diniego dell’agibilità dei locali per ragioni paesistico – urbanistiche”(cfr. Consiglio Stato, sez. V, 05 aprile 2005, n. 1543). Dello stesso avviso, la dottrina prevalente che subordina “il rilascio del certificato di agibilità alla accertata conformità del manufatto alla normativa edilizia ed urbanistica”(N. Assini-P.Mantini, Manuale di diritto urbanistico, Giuffrè edizione, 2007, pag. 835ss.; M. Baroni, I presupposti per la licenza di abitabilità: non è vero che occorrono solo requisiti igienico-sanitari, TAR, 1987, II, 89 ss; V.Vincenzi, Abitazioni (igiene delle), EGI, I, Roma, 1988; C. De Caro Bonella, La licenza di abitabilità, Napoli, 1978, pag. 30 ss; V. Domenichelli, Alcune (tristi) riflessioni sulla nuova disciplina del certificato di abitabilità, D. REG (Veneto), 1986, pag. 445 ss; M.S.Giannini, In tema di licenza di abitabilità, FA, 1956, I, 2, 517 ss; F. Gaualandi, La disciplina del certificato di abitabilità: nuove problematiche alla luce del D.P.R. 22 aprile 1994, RG ED, 1995, II, pag. 53 ss; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2002, pag. 351 ss.). E ciò in quanto “il procedimento di rilascio come un momento riepilogativo del controllo sull’attività edilizia, “data la stretta connessione fra norme previste dalla leggi sanita- Gazzetta F O R E N S E rie e quelle sancite dalla legge urbanistica in materia di costruzioni, che non consente una distinzione tra tutela di fini esclusivamente igienicosanitari e tutela di fini esclusivamente urbanistico-edilizi”(cfr. De Caro Bonella, op. cit., pag. 30 ss.). Appare evidente, anche per tale ulteriore considerazione, che in ogni caso il certificato di agibilità non può q u e s t i o n i essere rilasciato laddove l’immobile risulta abusivo, e dunque realizzato in assenza dei necessari titoli abilitativi che ne certifichino la conformità alle prescrizioni e di carattere squisitamente urbanistico, sebbene pendente una domanda di condono. Conclusivamente, relativamente ad immobili per i quali pende domanda di condono è precluso all’am- 152 ministrazione il rilascio di idoneo titolo commerciale sia per conclamato contrasto con le prescrizioni edilizie ed urbanistiche – come detto non ricondotte a conformità dalla pendenza della istanza di sanatoria – sia per la preclusione che incontra la P.A. nel rilasciare il certificato di agibilità ai sensi degli artt. 24 e ss. del D.P.R. 380/2001. RECE N S IO N I Gli accordi di ristrutturazione dei debiti Un nuovo procedimento concorsuale di Elena Frascaroli Santi, Padova, 2009 A cura di Corrado d’Ambrosio Giudice 155 Gazzetta F O R E N S E ● Gli accordi di ristrutturazione dei debiti Un nuovo procedimento concorsuale di Elena Frascaroli Santi Padova, 2009 ● Corrado d’Ambrosio Giudice Nella realtà economica e nel dibattito dottrinale, si è fatta strada la tesi della necessità di individuare strumenti alternativi per la gestione della crisi di impresa, che, in qualche modo, potessero superare le “strettoie” delle procedure concorsuali giudiziali, e valorizzassero la stessa autonomia contrattuale. Il quadro di riferimento teorico muta in relazione ad una progressiva valutazione positiva, in merito alla meritevolezza degli interessi sottesi agli accordi stragiudiziali, delineati nella prevalente esigenza di conservazione del valore economico del patrimonio aziendale, e nelle possibilità di ristrutturazione complessiva delle esposizioni debitorie, finalizzate ad un recupero nel mercato dell’impresa in crisi. Non solo, ma l’affermazione di uno spazio rilevante per gli accordi tra debitore ed (alcuni ) creditori finalizzati a consentire il superamento della crisi seguiva alla progressiva abrasione dei profili pubblicistici ed officiosi della procedura fallimentare, con la conseguente valorizzazione dell’autonomia privata, ritenuta funzionale proprio alla riallocazione dei valori aziendali. Di fronte a tali esigenze, imposte dalla dinamica economica, le preclusioni rinvenienti nella legge fallimentare, conseguenti al richiamo M ARZO • APRILE 2 0 0 9 della disciplina sulla revocatoria e sulla bancarotta preferenziale, non sono state ritenute piu’ compatibili con le esigenze del sistema, tanto che, nelle recenti formulazioni della riforma della normativa concorsuale, gli accordi finalizzati alla sistemazione della crisi – anche in ragione di un confronto con modelli stranieri, come efficacemente sottolineato dall’Autore – ha finito per rappresentare uno snodo significativo della diversa funzione delle procedure di insolvenza, e finanche di superamento di un’insolvenza attuale. In questa prospettiva evolutiva, nel nuovo contesto della legge fallimentare ( d. lgs n. 5/06 e d.lgs n. 169/07 ), lo spazio per l’operatività dell’autonomia in un contesto di progressiva “degiurisdizionalizzazione” del diritto concorsuale è evidente, e, in questo caso, si realizza nell’ambito di accordi che si inseriscono nel quadro di procedimenti ( o sub procedimenti ) concorsuali. In questa prospettiva, si inserisce la formulazione dell’art. 182 bis l.fall., introdotto nel nostro ordinamento dal d.lgs n. 35/05, convertito in l. n. 80/05, e corretto dal d.lgs n. 169/07, che ha disciplinato l’accordo di ristrutturazione dei debiti. Quest’ultimo può assumere – dal punto di vista negoziale – un contenuto assai vario, potendo tradursi in un pactum de non petendo, in una remissione parziale del debito, in una costituzione di garanzia, in una concessione di nuova finanza, in una conversione di credito in capitale della società debitrice, ovvero in altri negozi, la cui caratteristica può dirsi risiedere nella finalità di superamento della crisi dell’impresa attraverso la ristrutturazione dei debiti, cosi’ che, non facendosi riferimento alla necessaria continuazione dell’impresa, il contenuto dell’accordo potrebbe essere anche di natura meramente liquidatoria. Per quanto concerne i presupposti per poter accedere agli accordi, la formulazione dell’art. 182 bis l. fall., come risultante dal d.lgs n. 155 169/07, fa riferimento all’imprenditore in stato di crisi, e non semplicemente al debitore. In tal modo, vengono superate quelle impostazioni che – a dispetto della stessa collocazione della norma – ritenevano che gli accordi potessero essere utilizzati da tutti i debitori ( anche quelli civili ) - ovvero da quegli imprenditori non soggetti – per attività o dimensioni – alla dichiarazione di fallimento. A questo punto, l’Autore si sofferma in particolar modo sui profili penalistici degli accordi, sottolineando come nessuna norma fissi una scriminante a fronte della eventuale ipotizzabilità di una fattispecie di bancarotta, anche se in piu’ tentativi si è cercato di “temperare” in via interpretativa l’area dell’intervento penale. Eppure, la necessità di un intervento chiarificatore, almeno in sede penale, era stata sottolineata dai piu’ autorevoli commentatori già all’indomani della introduzione dell’art. 182 bis L.F., e sarebbe certamente valsa a garantire un piu’ deciso e convinto ricorso all’istituto. In piu’ tentativi si è cercato di “temperare” in via interpretativa l’area dell’intervento penale; da un lato, ad esempio, si è fatto notare che il fatto che l’accordo sia stato ritenuto idoneo da un esperto valga, in linea di principio, ad escludere il dolo; dall’altro lato, si è ritenuto, proprio con riferimento agli accordi ex art. 182 bis, che questi ultimi sfuggano ad una valutazione penale, poiché “ la lesione della par condicio è giustificata dal contesto di tutti i creditori sacrificati “( sempreché, si aggiunge, vi sia stata una leale informazione dei creditori). In realtà, si può ribadire, anche riguardo agli accordi privatistici non omologati, che non si rientra nell’ambito dell’art. 1344 c.c., che considera illecita la causa del contratto concluso in frode alla legge, in quanto costituente il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa. Gazzetta F O R E N S E Solo nel caso in cui le parti mirino a realizzare un risultato vietato dalla legge, pur utilizzando uno o piu’ contratti in sé leciti, si può realizzare in concreto un risultato equivalente a quello vietato. Come in precedenza, anche la novella nulla dice in merito alla eventuale prededuzione da riservarsi ai crediti concessi in funzione della ristrutturazione medesima: l’art. 111 comma 2° L.F. considera infatti prededucibili i crediti cosi’ specificamente qualificati da una legge, o quelli sorti “in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge”. La consapevolezza della banca circa la fattibilità del piano di ristrutturazione dipende, a questo punto, soprattutto dall’efficacia degli strumenti di controllo in suo possesso. Nei rapporti con i creditori bancari, il finanziamento si realizza o con l’apertura di nuove linee di credito, o con il ripristino delle vecchie linee di credito. Operazione, quest’ultima, che, se relativa a linee di credito autoliquidanti, non presenta solitamente problemi di sorta, posto che si tratta di operazioni salvo buon fine su titoli bancabili che si liquidano con l’incasso dell’effetto da parte della banca. Nell’85% dei casi sono state aperte linee auto-liquidanti. In quest’ambito, le operazioni di nuova finanza rappresentano uno snodo delicato per i creditori bancari, posto che il finanziamento va ad ingrossare posizioni debitorie già in sofferenza o addirittura incagliate. Operazioni che sono spesso collegate alla ricapitalizzazione dell’impresa in stato di crisi, mediante la quale le banche creditrici o talune di esse convertono i crediti in partecipazioni. Per tale ragione, gli interventi di nuova finanza e di ricapitalizzazione sono solitamente accompagnati dalla previsione di efficaci e penetranti strumenti di controllo sulla gestione dell’impresa, che condizionino ed imbriglino l’autonomia ge- r e c e ns i o n i stionale dei vecchi amministratori a tutela del ceto creditorio. Controlli che si concretizzano solitamente con l’attribuzione ai creditori ( rectius ad un ristretto gruppo di essi) di un potere di orientamento e controllo dell’attività degli amministratori, che si estrinseca in varie forme, quali, ad esempio, il potere di autorizzare, di porre il veto, di ratificare determinate scelte gestionali, ecc. Nel volume in questione viene rilevato anche che, allo stato attuale, e nel tentativo di prospettare, alla luce del nostro sistema fallimentare, possibili vie per affrontare i problemi di crisi in rete ( associazioni temporanee di imprese, GEIE, gruppi ), non si può non ribadire che molti sono gli argomenti a favore della soluzione concordataria. Nel 2° capitolo, si affronta il discorso relativo alla natura giuridica ed alla struttura degli accordi. L’Autore sostiene che che tali accordi, benché raggiunti stragiudizialmente, si inquadrano in un procedimento che ha le caratteristiche formali delle procedure concorsuali: da un lato, infatti, le modalità di presentazione dell’accordo richiamano quelle del concordato preventivo, e che la competenza dell’autorità che ne decreta l’omologazione è quella del Tribunale fallimentare; dall’altro, detti accordi si attuano nel rispetto del principio del concorso dei creditori. Per quanto concerne la natura giuridica degli accordi , la Relazione illustrativa al D.L. n.35/05 non chiarisce se la fattispecie in esame abbia una sua autonomia, o sia piuttosto una particolare ipotesi di concordato preventivo. A favore della tesi autonomista militano alcuni dati testuali: per esempio, l’art. 1 l.fall. ci dice chiaramente che le soglie dimensionali si applicano ai fini del fallimento e del concordato preventivo, non fa parola degli accordi di ristrutturazione. Un ulteriore elemento a supporto dell’autonomia dei due istituti si ri- 156 cava, a contrario, dal fatto che il legislatore ha operato alcuni specifici rinvii alla disciplina del concordato: si pensi all’art. 161 l.fall., in tema di modalità per la presentazione della dichiarazione e della documentazione, all’art. 168, co. 2°, e, per gli effetti su prescrizioni e decadenze del divieto di azioni esecutive, all’art. 183 l.fall. , che disciplina il reclamo avverso il decreto di omologazione. Richiami superflui e immotivati ove il legislatore avesse voluto individuare negli accordi una species del genus concordato preventivo, dato che, in questo caso, tutte le disposizioni dettate dal Titolo III sarebbero generalmente applicabili all’istituto de quo, senza la necessità di alcun specifico richiamo a questo o a quell’articolo. Inoltre- si sottolinea- la riforma del 2007 ha espunto dal 182 bis l. fall., con riferimento al rinvio all’art. 161 l.fall., il termine “ dichiarazione” , in questo modo eliminando un altro elemento di possibile assimilazione al concordato preventivo, posto che il richiamo della sola “documentazione” indicata nell’art. 161 l.fall. assume il valore di indicazione degli elementi documentali che il professionista incaricato ha esaminato per poter formulare un giudizio sull’attuabilità dell’accordo, e sulla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. Dal punto di vista strutturale, ad avviso dell’Autore, con il termine accordi, il legislatore abbia inteso prefigurare una serie indistinta di contratti che l’imprenditore stipula separatamente con ciascuno dei propri creditori, negozi che dappoi vengono fatti confluire, siccome conformati allo scopo, in un unico patto che viene poi confezionato nel piano. L’interesse comune sarebbe rappresentato, quindi, dall’eliminazione dello stato di crisi, che si consegue solo in quanto tutti acconsentano a ridurre o a dilazionare le proprie pretese nelle forme e secondo le modalità concordate, sul presuppo- Gazzetta F O R E N S E sto, altresi’, che, qualora non tutti i creditori partecipino all’accordo, risulti dall’accordo stesso la possibilità di un regolare soddisfacimento dei creditori estranei. Vengono, altresi’, sottolineate le differenze tra gli accordi in questione ed i cd. piani di risanamento, ex art .67 . comma 3°, lett. d) l. fall. I due istituti hanno fra loro un coordinamento ed una coerenza rinvenibile, appunto, nella diversa fase in cui do­vrebbero essere utilizzati, potendo rappresentare l’uno (il piano di risanamento in un momento di tensione finanziaria reversibile) l’antecedente dell’altro (l’accordo di ristrutturazione in un mo­mento di insolvenza o di grave crisi con manifestazioni esteriori). A questa diversità di presupposti dei due istituti consegue la diversa disciplina degli stessi. Così, nell’ipotesi del piano di risanamento di cui all’art. 67, 3° co., lett. d), 1. fall., non è necessaria la partecipazione dei credito­r i né è prevista alcuna forma di pubblicità proprio perché gli stes­si creditori, che dovranno essere pagati integralmente, non po­tranno - almeno teoricamente - essere pregiudicati nei propri di­ritti. Al contrario, l’accordo di cui all’art. 182 bis 1. fall., oltre al con­ senso di almeno il 60% del ceto creditorio, prevede un sistema di pubblicità legale che consente l’eventuale opposizione da parte dei creditori rimasti estranei all’accordo stesso; ciò perché la cri­si d’impresa è così grave che rischia di pregiudicare le ragioni dei terzi creditori e, dunque, deve essere a questi ultimi consentito di interloquire ed, eventualmente, di proporre opposizione. Nel caso dell’art. 67, 