Trombino - Alle origini della storiografia greca: Erodoto e Tucidide

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Trombino - Alle origini della storiografia greca: Erodoto e Tucidide
Mario Trombino
Alle origini della storiografia greca: Erodoto e Tucidide
1. Erodoto, il "padre della storia"
Già dalle fonti antiche Erodoto è considerato, secondo un'espressione te di Cicerone, il "padre della storia". Con questo non si deve
intendere che nessuno prima di lui in Grecia abbia composto narrazioni riguardanti gli avvenimenti del passato o contemporanei, o le
storie tramandate dei popoli. C'erano stati infatti i cosiddetti logografi, narratori di logoi, le storie riguardanti questo o quel popolo,
questa o quella città. Erodoto però rinnova profondamente questa tradizione, inserendo le singole narrazioni, i logoi, in un contesto
unitario, che dà senso a ciascuna nell'ordine generale del divenire storico. E' questo sguardo complessivo - unito alla personale
minuziosa ricerca delle informazioni e alla loro verifica - la profonda novità: ciascun avvenimento è interpretato alla luce del
movimento complessivo della storia che unisce popoli e nazioni.
Erodoto (vissuto approssimativamente tra il 484 e il 430 a.C.) è originario di Alicarnasso, città della Caria (regione ai confini del
mondo greco), da famiglia greca imparentata con uomini di stirpe caria. Sin da giovane, quindi, sebbene allevato nella cultura greca,
dovette conoscere a fondo il mondo dei cosiddetti "barbari", che nella sua opera descriverà poi con grande interesse e con acuto
spirito di osservazione. Spinto da circostanze politiche, ma anche dalla propria curiosità e animato dal desiderio di osservare di
persona i paesi di cui intendeva scrivere la storia, viaggiò a lungo in Oriente: Egitto, Mesopotamia, Macedonia, e così via. Ebbe poi
un rapporto privilegiato con Atene, città in cui ritornò diverse volte, e soprattutto con Pericle, con cui intrattenne rapporti di
amicizia. Quando questi volle fondare la colonia panellenica di Turi nel 444-443, in Italia meridionale, Erodoto - insieme con diversi
altri intellettuali della cerchia periclea - vi si recò collaborando alla fondazione (nelle Storie egli parla di sé come Erodoto di Turi).
Erodoto è erede dello spirito ionico di osservazione e di ricerca, ma anche di quella tradizione marinara dalla quale derivano i poemi
omerici. Le sue Storie sono scritte in prosa, come richiedeva la cultura del suo tempo, lontana dalla poesia di tipo omerico - ormai
arcaica per i Greci del V secolo - ma rispondono ad uno scopo analogo. Esse trattano delle guerre persiane, il grande scontro tra il
mondo greco e a quello persiano. Erodoto decide di scrivere perché con il tempo non vada perduta la memoria degli avvenimenti
accaduti e delle gesta grandiose degli uomini: che esse non rimangano senza gloria.
Nei secoli precedenti per lo stesso scopo sarebbe nato un epos, una narrazione epica rivestita di elementi fantastici. Ma nello spirito
razionale della cultura del tempo, quando ancora gli avvenimenti erano ben presenti nella memoria degli uomini (Erodoto scrive
soltanto poche decine di anni dopo la conclusione delle guerre persiane), una elaborazione fantastica sarebbe stata poco adatta a
esaltare le gesta eroiche compiute sia dai Greci che dai barbari. Erodoto sceglie piuttosto la narrazione circostanziata dei fatti,
attentamente raccolti e vagliati. Ma questa narrazione conserva qualche cosa dell'epos tradizionale. Le sue Storie, del resto, non sono
un testo scritto per essere letto individualmente, ma per essere letto in pubblico, conservando in questo modo la memoria storica e
permettendo alle nuove generazioni greche di cots noscere quali prove si siano dovute affrontare per giungere alla potenza dell'età di
Pericle.
E tuttavia in Erodoto compare un elemento fondamentale per la storiografia come disciplina scientifica di nuovo genere: egli scrive
per mostrare per qual motivo Greci e barbari vennero a guerra fra loro.
