La teologia della rivelazione nella ricezione del Vaticano II

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LA TEOLOGIA DELLA RIVELAZIONE
NELLA RICEZIONE DEL CONCILIO VATICANO II
«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri
occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della
vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi
annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo
veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La
nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo». (1 Gv 1,1-3)
L’inizio della prima lettera di Giovanni spiega bene l’atteggiamento con cui ora ci si accosta alla
Rivelazione che è di ascolto, ricerca, comunione e missione.
Il titolo di questo corso contiene due parole chiave, recezione e rivelazione, di cui è bene chiarire il
significato e poi converrà spiegare come mai il riferimento proprio al Concilio Vaticano II.
Perché il riferimento al Concilio Vaticano II?
Tutti i papi hanno parlato continuamente di necessità di una piena recezione del Concilio Vaticano
II, questo vuol dire dunque che non è ancora terminato il processo della sua recezione e questo
anche a livello teologico. Il Vaticano II ha infatti aiutato a portare il Vangelo nel nostro tempo e a
far teologia in un modo diverso. Ma sono attuali documenti di quaranta anni fa? Il sinodo
straordinario del 1985 ha fatto proprio lo stato della situazione, documento per documento.
Se il tema degli altr concili era chiaro fin da subito il motivo della convocazione di questo concilio
era anomalo già di per sé: non erano dei motivi dogmatici, ma pastorali, perché il mondo stava
cambiando e la chiesa doveva tenerne conto.
Esso produce tre tipi di documenti: costituzioni, decreti e dichiarazioni. Le prime danno contenuti
più dottrinali; i secondi sono quasi tutti, tranne uno, approfondimenti dei vari capitoli della LG; le
terze sono pronunciamenti della Chiesa su temi concreti. Se le prime sono sicuramente le più
importanti, non è detto che sia tutto in esse (vedasi il caso della libertà religiosa).
Lukas Vischer, osservatore del Consiglio mondiale delle chiese, è uno dei pochi ad aver assistito a
tutte le sessioni e se dopo ogni sessione stendeva un resoconto, particolarmente importante è quella
dopo la quarta (“After the fourth session of the Vaticano Council”, The Ecumenical Review XVIII
(1966) 150-206) perché è un po’ una panoramica generale su tutto il concilio. Egli dice che in esso
non si è risolto tutto, ma è stato importante che si sia comunque presa coscienza dei vari problemi e
quindi la cosa più importante non sono i documenti in sé, quando l’incontrarsi della Chiesa
Cattolica con sé stessa e allo stesso tempo con gli altri cristiani e con il mondo.
Per la teologia fondamentale due sono i documenti principalmente significativi: Dei Verbum e
Gaudium et Spes. La DV perché dedica un capitolo intero alla Rivelazione, che ne diventa anche il
cardine attorno a cui interpretare il documento; la GS perché da indicazioni su come i cristiani
debbano vivere, accogliendo la rivelazione, perciò offre una metodologia pratico-ricettiva. Il
Concilio è dunque il punto di partenza della riflessione sulla teologia imperniata attorno alla
rivelazione e su di essa. Inoltre il Concilio Vaticano II introduce un’ulteriore elemento di novità in
teologia, perché essa cessa di essere solo europeo-occidentale e prende tratti sempre più mondiali.
Perché parlare di recezione del Concilio Vaticano II?
Tutti i concili sono stati seguiti da un periodo di recezione e se non c’è stata vuol dire che non
hanno inciso abbastanza sulla vita della chiesa. Se 40 anni possono sembrare buoni per tirare le
somme, sono in realtà molti pochi in storia, sia perché solitamente gli archivi vaticani vengono
aperti 50 anni dopo, anche se in questo caso Paolo VI ne ha autorizzato l’apertura dopo 20 anni, sia
perché per giudicare la corretta recezione di un concilio se ne devono valutare gli effetti, i frutti, ed
è ancora troppo presto. Detto ciò, essendo la bibliografia in materia molto ampia, proviamo a vedere
quali sono state le tappe di questa recezione:
I. Conoscenza dei testi, con una ricca bibliografia di commenti fatti sia da persone interne ai
lavori conciliari, che esterne ad essi. È un periodo in cui c’è molto entusiasmo. Lentamente
però oltre al contenuto dei testi entra in gioco anche l’importanza dello spirito del concilio.
Esemplare in tal senso è la riflessione del Vescovo di Metz, Joseph Schmitt, che si articola
in due serie di articoli: la prima verte su “un concilio per i nostri tempi” (riflessioni su: i
partecipanti al concilio che vengono da tutto il mondo; gli osservatori la cui presenza è stata
molto utile per imparare a chiedersi continuamente cosa pensano anche i non cattolici; la
libertà politica entro cui si è svolto il concilio, perché non ci sono state alcune pressioni
dirette su di esso; l’importanza dei mezzi di comunicazione; l’ateismo visto come fenomeno
di massa che chiede ai cristiani di mostrare sempre più un Dio, veramente tale, ma
interessato agli uomini) e la seconda su “lo spirito del Vaticano II” (spirito di fede, che porta
a rimettere al centro di ogni riflessione l’ascolto della parola di Dio; spirito di ricerca, che
porta a capire meglio la rivelazione e come trasmetterla; spirito di equilibrio, che porta a
vedere il concilio come evento di una tradizione viva e dinamica e che quindi è un
aggiornamento della Chiesa).
II. Riflessione sulla recezione dei contenuti principali del Concilio Vaticano II. In questo
periodo prevale la delusione generale, anche se per motivi opposti: quella di alcuni per cui
l’applicazione è lenta; quella di altri che notano una separazione tra spirito e lettera; quella
di coloro che vedono nel Concilio la sorgente di tutte le eresie.
III. Con il 1985 si entra in una tappa più serena perché, venendo aperti gli archivi, entrano in
gioco i quaderni di ricerca, i documenti dei padri conciliari e dei periti e così si vede la vita
del concilio, che era tutt’altro che uniforme! Si riconoscono poi l’attualità e i limiti dei vari
documenti, la cui chiave di lettura va cercata alla luce di tutto il Concilio.
IV. Inizia poi, attorno al Giubileo, una fase di sereno entusiasmo, in cui si capisce che c’è molto
da fare, ma la vita continua anche in merito alla ricerca teologica. E a gurdar bene lo stesso
Concilio invitava ad essere aperti alle nuove istanze che sarebbero sorte.
Molto importante a proposito della recezione è il discorso di apertura che tenne Giovanni XXIII per
cui lo scopo del Concilio era dire efficacemente la dottrina di sempre e invece di combattere gli
errori, usare la benzina della misericordia e uno stile propositivo della dottrina. Fedelmente a questo
mandato, nei documenti del Vaticano II non si troveranno canoni di condanna e questo anche per
favorire un clima di concordia, pace e unione soprattutto con gli altr cristiani la cui unità era per il
papa urgente. Altre cose da tener conto sullo svolgimento del concilio e che dopo avranno un peso:
- Un teologo gesuita, Smulders, era l’osservatore dei vescovi indonesiani;
- Si viene a formare il gruppo “chiesa dei poveri” che cerca di recupera la preoccupazione
dell’opzione preferenziale per i poveri e che molto peso avrà sui primi schemi della GS;
- Importante apertura agli altri teologi cristiani;
- Riconoscimento dell’interdisciplinarietà della teologia rispetto alle altre scienze;
- L’importanza del legame tra ortodossia e ortoprassi, per una teologia più incarnata.
Come intendere il concetto di rivelazione?
Per rivelazione si intende l’autocomunicazione di Dio, ma essa è anche una categoria teologica che
include ciò, ma è anche una dottrina, il contenuto della nostra fede. Proprio come categoria è lecito
chiedersi se sia giusto partire da lì per fare teologia e se sì cosa tener conto. Vediamo:
- L’aspetto dottrinale, così importante nel Vaticano I, nel Vaticano II non viene eliminato, ma
subordinato all’esperienza di Dio, all’incontro e alla relazione con Lui. Nella tradizione
biblica infatti si vede un Dio che si rivela nella storia e che fa alleanza con il suo popolo e
così anche nella Rivelazione non si può prescindere da parole e segni. Coinvolgendo poi la
fede tutta la persona, essa ha anche un aspetto comunitario, anche se nei documenti del
Vaticano II, questo aspetto è stato poco trattato.
- Ma cosa rende l’uomo capace di accogliere la rivelazione? E come la Rivelazione può essere
credibile? È importante a questo proposito recuperare il valore unico della memoria storica,
che ci apre sull’oggi e su di un futuro escatologico e che mette in luce come la Rivelazione
sia anche storia, economia, progetto di salvezza. Così oggi ogni teologia non può non tener
conto della storia.
- Inoltre è molto importante tener conto degli uomini concreti, con l’esperienza del credente.
-
Quale relazione tenere poi tra storia e dogma? E tra rivelazione e verità?
La Rivelazione pretende di essere un’autorità, quando oggi c’è una grossa crisi nel senso
dell’autorità. Come caratterizzare dunque l’autorità della Rivelazione?
- Come conciliare poi il carattere divino e umano delle Scritture? Esse danno ragione della
Rivelazione, che però allo stesso tempo la trascende.
- La Rivelazione con Cristo è arrivata alla sua definitività, ma allo stesso tempo non è chiusa,
perché Dio continua a parlare oggi.
- In che modo interpretare questa azione di Dio?
- Importanza delle altre scienze e soprattutto del linguaggio e dell’antropologia.