3° co., lett. d), 1. fall., non essendovi una manifestazione esteriore della crisi che attenti alle ragioni dei terzi, e segnatamente dei creditori, il legislatore non ha ritenuto di individuare una procedura di controllo giudiziario, mentre, nel­l’ipotesi dell’art. 182 bis 1. fall., l’esigenza sociale che deriva dalla manifestazione esteriore della M ARZO • APRILE 2 0 0 9 gravita della crisi, e, dunque, l’esi­ genza di tutela dei creditori dell’imprenditore insolvente, necessi­ta di una verifica attraverso il giudizio di omologa. Il 3° capitolo del volume de quo analizza il procedimento ex art. 182 bis l. fall. Si sottolinea il fatto che un ruolo chiave viene svolto dalla figura dell’esperto, il quale deve attestare l’attuabilità dell’accordo. Con il decreto correttivo n. 169/07 si è deciso di uniformare i requisiti previsti dall’art. 182 bis, dall’art. 67 comma 3°, lett.d), e dall’art. 161, prevedendo, in considerazione del fatto che si tratta di una attività avente un contenuto marcatamente tecnico-contabile, che il professionista incaricato debba possedere, anche in questo caso, oltre le caratteristiche contemplate dall’art. 28, lett.a) e b) del R.D., anche l’iscrizione nel Registro dei revisori contabili. L’incarico può essere, quindi, espletato anche da uno studio professionale associato o da una società tra professionisti, purchè sia specificatamente indicata quale sia la persona fisica appartenente allo studio o alla società da ritenersi responsabile della relazione sull’attuabilità dell’accordo. Sul tema della responsabilità del professionista, nel silenzio della legge, viene pressoché unanimemente ritenuto che nei confronti dell’imprenditore mandante trova applicazione la responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.), ma solo in caso di dolo (per esempio, per collusione con uno dei soci o con un ter­zo) o colpa grave (per esempio, per grave imperizia o mancanza di diligenza), dovendosi riconoscere che la relazione sugli accor­di di ristrutturazione, sui piani di risanamento e sul piano del concordato preventivo, quale elaborato incentrato prevalente­mente su elementi congetturali, «implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà» (art. 2236 c.c.). L’azione di responsa­b ilità, in caso di fallimento dell’imprenditore 157 successivo all’omo­loga, può essere esercitata dal curatore, per far valere il risarci­mento del danno patito dalla massa dei creditori, ove egli dimo­strasse la colpa grave o il dolo del professionista e il fatto che, at­ traverso il ricorso alla procedura degli accordi di ristrutturazione e la successiva omologa, è stata ritardata la dichiarazione di falli­mento e, medio tempore, si è aggravato il dissesto. I singoli creditori potranno ricorrere solo all’azione residua­le di cui all’art. 2043 c.c., dimostrando il danno patito e il suo insorgere a causa dell’affidamento fatto sulla relazione del profes­sionista, affetta da dolo o colpa grave; tale azione potrà essere esperita singolarmente dai creditori anche in pendenza di falli­mento dell’impresa, ma con rilevanti difficoltà probatorie. Il legislatore, peraltro, pur risolvendo il problema della identificazione dell’esperto, non prende posizione sul contenuto della relazione, in particolare non specifica, come pure invece la dottrina ha ritenuto, che il contenuto, oltre a doversi riferire alla attuabilità dell’accordo, non possa prescindere da una valutazione di “ attendibilità “ dei dati aziendali. I creditori ed ogni altro interessato possono proporre opposizione entro trenta giorni dalla pubblicazione dell’accordo nel Registro delle imprese. Pur nel silenzio della legge, deve ritenersi che la forma sia quella del ricorso. Un punto delicato è quello della delimitazione dell’ambito dei soggetti legittimati ad agire, giacchè il comma 4° dell’art. 182 bis menziona “ i creditori ed ogni altro interessato”. Legittimati all’impugnazione sono sicuramente i creditori dissenzienti estranei all’accordo: costoro, infatti, possono non essere persuasi dell’effettiva idoneità dell’accordo ad assicurare il loro integrale e puntuale pagamento, o possono voler evitare che, per effetto dell’omolo- Gazzetta F O R E N S E gazione, si produca l’esenzione da revocatoria nell’eventuale successivo fallimento, con conseguente riduzione della massa attiva. Il profilo dell’attuabilità dell’accordo potrebbe includere, tra i legittimati all’opposizione, anche i creditori aderenti, poiché, ad esempio, convinti del contrario da successivi riscontri. Nel caso in cui l’accordo si componga di piu’ atti , e gli stessi prevedano differenti condizioni riservate ai singoli aderenti, questi ultimi sarebbero sicuramente legittimati all’impugnazione ove non fossero stati informati delle migliori condizioni riservate ad altri creditori. Il riferimento generico ad “ ogni altro interessato” presuppone comunque una preventiva verifica, caso per caso, dell’interesse giuridico prospettato dall’opponente. Ai sensi del 4° comma dell’art. 182 bis l. fall., il tribunale, decise le opposizioni, procede all’omologazione in camera di consiglio con decreto motivato. La forma della domanda è quella del ricorso, da depositarsi presso la cancelleria del tribunale. Un profilo cruciale concerne il contenuto del giudizio di omologazione. L’omologazione, come oramai unanimemente attestato, è sempre necessaria, essendo consustanziale all’istituto in esame per come esso è positivamente disciplinato, per cui è da ritenersi che essa debba comunque aver luogo, indipendentemente dalla proposizione di opposizioni, ed il precetto non è derogabile da una difforme volontà delle parti. In ogni caso ( sia, cioè, in assenza, sia in presenza di opposizioni), si è ritenuto che il giudizio di omologazione non debba consistere in una semplice presa d’atto del deposito dell’accordo, ma in una verifica di legalità sostanziale, limitata ad una valutazione sulla completezza, coerenza e ragionevolezza della relazione dell’esperto sull’attuabilità dell’accordo e sulla sua idoneità a garantire il pagamento dei creditori r e c e ns i o n i estranei. Ai sensi dell’art. 67 comma 3°, lett. e), gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse, quindi i negozi posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato, non sono soggetti alla revocatoria fallimentare. L’inassoggettabilità è oggettiva, nel senso che non dipende dalla conoscenza o ignoranza dell’esistenza dell’accordo omologato da parte del terzo contraente col debitore. Non vi è dubbio che lo scenario previsto dal legislatore è carat­ terizzato dallo stato d’insolvenza del debitore. Infatti, se non vi fosse lo stato d’insolvenza, non sarebbe necessario prevedere l’e­simente da revocatoria, giacché comunque il negozio non sareb­be soggetto alla revocatoria fallimentare per inesistenza del pre­supposto oggettivo (ed evidentemente di quello soggettivo, dato dalla conoscenza presunta o provanda di tale stato). L’accordo, in mancanza di una specificazione o discriminazio­ne legislativa, impedisce l’esercizio della revocatoria con riferi­mento agli atti anormali (art. 67, 1° co.) e a quelli normali (art. 67, 2° co.). Pertanto, l’anormalità dell’accordo o dell’atto compiuto in sua esecuzione è irrilevante. Non sono revocabili anche i negozi non esplicitamente previsti dall’accordo, ma resisi strettamente necessari per la sua esecuzione; occorre, quindi, che sussista un evidente nesso causale tra accor­do ed atto posto in essere in sua esecuzione, e, di norma, tale nes­so dovrebbe essere indicato nel piano o nella relazione del pro­fessionista; infatti è impensabile che il piano di ristrutturazione, nel quale si inseriscono gli accordi, conferisca «in bianco» l’im­munità dalla revocatoria fallimentare a tutti gli atti posti in essere dall’imprenditore dopo l’omologa, ancorché con i creditori ade­renti. In buona sostanza, le esenzioni da revocatoria hanno la funzione di consentire il risanamento; non tutti i tentativi possono andare a buon fine, quindi l’esenzione gioca soltan- 158 to sul fatto che siano rispettate le regole del gioco. Successivamente all’omologa, l’accordo potrebbe rivelarsi non piu’ attuabile: ci si chiede, allora, quale sia la sorte degli atti esecutivi posti in essere dopo tale momento. In effetti, l’esistenza di un giudizio di omologa, deve far ritenere che i terzi non siano successivamente onerati dall’obbligo di una verifica sulla persistenza dei requisiti di attuabilità dell’accordo. Ne deriva che, nel successivo giudizio revocatorio, il convenuto potrà paralizzare la pretesa attorea semplicemente eccependo che il pagamento ricevuto costituisce un atto esecutivo dell’accordo omologato. Un’ulteriore problematica è quella relativa all’ampiezza di tale esenzione, se, cioè, essa riguardi anche l’azione revocatoria ordinaria o meno, e ciò dato il generico richiamo, al 2° co del 182 bis, all’” azione revocatoria”. La previsione di preclusione all’esercizio dell’azione revocato­ria, contenuta solo nell’art. 67, fa sì che la preclusione stessa non si estenda anche alla revocatoria ordinaria, a meno che il curatore o il creditore procedente dimostrino la machinatio, ovvero l’esistenza di un piano ordito dal debitore o dal ter­zo di porre in atto il negozio revocando con l’intento di eludere i controlli del professionista (o, peggio, giovandosi della connivenza di questi) e di frodare i creditori. Il discorso, ricco di rilievi critici, prosegue, poi, con il 4° capitolo, incentrato sugli effetti degli accordi omologati per coobbligati e fideiussori. Inquadrato l’accordo come un istituto autonomo, introdotto per la prima volta nel sistema concorsuale, il punto di partenza dell’indagine, a cui ci si riferisce, è quello di stabilire se la regola contenuta nell’art. 184 l. fall., secondo cui, in caso di concordato preventivo, i creditori conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di re- Gazzetta F O R E N S E gresso, sia parimenti applicabile anche all’ipotesi di accordo di ristrutturazione stipulato a norma dell’art. 182 bis l. fall. Ad avviso dell’Autore, pur propendendosi per il riconoscimento di un’autonomia dell’istituto degli accordi di ristrutturazione, di cui all’art. 182 bis, rispetto al concordato preventivo, la presenza, nella disciplina degli accordi, di norme processuali previste per il concordato preventivo alle quali si deve fare riferimento, consentirebbe di individuare una omogeneità nelle fattispecie considerate. Di conseguenza, non pare infondato ritenere ammissibile, in via mediata, l’estensione analogica dell’art. 184 l. fall. anche a tale fattispecie. Nel 5° capitolo del volume de quo si discute di mancata omologazione degli accordi. In tal caso – si sottolinea- il tribunale non può di certo dichiarare contestualmente il fallimento, stante la non necessaria coincidenza del presupposto oggettivo tra le due procedure. Sarà comunque necessario un nuovo accertamento sulla sussistenza o meno dello stato di insolvenza; in tal caso, sarà necessario trasmettere gli atti d’ufficio al PM, cui è affidata l’iniziativa quando, come nel caso in esame, lo stato di insolvenza risulti dalla segnalazione proveniente da un giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile. Il pubblico ministero potrebbe M ARZO • APRILE 2 0 0 9 richiedere il fallimento del debitore ad un tribunale diverso da quello che ha rigettato l’omologa dell’accordo, competente per territorio ai sensi dell’art. 9 l. fall., nel caso in cui la società abbia trasferito la propria sede nell’anno anteriore all’esercizio per l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento. Il fallimento potrà essere dichiarato soltanto in esito ad un autonomo procedimento che si svolga nelle forme di cui all’art. 15 l. fall., promosso da un creditore o dal PM. Un problema estremamente rilevante concerne il fatto che non è espressamente sancita la prededuzione in caso di successivo fallimento, ed è un po’ arduo costruirla in sede interpretativa. In effetti, in caso di successivo fallimento, qualora si privilegi la natura contrattuale dell’istituto de quo, non pare possibile riconoscere un collocazione in prededuzione alle obbligazioni assunte nel corso degli accordi di ristrutturazione dei debiti. In primo luogo, infatti, nell’accordo introdotto dall’art. 182 bis l. fall. manca un’espressa finalizzazione della procedura alla prosecuzione dell’attività. Tale riconoscimento va, inoltre negato, perché il procedimento non prevede alcuna forma di sorveglianza di un organo terzo sull’attività di impresa, e quindi anche sull’assunzione di obbligazioni in epoca successiva all’omologazione dell’accordo. 159 Il differente presupposto oggettivo tra l’accordo ex art. 182 bis l. fall. ed il fallimento non rende piu’ possibile l’automatica retrodatazione al deposito o all’omologa dell’accordo del periodo sospetto ai fini della revocatoria in caso di successivo fallimento. Infine, l’Autore si occupa degli effetti degli accordi non omologati per coobbligati e fideiussori. In tali casi, il coobbligato ed il garante “non possono essere tenuti ad effettuare una prestazione maggiore ed ulteriore rispetto a quella cui è tenuto il debitore principale, perché, se cosi’ non fosse, qualora il coobbligato o il fideiussore potessero avvalersi del diritto di rivalsa, la prestazione maggiore o ulteriore finirebbe comunque con il gravare sul debitore principale, con vanificazione, quindi, della avvenuta estinzione del credito, e con perpetuazione della obbligazione principale, mentre, se al garante non fosse consentito rivalersi sul garantito, resterebbe gravato lui stesso direttamente ed esclusivamente dell’obbligazione, divenendo, quindi, debitore principale. Va, infine, rilevato che nel volume de quo si fa cenno all’orientamento, secondo cui, nella composizione negoziale dell’insolvenza ex art. 182 bis l. fall., può avere un ruolo di grande rilevanza anche l’istituto del trust, che, secondo questa impostazione, può costituire un fattore di controllo sui modi e sui tempi di esecuzione dell’accordo. n o v i t à l e g i s l at i v e Legge 28 gennaio 2009, n. 2 163 Gazzetta F O R E N S E ● Legge 28 gennaio 2009, n. 2 ● “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 22 del 28 gennaio 2009 – Supplemento Ordinario n. 14. Legge di conversione ART. 1. 1. Il decreto-legge29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale, è convertito in legge con le modificazioni riportate in allegato alla presente legge. 2. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Testo del decreto-legge coordinato con la legge di conversione pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 22 del 28 gennaio 2009- Supplemento Ordinario n. 14 (*) Le modifiche apportate dalla legge di conversione sono stampate con caratteri corsivi Art 1. Bonus straordinario per famiglie, lavoratori pensionati e non autosufficienza 1. È attribuito un bonus straordinario, per il solo anno 2009, ai soggetti residenti, componenti di un nucleo familiare a basso reddito nel M a r z o • a p r i l e 2 0 0 9 quale concorrono, nell’anno 2008, esclusivamente i seguenti redditi indicati nel Testo Unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917: a) lavoro dipendente di cui all’articolo 49, comma 1; b) pensione di cui all’articolo 49, comma 2; c) assimilati a quelli di lavoro dipendente di cui all’articolo 50, comma 1, lettere a), c-bis), d), l) e i) limitatamente agli assegni periodici indicati nell’articolo 10, comma 1, lettera c); d) diversi di cui all’articolo 67, comma 1, lettere i) e l), limitatamente ai redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente, qualora percepiti dai soggetti a carico del richiedente, ovvero dal coniuge non a carico; e) fondiari di cui all’articolo 25, esclusivamente in coacervo con i redditi indicati alle lettere precedenti, per un ammontare non superiore a duemilacinquecento euro. 2. Ai fini delle disposizioni di cui al presente articolo: a) nel computo del numero dei componenti del nucleo familiare si assumono il richiedente, il coniuge non legalmente ed effettivamente separato anche se non a carico nonché i figli e gli altri familiari di cui all’articolo 12 del citato testo unico alle condizioni ivi previste; b) nel computo del reddito complessivo familiare si assume il reddito complessivo di cui all’articolo 8 del predetto testo unico, con riferimento a ciascun componente del nucleo familiare. 3. Il beneficio di cui al comma 1 è attribuito per gli importi di seguito indicati, in dipendenza del numero di componenti del nucleo familiare, degli eventuali componenti portatori di handicap e del reddito complessivo familiare riferiti al periodo d’imposta 2007 per il quale sussistano i requisiti di cui al com- 163 ma 1, salvo, in alternativa, la facoltà prevista al comma 12: a) euro duecento nei confronti dei soggetti titolari di reddito di pensione ed unici componenti del nucleo familiare, qualora il reddito complessivo non sia superiore ad euro quindicimila; b) euro trecento per il nucleo familiare di due componenti, qualora il reddito complessivo familiare non sia superiore ad euro diciassettemila; c) euro quattrocentocinquanta per il nucleo familiare di tre componenti, qualora il reddito complessivo familiare non sia superiore ad euro diciassettemila; d) euro cinquecento per il nucleo familiare di quattro componenti, qualora il reddito complessivo familiare non sia superiore ad euro ventimila; e) euro seicento per il nucleo familiare di cinque componenti, qualora il reddito complessivo familiare non sia superiore ad euro ventimila; f) euro mille per il nucleo familiare di oltre cinque componenti, qualora il reddito complessivo familiare non sia superiore ad euro ventiduemila; g) euro mille per il nucleo familiare con componenti portatori di handicap per i quali ricorrano le condizioni previste dall’articolo 12, comma 1, del citato testo unico, qualora il reddito complessivo familiare non sia superiore ad euro trentacinquemila. 4. Il beneficio di cui al comma 1 è attribuito ad un solo componente del nucleo familiare e non costituisce reddito né ai fini fiscali né ai fini della corresponsione di prestazioni previdenziali e assistenziali ivi inclusa la carta acquisti di cui all’articolo 81, comma 32, del decretolegge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. 5. Il beneficio spettante ai sensi del comma 3 è erogato dai sostituti d’imposta di cui agli articoli 23 e 29 del decreto del Presidente della Re- Gazzetta F O R E N S E pubblica 29 settembre 1973, n. 600 presso i quali i soggetti beneficiari di cui al comma 1 lettere a), b) e c) prestano l’attività lavorativa ovvero sono titolari di trattamento pensionistico o di altri trattamenti, sulla base dei dati risultanti da apposita richiesta prodotta dai soggetti interessati. Nella domanda il richiedente autocertifica, ai sensi dell’articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, e successive modificazioni, i seguenti elementi informativi: a) il coniuge non a carico ed il relativo codice fiscale; b) i figli e gli altri familiari a carico, indicando i relativi codici fiscali nonché la relazione di parentela; c) di essere in possesso dei requisiti previsti ai commi l e 3 in relazione al reddito complessivo familiare di cui al comma 2, lettera b), con indicazione del relativo periodo d’imposta. 6. La richiesta è presentata entro il 28 febbraio 2009 utilizzando l’apposito modello approvato con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto. La richiesta può essere effettuata anche mediante i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, e successive modificazioni, ai quali non spetta alcun compenso. 7. Il sostituto d’imposta e gli enti pensionistici ai quali è stata presentata la richiesta erogano il beneficio spettante, rispettivamente entro il mese di febbraio e marzo 2009, in relazione ai dati autocertificati ai sensi del comma 5, in applicazione delle disposizioni del comma 3. 8. Il sostituto d’imposta eroga il beneficio, secondo l’ordine di presentazione delle richieste, nei limiti del monte ritenute e contributi disponibili nel mese di febbraio 2009. Le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e gli enti pensionistici erogano il be- N O V IT à LEGI S LATI V E neficio, secondo l’ordine di presentazione delle richieste, nel limite del monte delle ritenute disponibile. 9. L’importo erogato ai sensi dei commi 8 e 14 è recuperato dai sostituti d’imposta attraverso la compensazione di cui all’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 a partire dal primo giorno successivo a quello di erogazione, deve essere indicato nel modello 770 e non concorre alla formazione del limite di cui all’articolo 25 dello stesso decreto legislativo. L’utilizzo del sistema del versamento unificato di cui all’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 da parte degli enti pubblici di cui alle tabelle A e B allegate alla legge 29 ottobre 1984, n. 720 è limitato ai soli importi da compensare; le altre amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sottoposte ai vincoli della tesoreria unica di cui alla legge 29 ottobre 1984, n. 720, recuperano l’importo erogato dal monte delle ritenute disponibile e comunicano al Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato l’ammontare complessivo dei benefici corrisposti. 10. I soggetti di cui al comma precedente trasmettono all’Agenzia delle entrate, entro il 30 aprile del 2009 in via telematica, anche mediante i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, le richieste ricevute ai sensi del comma 6, fornendo comunicazione dell’importo erogato in relazione a ciascuna richiesta di attribuzione. 11. In tutti i casi in cui il beneficio non è erogato dai sostituti d’imposta di cui agli articoli 23 e 29 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, la richiesta di cui al comma 6, può essere presentata telematicamente all’Agenzia delle entrate, entro il 31 marzo 2009, anche mediante i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, e 164 successive modificazioni, ai quali non spetta alcun compenso, indicando le modalità prescelte per l’erogazione dell’importo. 12. Il beneficio di cui al comma 1 può essere richiesto, in dipendenza del numero di componenti del nucleo familiare e del reddito complessivo familiare riferiti al periodo d’imposta 2008. 13. Il beneficio richiesto ai sensi del comma 12 è erogato dai sostituti d’imposta di cui agli articoli 23 e 29 del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 presso i quali i soggetti beneficiari indicati al comma 1, lettere a), b) e c) prestano l’attività lavorativa ovvero sono titolari di trattamento pensionistico o di altri trattamenti, sulla base della richiesta prodotta dai soggetti interessati ai sensi del comma 5, entro il 31 marzo 2009, con le modalità di cui al comma 6. 14. Il sostituto d’imposta e gli enti pensionistici ai quali è stata presentata la richiesta erogano il beneficio spettante, rispettivamente entro il mese di aprile e maggio 2009, in relazione ai dati autocertificati ai sensi del comma 5, in applicazione delle disposizioni del comma 3. 15. Il sostituto d’imposta eroga il beneficio, secondo l’ordine di presentazione delle richieste, nei limiti del monte ritenute e contributi disponibili nel mese di aprile 2009. Le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e gli enti pensionistici erogano il beneficio, secondo l’ordine di presentazione delle richieste, nel limite del monte delle ritenute disponibile. 16. I soggetti di cui al comma precedente trasmettono all’Agenzia delle entrate, entro il 30 giugno 2009 in via telematica, anche mediante i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, le richieste ricevute ai sensi del comma 12, fornendo comunicazione dell’importo erogato in relazione a ciascuna richiesta di attribuzione, secondo le modalità di cui al comma 10. Gazzetta F O R E N S E 17. In tutti i casi in cui il beneficio ai sensi del comma 12 non è erogato dai sostituti d’imposta di cui agli articoli 23 e 29 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, la richiesta può essere presentata: a) entro il 30 giugno 2009 da parte dei soggetti esonerati dall’obbligo alla presentazione della dichiarazione, telematicamente all’Agenzia delle entrate, anche mediante i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, e successive modificazioni, ai quali non spetta compenso, indicando le modalità prescelte per l’erogazione dell’importo; b) con la dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta 2008. 18. L’Agenzia delle entrate eroga il beneficio richiesto ai sensi dei commi 11 e 17 lettera a) con le modalità previste dal decreto del direttore generale del Dipartimento delle entrate 29 dicembre 2000, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 2001. 19. I soggetti che hanno percepito il beneficio non spettante, in tutto o in parte, sono tenuti ad effettuare la restituzione entro il termine di presentazione della prima dichiarazione dei redditi successivo alla erogazione. I contribuenti esonerati dall’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi effettuano la restituzione del beneficio non spettante, in tutto o in parte, mediante versamento con il modello F24 entro i medesimi termini. 20. L’Agenzia delle entrate effettua i controlli relativamente: a) ai benefici erogati eseguendo il recupero di quelli non spettanti e non restituiti spontaneamente; b) alle compensazioni effettuate dai sostituti ai sensi del comma 9, eseguendo il recupero degli importi indebitamente compensati. 21. I sostituti d’imposta di cui agli articoli 23 e 29 del decreto del Presi- M ARZO • APRILE 2 0 0 9 dente della Repubblica n. 600 del 1973 e gli intermediari di cui all’articolo 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, sono tenuti a conservare per tre anni le autocertificazioni ricevute dai richiedenti ai sensi del comma 5, da esibire a richiesta dell’amministrazione finanziaria. 22. Per l’erogazione del beneficio previsto dalle presenti disposizioni, nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle Finanze è istituito un Fondo, per l’anno 2009, con una dotazione pari a due miliardi e quattrocentomilioni di euro cui si provvede con le maggiori entrate derivanti dal presente decreto. 23. Gli Enti previdenziali e l’Agenzia delle entrate provvedono al monitoraggio degli effetti derivanti dalle disposizioni di cui al presente articolo, comunicando i risultati al Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali ed al Ministero dell’economia e delle finanze, anche ai fini dell’adozione dei provvedimenti correttivi di cui all’articolo-11-ter), comma 7, della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni. Art. 2. Mutui prima casa: per i mutui in corso le rate variabili 2009 non possono superare il 4 per cento grazie all’accollo da parte dello Stato dell’eventuale eccedenza; per i nuovi mutui, il saggio di base su cui si calcolano gli spread è costituito dal saggio BCE 1. L’importo delle rate, a carico del mutuatario, dei mutui a tasso non fisso da corrispondere nel corso del 2009 è calcolato applicando il tasso maggiore tra il 4 per cento senza spread, spese varie o altro tipo di maggiorazione e il tasso contrattuale alla data di sottoscrizione del contratto. Tale criterio di calcolo non si applica nel caso in cui le condizioni contrattuali determinano una rata di importo inferiore. 165 1-bis. Anche al fine di escludere a carico del mutuatario qualunque costo relativo alla surrogazione, gli atti di consenso alla surrogazione, ai sensi dell’articolo 1202 del codice civile, relativi a mutui accesi per l’acquisto, la ristrutturazione o la costruzione dell’abitazione principale, contratti entro la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto da soggetti in favore dei quali è prevista la rinegoziazione obbligatoria, sono autenticati dal notaio senza applicazione di alcun onorario e con il solo rimborso delle spese. A tal fine, la quietanza rilasciata dalla prima banca e il contratto di mutuo stipulato dalla seconda banca devono essere forniti al notaio per essere prodotti unitamente all’atto di surrogazione. Per eventuali attività aggiuntive non necessarie all’operazione, espressamente richieste dalle parti, gli onorari di legge restano a carico della parte richiedente. In ogni caso, le banche e gli intermediari finanziari, per l’esecuzione delle formalità connesse alle operazioni di cui all’articolo 8 del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007, n. 40, e successive modificazioni, non applicano costi di alcun genere, anche in forma indiretta, nei riguardi dei clienti. 2. Il comma 1 si applica esclusivamente ai mutui garantiti da ipoteca per l’acquisto la costruzione e la ristrutturazione dell’abitazione principale, ad eccezione di quelle di categoria A1, A8 e A9, sottoscritti o accollati anche a seguito di frazionamento da persone fisiche fino al 31 ottobre 2008. Il comma 1 si applica anche ai mutui rinegoziati in applicazione dell’articolo 3 del decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126, con effetto sul conto di finanziamento accessorio, ovvero, a partire dal momento in cui il conto di finanziamento accessorio ha un saldo pari a zero, sulle rate da corrispondere nel corso del 2009. Gazzetta F O R E N S E 3. La differenza tra gli importi, a carico del mutuatario, delle rate determinati secondo il comma 1 e quelli derivanti dall’applicazione delle condizioni contrattuali dei mutui è assunta a carico dello Stato. Con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate sono stabilite le modalità per la comunicazione alle banche e agli intermediari finanziari dei contribuenti per i quali, sulla base delle informazioni disponibili presso l’Anagrafe tributaria, possono ricorrere le condizioni per l’applicabilità delle disposizioni di cui al presente comma e le modalità tecniche per garantire ai medesimi operatori l’attribuzione di un credito d’imposta, utilizzabile esclusivamente in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successivemodificazioni, pari allaparte di rata a carico dello Stato ai sensi del comma 2 e per il monitoraggio dei relativi flussi finanziari, anche ai fini dell’eventuale adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 12, comma 9, del presente decreto. 4. Gli oneri derivanti dal comma 3, pari a 350 milioni di euro per l’anno 2009, sono coperti con le maggiori entrate derivanti dal presente decreto. 