C'è dunque in Erodoto un primo tentativo di ricerca delle cause storiche, e questo diventerà uno dei fondamentali obiettivi della
storiografia d'ogni tempo. "Erodoto, in quanto storico, sentì il dovere di mettere in luce i servigi resi alla causa della libertà da Atene
e di rilevare il diritto di questa di affermarsi sul mare: tuttavia la sua opera è nata da un sentimento panellenico. Egli vuole narrare la
lotta per la libertà sostenuta dal popolo greco contro la spinta espansionistica dell'Asia, e cerca ogni occasione per mettere in risalto
le forze interiori che, a quegli uomini liberi e disposti a ogni sacrificio pur di salvare i loro supremi valori, diedero la vittoria sulla
strapotenza numerica e materiale. Alle guerre persiane egli creò un grandioso sfondo storico, interpretandole come un confronto tra
gli Elleni e i barbari e seguendo questo a ritroso fino ai primi antichissimi contrasti. Diede con ciò agli Elleni anche la
consapevolezza di avere una storia comune, risalente fino al più remoto passato. La sua opera, pervasa dal fuoco di un genuino
entusiasmo, il primo grande monumento in prosa della letteratura greca, ha avuto, per lo sviluppo della coscienza nazionale,
un'importanza appena inferiore a quella dell'epos omerico. Il parallelo con la spedizione troiana, reinterpretata ora come un'impresa
compiuta da tutti i Greci contro i ?barbari?, era stato proposto già nel corso della guerra. Ad Atene, nel grande portico prospiciente
l'agorà, Polignoto raffigurò, in due affreschi contrapposti, la presa di Troia e la battaglia di Maratona" (M. Pohlenz).
2. Erodoto: le Storie
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La struttura delle storie di Erodoto risponde ancora a modelli arcaici. Egli narra molti lògoi separati di diversi popoli - con interesse
che oggi chiameremmo etnografico - nella cornice unitaria del confronto tra Greci e barbari. Erodoto fa risalire questo conflitto alle
sue radici mitiche, addirittura alla guerra di Troia, e questo gli fornisce l'occasione di andare indietro nella narrazione delle "storie"
dei popoli mediterranei ed orientali.
La sua interpretazione dei fatti risponde ad un criterio religioso. Erodoto è convinto - in accordo con uomini della generazione
precedente alla sua, come Eschilo (si ricordi la tragedia I Persiani:) - che a governare uomini e cose esista un oggettivo ordine nella
natura. La suprema Giustizia di Zeus ha posto equilibrio fra gli elementi ed impedisce che ciascuno superi i confini stabiliti. Se ciò
accade, colui che oltrepassando la giusta misura si è macchiato di hybris, di tracotanza, deve necessariamente essere punito perché
l'equilibrio sia ristabilito. Interviene dunque la divinità con la sua nemesis (il concetto è rimasto nell'italiano nemesi), la vendetta, la
punizione divina che agisce inesorabilmente.
Così i Persiani, attaccando la libertà della Grecia - carattere antichissimo di questo popolo - sono andati al di là dei limiti fissati dalla
divinità, e la loro sconfitta è l'effetto tanto dell'eroismo greco, quanto della volontà di Zeus. Ancora una volta, possiamo osservare
nella cultura greca questo concetto arcaico, che si prolunga in epoca classica: la libertà dell'uomo ed il suo valore sono paralleli alla
sovrana volontà degli dèi. Così accadeva anche nel mondo omerico.
Poiché osserva la realtà da storico, attento a quanto è realmente accaduto, e non da poeta che canta il mito reinterpretandolo in
rapporto alla propria cultura ed alla propria maniera di sentire, Erodoto considera l'uomo pienamente responsabile delle azioni
compiute. I Persiani hanno pagato per la tracotanza (hybris) di cui si sono resi responsabili, sconfitti da un piccolo popolo che, per il
proprio valore, ha saputo resistere. La lettura di quanto è accaduto può essere fatta osservando solo il piano umano degli eventi. C'è
però, per la maniera di vedere di Erodoto, un piano più elevato, quello su cui operano gli dèi, che pongono ordine al mondo. Il piano
umano e quello divino si intrecciano, perché gli dèi intervengono nella storia umana, ma l'uomo rimane comunque libero e
responsabile delle sue azioni. Attribuire la responsabilità degli eventi esclusivamente alla divinità è al di fuori della mentalità greca,
e questo sin da Omero.