Sui vari modi di intendere la rivelazione, molto interessante è la classificazione che propone
Ghibellini, “Prospettive teologiche per il secolo XXI”. Egli vede quattro movimenti teologici:
 Teologie dell’identità (rinata a fine secolo XX) → Centrata sul proprium della fede cristiana.
 Teologie della correlazione → Centrata sull’attenzione al destinatario, all’uomo concreto.
 Teologie politiche → Oltre alla svolta antropologica, tira anche le conseguenze politiche.
 Teologie nell’era della mondializzazione → Le varie teologie del dialogo.
ARGOMENTI INTRODUTTIVI
La Dei Filius del Concilio Vaticano I.
Il Concilio Vaticano I è stato indetto per risponde a dei problemi specifici; nel XVIII e XIX secolo
infatti si assiste ad un forte sviluppo tecnico-scientifico che porta ad una forte secolarizzazione della
società, ad una tensione tra sapere razionale e verità rivelata. Questo sviluppo in teologia porta, in
alcuni casi, al fideismo, al rifiuto dell’uso della ragione in teologia, o ai razionalismi vari, che
riducono la fede cristiana a religione naturale e mettono in discussione l’ispirazione delle Scritture,
l’autorità della gerarchia ed addirittura l’esistenza stessa di Dio. Così il Vaticano I deve cercare di
ricordare l’esistenza della prove di Dio, la soprannaturalià e la razionalità della fede.
Cominciato nel 1869 e terminato nel 1870 in maniera improvvisa, per l’invasione di Roma, è stato
rinviato sine die e così l’inizio del Concilio Vaticano II è vista anche come una ripresa del I. Il
Concilio Vaticano I non è riuscito a realizzare tutto ciò che si era prefissato, ma per quel che
riguarda il nostro campo sì, nella costituzione Dei Filius. Essa è composta di un’introduzione
(prende atto dell’attacco che l’epoca moderna ha scagliato contro la soprannaturalità della religione
cristiana), di un capitolo su Dio creatore (1), uno sulla Rivelazione (2), uno sulla fede (3) ed infine
uno sul rapporto tra fede e ragione (4). In ognuno di questi capitoli si presenta la dottrina di fede ed
alla fine della costituzione si trovano i canoni di condanna contro i sistemi filosofici del momento,
non conciliabili con la fede cattolica. Guardiamo nel dettaglio questa costituzione:
 Il capitolo che ci dà la chiave di interpretazione del documento è proprio quest’ultimo. In
allegato si può vedere lo schema del testo. Si noti che parlando della razionalità della fede si
afferma la possibilità della ragione di arrivare alla conoscenza di Dio, ma per quanto la
Rivelazione aiuti ed illumini questo processo, essa non elimina mai il mistero di Dio.
Riguardo al rapporto fede-ragione poi, la fede è superiore, ma tra le due non c’è divergenza
e si è invitati a superare le apparenti contraddizioni.
 Alla luce di questo capitolo è comprensibile il secondo, nel quale si presuppone un Dio
nascosto che si rivela all’uomo. Ora esistono due vie per conoscere Dio e solo quella
soprannaturale è chiamata Rivelazione, che porta a conoscere Dio, anche se la sua finalità è
la salvezza, anche se il termine più ricorrente è “conoscenza”.
 Nell’affrontare il testo del capitolo 2 è bene distinguere tra ragione e ragionevolezza, tra
razionale e ragionevole. I primi fanno infatti riferimento ad una dimostrazione, i secondi alla
credibilità. Ora il testo parla della ragionevolezza della fede, perciò si dice che la
conoscenza soprannaturale della fede è ragionevole. Forse era meglio intitolare il capitolo 2
“La conoscenza di Dio”, perché non viene spiegato cosa sia la Rivelazione e si identificano
spesso rivelazione, dottrina della fede e identità della fede, ma fino ad allora erano ben
differenziate nella teologia. Come si può vedere nell’allegato infatti, per Tommaso la
dottrina procede dalla rivelazione, mentre nel testo del Concilio Vaticano I, questa
distinzione non è così chiara!
 Attraverso la manifestazione di sé stesso, Dio fa conoscere i decreti della sua volontà, anche
se, dopo il concilio, si è sottolineato spesso solo la seconda parte di questo aspetto, e si dice
che per aiutarci Dio ci dà le prove della rivelazione: profezie e miracoli.
 Riprendendo il Concilio di Trento, il Concilio apporta un significativo cambiamento che
porterà poi alla teoria delle due fonti. Volendo dire che la Rivelazione è trasmessa dalla
Bibbia e dalla Tradizione esso dice che è “contenuta” in esse. Ma questa affermazione porta
molte persone a chiedersi in quale quantità sia presente nell’una e nell’altra.
 Il capitolo 3 è così organizzato: Dio si rivela e la fede è la risposta dell’uomo ad essa.
Siccome poi la finalità della rivelazione è la salvezza, la fede è l’inizio dell’umana salvezza
e questo avviene tramite la conoscenza, con certezza e senza errore, di verità che, di per sé,
non sono contrarie alla ragione e che la fede porta ad accogliere come vere grazie a delle
prove: miracoli e profezie. Detto ciò l’atto di fede è e rimane innanzitutto l’accoglienza di
Dio e poi certo anche della dottrina che esso rivela.
La teologia manualistica
Dopo il Concilio Vaticano I, la teologia cerca una giustificazione scientifica della verità religiosa,
tramite il metodo apologetico, che è così strutturato: tesi → spiegazione dei termini usati → elenco
degli avversari →dottrina della chiesa → dimostrazione della tesi. Quest’ultima è piena di
riferimenti biblici, anche se è il modo di usare la Bibbia che crea problema. La dimostrazione era a
sua volta distinta in:
o Demonstratio religiosa (rivolta agli atei). Se la conoscenza tocca l’intelletto, il riconoscere
tocca anche la volontà. L’esistenza di Dio si può dimostrare anche per via logica, partendo
dalla creazione e dimostrando l’esistenza di un Dio creatore, che agisce liberamente sia
nelle sue opere, che nelle relazioni con le sue creature. Ora l’uomo è creato per essere felice
e la felicità si ha nel rapporto con Dio rapporto di cui un aspetto importante è la religione,
da conoscere e praticare. In questa dimostrazione si fa vedere come da sempre essa sia
esistita e si mostra spesso il criterio di discernimento tra le vari religioni.
o Demonstratio cristiana (rivolta ai non cristiani). La religione autentica è quella cristiana,
rivelata da Cristo, perché è in Lui che Dio ha mostrato la verità nascosta e a questa
rivelazione si risponde con la fede; fede che non annulla il mistero, tanto che le prove della
credibilità sono i miracoli e le profezie. L’apologetica fa dunque attenzione al fatto storico,
ma in maniera disincarnata. I contenuto di questa dimostrazione è di solito “le pretese di
Gesù” in cui si usano prove a bizzeffe: apparizioni del risorto, sepolcro vuoto, cambiamento
degli apostoli e adempimento delle promesse.
o Demonstratio cattolica (rivolta ai non cattolici). Per dimostrare la chiesa si usano tre vie: la
via storica (continuità nel tempo, da Cristo fino ad oggi), la via delle note (unità, santità,
cattolicità e apostolicità) e via empirica (miracolo morale che rimane nel tempo).
I manuali cercavano di rispondere, con questa impostazione, a tutte le sfide che il mondo poneva
alla fede e in un primo momento in maniera esaustiva, il problema è quando ci si staccherà dal
mondo e si fossilizzerà nelle solite trattazioni, mentre intanto il mondo va cambiando: insomma si
risponde a domande che non ci sono più e non si risponde alle nuove. La teologia è così rilegata
sempre più nelle aule, mentre il rinnovamento arriva da vari movimenti extra-scolastici.
IL CONCILIO VATICANO II
È proprio per colmare questa lacuna che viene indetto il Concilio Vaticano II, convocato per
prendere proprio atto dei cambiamenti avvenuti. Molo importante per noi è la prima sessione,
quando viene promulgata la costituzione dogmatica Dei Verbum.
La Dei Verbum
Il primo schema presentato già dal titolo, “De fontibus revelationis”, è tipicamente manualistico.
Esso viene totalmente cambiato e si arriva al documento finale il cui capitolo chiave è il primo,
quello sulla Rivelazione, che è presentata principalmente con la categoria di relazione più che con
quella di conoscenza. Così al n°2, la rivelazione è presentata come la autocomunicazione e
l’automanifestazione di Dio, che parla agli uomini come ad amici, mettendo in luce come Dio esca
dal suo mistero per entrare in relazione con noi e l’atto di fede è l’accettazione e l’ingresso in questa
relazione di amicizia. Alla base di questa costituzione c’è dunque un’antropologia relazionale, si
presenta un uomo capace di relazioni e che si realizza nelle relazioni. Questa manifestazionecomunicazione di dio avviene nella storia con opere e parole, dove le prime non sono a provare le
seconde, ma l’una richiama l’altra, in un’ottica sacramentale. All’uomo sta accogliere questa
manifestazione storica, ma l’accoglienza implica anche una responsabilità, una missione.
L’Alleanza definitiva è suggellata da Cristo che è il mediatore, il rivelatore e la rivelazione al tempo
stesso. Perciò la fede in Gesù Cristo, è innanzitutto accoglienza di una persona e poi certamente
anche del messaggio che Egli ha portato e trasmesso in opere e parole. E l’opera massima, la prova
somma è la persona stessa di Cristo e solo alla luce di questa “prova” vanno lette e interpretate tutte
le altre prove, come le chiama il Vaticano I, o segni, come li chiama il Vaticano II. Si recupera così
la centralità della persona di Cristo. Al n°3 si parla poi della storia della salvezza, tentando di
superare la dicotomia tra naturale e soprannaturale, tanto che si fa iniziare la storia della salvezza
con la creazione (passaggio questo criticato da parecchi, perché si rischia di mettere in ombra
l’azione della grazia: l’accoglienza della creazione come atto di Dio, comporta infatti l’azione della
grazia). C’è poi un punto dove si vede la fede come risposta alla rivelazione ed essa è un dono di
Dio. Fede che è innanzitutto fides qua, poi fides quae e che deve poi diventare testimonianza.