5. A partire dal 1 gennaio 2009, le banche e gli intermediari finanziari iscritti negli elenchi di cui agli articoli 106 e 107 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, che offrono alla clientela mutui garantiti da ipoteca per l’acquisto dell’abitazione principale devono assicurare ai medesimi clienti la possibilità di stipulare tali contratti a tasso variabile indicizzato al tasso sulle operazioni di rifinanziamento principale della Banca centrale europea. Il tasso complessivo applicato in tali contratti è in linea con quello praticato per le altre forme di indicizzazione offerte. Le banche e gli intermediari finanziari iscritti negli N O V IT à LEGI S LATI V E elenchi di cui ai citati articoli 106 e 107 del testo unico dicui al decreto legislativo n. 385 del 1993, e successive modificazioni, sono tenuti a osservare le disposizioni emanate dalla Banca d’Italia per assicurare adeguata pubblicità e trasparenza all’offerta di tali contratti e alle relative condizioni. Le banche e gli intermediari finanziari iscritti negli elenchi di cui ai citati articoli 106 e 107 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 385 del 1993, e successive modificazioni, trasmettono alla Banca d’Italia, con le modalità e nei termini da questa indicate, segnalazioni statistiche periodiche sulle condizioni offerte e su numero e ammontare dei mutui stipulati. Per l’inosservanza delle disposizioni di cui al presente comma e delle relative istruzioni applicative emanate dalla Banca d’Italia, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria prevista all’articolo 144, comma 3, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 385 del 1993. Si applicano altresì le disposizioni di cui all’articolo 145 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 385 del 1993. 5-bis. Le eventuali minori spese a carico dello Stato per l’anno 2009, rispetto all’importo di 350 milioni di euro di cui al comma 4, registrate all’esito del monitoraggio di cui al comma 3, sono destinate, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, all’ulteriore finanziamento degli assegni familiari. Con lo stesso decreto sono ridefiniti i livelli di reddito e gli importi degli assegni per i nuclei familiari in maniera da valorizzare le esigenze delle famiglie più numerose o con componenti portatori di handicap, nonché al fine di una tendenziale assimilazione tra le posizioni dei titolari di reddito di lavoro dipendente o assimilati e i titolari di reddito di lavoro autonomo che si siano adeguati agli studi di settore. 166 5-ter. Al fine di incrementare la dotazione del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, di cui all’articolo 11, comma 1, della legge 9 dicembre 1998, n. 431, è autorizzata per l’anno 2009 la spesa di 20 milioni di euro. 5-quater. A decorrere dal 1° gennaio 2009, per l’inosservanza delle disposizioni di cui all’articolo 8 del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007, n. 40, come modificato dal comma 450 dell’articolo 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, si applicano le sanzioni pecuniarie di cui all’articolo 144, comma 4, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385. 5-quinquies. Le sanzioni irrogate ai sensi del comma 5-quater sono destinate ad incrementare il Fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa, di cui all’articolo 2, comma 475, della legge 24 dicembre 2007, n. 244. 5-sexies. Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il Ministro dell’economia e delle finanze, con proprio decreto, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, emana il regolamento attuativo del Fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa, di cui all’articolo 2, comma 475, della legge 24 dicembre 2007, n. 244. Art. 2-bis Ulteriori disposizioni concernenti contratti bancari 1. Sono nulle le clausole contrattuali aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto se il saldo del cliente risulti a debito per un periodo continuativo inferiore a trenta giorni ovvero a fronte di utilizzi in assenza di fido. Sono altresì nulle le clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione accordata alla ban- Gazzetta F O R E N S E ca per la messa a disposizione di fondi a favore del cliente titolare di conto corrente indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma, ovvero che prevedono una remunerazione accordata alla banca indipendentemente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, salvo che il corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle somme sia predeterminato, unitamente al tasso debitore per le somme effettivamente utilizzate, con patto scritto non rinnovabile tacitamente, in misura onnicomprensiva e proporzionale all’importo e alla durata dell’affidamento richiesto dal cliente e sia specificatamente evidenziato e rendicontato al cliente con cadenza massima annuale con l’indicazione dell’effettivo utilizzo avvenuto nello stesso periodo, fatta salva comunque la facoltà di recesso del cliente in ogni momento. 2. Gli interessi, le commissioni e le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono comunque rilevanti ai fini dell’applicazione dell’articolo 1815 del codice civile, dell’articolo 644 del codice penale e degli articoli 2 e 3 della legge 7 marzo 1996, n. 108. Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia, emana disposizioni transitorie in relazione all’applicazione dell’articolo 2 della legge 7 marzo 1996, n. 108, per stabilire che il limite previsto dal terzo comma dell’articolo 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono usurari, resta regolato dalla disciplina vigente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto fino a che la rilevazione del tasso effettivo globale medio non verrà effettuata tenendo conto delle nuove disposizioni. M ARZO • APRILE 2 0 0 9 3. I contratti in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono adeguati alle disposizioni del presente articolo entro centocinquanta giorni dalla medesima data. Tale obbligo di adeguamento costituisce giustificato motivo agli effetti dell’articolo 118, comma 1, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni. Art. 4. Fondo per il credito per i nuovi nati e disposizione per i volontari del servizio civile nazionale 1. Per la realizzazione di iniziative a carattere nazionale volte a favorire l’accesso al credito delle famiglie con un figlio nato o adottato nell’anno di riferimento è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un apposito fondo rotativo, dotato di personalità giuridica, denominato: «Fondo di credito per i nuovi nati», con una dotazione di 25 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009, 2010, 2011, finalizzato al rilascio di garanzie dirette, anche fidejussorie, alle banche e agli intermediari finanziari. Al relativo onere si provvede a valere sulle risorse del Fondo per le politiche della famiglia di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, come integrato dall’articolo 1, comma 1250, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Con decreto di natura non regolamentare del Presidente del Consiglio dei Ministri di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono stabiliti i criteri e le modalità di organizzazione e di funzionamento del Fondo, di rilascio e di operatività delle garanzie. 1-bis. Il Fondo di credito per i nuovi nati di cui al comma 1 è altresì integrato di ulteriori 10 milioni di euro per l’anno 2009 per la corresponsione di contributi in con- 167 to interessi in favore delle famiglie di nuovi nati o bambini adottati nel medesimo anno che siano portatori di malattie rare, appositamente individuate dall’elenco di cui all’articolo 5, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 29 aprile 1998, n. 124. In ogni caso, l’ammontare complessivo dei contributi non può eccedere il predetto limite di 10 milioni di euro per l’anno 2009. 2. Il comma 4 dell’articolo 9 del decreto legislativo 5 aprile 2002, n. 77 e successive modificazioni è sostituito dai seguenti: «4. Per i soggetti iscritti al Fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, agli iscritti ai fondi sostitutivi ed esclusivi dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti ed alla gestione di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, i periodi corrispondenti al servizio civile su base volontaria successivi al 1o gennaio 2009 sono riscattabili, in tutto o in parte, a domanda dell’assicurato, e senza oneri a carico del Fondo Nazionale del Servizio civile, con le modalità di cui all’articolo 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338 e successive modificazioni ed integrazioni, e sempreché gli stessi non siano già coperti da contribuzione in alcuno dei regimi stessi. 4-bis. Gli oneri da riscatto possono essere versati ai regimi previdenziali di appartenenza in unica soluzione ovvero in centoventi rate mensili senza l’applicazione di interessi per la rateizzazione. 4-ter. Dal 1° gennaio 2009, cessa a carico del Fondo Nazionale del Servizio Civile qualsiasi obbligo contributivo ai fini di cui al comma 4 per il periodo di servizio civile prestato dai volontari avviati dal 1° gennaio 2009». 3. Nell’anno 2009, nel limite complessivo di spesa di 60 milioni di euro, al personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico, in ragione della specificità dei compiti e delle condizioni di stato e di impiego del comparto, titolare di reddito Gazzetta F O R E N S E complessivo di lavoro dipendente non superiore, nell’anno 2008, a 35.000 euro, è riconosciuta, in via sperimentale, sul trattamento economico accessorio, una riduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali. La misura della riduzione e le modalità applicative della stessa saranno individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri interessati, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione e con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. 3-bis. Le risorse del fondo istituito dall’articolo 1, comma 1328, secondo periodo, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, alimentato dalle società aeroportuali in proporzione al traffico generato, destinate al Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile del Ministero dell’interno, sono utilizzate, a decorrere dal 1 gennaio 2009, per il 40 per cento al fine dell’attuazione di patti per il soccorso pubblico da stipulare, di anno in anno, tra il Governo e le organizzazioni sindacali del Corpo nazionale dei vigili del fuoco per assicurare il miglioramento della qualità del servizio di soccorso prestato dal personale del medesimo Corpo nazionale dei vigili del fuoco, e per il 60 per cento al fine di assicurare la valorizzazione di una più efficace attività di soccorso pubblico del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, prevedendo particolari emolumenti da destinare all’istituzione di una speciale indennità operativa per il servizio di soccorso tecnico urgente espletato all’esterno. 3-ter. Le modalità di utilizzo delle risorse di cui al comma 3-bis sono stabilite nell’ambito dei procedimenti negoziali di cui agli articoli 37 e 83 del decreto legislativo 13 ottobre 2005, n. 217. 3-quater. Il Ministro dell’econo- N O V IT à LEGI S LATI V E mia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. 4. All’articolo 7, comma 3, della legge 8 marzo 2000, n. 53, la parola «definite» è sostituita dalle seguenti: «definiti i requisiti, i criteri e». 5. Il decreto ministeriale di cui all’articolo 7, comma 3, della legge 8 marzo 2000, n. 53, è emanato entro trenta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto-legge. Art. 9. Rimborsi fiscali ultradecennali e velocizzazione, anche attraverso garanzie della Sace s.p.a., dei pagamenti da parte della p.a. 1. All’articolo 15-bis, comma 12, del decreto legge 2 luglio 2007, n. 81, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2007, n. 127, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: Relativamente agli anni 2008 e 2009 le risorse disponibili sono iscritte sul fondo di cui all’articolo 1, comma 50, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, rispettivamente, per provvedere all’estinzione dei crediti, maturati nei confronti dei Ministeri alla data del 31 dicembre 2007, il cui pagamento rientri, secondo i criteri di contabilità nazionale, tra le regolazioni debitorie pregresse e il cui ammontare è accertato con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, anche sulla base delle risultanze emerse a seguito della emanazione della propria circolare n. 7 del 5 febbraio 2008, nonché per essere trasferite alla contabilità speciale n. 1778 «Agenzia delle entrate – Fondi di Bilancio» per i rimborsi richiesti da più di dieci anni, per la successiva erogazione ai contribuenti. 2. Per effetto della previsione di cui al comma 1, i commi 139, 140 e 140-bis dell’articolo 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, sono abrogati. 3. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del presente 168 decreto, sono stabilite le modalità per favorire l’intervento delle imprese di assicurazione e della SACE s.p.a. nella prestazione di garanzie finalizzate ad agevolare la riscossione dei crediti vantati dai fornitori di beni e servizi nei confronti delle amministrazioni pubbliche con priorità per le ipotesi nelle quali sia contestualmente offerta una riduzione dell’ammontare del credito originario. 3-bis. Per l’anno 2009, su istanza del creditore di somme dovute per somministrazioni, forniture e appalti, le regioni e gli enti locali, nel rispetto dei limiti di cui agli articoli 77-bise 77-terdel decretolegge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, possono certificare, entro il termine di venti giorni dalla data di ricezione dell’istanza, se il relativo credito sia certo, liquido ed esigibile, al fine di consentire al creditore la cessione pro soluto a favore di banche o intermediari finanziari riconosciuti dalla legislazione vigente. Tale cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto, a far data dalla predetta certificazione, che può essere a tal fine rilasciata anche nel caso in cui il contratto di fornitura o di servizio in essere alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto escluda la cedibilità del credito medesimo. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono disciplinate le modalità di attuazione del presente comma. Art. 12. Finanziamento dell’economia attraverso la sottoscrizione pubblica di obbligazioni bancarie speciali e relativi controlli parlamentari e territoriali 1. Al fine di assicurare un adeguato f lusso di finanziamenti all’economia e un adeguato livello Gazzetta F O R E N S E di patrimonializzazione del sistema bancario, il Ministero dell’economia e delle finanze è autorizzato, fino al 31 dicembre 2009, anche in deroga alle norme di contabilità di Stato, a sottoscrivere, su specifica richiesta delle banche interessate, strumenti finanziari privi dei diritti indicati nell’articolo 2351 del codice civile, computabili nel patrimonio di vigilanza ed emessi da banche italiane le cui azioni sono negoziate su mercati regolamentati o da società capogruppo di gruppi bancari italiani le azioni delle quali sono negoziate su mercati regolamentati. 