Per quanto riguarda la concezione del divino nel mondo greco, che interessa direttamente la storia della filosofia, Erodoto è vicino
alla visione della divinità di Eschilo. L'antica concezione dell'ordine cosmico - di cui uomini e cose sono partecipi nell'unica physis
dove convivono uomini e dèi, ciascuno con il proprio dominio, regolato da Dike - viene qui utilizzata per l'interpretazione
dell'evento epocale della Grecia, quello scontro tra Greci e barbari da cui viene fatto dipendere il futuro di libertà delle poleis greche.
Zeus (o il divino, come spesso si trova in Erodoto) è quindi visto come potenza cosmica, ormai del tutto liberata dalle storie del
mito, ma saldamente ancorata alla fede personale in una divinità suprema e giusta.
3. Erodoto: l'invidia degli dei
La visione del divino non è però serena, ed in Erodoto emergono tratti pessimistici, legati alla realistica ed amara consapevolezza del
dolore umano. E questo avvicina Erodoto soprattutto al contemporaneo Sofocle.
Esemplare a questo proposito è la concezione dell'invidia degli dèi, un'antica credenza che ritorna nell'opera erodotea con accenti
nuovi. L'antica credenza vedeva una fonte di sventure nell'eccessiva fortuna dell'uomo: con la sua felicità, che va oltre i limiti fissati
per l'uomo, questi provoca la reazione degli dèi, che lo puniscono distruggendo quanto di positivo egli abbia costruito.
Credenze di questo tipo, assai diffuse nel mondo antico presso diversi popoli, nascono probabilmente dal sentimento di incertezza
sulle vicende umane, dall'esperienza del dolore dell'uomo, spesso immotivato, irrazionale, incomprensibile. E certo questa visione
del dolore umano non si concilia perfettamente con l'immagine luminosa della divinità che emerge dalla visione erodotea della storia
greca. Tuttavia l'invidia degli dèi è anch'essa una manifestazione - per quanto orientata in senso pessimistico - dell'ordine universale:
essa si rivela all'uomo quando questi va oltre i propri limiti, ed è quindi anch'essa da inquadrare in un superiore criterio di giustizia.
Il tratto pessimistico consiste nel fatto che il limite dell'uomo è dato dall'impossibilità di raggiungere una piena felicità: il dolore è
connesso alla natura umana.
Questa meditazione sulla natura umana e sulla potenza e sapienza divina non è condotta di Erodoto con gli strumenti della filosofia,
ma con la narrazione di esempi, inquadrati nell'unica grande storia del conflitto tra Greci e barbari. Tuttavia i filosofi, meditando
sulla storia dell'uomo, sui suoi dolori e sul rapporto tra divinità e azione umana, dovranno misurarsi con queste idee, così come con
la grande riflessione dei tragici - a cui Erodoto è culturalmente affine - incarnata nelle grandi figure degli eroi dell' antico mito, come
Edipo.
4. Tucidide: la guerra del Peloponneso e le Storie
Discendente da una famiglia dell'alta nobiltà dell'Attica, Tucidide nasce intorno al 460 a.C. ed ha circa trent'anni allo scoppio della
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guerra del Peloponneso. Sin dall'inizio guarda con particolare interesse a questa guerra che considera l'evento cruciale della storia
greca, perché tutte le città si schierano con l'una o con l'altra delle due protagoniste, Atene e Sparta, giunte al culmine della loro
potenza. Stando alle sue parole, Tucidide decide quindi, sin dall'inizio della guerra, di scriverne la storia.
Poiché la guerra dura quasi trent'anni, è presumibile che la composizione delle Storie che ne narrano gli avvenimenti sia avvenuta in
un secondo momento, dopo un'accurata raccolta delle informazioni ed il vaglio critico delle fonti. Ma non c'è accordo tra gli studiosi
su diversi aspetti della composizione dell'opera: essa non è completa in tutte le sue parti; la partizione e il titolo delle Storie non
risalgono all'autore; diverse parti di essa sono ancora allo stato di abbozzo. Ciò ha fatto nascere problemi di interpretazione e di
datazione, che hanno dato luogo ad una vera e propria questione tucididea.