Il secondo capitolo tratta della trasmissione delle divina rivelazione e si supera il problema delle
due fonti, ritornando all’impostazione del Concilio di Trento. Le forme privilegiate di questa
trasmissione sono la Scrittura e la Tradizione e il rapporto che c’è tra di esse è di rapporto
qualitativo più che quantitativo. Se ogni paragrafo parla di entrambe, l’ottavo parla solo della
Tradizione. Il problema più grosso infatti non era più la Scrittura, ma il progresso della Tradizione.
Progresso non tanto perché si aggiunga o si modifichi qualcosa della Rivelazione, ma riguardo alla
sua comprensione. Si parla così della differenza che c’è tra Tradizione apostolica e post-apostolica e
di come essa non sia solo la trasmssione di contenuti, ma di una vita, perché garantisce l’eterna
presenza di Cristo, grazie alla guida e all’assistenza dello Spirito Santo. Questa crescita nella
comprensione avviene «sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor
loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose
spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un
carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza
della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (n.8).
Infine il testo propone un rinnovamento del metodo teologico, più fondato sulla Parola di Dio.
La Gaudium et Spes
Questo testo rispetta la finalità del Concilio ed è molto intenso e travagliato, già nella sua
preparazione e nella sua gestazione. Esso non tratta direttamente della rivelazione, ma riguarda le
implicazioni della sua accoglienza. Essendo essa rivolta ai cattolici, ma anche a tutti gli uomini di
buona volontà, inizialmente si voleva partire facendo leva sulla legge naturale, ma poi, anche grazie
all’intervento del sopracitato Lukas Vischer,si scelse di partire da ciò che era proprio della Chiesa e
quindi dalla Rivelazione. Così dopo un inizio di ampio respiro teologico nel quale si dice cosa la
Chiesa può offrire agli uomini, al n°2 si spiega cosa si intenda per “mondo”. La Rivelazione è qui
vista come una luce che più che offrire soluzioni, aiuta nel discernimento. Si sottolinea poi molto
l’aspetto dialogale della Rivelazione e così l’essere umano stesso è presentato nelle sue relazioni e
realizzantesi in esse. Il culmine di questa lettura antropologica alla luce della fede si ha nel n°22,
che mostra come la rivelazione e l’automanifestazione di Dio, rivelino e manifestino l’uomo a sé
stesso. E ciò è possibile perché essa avviene con il linguaggio dell’amore che è l’unico
comprensibile da tutti. La salvezza è poi partecipazione della vita trinitaria mediante l’amicizia con
Dio. Siccome poi è molto presente e importante il tema della Signoria di Dio sull’universo e sulla
storia umana ecco l’apertura ecatologica del testo, visibile nel forte riferimento alla speranza, che è
attesa della manifestazione totale e definitiva di Dio. Così nella prima parte (La Chiesa e la
vocazione dell’uomo), i primi tre capitoli (La Dignità della Persona Umana, La Comunità degli
Uomini, L'Attività Umana nell'Universo) hanno tutti lo stesso schema: vocazione dell’uomo da
parte di Dio → condizione deformata dal peccato → restaurazione in Cristo.
Discorso particolare va fatto per la categoria di “segni dei tempi”, che è citata esplicitamente una
volta, ma che è un po’ il leit-motiv di tutto il documento. Essa è una terminologia talmente ambigua
che, nel dopo Concilio, è stata dapprima abusata e poi dimenticata, mentre ora viene lentamente
ripresa. Con questo termine si intendono i continui appelli di Dio nella storia alla conversione a
Cristo, perché solo Cristo è la possibilità di senso per la vita dell’uomo (cf n°10) e solo in lui si
impara il vero rapporto tra Padre, uomini e mondo.
Il quarto capitolo (La Missione della Chiesa nel Mondo Contemporaneo) riprende i primi tre e sta a
ricordare come la missione della chiesa, intesa come totalità del popolo di Dio, non sia fine a sé
stessa, ma debba condurre tutti a Cristo che è il solo segno di credibilità. In quest’ottica è molto
importante la testimonianza dei cristiani, perché l’accoglienza della Rivelazione come dono
gratuito, implica una forte responsabilità verso il deposito ricevuto e il mondo.
La teologia dopo il Concilio Vaticano II
Nei trattati successivi al Concilio si può notare:
 Continuo riferimento al Concilio Vaticano II
 Sviluppo delle prospettive storiche della Rivelazione, vista sempre più come Storia della
Salvezza e parallelamente a ciò le varie “teologie del genitivo” (della speranza ecc.)
 Rapporto di illuminazione reciproca tra cristologia e antropologia, in seguito alla crescita
dell’interesse della dimensione storica nell’esistenza cristiana.
 Cresce l’interesse per la Chiesa nel mondo, l’apertura alla cultura e ai problemi umani.
 Nasce una nuova teologia fondamentale, di frontiera e aperta al mondo, ma che ha come
punto normativo al Rivelazione e la sua trasmissione.
Dunque le prospettive della teologia dopo il Concilio Vaticano II sono:
 Rimanere sul livello scientifico
 Essere sensibile ai temi del mondo, partendo dalla fede e dalla rivelazione
 Dialogo vivo con le altre scienze, riconoscendo gli aiuti che vengono spesso da esse
LA TEOLOGIA IN EUROPA DOPO IL CONCILIO VATICANO II
JUAN ALFARO: RAPPORTO TRA CRISTOLOGIA E ANTROPOLOGIA
Cominciamo con questo autore (vedasi bibliografia e inoltre libri di Citrini e Piè Ninot, che trattano
di lui) perché è generalmente poco trattato, mentre insieme a Latourelle è colui che riorganizzato il
piano di studi in Gregoriana dopo il Vaticano II. Due sono i temi che fondano la sua trattazione: la
rivelazione del Cristo glorioso e la fede come accoglienza di questa rivelazione. Egli parte sempre
dalla Bibbia, per approdare ai dogmi e ai vari temi antropologici. Noi partiremo dall’ultimo suo
libro, molto filosofico, che egli disse essere però primo nell’ordine logico del suo pensiero.
Premessa filosofica
Il punto di partenza del suo filosofare è la fede e la sua visione unitaria dell’uomo. Egli invece di
chiedersi cosa sia l’uomo, si chiede chi è l’uomo e si risponde dicendosi che è l’unica creatura
capace di interrogarsi su se stessa, sulle finalità della sua esistenza e sul suo senso, sulla sua origine.
Domande che egli articola bene nel gioco di parole spagnolo: Porque (finalità) e Parque (origine).
Solo ponendosi queste domande e cercando una risposta egli dall’essere uomo si fa sempre più
uomo, che è il compito principale di ogni persona. Questo “farsi uomo” comporta però grande
sincerità ed è legato all’opzione fondamentale della persona, vista come la responsabilità del
passaggio dall’avere senso al dare senso, passaggio in cui entrano in gioco l’intelligenza, la libertà
ed i valori. Questo farsi uomo va però motivato da qualcosa o da qualcuno e Afaro vede ciò nelle
relazioni che l’uomo ha con ciò che lo circond e che egli analizza in maniera esistenziale (il punto
di partenza è l’esistenza …), fenomenologica (… nella sua realtà …) e trascendentale (… nella
quale si cerca il presupposto che la rende possibile). In particolare egli analizza quattro relazioni:




Uomo-Mondo. Il modno è infatti il luogo di origine e la base per l’attività dell’uomo. Chi fa
esperienza di sé, fa dunque esperienza del mondo. Ci si scopre “nel” mondo grazie alla
corporalità e “di fronte al mondo” diverso da esso, grazie alla propria spiritualità; e questi
due elementi sono inscindibilmente legati, vanno dunque integrati sempre più nel processo
di “farsi uomo”. È nel mondo infatti che ci si realizza, ma ciò avviene se parallelamente si
tiene viva la domanda sulla propria identità e sul proprio senso. Due aspetti sono dunque
necessari per il farsi della persona: la conoscenza di sé stessi e del proprio ruolo nella
trasformazione del mondo. In questa doppia conoscenza cresce sempre più la coscienza di sé
stessi e della propria libertà e per esprimerle ecco l’importanza dell’arte, della lingua, della
cultura ecc. L’origine della relazione tra l’uomo e il mondo, sta dunque nella soggettività
dell’uomo che esperimenta il dominio e la coscienza e più queste due dimensioni entrano in
gioco e in relazione, più l’uomo è libero. Libertà è dunque un concetto strettamente in
relazione con responsabilità, con un compito: è libertà “di” qualcosa e “per qualcosa”. Ma
davanti a chi si è responsabili? Quale è o chi è il fondamento della mia libertà? Non può che
essere un essere trascendente che finalizza e responsabilizza la mia libertà.