2. Gli strumenti finanziari di cui al comma 1 possono essere strumenti convertibili in azioni ordinarie su richiesta dell’emittente. Può essere inoltre prevista, a favore dell’emittente, la facoltà di rimborso o riscatto, a condizione che la Banca d’Italia attesti che l’operazione non pregiudica le condizioni finanziarie o di solvibilità della banca né del gruppo bancario di appartenenza. In ogni caso, il programma di intervento di cui al presente articolo ha l’obiettivo di terminare entro dieci anni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. 3. La remunerazione degli strumenti finanziari di cui al comma 1 può dipendere, in tutto o in parte, dalla disponibilità di utili distribuibili ai sensi dell’articolo 2433 del codice civile. In tal caso la delibera con la quale l’assemblea decide sulla destinazione degli utili è vincolata al rispetto delle condizioni di remunerazione degli strumenti finanziari stessi. 4. Il Ministero dell’economia e delle finanze sottoscrive gli strumenti finanziari di cui al comma 1 a condizione che l’operazione risulti economica nel suo complesso, tenga conto delle condizioni di mercato e sia funzionale al perseguimento delle finalità indicate al comma 1. 5. La sottoscrizione è, altresì, condizionata: a) all’assunzione da parte dell’emittente degli impegni definiti in un apposito protocollo d’intenti con M ARZO • APRILE 2 0 0 9 il Ministero dell’economia e delle finanze, in ordine al livello e alle condizioni del credito da assicurare alle piccole e medie imprese e alle famiglie, alle modalità con le quali garantire adeguati livelli di liquidità ai creditori delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, anche attraverso lo sconto di crediti certi, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, e a politiche dei dividendi coerenti con l’esigenza di mantenere adeguati livelli di patrimonializzazione; b) all’adozione, da parte degli emittenti, di un codice etico contenente, tra l’altro, previsioni in materia di politiche di remunerazione dei vertici aziendali. 5-bis. Gli schemi dei protocolli di cui alla lettera a) e gli schemi dei codici di cui alla lettera b) del comma 5 sono trasmessi alle Camere. 6. Sul finanziamento all’economia il Ministro dell’economia e delle finanze riferisce periodicamente al Parlamento fornendo dati disaggregati per regione e categoria economica; a tale fine presso le Prefetture è istituito uno speciale osservatorio con la partecipazione dei soggetti interessati. Dall’istituzione degli osservatori di cui al presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato; al funzionamento degli stessi si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie già previste, a legislazione vigente, per le Prefetture. 7. La sottoscrizione degli strumenti finanziari è effettuata sulla base di una valutazione da parte della Banca d’Italia delle condizioni economiche dell’operazione e della computabilità degli strumenti finanziari nel patrimonio di vigilanza. 8. L’organo competente per l’emissione di obbligazioni subordinate delibera anche in merito all’emissione degli strumenti finanziari previsti dal presente articolo. L’esercizio della facoltà di conversio- 169 ne è sospensivamente condizionato alla deliberazione in ordine al relativo aumento di capitale. 9. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, sono individuate le risorse necessarie per finanziare le operazioni stesse. Le predette risorse, da iscrivere in apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze, sono individuate in relazione a ciascuna operazione mediante: a) riduzione lineare delle dotazioni finanziarie, a legislazione vigente, delle missioni di spesa di ciascun Ministero, con esclusione delle dotazioni di spesa di ciascuna missione connesse a stipendi, assegni, pensioni e altre spese fisse; alle spese per interessi; alle poste correttive e compensative delle entrate, comprese le regolazioni contabili con le regioni; ai trasferimenti a favore degli enti territoriali aventi natura obbligatoria; del fondo ordinario delle università; delle risorse destinate alla ricerca; delle risorse destinate al finanziamento del 5 per mille delle imposte sui redditi delle persone fisiche; nonché quelle dipendenti da parametri stabiliti dalla legge o derivanti da accordi internazionali; b) riduzione di singole autorizzazioni legislative di spesa; c) utilizzo temporaneo mediante versamento in entrata di disponibilità esistenti sulle contabilità speciali nonché sui conti di tesoreria intestati ad amministrazioni pubbliche ed enti pubblici nazionali con esclusione di quelli intestati alle Amministrazioni territoriali, nonché di quelli riguardanti i flussi finanziari intercorrenti con l’Unione europea ed i connessi cofinanziamenti nazionali, con corrispondente riduzione delle relative autorizzazioni di spesa e contestuale riassegnazione al predetto capitolo; d) emissione di titoli del debito pubblico. Gazzetta F O R E N S E 9-bis. Gli schemi di decreto di cui al comma 9, corredati di relazione tecnica, sono trasmessi alle Camere per l’espressione del parere delle Commissioni competenti per i profili di carattere finanziario. I pareri sono espressi entro quindici giorni dalla data di trasmissione. Il Governo, ove non intenda conformarsi alle condizioni formulate con riferimento ai profili finanziari, trasmette nuovamente alle Camere gli schemi di decreto, corredati dei necessari elementi integrativi di informazione, per i pareri definitivi delle Commissioni competenti per i profili finanziari, da esprimere entro dieci giorni dalla data di trasmissione. Decorsi inutilmente i termini per l’espressione dei pareri, i decreti possono essere comunque adottati. 10. I decreti di cui al comma 9 e i correlati decreti di variazione di bilancio sono trasmessi con immediatezza al Parlamento e comunicati alla Corte dei conti. 11. Ai fini delle operazioni di cui al presente articolo e all’articolo 1 del decreto-legge 9 ottobre 2008, n. 155, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 2008, n. 190, le deliberazioni previste dall’articolo 2441, quinto comma, e dall’articolo 2443, secondo comma, del codice civile sono assunte con le stesse maggioranze previste per le deliberazioni di aumento di capitale dagli articoli 2368 e 2369 del codice civile. I termini stabiliti per le operazioni della specie ai sensi del codice civile e del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, sono ridotti della metà. 12. Con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia, da adottarsi entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono stabiliti criteri, condizioni e modalità di sottoscrizione degli strumenti finanziari di cui al presente articolo. 12-bis. Il Ministro dell’economia e delle finanze riferisce alle N O V IT à LEGI S LATI V E Camere in merito all’evoluzione degli interventi effettuati ai sensi del presente articolo nell’ambito della relazione trimestrale di cui all’articolo 5, comma 1-ter, del decreto-legge 9 ottobre 2008, n. 155, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 2008, n. 190. Art. 14. Attuazione della direttiva 2007/44/CE sulla partecipazione dell’industria nelle banche; disposizioni in materia di amministrazione straordinaria e di fondi comuni di investimento speculativi (cd. hedge fund) 1. Sono abrogati i commi 6 e 7 dell’articolo 19 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385. Al comma 8-bis del medesimo articolo 19 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 385 del 1993, le parole: «e il divieto previsto dal comma 6» sono soppresse. Ai soggetti che, anche attraverso società controllate, svolgono in misura rilevante attività d’impresa in settori non bancari né finanziari l’autorizzazione prevista dall’articolo 19 del medesimo decreto legislativo è rilasciata dalla Banca d’Italia ove ricorrano le condizioni previste dallo stesso articolo e, in quanto compatibili, dalle relative disposizioni di attuazione. Con riferimento a tali soggetti deve essere inoltre accertata la competenza professionale generale nella gestione di partecipazioni ovvero, considerata l’influenza sulla gestione che la partecipazione da acquisire consente di esercitare, la competenza professionale specifica nel settore finanziario. La Banca d’Italia può chiedere ai medesimi soggetti ogni informazione utile per condurre tale valutazione. 2. Il primo periodo del comma l dell’articolo 12, del decreto legislativo 22 giugno 2007, n. 109, è sostituito dal seguente: «Fatta eccezione per quanto previsto dal comma 18bis del presente articolo e salvo che il Comitato, senza oneri aggiuntivi 170 per la finanza pubblica, non individui modalità operative alternative per attuare il congelamento delle risorse economiche in applicazione dei principi di efficienza, efficacia ed economicità, l’Agenzia del demanio provvede alla custodia, all’amministrazione ed alla gestione delle risorse economiche oggetto di congelamento.». 3. All’articolo 12 del decreto legislativo 22 giugno 2007, n. 109, dopo il comma 18 è aggiunto il seguente comma: «18-bis. Nel caso in cui i soggetti designati siano sottoposti alla vigilanza della Banca d’Italia si applicano, sentito il Comitato di sicurezza finanziaria, gli articoli 70 e seguenti, 98 e 100 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, o l’articolo 56 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, recante il testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria. Il comitato di sorveglianza può essere composto da un numero di componenti inferiore a tre. L’amministrazione straordinaria dura per il periodo del congelamento e il tempo necessario al compimento degli adempimenti successivi alla cessazione degli effetti dello stesso, salvo che la Banca d’Italia, sentito il Comitato di sicurezza finanziaria, ne autorizzi la chiusura anticipata. Resta ferma la possibilità di adottare in ogni momento i provvedimenti previsti nei medesimi decreti legislativi. Si applicano, in quanto compatibili, le seguenti disposizioni del presente articolo, intendendosi comunque esclusa ogni competenza dell’Agenzia del demanio: comma 2, ultimo periodo, comma 7, commi da 11 a 17, ad eccezione del comma 13 lettera a). Quanto precede si applica anche agli intermediari sottoposti alla vigilanza di altre Autorità, secondo la rispettiva disciplina di settore». 4. All’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 22 giugno 2007, n. 109, le parole «fatte salve le attribuzioni conferite all’Agenzia del demanio ai sensi dell’articolo 12» sono sostituite dalle seguenti paro- Gazzetta F O R E N S E le: «fatto salvo quanto previsto dall’articolo 12». 5. All’articolo 56 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, dopo il comma 3 è aggiunto il seguente comma: «3-bis. Le operazioni di cui ai commi 1 e 2 effettuate in attuazione dell’articolo 27, comma 2, lettere a) e b-bis), in vista della liquidazione dei beni del cedente, non costituiscono comunque trasferimento di azienda, di ramo o di parti dell’azienda agli effetti previsti dall’articolo 2112 del codice civile.». 6. Al fine di salvaguardare l’interesse e la parità di trattamento dei partecipanti, il regolamento dei fondi comuni di investimento speculativi può prevedere che, sino al 31 dicembre 2009: a) nel caso di richieste di rimborso complessivamente superiori in un dato giorno o periodo al 15 per cento del valore complessivo netto del fondo, la SGR può sospendere il rimborso delle quote eccedente tale ammontare in misura proporzionale alle quote per le quali ciascun sottoscrittore ha richiesto il rimborso. Le quote non rimborsate sono trattate come una nuova domanda di rimborso presentata il primo giorno successivo all’effettuazione dei rimborsi parziali. b) nei casi eccezionali in cui la cessione di attività illiquide del fondo, necessaria per far fronte alle richieste di rimborso, può pregiudicare l’interesse dei partecipanti, la SGR può deliberare la scissione parziale del fondo, trasferendo le attività illiquide in un nuovo fondo di tipo chiuso. Ciascun partecipante riceve un numero di quote del nuovo fondo uguale a quello che detiene nel vecchio fondo. Il nuovo fondo non può emettere nuove quote; le quote del nuovo fondo vengono rimborsate via via che le attività dello stesso sono liquidate. 7. Le modifiche al regolamento dei fondi per l’inserzione delle clausole di cui al comma 6 entrano in M ARZO • APRILE 2 0 0 9 vigore il giorno stesso dell’approvazione da parte della Banca d’Italia e sono applicabili anche alle domande di rimborso già presentate ma non ancora regolate. 8. Sono abrogati i limiti massimi al numero dei partecipanti a un fondo speculativo previsti da norme di legge o dai relativi regolamenti di attuazione. 9. La Banca d’Italia definisce con proprio regolamento le norme attuative dei commi 6, 7 e 8 del presente articolo, con particolare riferimento alla definizione di attività illiquide, alle caratteristiche dei fondi chiusi di cui al comma 6, lettera b), alle procedure per l’approvazione delle modifiche dei regolamenti di gestione dei fondi e all’ipotesi in cui a seguito dell’applicazione delle misure di cui al comma 6, siano detenute quote di valore inferiore al minimo previsto per l’investimento in quote di fondi speculativi. Art. 16. Riduzione dei costi amministrativi a carico delle imprese (N.B. v. co.12bis e ss. per modifiche al C.C.) 1. All’articolo 21 della legge 30 dicembre 1991, n. 413, sono apportate le seguenti modificazioni: a) alla fine del comma 9 è aggiunto il seguente periodo: «La mancata comunicazione del parere da parte dell’Agenzia delle entrate entro 120 giorni e dopo ulteriori 60 giorni dalla diffida ad adempiere da parte del contribuente equivale a silenzio assenso.»; b) il comma 10 è soppresso. 2. All’articolo 37, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 i commi da 33 a 37-ter sono abrogati. 3. All’articolo 1, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 i commi da 30 a 32 sono abrogati. 4. All’articolo 1, della legge 24.12.2007, n 244, i commi da 363 a 366 sono abrogati. 5. Nell’articolo 13 del decreto 171 legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 1, lettera a), le parole «un ottavo» sono sostituite dalle seguenti: «un dodicesimo»; b) al comma 1, lettera b), le parole «un quinto» sono sostituite dalle seguenti: «un decimo»; c) al comma 1, lettera c), le parole: «un ottavo», ovunque ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «un dodicesimo». 5-bis. La lettera h)del comma 4 dell’articolo 50-bisdel decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, si interpreta nel senso che le prestazioni di servizi ivi indicate, relative a beni consegnati al depositario, costituiscono ad ogni effetto introduzione nel deposito IVA. 6. Le imprese costituite in forma societaria sono tenute a indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata nella domanda di iscrizione al registro delle imprese o analogo indirizzo di posta elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e della ricezione delle comunicazioni e l’integrità del contenuto delle stesse, garantendo l’interoperabilità con analoghi sistemi internazionali. Entro tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto tutte le imprese, già costituite in forma societaria alla medesima data di entrata in vigore, comunicano al registro delle imprese l’indirizzo di posta elettronica certificata. L’iscrizione dell’indirizzo di posta elettronica certificata nel registro delle imprese e le sue successive eventuali variazioni sono esenti dall’imposta di bollo e dai diritti di segreteria. 