Alla guerra Tucidide ha partecipato direttamente. Di almeno un episodio è rimasta memoria certa, avendone lo stesso autore narrato
i fatti. Stratega nel 424, Tucidide è comandante della flotta che ha il compito di difendere le coste della Tracia. Quando però il
generale spartano Bràsida attacca Anfipoli, Tucidide con le sue navi giunge troppo tardi: la città è già caduta. Condannato per
tradimento, Tucidide deve andare esule nei suoi possedimenti in Tracia. Potrà tornare ad Atene solo negli ultimi anni di vita, alla
fine della guerra, nel 404. Negli anni dell'esilio si dedica al gravoso lavoro di ricerca delle fonti per la stesura delle sue Storie. La sua
morte avviene negli anni immediatamente successivi alla conclusione della guerra.
Tra i suoi principali obiettivi Tucidide pone il massimo rigore nella narrazione dei fatti (critica infatti su questo punto gli storici
precedenti e non risparmia neppure Erodoto, al quale tuttavia deve molto).
Egli raggiunge così un'eccezionale precisione nella descrizione degli avvenimenti e nella verifica delle fonti, evitando ogni
tendenziosità (nonostante sia stato uomo di parte nella guerra, in quanto ateniese) e proponendosi il più scrupoloso rigore nella
narrazione dei fatti. L'opera di Tucidide rappresenta il culmine della storiografia antica. Nella sua visione disincantata e "scientifica"
dell'uomo e della storia, così come nell'opera del suo grande predecessore Erodoto, ha le sue remote radici la storiografia moderna.
Ma mentre l'opera di Erodoto è stata scritta per la lettura ad alta voce, la sua, invece, è stata concepita per essere letta
individualmente: essa vuol essere un "monumento eterno" alla storia. L'obiettivo è indagare i fatti e descrivere, attraverso, gli
avvenimenti e il comportamento e la parola degli uomini i tratti universali della natura umana, ricercando in essa le cause degli
eventi, e le leggi della storia. Tucidide "si rivolge a quanti vogliono avere chiara conoscenza di ciò che è accaduto e che tornerà ad
accadere, o in un modo o nell'altro, per le leggi che sono racchiuse nella natura umana. A lui basta che la sua opera sia utile a uomini
che hanno questa seria volontà, perché ha creato non un pezzo da parata per gareggiare con altri, ma un possesso al di sopra dei
tempi. Questo è il centro spirituale dell'opera di Tucidide" (A. Lesky).
In Tucidide è posto con chiarezza il problema della genesi e del senso della dinamica della storia. Profondamente influenzato dalla
visione sofista della natura e degli dèi, esclude l'intervento divino nelle vicende umane e non coglie alcun disegno di "giustizia" nel
corso degli eventi. Nel suo pensiero non c'è più posto per una interpretazione in chiave teologica della storia o per destini
predeterminati iscritti nel corso del mondo, né per una superiore dike o per l'oscuro fato. Nulla di misterioso nella vicenda degli
uomini, nulla che per essere inteso richieda il ricorso ad una sfera superiore.
E' la natura umana la matrice profonda della storia umana: determinante è la capacità dello statista, con la sua intelligente
lungimiranza o la debolezza dei suoi piani. Certo, il corso degli eventi non dipende solo da questo, ma la "casualità" dell'accadere
storico non va attribuita al fato o agli dèi: essa dipende dall'incerta visione dell'uomo molto più che dall'esistenza oggettiva del
"caso" in natura.
L'uomo è figlio della storia, ma al tempo stesso ne è creatore. Il problema che lo storico deve affrontare - dopo avere accuratamente
accertato i fatti - consiste nel cercare di capire l'uomo nella sua azione storica concreta: quali forze hanno esercitato la loro influenza
sulle masse? quali valori hanno ispirato l'azione dei capi? quali impulsi li hanno spinti a prendere le loro decisioni?