Uomo-Altri. Nell’azione nel e con il mondo, siamo aperti alle relazioni con gli altri,
relazioni che se rifiutate, portano alla nostra morte. Scoprendosi liberi si incontrano infatti
altri esseri liberi e irripetibili come me e dunque il rispetto che io merito, anche essi lo
meritano. Questo rispetto comporta l’accoglienza dell’altro nella e con la sua situazione
particolare e l’incontro con quest’altro apre all’umanità perché è personale e collettivo. Il
farsi uomo è dunque vero, quando si agisce a favore di una comunità dche è capace di
contribuire allo sviluppo di ogni persona. L’uomo vive dunque nella solidarietà, per il bene
dell’umanità intera. Insieme alla libertà ecco dunque l’importanza dell’amore. Ma qual è il
fondamento dell’amore che mi fa responsabile dell’altro e della comunità umana? In ultima
battuta è un essere trascendentale che sia l’amore originario.
Uomo-Morte. Proprio il rapporto con gli altri ci mette di fronte al tema della morte presa in
sé stessa e come termine della propria vita, che si può però analizzare prima della propria
fine. Questa relazione aiuta anche a dare il giusto senso alla vita. Con la morte finiscono
infatti tutte le nostre relazioni e quindi cosa è la morte? Quale è il suo senso? Nel trattare la
morte bisogna poi dire che essa è un tema sconosciuto, perché mai nessuno è tornato a
spiegarcela. Questo tema parla della nostra finitezza, ci questione e viene da noi questionato.
Questo tema è conseguente a quello del rapporto con gli altri, perché noi facciamo
esperienza della morte o con la morte degli altri o quando siamo soli. Paura della solitudine
è dunque spesso paura della morte, come anche l’ansia di possedere, di prevedere il futuro,
di organizzare, di vedere o no immagini di morti ecc. La voglia di confrontarsi con questo
tema, porta dunque al desiderio dell’immortalità, alla lotta per la vita grazie ad una speranza
sperante. Ma cosa o chi può mantenere continua questa speranza sperante? Un essere
trascendente che trasmette la ragione di vivere e che è la speranza ultima.
Uomo-Storia. Proprio il tema della morte ci inserisce nel rapporto dell’uomo con il passato,
il presente e il futuro e quindi con la nostra storicità. Nella storia dell’umanità si stabilisce
una dialettica tra passato, presente e futuro che fa della storicità una dimensione ontologica
dell’uomo, che si conosce però solo facendo la storia, nel concreto divenire storico: se la
storicità dell’uomo è prima a livello ontologico, è seconda a livello nooetico. Il diventare
persona è dunque un processo storico aiutato dalla riflessione della pesona su ciò che accade
e che aiuta a “costruire la storia ed è proprio questa riflessione, conseguenza della libertà
dell’uomo, che si realizza la discontinuità tra passato, presente e futuro. È grazie alla libertà
dell’uomo che il passato influisce su di noi, senza tuttavia vincolare il futuro: la persona è
soggetta la storia, ma allo stesso momento ne è anche protagonista. La morte provoca una
frattura in questo divenire, che non per questo ferma il futuro però, perché se c’è una
speranza-sperante c’è anche un futuro che supera quello visibile. C’è bisogno dunque di un
futuro assoluto-trascendente, possibile se esiste una libertà assoluta e trascendente.
Questi quattro aspetti analizzati mostrano come l’uomo abbia in sé i segni della sua stessa
trascendenza, perché ha mostra i segni dell’esistenza di un Dio: realtà fondante; amore originario,
personale e totalmente trascendente; speranza ultima dell’uomo; futuro assoluto e libertà assoluta.
Ma esiste questo Dio? E l’uomo lo può conoscere? E se sì come? Ciò pone l’uomo in un’ottica
esistenziale perché bisognoso di conoscere Dio, ma in attesa che esso si faccia conoscere.
La risposta a questa traccia nell’uomo è l’autorivelazione di Dio, che liberamente si fa incontro
all’uomo in maniera massima in Cristo per farsi conoscere. Ecco allora che Alfaro ha tre tappe:
- Importanza della relazione tra Rivelazione e Incarnazione.
- Analisi dell’esistenza cristica dell’uomo
- Fede come ri-conoscimento della Rivelazione e come opzione fondamentale dell’uomo.
La funzione rivelatrice di Cristo e l’Incarnazione1
L’iniziativa autocomunicativa di Dio avviene per amore ed è libera e gratuita, anche se avviene in
maniera comprensibile all’uomo. Fine di questo processo rivelativo è la persona e l’opera di Cristo.
Ma quali sono le caratteristiche della sua funzione rivelatrice? Nei sinottici Egli è presentato nella
sua particolare relazione filiale con il Padre e con la missione di annunciatore e instauratore del
Regno di Dio. Paolo lo presenta come pre-esistente e come ricapitolare di tutto in sé stesso: la morte
è il momento culminante di quest’opera di ri-appropriazione dell’umanità e la risurrezione diventa
così principio fondante dell’uomo. Nella lettera agli Ebrei Cristo è presentato come il Sommo
Sacerdote. Per Giovanni, che è il più usato da Alfaro, è forte il rapporto tra Incarnazione e
Rivelazione, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto conoscitivo del messaggio di Gesù: in Lui si
porta a compimento e si rivela l’amore salvifico di Dio e davanti a Lui ogni persona deve prendere
una decisione. La Rivelazione diventa così il fondamento della fede e la fede rispecchia la
Rivelazione. Siccome Cristo si è incarnato per manifestare il mistero di Dio, senza l’incarnazione la
Rivelazione sarebbe incompiuta e il mistero della Trinità inaccessibile.
L’opzione fondamentale di tutta la vita di Cristo è quella di fare la volontà del Padre e ciò lo rende
amore disinteressato per gli uomini, permettendogli di assumere tutto l’uomo. Con l’Incarnazione
quindi il Verbo si appropria ontologicamente, e dunque definitivamente, della nostra umanità,
appropriazione che avviene sia in senso discendente che ascendente:
 Discendente, perché il Verbo, sussistenza divina tutta relativa al Padre, sussiste nella sua
umanità. In quest’ottica Cristo è rivelatore del Padre.
 Ascendente, perchè l’umanità di Cristo è intrinsecamente attuata da una determinazione
sostanziale, che la mette in relazione con la sussistenza del Verbo. In quest’ottica di
autocoscienza singolare di Gesù, Egli è segno di un mistero assoluto, che si manifesta e si
nasconde anche attraverso ai suoi segni e alle sue parole.
Particolare attenzione va posta poi alla morte di Cristo in croce, perchè rappresenta il massimo
segno della filiazione divina e del suo essere donazione per l’umanità. La Rivelazione acquista così
nella croce, anche tutta la sua portata salvifica per gli uomini, che li apre ad una nuova relazione
con il Padre e realizzando la traccia di relazionalità insita nell’uomo che finalmente acquista un
volto. Non si può dunque separare la cristologia dalla soteriologia, il Cristo in sé dal Cristo in noi.
Così decidersi per Cristo è una opzione per Dio e per gli uomini, abbandono al Padre e solidarietà
con gli uomini. In Cristo infatti Dio ha detto il suo sì definitivo e la vita nuova del cristiano è
improntata all’amare e conoscere Dio, per sprofondarsi sempre più in Lui, che porta a scoprire
simultaneamente la profondità dell’uomo.
La Risurrezione di Gesù riempie poi di senso il gesto-mistero della croce, dando la possibilità di
una nuova presenza di Cristo nel mondo e di una continuazione della sua missione rivelativosalvifica: questo apre il capitolo
La funzione rivelatrice del Cristo glorioso
Se la Rivelazione è ordinata all’Incarnazione, l’Incarnazione è ordinata alla glorificazione che ne
rappresenta la pienezza. Nella gloria Cristo continua infatti ad essere Rivelatore del Padre e
1
Per Incarnazione, Alfaro intende il mistero di Incarnazione, Vita, Morte e Risurrezione di N.S. Gesù Cristo.
sacramento di Dio e per fondare ciò Alfaro si fonda sul prologo di Giovanni che mette a confronto
con la preghiera sacerdotale di Gv 17: la prima rappresenta infatti l’entrata nel mondo e la seconda
l’entrata nella gloria, la prima è il passaggio dall’eternità al tempo e la seconda dal tempo
all’eternità. Leit-motiv di entrambe questi passi sono i temi di vita, gloria e verità. Già
nell’incarnazione vediamo dunque la gloria del Figlio, come unigenito del Padre.
Alfaro suddivide poi il cap. 17 in passi che fanno riferimento alla vita terrena di Cristo, alla vita dei
fedeli in Cristo e alla vita del Cristo glorificato, per mostrare in cosa consista questa gloria (far
conoscere il Padre, conservare nel suo nome e nell’unità quelli che Egli gli ha dato) e quale sia la
sua finalità (far sì che i suoi abbiano la vita eterna). Il v.26 mostra come questa missione di Gesù, di
Rivelare il Padre e così far sì che tutti abbiano la vita eterna, continua anche dopo la morte.
Cristo continua così anche nella gloria ad essere rivelatore e rivelazione del Padre e nella parusia
questa sua funzione sarà piena, definitiva e totale, perché in Lui saremo chiamati ad una piena
comunione con Dio e con i fratelli. Già ora nella comunione con Lui partecipiamo di questa
comunione escatologica, ma in maniera da pellegrini, alla fine essa sarà piena. Questa mediazione
cristica allora non sarà più però oggettiva, ma ontologica sì perché sarà comunque presente.
Questa missione di Cristo nella gloria va avanti grazie al dono dello Spirito, che ci guida alla vera
conoscenza, all’amore, alla speranza e alla libertà, ci rende figli, inserendoci nella relazione intima
con il Padre e mettendoci sulla via della carità. La nuova esistenza a cui conduce la vita nello
Spirito è dunque una vita di fede, speranza e carità. Il Cristo glorificato agisce, con il suo Spirito, in
modo particolare nella e attraverso la Chiesa, sacramento del Cristo glorioso.