7. I professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato comunicano ai rispettivi ordini o collegi il proprio indirizzo di posta elettronica certificata o analogo indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6 entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto. Gli ordini e i col- Gazzetta F O R E N S E legi pubblicano in un elenco riservato, consultabile in via telematica esclusivamente dalle pubbliche amministrazioni, i dati identificativi degli iscritti con il relativo indirizzo di posta elettronica certificata. 8. Le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, qualora non abbiano provveduto ai sensi dell’articolo 47, comma 3, lettera a), del Codice dell’Amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, istituiscono una casella di posta certificata o analogo indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6 per ciascun registro di protocollo e ne danno comunicazione al Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione, che provvede alla pubblicazione di tali caselle in un elenco consultabile per via telematica. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e si deve provvedere nell’ambito delle risorse disponibili. 9. Salvo quanto stabilito dall’articolo 47, commi 1 e 2, del codice dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, le comunicazioni tra i soggetti di cui ai commi 6, 7 e 8 del presente articolo, che abbiano provveduto agli adempimenti ivi previsti, possono essere inviate attraverso la posta elettronica certificata o analogo indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6, senza che il destinatario debba dichiarare la propria disponibilità ad accettarne l’utilizzo. 10. La consultazione per via telematica dei singoli indirizzi di posta elettronica certificata o analoghi indirizzi di posta elettronica di cui al comma 6, nel registro delle imprese o negli albi o elenchi costituiti ai sensi del presente articolo avviene liberamente e senza oneri. L’estrazione di elenchi di indirizzi è consentita alle sole pubbliche amministrazioni per le comunicazioni relative agli adempimenti ammini- N O V IT à LEGI S LATI V E strativi di loro competenza. 10-bis. Gli intermediari abilitati ai sensi dell’articolo 31, comma 2-quater, della legge 24 novembre 2000, n. 340, sono obbligati a richiedere per via telematica la registrazione degli atti di trasferimento delle partecipazioni di cui all’articolo 36, comma 1-bis, del decretolegge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nonché al contestuale pagamento telematico dell’imposta dagli stessi liquidata e sono altresì responsabili ai sensi dell’articolo 57, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131. In materia di imposta di bollo si applicano le disposizioni previste dall’articolo 1, comma 1-bis.1, numero 3), della tariffa, parte prima, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642, come sostituita dal decreto del Ministro delle finanze 20 agosto 1992, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficialen. 196 del 21 agosto 1992, e successive modificazioni. 10-ter. Con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate sono stabiliti i termini e le modalità di esecuzione per via telematica degli adempimenti di cui al comma 10-bis. 11. Il comma 4 dell’articolo 4 del regolamento di cui aldecreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, è abrogato. 12. I commi 4 e 5 dell’articolo 23 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante «Codice dell’amministrazione digitale», sono sostituiti dai seguenti: «4. Le copie su supporto informatico di qualsiasi tipologia di documenti analogici originali, formati in origine su supporto cartaceo o su altro supporto non informatico, sostituiscono ad ogni effetto di legge gli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale è assicurata da chi lo detiene median- 172 te l’utilizzo della propria firma digitale e nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 71. 5. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri possono essere individuate particolari tipologie di documenti analogici originali unici per le quali, in ragione di esigenze di natura pubblicistica, permane l’obbligo della conservazione dell’originale analogico oppure, in caso di conservazione ottica sostitutiva, la loro conformità all’originale deve essere autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione da questi firmata digitalmente ed allegata al documento informatico.». 12-bis. Dopo l’articolo 2215 del codice civile è inserito il seguente: «Art. 2215-bis. (Documentazione informatica). – I libri, i repertori, le scritture e la documentazione la cui tenuta è obbligatoria per disposizione di legge o di regolamento o che sono richiesti dalla natura o dalle dimensioni dell’impresa possono essere formati e tenuti con strumenti informatici. Le registrazioni contenute nei documenti di cui al primo comma debbono essere rese consultabili in ogni momento con i mezzi messi a disposizione dal soggetto tenutario e costituiscono informazione primaria e originale da cui è possibile effettuare, su diversi tipi di supporto, riproduzioni e copie per gli usi consentiti dalla legge. Gli obblighi di numerazione progressiva, vidimazione e gli altri obblighi previsti dalle disposizioni di legge o di regolamento per la tenuta dei libri, repertori e scritture, ivi compreso quello di regolare tenuta dei medesimi, sono assolti, in caso di tenuta con strumenti informatici, mediante apposizione, ogni tre mesi a far data dalla messa in opera, della marcatura temporale e della firma digitale dell’imprenditore, o di altro soggetto dal medesimo delegato, inerenti al documento contenente le registrazioni relative ai tre mesi precedenti. Qualora per tre mesi non siano state eseguite registrazioni, la firma digitale e la marcatura tempo- Gazzetta F O R E N S E rale devono essere apposte all’atto di una nuova registrazione, e da tale apposizione decorre il periodo trimestrale di cui al terzo comma. I libri, i repertori e le scritture tenuti con strumenti informatici, secondo quanto previsto dal presente articolo, hanno l’efficacia probatoria di cui agli articoli 2709 e 2710 del codice civile». 12-ter. L’obbligo di bollatura dei documenti di cui all’articolo 2215bis del codice civile, introdotto dal comma 12-bisdel presente articolo, in caso di tenuta con strumenti informatici, è assolto in base a quanto previsto all’articolo 7 del decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 23 gennaio 2004, pubblicato nella Gazzetta Ufficialen. 27 del 3 febbraio 2004. 12-quater. All’articolo 2470 del codice civile sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo comma, le parole: «dell’iscrizione nel libro dei soci secondo quanto previsto nel» sono sostituite dalle seguenti: «del deposito di cui al»; b) al secondo comma, il secondo periodo è soppresso e, al terzo periodo, le parole: «e l’iscrizione sono effettuati» sono sostituite dalle seguenti: «è effettuato»; c) il settimo comma è sostituito dal seguente: «Le dichiarazioni degli amministratori previste dai commi quarto e quinto devono essere depositate entro trenta giorni dall’avvenuta variazione della compagine sociale». 12-quinquies. Al primo comma dell’articolo 2471 del codice civile, le parole: «Gli amministratori procedono senza indugio all’annotazione nel libro dei soci» sono soppresse. 12-sexies. Al primo comma dell’articolo 2472 del codice civile, le parole: «libro dei soci» sono sostituite dalle seguenti: «registro delle imprese». 12-septies. All’articolo 2478 del codice civile sono apportate le seguenti modificazioni: a) il numero 1) del primo comma è M ARZO • APRILE 2 0 0 9 abrogato; b) al secondo comma, le parole: «I primi tre libri» sono sostituite dalle seguenti: «I libri indicati nei numeri 2) e 3) del primo comma» e le parole: «e il quarto» sono sostituite dalle seguenti: «; il libro indicato nel numero 4) del primo comma deve essere tenuto». 12-octies. Al secondo comma dell’articolo 2478-bisdel codice civile, le parole: «devono essere depositati» sono sostituite dalle seguenti: «deve essere depositata» e le parole: «e l’elenco dei soci e degli altri titolari di diritti sulle partecipazioni sociali» sono soppresse. 12-novies. All’articolo 2479bis, primo comma, secondo periodo, del codice civile, le parole: «libro dei soci» sono sostituite dalle seguenti: «registro delle imprese». 12-decies. Al comma 1-bis dell’articolo 36 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, il secondo periodo è soppresso. 12-undecies. Le disposizioni di cui ai commi da 12-quatera 12-deciesentrano in vigore il sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Entro tale termine, gli amministratori delle società a responsabilità limitata depositano, con esenzione da ogni imposta e tassa, apposita dichiarazione per integrare le risultanze del registro delle imprese con quelle del libro dei soci». Art. 16-bis Misure di semplificazione per le famiglie e per le imprese 1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 3 e secondo le modalità ivi previste, i cittadini comunicano il trasferimento della propria residenza e gli altri eventi anagrafici e di stato civile all’ufficio competente. Entro ventiquattro ore dalla conclusione del procedimento ammini- 173 strativo anagrafico, l’ufficio di anagrafe trasmette le variazioni all’indice nazionale delle anagrafi, di cui all’articolo 1, quarto comma, della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, e successive modificazioni, che provvede a renderle accessibili alle altre amministrazioni pubbliche. 2. La richiesta al cittadino di produrre dichiarazioni o documenti al di fuori di quelli indispensabili per la formazione e le annotazioni degli atti di stato civile e di anagrafe costituisce violazione dei doveri d’ufficio, ai fini della responsabilità disciplinare. 3. Con uno o più decreti del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione e del Ministro dell’interno, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, sono stabilite le modalità per l’attuazione del comma 1. 4. Dall’attuazione del comma 1 non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. 5. Per favorire la realizzazione degli obiettivi di massima diffusione delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni, previsti dal codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ai cittadini che ne fanno richiesta è attribuita una casella di posta elettronica certificata. L’utilizzo della posta elettronica certificata avviene ai sensi degli articoli 6 e 48 del citato codice di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005, con effetto equivalente, ove necessario, alla notificazione per mezzo della posta. Le comunicazioni che transitano per la predetta casella di posta elettronica certificata sono senza oneri. 6. Per i medesimi fini di cui al comma 5, ogni amministrazione pubblica utilizza unicamente la posta elettronica certificata, ai sensi dei citati articoli 6 e 48 del codice di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005, con effetto equivalente, ove necessario, alla notificazione per mezzo della posta, per le comunica- Gazzetta F O R E N S E zioni e le notificazioni aventi come destinatari dipendenti della stessa o di altra amministrazione pubblica. 7. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, sono definite le modalità di rilascio e di uso della casella di posta elettronica certificata assegnata ai cittadini ai sensi del comma 5 del presente articolo, con particolare riguardo alle categorie a rischio di esclusione ai sensi dell’articolo 8 del citato codice di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005, nonché le modalità di attivazione del servizio mediante procedure di evidenza pubblica, anche utilizzando strumenti di finanza di progetto. Con il medesimo decreto sono stabilite le modalità di attuazione di quanto previsto nel comma 6, cui le amministrazioni pubbliche provvedono nell’ambito degli ordinari stanziamenti di bilancio. 8. Agli oneri derivanti dall’attuazione del comma 5 si provvede mediante l’utilizzo delle risorse finanziarie assegnate, ai sensi dell’articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3, al progetto «Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese» con decreto dei Ministri delle attività produttive e per l’innovazione e le tecnologie 15 giugno 2004, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 150 del 29 giugno 2004, non impegnate alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. 9. All’articolo 1, comma 213, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’alinea sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, in conformità a quanto previsto dagli standard del Sistema pubblico di N O V IT à 174 LEGI S LATI V E connettività (SPC)»; b) dopo la lettera g) è aggiunta la seguente: «g-bis) le regole tecniche idonee a garantire l’attestazione della data, l’autenticità dell’origine e l’integrità del contenuto della fattura elettronica, di cui all’articolo 21, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblic a 26 ot tobre 1972 , n. 633, e successive modificazioni, per ogni fine di legge». 10. In attuazione dei principi stabiliti dall’articolo 18, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, e dall’articolo 43, comma 5, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, le stazioni appaltanti pubbliche acquisiscono d’ufficio, anche attraverso strumenti informatici, il documento unico di regolarità contributiva (DURC) dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge. 11. In deroga alla normativa vigente, per i datori di lavoro domestico gli obblighi di cui all’articolo 9-bis del decreto-legge 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, e successive modificazioni, si intendono assolti con la presentazione all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), attraverso modalità semplificate, della comunicazione di assunzione, cessazione, trasformazione e proroga del rapporto di lavoro. 