L'attenzione di Tucidide si concentra sull'uomo. Egli ne scruta le passioni, i desideri, le ambizioni, indaga sui presupposti delle sue
azioni. La sua narrazione storica non è mai disgiunta dalla ricerca dell'interpretazione dei fatti, accostandosi in questo all'analisi
filosofica. Come la filosofia, infatti, anche la storiografia ha come obiettivo non solo la conoscenza degli avvenimenti, ma anche la
comprensione dell'uomo e della dinamica degli eventi da cui questi si trova ad essere condizionato e che tuttavia contribuisce egli
stesso a determinare. Ed è proprio questa polarità la più difficile da comprendere: da un lato l'uomo - come persona, come soggetto
dell'azione politica - compie le sue scelte condizionato dai valori del suo tempo, dalle condizioni storiche "oggettive" in cui opera;
dall'altro lato, non c'è storia degli uomini che prescinda dall'uomo, non ci sono valori del tempo o condizioni storiche "oggettive"
che non siano frutto dell'azione dei singoli uomini. L'uomo stesso concorre a determinare ciò che lo condizionerà. Chi è dunque che
fa la storia, chi è il vero soggetto della storia?
Per comprendere questa polarità - ciascuno è figlio del proprio tempo / ciascuno concorre a creare il proprio tempo - lo storico deve
concentrare la propria attenzione su quella che è la fondamentale istituzione politica umana sovraindividuale: lo Stato. Tucidide ha
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analizzato con lucidità le dinamiche del potere, della fisiologia e della patologia del potere, costruendo una delle prime e più
articolate analisi di quella che nell'età moderna si chiamerà scienza della politica, una disciplina che ha stretti legami con la filosofia.
Il problema è studiare le dinamiche politiche che reggono lo Stato, osservare in esso la distribuzione del potere e dei suoi equilibri,
comprendere come esso si generi e come si distrugga, e quali conseguenze abbiano questi processi nell'azione politica complessiva.
Nel caso della guerra del Peloponneso che Tucidide pone al centro della propria attenzione, due città, Atene e Sparta, guidano il
mondo greco, che dunque è di fatto diviso in due opposti schieramenti che fanno capo a imperi, cioè a due grandi concentrazioni di
potere: Tucidide studia la guerra, che è innanzitutto lo scontro tra due sistemi di potere, l'ateniese e lo spartano, e analizza le
dinamiche che portano una parte a sopraffare l'altra.
2. Il dialogo tra gli Ateniesi e i Melii
Quale esempio dell'analisi politica condotta da Tucidide, scegliamo un brano della sua opera che ha sempre attratto gli studiosi per la
lucidità con cui l'autore rappresenta - con effetti quasi "teatrali", derivati dalle procedure retoriche sofiste - il contrasto tra gli
Ateniesi e i Melii, gli abitanti della piccola isola di Melo (il testo è nella Antologia filosofica della LF: Tucidide).
Nel corso della guerra, l'isola è rimasta neutrale tra Sparta e Atene, ma gli Ateniesi - la cui potenza si fonda sulla supremazia navale
- la assediano per costringerla ad entrare nella loro sfera di influenza. Tucidide ci presenta le posizioni contrapposte degli Ateniesi e
dei Melii nel corso di un dialogo tra i rappresentanti dell'una e dell'altra parte, in una trattativa diplomatica, fallita la quale avrà
inizio una serie di operazioni militari.
Nelle sue Storie Tucidide dà spesso la parola ai protagonisti, riportando i discorsi da loro tenuti in pubblico. Si tratta di uno
strumento letterariamente molto efficace, nel quale Tucidide è maestro, per rendere con precisione il punto di vista dell'uomo
politico nel contesto concreto del suo operare. Naturalmente lo storico non riporta affatto i discorsi reali, e il rigore storico e la
precisione che Tucidide sempre ricerca non consistono affatto nella reale corrispondenza tra il discorso scritto e le parole
effettivamente pronunciate dall'uomo politico. Lo scrittore concentra però in questi discorsi una molteplicità di aspetti reali della
personalità e del pensiero degli uomini politici, cosicché la finzione letteraria finisce per rendere la realtà storica con grande efficacia
(nessuno storico moderno tuttavia accetterebbe un simile procedimento: è la genialità di Tucidide a renderlo strumento valido di una
storiografia rigorosa).