L’uomo, il mondo e la storia alla luce di Cristo: l’esistenziale cristico.
La storia è stata trasformata dalla Risurrezione di Cristo, anche se ciò non significa che sia finito
l’effetto del peccato su di essa, ma comunque il destino della storia e dell’umanità è incluso nel
destino di Cristo. La grazia di Cristo suscita in ognuno un’apertura che ci porta a vivere la vita di
Dio-Trinità. Questa è la dimensione più profonda dell’uomo, perché l’accoglienza della grazia
trasforma tutte le nostre relazioni, facendo trasparire Dio in noi. L’uomo è dunque cristofinalizzato
e nell’uomo tutta la creazione lo è. Questa sua dimensione cristica è la più profonda e mediante
l’incarnazione l’uomo ricevendo la propria realizzazione più profonda, riceve anche il proprio
senso, la ragione di essere sua e del mondo. Progredire nella conoscenza di Cristo è progredire nella
conoscenza del mistero cristiano in noi e della vita di Dio in noi. Proprio per ciò l’incarnazione del
Verbo è il fondamento della dignità umana, perché è l’essere cristofinalizzato la cosa più essenziale
dell’uomo. La storia da questo momento è dunque già storia salvata.
La risposta dell’uomo alla Rivelazione …
… la fede …
L’accoglienza e la confessione della Rivelazione e della Salvezza di Dio in Cristo è la fede.
Risposta che è possibile nell’uomo, perché in lui ci sono le condizioni possibili per farlo e perché
c’è poi anche l’azione della grazia. Grazia che è dono del Padre, per-con-in Cristo e nello Spirito
Santo e che, oltre a rendere possibile la risposta di fede, eleva anche nell’uomo la capacità di
autodonazione e di autopossessione. Detto ciò la fede, la risposta alla Rivelazione-Salvezza è
sempre un mistero e soprattutto abbandono alla fedeltà di Dio, più che alle cose capite. Così
salvezza e fede vanno insieme: Dio salva donandosi liberamente l’uomo, che vive di questa
salvezza nella fede. La fede, l’optare per Cristo e la sua missione, diventa così opzione
fondamentale della vita e dà senso a tutte le altre scelte. La vita dell’uomo è dunque accoglienza di
Cristo o non accoglienza di Cristo, non ci sono altre possibilità. E l’accoglienza di Cristo consiste
nel credere in Lui e credere a Lui, credere che Lui è il Centro e il Rivelatore e che è il Figlio e il
Rivelato: nell’atto di fede queste due dimensioni sono inseparabili. Così è in Cristo che si verifica il
luogo dell’incontro con Dio e la storia, in Lui, è tutta vista come momento aperto al futuro e
creativo di cose nuove. La fede è così un’opzione libera e responsabile e se nell’AT si mette
l’accento più sull’abbandono, nel NT si mette l’accento più sui contenuti di questo abbandono.
L’abbandono in Dio ed il conoscere questi contenuti (più che nella forma, nella realtà che essi
esprimono), implicano un ri-conoscimento che è l’opzione fondamentale sopra-citata, con cui
l’uomo riconosce Dio e si dona a Lui. Se tutto ciò è razionale è anche vero che non si può
analizzare razionalmente anche se abbiamo dei segni di credibilità. La ragione ci aiuta a discernere
tali segni, ma è poi la grazia che aiuta a vedere in essi delle chiamate di Dio all’uomo. La fede è
infatti più che altro risposta di amore e solo amando si può scoprire sempre più questo mistero di
amore. Certo questa opzione fondamentale della fede, portando al dono di sé comporta anche ad
una rinuncia, ci spoglia, portandoci così ad un incontro ancor più profondo anche con noi stessi!
… l’esistenza cristiana …
Questa fede è dunque atto dinamico che si deve attuare e vivere quotidianamente e momenti
privilegiati, per vivere la vita come chiamata di Dio, sono la preghiera, la vita ecclesiale, la
sofferenza e la morte. Così l’esperienza cristiana è vita di virtù teologali che, nel seguente schema
sono seguite da cosa le ha originate e da cosa sia il loro specifico nella vita del cristiano:
 Fede → Parola-Rivelazione → Credere in ciò che Dio ha fatto e detto.
 Speranza → Promessa → Tensione al futuro
 Carità → Dono di sé → Comunione di vita
Una vita che viva di queste tre virtù, è una vita che è in continua ricerca della volontà di Dio: in
risposta alla chiamata di Cristo si entra in una relazione “operativa” e particolare in Cristo. Per
Alfaro una virtù non esiste separata dalle altre e perciò egli non ne vede una prima, tra di loro c’è
una circolarità: nascono insieme ed ognuna rimanda all’altra. Ampio spazio egli dà poi alla
speranza mostrandone il forte impatto sociale, perché è chiamata per natura sua ad incarnarsi del
mondo, all’impegnarsi nell’essere presenti nel mondo per la liberazione integrale dell’uomo.
Tra le tre virtù è ovvio che quella che spicca è comunque la carità, perché essa è l’aspirazione più
profonda dell’uomo, ed esige il fare di Dio l’esigenza suprema dell’esistenza. Questo amore a Dio
poi non solo conduce, ma esige, per natura sua, l’amore agli uomini.
Per vivere bene queste tre virtù bisogna fondarle su un atteggiamento di abbandono-fiducia,
sapendo che la stessa Trinità è unità perfetta di tre “diversi”.
L’essere cristiano è dunque un essere per-con-in Cristo, vivendo così un legame sempre più saldo e
fecondo tra ortodossia e ortoprassi.
… impegno nel mondo.
Le tre virtù teologali a livello antropologico si traducono in riconoscimento dell’altro, apertura e
solidarietà. A loro volta esse si traducono in:
 Essere responsabili.
 Senso del progresso, nel senso di opzione per la persona umana. La trasformazione del
mondo va poi fatta alla luce dell’escatologia: farsi uomini e far sì che tutti possano esserlo.
 Opzione per la giustizia, che è profondamente legata all’eucaristia dove partecipando al
pane spezzato (Pan Partido) si è chiamati ad essere pane condiviso (Pan Re-partido).
Conclusioni
Si noti innanzitutto che la sua opera è stata stilata tra il ’69 ed il ’75 e cose che oggi sembrano a noi
scontate allora non lo erano affatto. A parte questo possiamo notare che:
- Egli fonda scritturisticamente tutti i temi trattati.
- Riesce a stabilire un buon e profondo legame tra deposito di fede e uomo contemporaneo,
portando ad approfondimenti sull’uomo e su ciò che Dio ci ha rivelato in Cristo.
- L’esistenza cristiana come esistenza virtuosa.
JOHANN BATTIS METZ: LA NUOVA TEOLOGIA POLITICA
La teologia politica è sempre stata più o meno presente, ma trova una particolare rifioritura in
Germania, dopo la seconda guerra mondiale, grazie soprattutto a questo teologo. Discepolo di
Rahner egli si allontanerà poi da lui, perché diceva che la teologia trascendentale offriva risposte ad
una situazione sociale post-illuminista, ma trascurava quella attuale e poi perché favoriva il rapporto
privato con Dio, che è estraneo alla fede cristiana. Egli intende dunque la sua teologia come un
correttivo critico per mostrare il contenuto pubblico-sociale della fede. Cristologia ed escatologia
devono infatti avere conseguenze politiche e condurre ad un impegno concreto e significativo nella
costruzione della storia. Legato a questo ecco anche il tema dell’opzione fondamentale per i poveri.
Tre sono le tappe nella sua produzione teologica.
Prima tappa: la programmazione
Egli dice che la teologia deve entrare nel rapporto tra Chiesa e mondo con una doppia funzione:
 Negativa. Deve svolgere un’azione correttivo-critica, spingendo verso la deprivatizzazione
che è cosa ben diversa dalla depersonalizzazione.
 Positiva. Sviluppando le implicazioni pubbliche del magistero ecclesiale e formulando il
messaggio escatologico nella nuova situazione del mondo. Qualsiasi teologia escatologica
deve dunque diventare politica.
Ma come leggere le promesse cristiane in riferimento al momento storico? Con la “riserva
escatologica”. Così attingendo a questo potenziale dirompente a livello politico, insito nella fede,
ecco che il compito dell’azione liberante della Chiesa è quello di:
 Salvare il valore della persona umana, soprattutto nel contesto del nuovo sistema economico.
 Ricordare continuamente la signoria di Dio su ogni sistema politico.
 Mobilitare la forza dell’amore.
Detto ciò la teologia deve essere aperta a tutto, per accogliere le sfide a cui rispondere e da cui trarre
spunto per ripensare il modo di esprimere la fede.
Dopo la prima pubblicazione (1969) gli vengono mosse varie critiche alle quali risponde chiarendo:
- Il significato del termine “politico” che è prendere sul serio la realtà sociale.
- Il senso della signoria di Dio che è la relativizzazione di ogni potere umano.
- La centralità della libertà delle realtà temporali, per difendere la Chiesa dal rischio della
monocultura e da una cristianizzazione forzata della società.
- Il carattere critico-liberante della fede, perché essendo la fede cristiana un farsi
continuamente memoria viva e infinita, essa diventa “memoria pericolosa”, perché ci spinge
verso un impegno concreto, non ci lascia come eravamo. Fondamento di questa “memoria
pericolosa” è la memoria della passione-morte-risurrezione di Gesù.
- L’embrionalità della sua costruzione teologica.