12. L’INPS trasmette, in via informatica, le comunicazioni semplificate di cui al comma 11 ai servizi competenti, al Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), nonché alla prefetturaufficio territoriale del Governo, nell’ambito del Sistema pubblico di connettività (SPC) e nel rispetto delle regole tecniche di sicurezza, di cui all’articolo 71, comma 1-bis, del codice di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, anche ai fini di quanto previsto dall’articolo 4-bis, comma 6, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni». TITOLO III RIDISEGNO IN FUNZIONE ANTICRISI DEL QUADRO STRATEGICO NAZIONALE: PROTEZIONE DEL CAPITALE UMANO E DOMANDA PUBBLICA ACCELERATA PER GRANDI E PICCOLE INFRASTRUTTURE, CON PRIORITÀ PER L’EDILIZIA SCOLASTICA Art. 19. Potenziamento ed estensione degli strumenti di tutela del reddito in caso di sospensione dal lavoro o di disoccupazione, nonché disciplina per la concessione degli ammortizzatori in deroga 1. Nell’ambito del Fondo per l’occupazione di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, fermo restando quanto previsto dal comma 8 del presente articolo, sono preordinate le somme di 289 milioni di euro per l’anno 2009, di 304 milioni di euro per ciascuno degli anni 2010 e 2011 e di 54 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012, nei limiti delle quali è riconosciuto l’accesso, secondo le modalità e i criteri di priorità stabiliti con il decreto di cui al comma 3, ai seguenti istituti di tutela del reddito in caso di sospensione dal lavoro, ivi includendo il riconoscimento della contribuzione figurativa e degli assegni al nucleo familiare, nonché all’istituto sperimentale di tutela del reddito di cui al comma 2: a) l’indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti normali di cui all’articolo 19, primo comma, del regio decreto- Gazzetta F O R E N S E legge 14 aprile 1939, n. 636, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 luglio 1939, n. 1272, e successive modificazioni per i lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali e che siano in possesso dei requisiti di cui al predetto articolo 19, primo comma e subordinatamente ad un intervento integrativo pari almeno alla misura del venti per cento dell’indennità stessa a carico degli enti bilaterali previsti dalla contrattazione collettiva compresi quelli di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni. La durata massima del trattamento non può superare novanta giornate annue di indennità. Quanto previsto dalla presente lettera non si applica ai lavoratori dipendenti da aziende destinatarie di trattamenti di integrazione salariale, nonché nei casi di contratti di lavoro a tempo indeterminato con previsione di sospensioni lavorative programmate e di contratti di lavoro a tempo parziale verticale. L’indennità di disoccupazione non spetta nelle ipotesi di perdita e sospensione dello stato di disoccupazione disciplinate dalla normativa in materia di incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tale indennità, fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 3 del presente articolo, può essere concessa anche senza necessità dell’intervento integrativo degli enti bilaterali; b) l’indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti ridotti di cui all’articolo 7, comma 3, del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 maggio 1988, n. 160, per i lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali che siano in possesso dei requisiti di cui al predetto articolo 7, comma 3, e subordinatamente ad un intervento integrativo pari almeno M ARZO • APRILE 2 0 0 9 alla misura del venti per cento dell’indennità stessa a carico degli enti bilaterali previsti dalla contrattazione collettiva compresi quelli di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni. La durata massima del trattamento non può superare novanta giornate annue di indennità. Quanto previsto dalla presente lettera non si applica ai lavoratori dipendenti da aziende destinatarie di trattamenti di integrazione salariale, nonché nei casi di contratti di lavoro a tempo indeterminato con previsione di sospensioni lavorative programmate e di contratti di lavoro a tempo parziale verticale. L’indennità di disoccupazione non spetta nelle ipotesi di perdita e sospensione dello stato di disoccupazione disciplinate dalla normativa in materia di incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tale indennità, fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 3 del presente articolo, può essere concessa anche senza necessità dell’intervento integrativo degli enti bilaterali; c) in via sperimentale per il triennio 2009-2011 e subordinatamente a un intervento integrativo pari almeno alla misura del venti per cento dell’indennità stessa a carico degli enti bilaterali previsti dalla contrattazione collettiva un trattamento, in caso di sospensione per crisi aziendali o occupazionali ovvero in caso di licenziamento, pari all’indennità ordinaria di disoccupazione con requisiti normali per i lavoratori assunti con la qualifica di apprendista alla data di entrata in vigore del presente decreto e con almeno tre mesi di servizio presso l’azienda interessata da trattamento, per la durata massima di novanta giornate nell’intero periodo di vigenza del contratto di apprendista. 1-bis. Con riferimento ai lavoratori di cui alle lettere da a) a c) del 175 comma 1 il datore di lavoro è tenuto a comunicare, con apposita dichiarazione da inviare ai servizi competenti di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, come modificato e integrato dal decreto legislativo 19 dicembre 2002, n. 297, e alla sede dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) territorialmente competente, la sospensione della attività lavorativa e le relative motivazioni, nonché i nominativi dei lavoratori interessati, che, per beneficiare del trattamento, devono rendere dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro o a un percorso di riqualificazione professionale all’atto della presentazione della domanda per l’indennità di disoccupazione secondo quanto precisato dal decreto di cui al comma 3 del presente articolo. Con riferimento ai lavoratori di cui alle lettere da a) a c) del comma 1, l’eventuale ricorso all’utilizzo di trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria o di mobilità in deroga alla normativa vigente è in ogni caso subordinato all’esaurimento dei periodi di tutela di cui alle stesse lettere da a) a c) del comma 1 secondo quanto precisato dal decreto di cui al comma 3 del presente articolo. 2. In via sperimentale per il triennio 2009-2011, nei limiti delle risorse di cui al comma 1, e nei soli casi di fine lavoro, fermo restando quanto previsto dai commi 8, secondo periodo, e 10, è riconosciuta una somma liquidata in un’unica soluzione pari al 10 per cento del reddito percepito l’anno precedente, ai collaboratori coordinati e continuativi di cui all’articolo 61, comma 1, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni, iscritti in via esclusiva alla gestione separata presso l’INPS di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 con esclusione dei soggetti individuati dall’articolo 1, comma 212, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, i quali soddisfino in via congiunta le seguenti condizioni: Gazzetta F O R E N S E a) operino in regime di monocommittenza; b) abbiano conseguito l’anno precedente un reddito superiore a 5.000 euro e pari o inferiore al minimale di reddito di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 2 agosto 1990, n. 233 e siano stati accreditati presso la predetta gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, un numero di mensilità non inferiore a tre; c) con riferimento all’anno di riferimento siano accreditati presso la predetta gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, un numero di mensilità non inferiore a tre; d) (soppressa); e) non risultino accreditati nell’anno precedente almeno due mesi presso la predetta gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335. 3. Con decreto del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono definite le modalità di applicazione dei commi 1, 1-bis, 2, 4 e 10, nonché le procedure di comunicazione all’INPS anche ai fini del tempestivo monitoraggio da parte del medesimo Istituto di cui al comma 4. Lo stesso decreto può altresì effettuare la ripartizione del limite di spesa di cui al comma 1 del presente articolo in limiti di spesa specifici per ciascuna tipologia di intervento di cui alle lettere da a) a c) del comma 1 e del comma 2 del presente articolo. 4. L’INPS stipula con gli enti bilaterali di cui ai commi precedenti, secondo le linee guida definite nel decreto di cui al comma 3, apposite convenzioni per la gestione dei trattamenti e lo scambio di informazioni, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche tramite la costituzione N O V IT à LEGI S LATI V E di un’apposita banca dati alla quale possono accedere anche i servizi competenti di cui all’articolo 1, comma 2, lettera g), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni, e provvede al monitoraggio dei provvedimenti autorizzativi dei benefici di cui al presente articolo, consentendo l’erogazione dei medesimi nei limiti dei complessivi oneri indicati al comma 1, ovvero, se determinati, nei limiti di spesa specifici stabiliti con il decreto di cui al comma 3, comunicandone le risultanze al Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali e al Ministero dell’economia e delle finanze. 5. Con effetto dal 1 gennaio 2009 sono soppressi i commi da 7 a 12 dell’articolo 13 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80. 5-bis. Al fine di assicurare il mantenimento dei livelli occupazionali e dei collegamenti internazionali occorrenti allo sviluppo del sistema produttivo e sociale delle aree interessate, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro degli affari esteri, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, promuove la definizione di nuovi accordi bilaterali nel settore del trasporto aereo, nonché la modifica di quelli vigenti, al fine di ampliare il numero dei vettori ammessi a operare sulle rotte nazionali, internazionali e intercontinentali, nonché ad ampliare il numero delle frequenze e destinazioni su cui è consentito operare a ciascuna parte, dando priorità ai vettori che si impegnino a mantenere i predetti livelli occupazionali. Nelle more del perfezionamento dei nuovi accordi bilaterali o della modifica di quelli vigenti, l’Ente nazionale per l’aviazione civile, al fine di garantire al Paese la massima accessibilità internazionale e intercontinentale diretta, rilascia ai vettori che ne fanno richiesta autorizzazioni tempora- 176 nee, la cui validità non può essere inferiore a diciotto mesi. 6. Per le finalità di cui al presente articolo si provvede per 35 milioni di euro per l’anno 2009 a carico delle disponibilità del Fondo per l’occupazione di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, il quale, per le medesime finalità, è altresì integrato di 254 milioni di euro per l’anno 2009, di 304 milioni di euro per ciascuno degli anni 2010 e 2011 e di 54 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012. Al relativo onere si provvede: a) mediante versamento in entrata al bilancio dello Stato da parte dell’INPS di una quota pari a 100 milioni di euro per l’anno 2009 e a 150 milioni di euro per ciascuno degli anni 2010 e 2011 delle entrate derivanti dall’aumento contributivo di cui all’articolo 25 della legge 21 dicembre 1978, n. 845, con esclusione delle somme destinate al finanziamento dei fondi paritetici interprofessionali per la formazione di cui all’articolo 118 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, a valere in via prioritaria sulle somme residue non destinate alle finalità di cui all’articolo 1, comma 72, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 e con conseguente adeguamento, per ciascuno degli anni considerati, delle erogazioni relative agli interventi a valere sulla predetta quota; b) mediante le economie derivanti dalla disposizione di cui al comma 5, pari a 54 milioni di euro a decorrere dall’anno 2009; c) mediante utilizzo per 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009, 2010 e 2011 delle maggiori entrate di cui al presente decreto. 7. Fermo restando che il riconoscimento del trattamento è subordinato all’intervento integrativo, il sistema degli enti bilaterali eroga la quota di cui al comma 1 fino a concorrenza delle risorse disponibili. I contratti e gli accordi interconfederali collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei Gazzetta F O R E N S E datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale stabiliscono le risorse minime a valere sul territorio nazionale, nonché i criteri di gestione e di rendicontazione, secondo le linee guida stabilite con il decreto di cui al comma 3. I fondi interprofessionali per la formazione continua di cui all’articolo 118 della legge 23 dicembre2000, n. 388, e successive modificazioni, e i fondi di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, possono destinare interventi, anche in deroga alle disposizioni vigenti, per misure temporanee ed eccezionalianche di sostegno al reddito perl’anno 2009, volte alla tutela dei lavoratori, anche con contratti di apprendistato o a progetto, a rischio di perdita del posto di lavoro ai sensi del regolamento (CE) n. 800/2008 della Commissione, del 6 agosto 2008. 7-bis. Nel caso di mobilità tra i fondi interprofessionali per la formazione continua di cui all’articolo 118 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e successive modificazioni, da parte dei datori di lavoro aderenti, la quota di adesione versata dal datore di lavoro interessato presso il fondo di provenienza deve essere trasferita al nuovo fondo di adesione nella misura del 70 per cento del totale, al netto dell’ammontare eventualmente già utilizzato dal datore di lavoro interessato per finanziare propri piani formativi, a condizione che l’importo da trasferire per tutte le posizioni contributive del datore di lavoro interessato sia almeno pari a 3.000 euro. Il fondo di provenienza esegue il trasferimento delle risorse al nuovo fondo entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte del datore di lavoro, senza l’addebito di oneri o costi. Il fondo di provenienza è altresì tenuto a versare al nuovo fondo, entro novanta giorni dal loro ricevimento, eventuali arretrati successivamente pervenuti dall’INPS per versamenti di competenza del datore di lavoro interessa- M ARZO • APRILE 2 0 0 9 to. Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, l’INPS rende disponibile, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, la procedura che consente ai datori di lavoro di effettuare il trasferimento della propria quota di adesione a un nuovo fondo e che assicura la trasmissione al nuovo fondo, a decorrere dal terzo mese successivo a quello in cui è avvenuto il trasferimento, dei versamenti effettuati dal datore di lavoro interessato. 8. Le risorse finanziarie destinate agli ammortizzatori sociali in deroga alla vigente normativa, anche integrate ai sensi del procedimento di cui all’articolo 18 nonché con le risorse di cui al comma 1 eventualmente residuate, possono essere utilizzate con riferimento a tutte le tipologie di lavoro subordinato, compresi i contratti di apprendistato e di somministrazione. Fermo restando il limite del tetto m assimo nonché l’unifor mit à dell’ammontare complessivo di ciascuna misura di tutela del reddito di cui al comma 1, i decreti di concessione delle misure in deroga possono modulare e differenziare le misure medesime anche in funzione della compartecipazione finanziaria a livello regionale o locale ovvero in ragione della armonizzazione delle misure medesime rispetto ai regimi di tutela del reddito previsti dal comma 1. 