Nel caso di cui parliamo non si tratta propriamente di un discorso, ma di un dialogo che nella forma richiama le contrapposizioni
tipiche dell'età sofista.
"Nei riguardi delle parti che egli contrappone nei duelli oratori, Tucidide conserva un'obiettività che difficilmente si ritrova nella
storiografia. Qui egli si distingue dai sofisti, in quanto non vuole contribuire alla vittoria di una causa contro l'altra, non vuole far
trionfare un determinato punto di vista, ma ci espone il pro e il contro in modo tale che ne possiamo ricavare un'immagine il più
possibile completa del gioco delle forze" (A. Lesky).
Lo scontro fra Ateniesi e Melii avviene sul terreno della giustizia e del diritto. Gli Ateniesi esordiscono giustificando la loro richiesta
di sottomissione dell'isola in nome del loro diritto: il nostro impero è giusto, dicono, perché abbiamo sconfitto i Medi, cioè i
Persiani, e "nelle considerazioni umane il diritto è riconosciuto in seguito a una uguale necessità per le due parti, mentre chi è più
forte fa quello che può e chi è più debole cede". E' chiaro che qui il tema del dialogo è il problema della potenza, che Tucidide tratta
in termini universali, inquadrandolo, con esplicita intenzione, nel complesso della vita umana. Gli Ateniesi giustificano dunque il
loro diritto sulla base del loro potere, seguendo così le tesi estremizzanti dell'ala radicale della sofistica, che, richiamandosi alla
concezione della giustizia come rispetto della natura, e dunque della differenza di forza, finivano col legittimare il diritto del più
forte.
Il ragionamento degli Ateniesi riposa sulla piena adesione alle leggi di natura, ed è in accordo con la religione perché gli stessi dèi
sono concepiti come forze naturali, secondo l'antica posizione naturalistica greca: "Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è
più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è
evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l'abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo
valida per tutta l'eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa
potenza". E' qui richiamata la contrapposizione nomos-physis studiata dalla sofistica. Così ogni interpretazione religiosa in chiave di
superiore giustizia cosmica è rifiutata: non corrisponde ai fatti. La legge del più forte, dicono gli Ateniesi, è evidente. "Il fondare il
diritto del più forte sulla legge di natura e il trasformare il concetto della divinità da tutrice del diritto in prototipo d'ogni violenza e
prepotenza terrena porta il naturalismo dell'orientamento imperialistico ateniese alla profondità di un principio filosofico. Gli
Ateniesi cercano di eliminare il conflitto con la religione e la morale, con l'aiuto dei quali i loro avversari, più deboli, sperano di
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vincere. Tucidide mostra qui l'imperialismo di Atene nella sua logica estrema e all'apogeo della sua consapevolezza" (W. Jaeger).
I Melii agiscono con realismo rendendosi "subito conto di non potersi appellare al diritto, giacché gli Ateniesi non riconoscono per
norma che il loro tornaconto politico. Essi cercano di persuaderli che anche per Atene è vantaggioso osservare certi limiti nel
giovarsi della loro superiorità, giacché può venire un giorno in cui anche una sì grande potenza debba richiamarsi a quest'umano
dovere d'equità" (W. Jaeger). I Melii non riescono però a convincere gli Ateniesi. L'isola qualche mese dopo, a seguito di un lungo
assedio, sarà presa: i maschi adulti saranno uccisi in massa, gli altri deportati come schiavi.
Tucidide ha esposto con lucidità il punto di vista ateniese, ma lo condanna, ed anzi scorge in questa mancanza di moderazione la
causa profonda della sconfitta: è stata abbandonata la grande e saggia politica di Pericle, morto dopo i primi anni di guerra, politica
alla quale va la piena approvazione dello storico. Nell'economia delle Storie questo brano ha un'importanza notevole: "Tucidide ha
l'evidente intenzione di dare al dialogo dei Melii, al di là dei riferimenti attuali, il significato generale di un saggio di fisiologia e
patologia della potenza (e tale in sostanza è tutta la sua opera)" (A. Lesky).
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