- Il nesso profondo tra dogmi e critica della società e quindi l’ontologica criticità della Chiesa
nei confronti di qualsiasi società.
- Far attenzione a non essere padroni della Rivelazione, ma lasciando che lo sia sempre Dio!
- La riserva escatologica dà al cristianesimo il suo necessario potere trasformante.
- Di fronte alle moltissime domande della società, la chiesa deve portare le risposte che
nascono dalla fede, ma che siano significative per il mondo d’oggi.
Seconda tappa
Visibile in “Teologia nella chiesa e nella società”, egli mette sempre più in chiaro come il politico
sia fondamentale per capire l’influsso sociale della fede, anche se ciò non vuol dire che la fede
debba essere al servizio della politica, perché è e rimane al servizio dell’unico Re, Cristo. La
missione della Chiesa è così pubblica, come anche la teologia. Su questo sfondo, egli usa tre
categorie per sistematizzare la sua produzione teologica:
 Memoria. È il contenuto della memoria cristiana che è collegata vitalmente alla tradizione.
Questa memoria distingue tra storia come eventi e narrazione di questi eventi. In particolare
in riferimento all’evento pericolo del mistero pasquale che ci spinge alla conversione.
 Narrazione. Essa permette alla prima di essere vivente ed è in profonda relazione con la
propria esperienza e la deve suscitare, perché è un’apologia pratica dell’esistenza cristiana.
 Solidarietà. Necessaria perché la memoria e la narrazione siano vive. Essa ha tre
caratteristiche, perché è: mistica (scaturisce dalla fede), politica (ha un aspetto sociale) e
porta all’impegno concreto (volto a riconfermare la dignità di ogni essere umano).
Egli approfondisce in particolare il primo aspetto e approfondisce in che senso la teologia politica
possa essere teologia fondamentale e analizzando così quale rapporto ci possa essere tra teologia e
mondo. Egli vede tre modi diversi, da parte della fede, di rapportarsi al mondo:
 Secolarizzante, che restituisce al mondo la sua autonomia ed identità, ma che ha il difetto di
nascondere il carattere universalistico della fede.
 Liberale, che ha portato a confrontarsi con l’illuminismo e ad utilizzare i metodi razionali.
Più che elemento critico, la fede è però spesso stata semplicemente conformismo.
 Politico-escatologica, che trasmettendo la memoria pericolosa entra in dialogo critico con il
mondo. Quale relazione però tra questa teoria e la prassi? Il soggetto della storia totale è
infatti Dio nella sua signoria che è già presente, ma in modo pieno nell’escatologia.
Terza tappa
L’obiettivo è ridire nuovamente la teologia politica, insistendo sulla necessità di non astrarre la
teologia dai problemi del mondo. È per questo che anche se non si parla di Dio, Dio è presente: a
noi scoprire i segni di questa presenza e le domande sulle conseguenze di questa scoperta. Proprio
nella Bibbia si vede la chiamata a vivere una nuova storia e il testo chiave è l’inno di Fil 2. Spesso
la religione si è dimenticata infatti del vero Dio e si è così borghesizzata, perché relegandosi a roba
per pochi eletti si è separata dal mondo e non è stata più significativa per esso. Il cambiamento di
impostazione che Metz ha sempre proposto è dovuto in modo particolare all’esistenzialismo di
Kierkegaard ed egli chiama questo tipo di teologia come “teologia di fronte ad Auschwitz”. Egli
chiede infatti una presa di coscienza delle sofferenze del mondo, passando così da una mistica
trascendentale ad una mistica politica del Regno di Dio. Quali sono le conseguenze di questo
spostamento di accento? La teologia non può più essere astratta, ma deve: fatta parlando in prima
persona; concentrarsi sui soggetti in particolare sofferenza e sugli avvenimenti della storia. La
teologia non prende il via ad es. da “cosa succede a me nella morte”, ma da “cosa succede di te
nella morte” e mette così di fronte ad una responsabilità universale.
Memoria e sofferenza fanno dunque parte delle premesse teologiche, altrimenti si cade nelle varie
teologie dell’onnipotenza. In quest’ottica la povertà è poi un problema non solo sociale, ma tocca il
cuore del cristianesimo, che è in crisi non tanto per motivi dottrinali, ma di prassi.
Egli vede dunque tra modi di fare teologia:
 Neoscolastica, volta a difendersi dalla società moderna;
 Idealistico-trascendentale, molto importante per il secolo ventesimo, perché ha capito le crisi
ed ha aiutato a salvarsi da esse, ma nello stato attuale non è più buona, perché il problema
odierno non è la modernità, ma la sofferenza.
 Post-idealistico che vede di fronte a sé tre nuove sfide:
o Marxista. Per quanto riguarda il rapporto tra verità e storia.
o Auschwitz. Porta in primo piano le storie di sofferenza a cui non si deve dare
risposte razionali, ma di cui si deve fare continuamente memoria, insieme a tutte le
altre passioni, unitamente alla memoria continua della Passione di Gesù.
o Terzo mondo. La teologia occidentale diventando borghese, solo per alcuni, non è
più universale ed oggi più che mai deve tenere conto delle proprie ripercussioni.
Ecco quindi l’importanza di teologie storiche ed etnico-culturali.
In conclusione la sua proposta è la novità del cambio delle categorie, per cui il teologo non deve
riflettere su qualcosa, ma a partire dalla storia e dagli avvenimenti. Se però la sua proposta è buona,
in realtà egli la applicata molto poco. Certo in questo partire dalla storia si deve fare attenzioni alle
pre-comprensioni che sempre ci accompagnano.
JURGEN MOLTMANN: LA TEOLOGIA DELLA CROCE
È bello in questa carrellata vedere anche un teologo evangelico, che per altro è anche il
rappresentante di un filone teologico sviluppatosi intorno agli anni ’70.
La questione di fondo per lui è: se Dio esiste perché è che senso ha il male? Il compito specifico
della sua teologia è dunque quello di attualizzare e analizzare il grido di Gesù in croce e l’ambito in
cui si svolge tutto ciò, sono i sofferenti del mondo. Molto significativa per il suo modo di fare
teologia, è stata anche per lui l’esperienza della seconda guerra mondiale. Nel 1964 egli uscì con
“Teologia della speranza” e nel 1972 con “Il Dio crocifisso” e per lui il secondo è conseguenza
logica del primo perché la speranza vera guarda alla croce e parte da essa. Una volta posta la
questione di fondo, seguono una serie di domande: Come la storia allora è coinvolta in Dio? Come
Dio è coinvolto nella storia? Dio può soffrire? Soprattutto all’ultima domanda egli risponde sì
perché la vede come capacità di amore ed in questo senso non come sofferenza passiva, ma attiva.
Con questa sua proposta teologica egli cerca così di dare una risposta alla teodicea cristiana.
Partendo dalla morte di Cristo in croce come evento di salvezza, viene da chiedersi cosa sia
successo a Dio e chi sia il Dio sulla croce, del Cristo abbandonato da Dio! I termini chiave per
capire la croce sono l’abbandono (del Figlio) e la consegna (del Padre), perché tengono conto della
unione e separazione dei due e dello Spirito che sta tra i due, che li unisce e dà la vita.
Il Dio crocifisso
Cosa significa oggi fare una teologia della croce?
 Capire il Crocifisso alla luce della Risurrezione.
 Capire quale rivoluzione la croce porti al concetto di Dio.
 Come essa sia legata al problema della liberazione dell’uomo.
 Tradurre le istanze critiche della teologia riformata, rispetto alla società.
Perché lui sceglie di partire da questa teologia? Lui vede da un lato una crisi di identità del
cristianesimo legata ad una conseguente crisi dell’impegno sociale e dall’altra nel tentativo di
riallacciare il dialogo con i vari settori della società emergono nuovi contesti e nuove categorie per
la teologia. Tutto ciò porta ad una crisi del cristiano e del cristianesimo nella società odierna.
Per essere in dialogo da cristiani si deve dunque ritornare a stare sotto l’albero della croce, per
essere nel mondo, ma non del mondo. Questo stare è possibile in due luoghi: nella comunione
ecclesiale e nel Cristo Crocifisso. La stessa chiesa non deve dunque cercare sicurezze nei propri
aspetti, ma solo dal Dio crocifisso. Certo ciò può portare ad isolamenti e persecuzioni, ma dà la
forza per superare tutte le paure. La teologia cristiana è dunque teologia a cui si aggiunge la croce e
la teologia cristiana contemporanea è unione di teologia, croce e sofferenze del mondo d’oggi.
Per far ciò egli ricorre all’approfondimento del senso della croce, alla luce delle varie teorie della
conoscenza e usando la dimostrazione per assurdo, visti i suoi passati da matematico!
Poi egli passa a presentare le possibili diverse interpretazioni della croce:
 Il senso irreligioso della croce nella Chiesa, quando la croce, che in sé è segno di
contraddizione ed è ciò che deve fondare il cristiano, perde senso. Il Dio crocifisso è in sé
contraddizione e porta a solidarizzare con le vittime di sempre della religione, della società e
dello stato, ma facendolo come ha fatto Gesù (vedi allegato → Più che prendere congedo
non sarebbe meglio dire che la croce purifica? Certo è troppo cattolico …)
 Il culto della croce, soprattutto nell’Eucaristia, quando facciamo memoria dell’unico evento
della croce!
 Mistica della croce, legata al vissuto del significato della sofferenza di Cristo e della
sofferenza come comunione con Lui. Questo ha portato però spesso alla rassegnazione
(basta guardare nelle chiese il passaggio dal Cristo Pantocratore o glorioso al Cristo
Crocifisso). Dio è in croce per ridare dignità, rispetto e speranza all’uomo, e non deve solo
ispirare sopportazione, per vivere da rassegnati, ma bisogna riconoscerne il carattere attivo.