9. Nell’ambito delle risorse finanziarie destinate per l’anno 2009 alla concessione in deroga alla vigente normativa, anche senza soluzione di continuità, di trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria, di mobilità e di disoccupazione speciale, nel caso di programmi finalizzati alla gestione di crisi occupazionali, anche con riferimento a settori produttivi e ad aree regionali, definiti in specifiche intese stipulate in sede istituzionale territoriale entro il 20 maggio 2009 e recepite in accordi in sede governativa entro il 15 giugno 2009, i 177 trattamenti concessi ai sensi dell’articolo 2, comma 521, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e successive modificazioni, possono essere prorogati con decreto del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, qualora i piani di gestione delle eccedenze abbiano comportato una riduzione nella misura almeno del 10 per cento del numero dei destinatari dei trattamenti scaduti il 31 dicembre 2008. La misura dei trattamenti di cui al presente comma è ridotta del 10 per cento nel caso di prima proroga, del 30 per cento nel caso di seconda proroga e del 40 per cento nel caso di proroghe successive. I trattamenti di sostegno del reddito, nel caso di proroghe successive alla seconda, possono essere erogati esclusivamente nel caso di frequenza di specifici programmi di reimpiego, anche miranti alla riqualificazione professionale, organizzati dalla regione. 9-bis. In sede di prima assegnazione delle risorse destinate per l’anno 2009, di cui al comma 9 del presente articolo, nelle more della definizione degli accordi con le regioni e al fine di assicurare la continuità di trattamenti e prestazioni, il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali assegna quota parte dei fondi disponibili direttamente alle regioni ed eventualmente alle province. 10. Il diritto a percepire qualsiasi trattamento di sostegno al reddito, ai sensi della legislazione vigente in materia di ammortizzatori sociali, è subordinato alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro o a un percorso di riqualificazione professionale, secondo quanto precisato dal decreto di cui al comma 3. In caso di rifiuto di sottoscrivere la dichiarazione di immediata disponibilità ovvero, una volta sottoscritta la dichiarazione, in caso di rifiuto di un percorso di riqualificazione professionale o di un lavoro congruo ai sensi dell’articolo 1-quinquies del decreto-legge 5 ottobre Gazzetta F O R E N S E 2004, n. 249, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 dicembre 2004, n. 291, e successive modificazioni, il lavoratore destinatario dei trattamenti di sostegno del reddito perde il diritto a qualsiasi erogazione di carattere retributivo e previdenziale, anche a carico del datore di lavoro, fatti salvi i diritti già maturati. 10-bis. Ai lavoratori non destinatari dei trattamenti di cui all’articolo 7 della legge 23 luglio 1991, n. 223, in caso di licenziamento, può essere erogato un trattamento di ammontare equivalente all’indennità di mobilità nell’ambito delle risorse finanziarie destinate per l’anno 2009 agli ammortizzatori sociali in deroga alla vigente normativa. Ai medesimi lavoratori la normativa in materia di disoccupazione di cui all’articolo 19, primo comma, del regio decreto 14 aprile 1939, n. 636, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 luglio 1939, n. 1272, si applica con esclusivo riferimento alla contribuzione figurativa per i periodi previsti dall’articolo 1, comma 25, della legge 24 dicembre 2007, n. 247. 11. In attesa della riforma degli ammortizzatori sociali e comunque non oltre il 31 dicembre 2009, possono essere concessi trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria e di mobilità ai dipendenti delle imprese esercenti attività commerciali con più di cinquanta dipendenti, delle agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici, con più di cinquanta dipendenti, delle imprese di vigilanza con più di quindici dipendenti, nel limite di spesa di 45 milioni di euro per l’anno 2009, a carico del Fondo per l’occupazione. 12. Nell’ambito delle risorse indicate al comma 9, sono destinati 12 milioni di euro a carico del Fondo per l’occupazione di cui all’articolo 1, comma 7, del decretolegge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, alla concessione, per l’anno 2009, ai N O V IT à LEGI S LATI V E lavoratori addetti alle prestazioni di lavoro temporaneo occupati con contratto di lavoro a tempo indeterminato nelle imprese e agenzie di cui all’articolo 17, commi 2 e 5, della legge 28 gennaio 1994, n. 84, e successive modificazioni, e ai lavoratori delle società derivate dalla trasformazione delle compagnie portuali ai sensi dell’articolo 21, comma 1, lettera b), della medesima legge n. 84 del 1994, e successive modificazioni, diun’indennità pari a unventiseiesimo del trattamento massimo mensile di integrazione salariale straordinaria previsto dalle vigenti disposizioni, nonché della relativa contribuzione figurativa e degli assegni per il nucleo familiare, per ogni giornata di mancato avviamento al lavoro, nonché per le giornate di mancato avviamento al lavoro che coincidano, in base al programma, con le giornate definite festive, durante le quali il lavoratore sia risultato disponibile. L’indennità è riconosciuta per un numero di giornate di mancato avviamento al lavoro pari alla differenza tra il numero massimo di ventisei giornate mensili erogabili e il numero delle giornate effettivamente lavorate in ciascun mese, incrementato del numero delle giornate di ferie, malattia, infortunio, permesso e indisponibilità. L’erogazione dei trattamenti di cui al presente comma da parte dell’INPS è subordinata all’acquisizione degli elenchi recanti il numero, distinto per ciascuna impresa o agenzia, delle giornate di mancato avviamento al lavoro, predisposti dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti in base agli accertamenti effettuati in sede locale dalle competenti autorità portuali o, laddove non istituite, dalle autorità marittime. 13. Per l’iscrizione nelle liste di mobilità dei lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo da aziende che occupano fino a quindici dipendenti, all’articolo 1, comma 1, primo periodo, del decreto-legge 20 gennaio 1998, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 178 marzo 1998, n. 52, e successive modificazioni, le parole: «31 dicembre 2008» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre 2009» e le parole: «e di 45 milioni di euro per il 2008» sono sostituite dalle seguenti: «e di 45 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009». 14. All’articolo 1, comma 2, primo periodo, del decreto-legge 20 gennaio 1998, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 marzo 1998, n. 52, e successive modificazioni, le parole: «31 dicembre 2008» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre 2009». Ai fini dell’attuazione del presente comma, è autorizzata, per l’anno 2009, la spesa di 5 milioni di euro a valere sul Fondo per l’occupazione. 15. Per il rifinanziamento delle proroghe a ventiquattro mesi della cassa integrazione guadagni straordinaria per cessazione di attività, di cui all’articolo 1, comma 1, del decreto-legge 5 ottobre 2004, n. 249, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 dicembre 2004, n. 291, e successive modificazioni, sono destinati 30 milioni di euro, per l’anno 2009, a carico del Fondo per l’occupazione. 16. Per l’anno 2009, il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali assegna alla società Italia Lavoro Spa 13 milioni di euro quale contributo agli oneri di funzionamento e ai costi generali di struttura. A tale onere si provvede a carico del Fondo per l’occupazione. 17. All’articolo 118, comma 16, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e successive modificazioni, le parole: «e di 80 milioni di euro per l’anno 2008» sono sostituite dalle seguenti: «e di 80 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009». 18. Nel limite di spesa di 2 milioni di euro per l’anno 2009, ai soggetti beneficiari delle provvidenze del Fondo di cui all’articolo 81, comma 29, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, è altresì riconosciuto il rim- Gazzetta F O R E N S E borso delle spese occorrenti per l’acquisto di latte artificiale e pannolini per i neonati di età fino a tre mesi. Con decreto del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono stabilite le modalità di attuazione del presente comma. 18-bis. In considerazione del rilievo nazionale e internazionale nella sperimentazione sanitaria di elevata specializzazione e nella cura delle patologie nel campo dell’oftalmologia, per l’anno 2009 è autorizzata la concessione di un contributo di 1 milione di euro in favore della Fondazione «G.B. Bietti» per lo studio e la ricerca in oftalmologia, con sede in Roma. All’onere derivante dal presente comma si provvede a carico del Fondo per l’occupazione di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236. 18-ter. Alla legge 5 agosto 1981, n. 416, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 37: 1) al comma 1, lettera b), le parole: «Ministero del lavoro e della previdenza sociale» sono sostituite dalle seguenti: «Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, sulla base delle risorse finanziarie disponibili»; 2) dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1-bis. L’onere annuale sostenuto dall’INPGI per i trattamenti di pensione anticipata di cui al comma 1, lettera b), pari a 10 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2009, è posto a carico del bilancio dello Stato. L’INPGI presenta annualmente al Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali la documentazione necessaria al fine di ottenere il rimborso degli M ARZO • APRILE 179 2 0 0 9 oneri fiscalizzati. Al compimento dell’età prevista per l’accesso al trattamento di pensione di vecchiaia ordinaria da parte dei beneficiari dei trattamenti di cui al primo periodo, l’onere conseguente è posto a carico del bilancio dell’INPGI, fatta eccezione per la quota di pensione connessa agli scivoli contributivi, riconosciuti fino ad un massimo di cinque annualità, che rimane a carico del bilancio dello Stato». b) all’articolo 38, comma 2, la lettera b) è abrogata. 18-quater. Gli oneri derivanti dalle prestazioni di vecchiaia anticipate per i giornalisti dipendenti da aziende in ristrutturazione o riorganizzazione per crisi aziendale, di cui all’articolo 37 della legge 5 agosto 1981, n. 416, come da ultimo modificato dal comma 18-ter del presente articolo, pari a 10 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2009, sono posti a carico delle disponibilità del fondo di cui all’articolo 18, comma 1, lettera a), del presente decreto. Art. 19-ter Indennizzi per le aziende commerciali in crisi 1. L’indennizzo di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 28 marzo 1996, n. 207, è concesso, con le medesime modalità ivi previste, a tutti i soggetti che si trovano in possesso dei requisiti di cui all’articolo 2 del medesimo decreto legislativo nel periodo compreso tra il 1 gennaio 2009 e il 31 dicembre 2011. 2. L’aliquota contributiva di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 28 marzo 1996, n. 207, dovuta dagli iscritti alla gestione dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli esercenti attività commerciali presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale, è prorogata, con le medesime modalità, fino al 31 dicembre 2013. 3. Le domande di cui all’articolo 7 del decreto legislativo 28 marzo 1996, n. 207, possono essere presentate dai soggetti di cui al comma 1 entro il 31 gennaio 2012. 4. L’indennizzo di cui al decreto legislativo 28 marzo 1996, n. 207, è erogato agli aventi diritto fino al momento della decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia. TITOLO V DISPOSIZIONI FINANZIARIE Art. 30. Controlli sui circoli privati 1. I corrispettivi, le quote e i contributi di cui all’articolo 148 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e all’articolo 4 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 non sono imponibili a condizione che gli enti associativi siano in possesso dei requisiti qualificanti previsti dalla normativa tributaria e, ad esclusione delle organizzazioni di volontariato iscritte nei registri regionali di cui all’articolo 6 della legge 11 agosto 1991, n. 266, in possesso dei requisiti di cui al comma 5 del presente articolo, trasmettano per via telematica all’Agenzia delle entrate, al fine di consentire gli opportuni controlli, i dati e le notizie rilevanti ai fini fiscali mediante un apposito modello da approvare entro il 31 gennaio 2009 con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate. 2. Con il medesimo provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate sono stabiliti i tempi e le modalità di trasmissione del modello di cui al comma 1, anche da parte delle associazioni già costituite alla data di entrata in vigore del presente decreto, ad esclusione delle organizzazioni di volontariato iscritte nei registri regionali di cui all’articolo 6 della legge 11 agosto 1991, n. 266, in possesso dei requisiti di cui al comma 5 del presente articolo, nonché le modalità di comunicazione da parte dell’Agenzia delle entrate in merito alla completezza dei dati e delle notizie tra- Gazzetta F O R E N S E smessi ai sensi del comma 1. 3. L’onere della trasmissione di cui al comma 1 è assolto anche dalle società sportive dilettantistiche di cui all’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289. 3-bis. Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano alle associazioni pro loco che optano per l’applicazione delle norme di cui alla legge 16 dicembre 1991, n. 398, e agli enti associativi dilettantistici iscritti nel registro del Comitato olimpico nazionale italiano che non svolgono attività commerciale. 4. All’articolo 10 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, dopo il comma 2 è inserito il seguente:«2-bis. Si considera attività di beneficenza, ai sensi del comma 1, lettera a), numero 3), anche la con- N O V IT à LEGI S LATI V E cessione di erogazioni gratuite in denaro con utilizzo di somme provenienti dalla gestione patrimoniale o da donazioni appositamente raccolte, a favore di enti senza scopo di lucro che operano prevalentemente nei settori di cui al medesimo comma 1, lettera a), per la realizzazione diretta di progetti di utilità sociale». 5. La disposizione di cui all’articolo 10, comma 8, del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, si applica alle associazioni e alle altre organizzazioni di volontariato di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266 che non svolgono attività commerciali diverse da quelle marginali individuate con decreto del Ministro delle finanze 25 maggio 1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 134 del 10 giugno 1995. 180 5-bis. Al comma 2 dell’articolo 10 del testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale, di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347, e successive modificazioni, le parole: «quarto e quinto periodo» sono sostituite dalle seguenti: «quarto, quinto e nono periodo». 5-ter. Le norme di cui al comma 5-bis si applicano fino al 31 dicembre 2009. 5-quater. Agli oneri derivanti dall’attuazione dei commi 5-bis e 5-ter, pari a 3 milioni di euro per l’anno 2009, si provvede mediante riduzione lineare degli stanziamenti di partecorrente relativi alle autorizzazioni di spesa come determinate dalla Tabella C allegata alla legge 22 dicembre 2008, n. 203. Gazzetta F O R E N S E g e nn a i o • f e b b r a i o 2 0 0 9 181