 Sequela della croce. Cosa significa imitare Gesù e seguirlo? Non si deve diventare altri Gesù,
ma cercare di tradurre la sua passione nella nostra vita di tutti i giorni. Essere discepoli porta
così ad un’unione tra ortodossia e ortoprassi, tra dottrina e vita. Inoltre in questa sequela si
deve distinguere tra quella: apostolica; dei martiri, che attestano l’unica signoria di Cristo; di
chi ama, soprattutto i più poveri; degli uomini di questo tempo.
 Teologia della croce, la teologia cioè trasformata dallo sguardo della croce, che va a vedere
cioè l’abbandono subito ed attuato da Gesù in croce, perché è da lì che nasce la fede.
Nei capitoli cristologici seguono poi una serie di domande su chi sia Gesù e quale sia il significato
per l’umanità (vedi allegato), domande che per altro si sono succedute anche nella cristologia che:
nei primi secoli si è soffermata sul suo essere vero Dio; nell’epoca moderna, sul suo essere vero
uomo; nel dialogo con gli ebrei, sul suo essere il vero messia. Tutto questo nella coscienza che il
primo a far domande sulla sua identità è stato Gesù stesso. La chiave di tutta l’interpretazione della
croce è dunque l’amore con il Padre, che si vede sia nella sua Risurrezione che nella vita. E la
soluzione per parlare di Gesù è quella di concepire l’una alla luce dell’altra e quindi l’indagine
storica, come indagine teologica e in questa indagine la comprensione del crocifisso è cruciale!
Cristologia e Gesuologia van tenute strettamente insieme e ciò può essere fatto solo nella croce ed
in una sua retta comprensione. Il Sal 22 (vedi lucidi = v.l.) a tal proposito è più che mai eloquente.
Riguardo poi alla citazione di questo salmo fatta da Gesù in croce come continuare a parlare di Dio,
visto che abbandona Gesù? E come è possibile non parlare di Dio visto che Gesù lo tira in causa?
Cosa dice e cosa non dice dunque la fede pasquale? Essa si fonda sul vedere, anche perché il
Risorto non cancella i segni della passione e li ostenta! Questo atteggiamento di Gesù aiuta anche il
rapporto tra la storia ed il mondo, tra la storia e la giustizia, perché ci aiuta a vedere i segni della
passione del mondo d’oggi. Nel crocifisso Dio manifesta infatti la sua giustizia, e così guardare il
crocifisso ed impegno per la giustizia nel mondo vanno di pari passo. E anche le formule di fede su
passione-morte-resurrezione di Gesù sono molto importanti (es. 1 Cor 15,3-8) perché mostrano
come la risurrezione di Gesù non svuota la croce, ma le dà pieno significato.
Abbiamo visto come nella croce ci sia il senso dell’abbandono, ma c’è anche quello della consegna
da parte del Padre, che consegnando il Figlio soffre e in Lui soffre di tutte le sofferenze umane (v.l.).
[Riflessione mia personale: in ‘sto ragazzo l’assenza totale di metafisica, di ontologia, lo porta a
delle conclusioni astruse e devastanti! Perché che soffra il Figlio, certo vuol dire che soffre Dio, ma
perché il Figlio è Dio, ma è Dio distinto dal Padre che è Dio! Il ragazzo fa decisamente tanta
confusione! E quando dice che viene meno la paternità … arghhh: Il Padre è la Paternità
ipostatizzata! Vabbè un po’ più di dinamica, ma fondata su qualche cosa. Non per niente poi con
l’umano deve fare dei salti pindarico-devozionali per far vedere la vicinanza di Dio. Infatti egli
insiste molto sugli effetti visibili del Dio in noi: va bene può avere un senso, ma non assolutizzare!
Mancandogli una metafisica egli enfatizza infatti la storia, caricandola di responsabilità che ella non
è in grado di portare e sopportare: esaltando la storia, in realtà la distrugge.]
Tutte queste riflessioni portano Moltmann a trarre delle conseguenze (v.l.8-10):
a) La morte di Dio va messa come origine della teologia cristiana, perché cosa significa la
morte di Cristo per Dio stesso? Cristo introduce la morte in Dio e di questo si deve tenere
conto [Io: ok, però riflettere sulla morte in Dio, non vuol dire per forza che il Padre soffra,
molto meglio l’ipotesi sequeriana della bomba che esplode tra il Padre e il Figlio, nello
Spirito Santo, ma i segni di questa esplosione rimangono sul Figlio e solo questo si sa!]
b) Quale rapporto ci può essere tra teismo e teologia della croce? Se il primo è difficilmente
applicabile alla seconda, la seconda obbliga a rileggere il primo. E questo nuovo pensare
Dio, porta ad entrare nella nuova creazione che viene dalla croce e ad impegnarsi a vivere
per questa nuova creazione, senza rassegnazione.
c) La croce aiuta anche a rileggere l’ateismo. La sofferenza in Dio scaturisce infatti dall’amore,
non è una castrazione, ma espressione di un amore sovrabbondante. Certo bisogna intendere
bene in che senso Dio soffre, perché per lui la sofferenza non sarà una carenza d’essere!
Solo riflettendo su questa sofferenza in Dio si può poi riflettere sulle sofferenze del mondo!
d) Ed egli dice che per questa riflessione bisogna partire da una reinterpretazione delle due
nature di Cristo, che bisogna vedere in maniera più unitaria.
e) Ma soprattutto più che del Gesù in sé, si deve vedere l’impatto della croce su Gesù nel suo
rapporto con il Padre: ed ecco così i concetti di abbandono e consegna. Il Padre abbandona il
Figlio ed il Figlio è abbandonato dal Padre; il Padre consegna il Figlio ed il Figlio è da Lui
consegnato e si consegna. Ed il dolore di Dio-Padre è proporzionato alla sofferenza del
Figlio, perché nella morte del Figlio, il Padre vede morire il suo essere Padre (arghhhh!)
f) Ora si può dunque parlare dell’ateismo che spesso è originato dalle sofferenze del mondo e
dal silenzio di Dio. Cristo sulla Croce permette di rimanere e di credere nell’amore, anche
perché la risposta di Dio alla sofferenza non è logica, ma di coinvolgimento, Dio si
coinvolge nella storia e così la storia è coinvolta nell’amore di Dio.
g) Così per ogni dimensione umana egli vede un cerchio diabolico, da cui la teologia della
croce aiuta ad uscire, a liberare (v.l.11).
Così eccoci alla conclusione per cui una lettura trinitaria della croce di Gesù ci aiuta a vedere la
liberazione da Lui operata e ci spinge a liberare l’uomo qui in terra. Moltmann è dunque spinto
dalle domande: «Cosa significa la morte di Cristo per noi oggi?» e «Cosa significa la morte di
Cristo per Dio?» [Ok, due domande belle e legittime, ma la soluzione è alquanto scadente per Dio e
quindi anche per l’uomo, perché quando si sballa Dio salta anche l’uomo!]
LA TEOLOGIA FUORI DALL’EUROPA DOPO IL CONCILIO VATICANO II
Nascendo dopo il Concilio una teologia più attenta ai destinatari della Rivelazione vediamo ora,
come la teologia si è sviluppata fuori dall’Europa, dove i contesti sono diversi. La società infatti
influisce molto sulla persona e quindi anche sulla concreta comunità ecclesiale che è il soggetto
della teologia e questo vedremo che ha influsso anche sulla teologia fondamentale.
TEOLOGIA IN AMERICA LATINA
La prima teologia che prendiamo in analisi è la teologia latino-americana, la prima che viene
prendendo forma e che tiene molto conto della povertà e delle ingiustizie sociali che caratterizzano
la società del centro-sud America. È quindi una teologia molto attenta al rapporto tra teoria e prassi.
Essa viene prendendo il nome di teologia o teologie della liberazione ed è particolarmente
importante perché è una teologia espressione di una chiesa intera.
Ciò che ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di questa teologia è stata la partecipazione attiva e
propositiva al concilio dell’episcopato latino-americano e in modo particolare alla sottocommissione della GS “Segni dei Tempi”. In seguito la recezione dei documenti conciliari e
soprattutto della GS, da parte di quelle chiese, è stata attiva e immediata, ed ha portato alla lenta
presa di coscienza della situazione di sottosviluppo in cui versava gran parte della popolazione.
Così fino al ’68 si è preparato in fondo il terreno su cui è poi germogliata questa nuova teologia. Nel
1968 la svolta è arrivata con la prima conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellin.
Lì nasce effettivamente la teologia della liberazione che viene poi man mano formulandosi fino al
1970 o al 1975, e viene poi sistematizzandosi fino al 2007 anno della conferenza di Aparecida che
ha un cambio si sguardo perché prende coscienza della situazione di globalizzazione del continente.
Vediamo ora più nel dettaglio alcuni momenti di questo sviluppo.
Contesto visto dalla “Commissione dei segni dei tempi”
L’espiscopato latino-americano è espressione di un continente decisamente giovane, tanto che la
maggior parte della popolazione ha meno di venticinque anni. Continente che però è segnato da
profondi cambiamenti sociali in atto quali in particolare l’esplosione demografica e la progressiva
urbanizzazione con tutti gli annessi cambiamenti socio-culturali. Essi hanno comunque anche ben
presenti gli ostacoli ad uno sviluppo del continente. In generale propongono come segni dei tempi
di cui la Chiesa deve tenere conto nel loro continente: un cambio nel modo di vedere il rapporto del
mondo e della storia; un desiderio di partecipazione integrale; il pluralismo ideologico e religioso;
la situazione di povertà ed il dinamismo della gioventù.
La conferenza di Medellin (1968)
A questa prima conferenza dell’episcopato latino-americano partecipano anche molti teologi tra cui
Gutierrez e altri futuri attori della teologia liberazionista. Il tema della conferenza è “La Chiesa
nella attuale trasformazione dell’America Latina alla luce del Concilio”. L’orientamento dichiarato
è decisamente pastorale ed è forte la voglia di inculturare il Vangelo nelle realtà concrete e di capire
come la Chiesa possa essere sacramento di salvezza in un mondo, come quello latino-americano,
contrassegnato da povertà e ingiustizia. I segni dei tempi di cui la Chiesa deve in particolar modo
tenere conto è il lamento dei fratelli poveri ed ecco così che la Chiesa latino-americana imbocca
l’opzione preferenziale per i poveri. Il mondo dei poveri diventa e la tensione alla loro liberazione
integrale diventano così locus teologico e invitano la Chiesa ad avere un volto più povero,
missionario e pasquale. I documenti ai quali la conferenza si ispira sono direttamente, ma spesso
anche indirettamente, quelli del Concilio Vaticano II ed in particolare GS e LG, e poi la Populorum
Progressio di Paolo VI. Ciò porta ad un’attenzione alla persona concreta alla luce di Cristo e ciò
porta al vedere la necessità di una trasformazione che deve sintonizzare il progresso umano con le
necessità del Regno di Dio e ciò per quanto riguarda l’ambito sociale, quello antropologico (in
particolare alla dignità di qualsiasi essere umano) e quello religioso. Tutti e tre questi aspetti vanno
infatti purificati alla luce di Cristo, del suo Regno e della fede.
Importanti per noi sono in particolare due documenti:
 Sulla giustizia, i cui destinatari sono tutti gli uomini e le donne che hanno fame e sete di
giustizia. L’uomo ha infatti ricevuto da Dio l’incarico di trasformare la terra e in questo
contesto si inserisce l’incarnazione salvifica del Figlio che porta alla comunione con Dio.
Perciò siamo chiamati continuamente alla conversione a Dio, alla comunione con Lui, ma
vista la situazione concreta di peccato e l’incarico da noi ricevuto, ciò si traduce nel concreto
nel cambio delle strutture. Il mistero dell’uomo guardato alla luce del Verbo Incarnato (cf
GS 22) porta dunque alla promozione dell’uomo fatta nell’amore, che è dono dello Spirito
Santo, che dà anche lo slancio per la trasformazione del mondo guidata dalla giustizia. La
missione principale della Chiesa è dunque quella di aiutare ogni persona a vivere secondo la
dignità dei figli di Dio, perché la perfezione umana a cui è chiamato ogni uomo, ed in modo
particolare il cristiano, è la partecipazione al mistero pasquale che porta a ragionare sempre
più secondo il Regno di Dio, soprattutto nell’impegno del mondo. Si cerca così di evitare il
dualismo classico tra vita in Dio e vita nel mondo.
 Sulla catechesi, rivolto a tutti i preti e gli operatori pastorali. Si deve instaurare una relazione
prolifica tra: progetto salvifico di Dio e le aspirazioni dell’uomo, storia della salvezza e
storia umana, azione rivelatrice di Dio ed esperienza umana. Ecco così che la Rivelazione
salvifica di Dio va posta a fondamento del deposito, della verità rivelata che va approfondita
per essere trasmessa, ma anche della vita dei cristiani che devono assumere sempre più le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’uomo concreto, come ha fatto il Verbo.
Se dunque la Conferenza di Medellin non è centrata sulla Rivelazione, essa, come la GS, ne dice le
conseguenze per la vita cristiana: l’accettazione della Rivelazione comporta l’opzione fondamentale
analoga a quella presa dalla Rivelazione!
La Conferenza di Puebla (1979)
Essa si colloca in continuità con la precedente conferenza anche per la sua caratteristica
eminentemente pastorale per la voglia di rendere attuale il Concilio Vaticano II (i documenti
conciliari più citati sono sempre GS e LG). Il tema è “L’evangelizzazione nel presente e nel futuro
dell’America Latina” e riprende il sinodo dei vescovi del 1974 al cui termine Paolo VI scrisse la
Evangelii Nuntiandi. In questa conferenza si fa poi un’analisi della situazione concreta in cui vive la
chiesa latino-americana ed in modo particolare a partire da Medellin. Il fondamento di questa
evangelizzazione è in fondo la storia della salvezza (rivelazione, non è mai citata) ed oltre a
Scrittura e Tradizione i luoghi teologici privilegiati per scoprirla vengono identificati nella storia e
la cultura, ridando voce alla teologia dei segni dei tempi. L’asse trasversale di tutta la conferenza è
comunque stato il Cristo rivelatore ed ecco anche perché in essa si darà tanta importanza alla
testimonianza cristiana, perché se essa è scadente, invece di rivelare, vela il volto di Cristo!
Guardando ai punti di maggiore rilevanza nella ricezione del Vaticano II vengono visti:
- Il primato dell’evangelizzazione nella vita della Chiesa
- La dignità umana
- L’impegno della Chiesa a favore dei più poveri e dei giovani
- L’importanza dell’evangelizzazione delle culture locali e dei nuovi popoli
- Un’ecclesiologia di comunione con slancio missionario
- Il rapporto tra povertà ed annuncio del vangelo
Teologia della liberazione
Su queste due conferenze, così importanti per la chiesa latino-americana, si fonda la nascita di una
teologia latino-americana: la teologia della liberazione che poi si divide in più teologie. Noi
guardiamo la teologia di Gustavo Gutierrez un po’ perché è il primo esponente, ed in fondo il
fondatore, un po’ perché è quello che è sempre rimasto fedele alla Chiesa ed è anche quello più
equilibrato. Già prima di Medellin egli stava facendo una revisione critica delle diverse teologie
presenti, facendo notare come esse conducessero anche a diverse impostazioni pastorali. Nel ’68 si
indirizzò poi verso una teologia che fosse riflessione critica sull’azione della Chiesa nel modo, alla
luce della fede. Nel 1972 edita il suo “Teologia della liberazione” in cui riflette appunto sulla
situazione della chiesa ed in particolare della sua latino-americana, che egli cerca di vedere alla luce
della fede appunto. Egli dimostra infatti che la sua teologia oscilla tra due poli: la fedeltà a Dio e la
fedeltà al popolo latino-americano. Egli fa una dunque un’analisi particolare, che è cosa ben diversa
per lui da un’analisi isolata, la particolarità è infatti vera se ha un respiro universale, se è legata
all’unica Parola rivelata, anche se essendo legata ad un posto, non si può trasportare altrove.
Egli analizza la liberazione su vari livelli: socio-politico (liberazione dalla schiavitù di strutture di
peccato), antropologico (liberazione da schiavitù interiori dell’uomo) e teologico (liberazione dalla
schiavitù del peccato). Va subito detto che forse egli si è fermato un po’ troppo sul primo livello,
mentre per la teologia è comunque sempre più importante il terzo.
Egli dice subito che la teologia della liberazione (tl) non propone niente di nuovo e va vista come
completamento di un normale studio teologico: essa tende ad una riflessione critica sulla prassi
storica alla luce della Parola vissuta e accettata nella fede. La tl cerca dunque di investigare
l’ortoprassi come conseguenza dell’ortodossia. È dunque forse il metodo che è un po’ nuovo,
perché pur presupponendo la teologia come sapere razionale, come scienza, vede come luogo
ermeneutica non la prassi ecclesiale in generale, ma la prassi ecclesiale nella società.
La domanda chiave che anima tutta la tl è: come annunziare Dio Padre in un mondo non umano?
Come dire ad un povero che Dio lo ama? Tl nasce dal confronto tra il Dio della vita e la situazione
di morte che regna nel mondo. Il punto di riferimento primo è così la vittoria del Cristo Risorto e in
quest’ottica la solidarietà umana è il segno permanente di questa partecipazione alla sua
Risurrezione e che come tale può aiutare a mantenere viva la speranza. Detto ciò, il lavoro teologico
comincia quando si legge la realtà sociale alla luce della Parola di Dio, che deve portare a dei segni
concreti di liberazione su tutti e tre i livelli sopra-citati. E così l’opzione preferenziale per i poveri
diventa un’opzione di fede, perché siamo amati da un Dio che per amore ha scelto di essere povero!
L’opzione preferenziale per i poveri è dunque una conseguenza della rivelazione si traduce in
povertà materiale, povertà spirituale (disponibilità alla volontà di Dio) e solidarietà con i poveri.
E tutta questa riflessione nasce dal non riuscire a capire come possa esse l’America Latina un
continente cristiano ed avere allo stesso tempo così tanti oppressi!
Il modo di procedere nel confronto della Parola con la situazione e le scelte da prendere è nel
circolo ermeneutico, che per essere fruttuoso deve supporre la fede. Esso parte dalla situazione
concreta che pone degli interrogativi → si confrontano questi interrogativi con la rivelazione → si
ottiene la risposta pratica da vivere. Esso segue lo schema del vedere-criticare-agire. Così il vivere
cristianamente una situazione sociale porta a cercare di vivere una precisa prassi. Certo nel
passaggio dal primo al secondo momento, è molto importante il discernimento, la riflessione
teologica fatta nella Chiesa, per lei e in comunione con lei. Per quanto riguarda il secondo momento,
il contenuto della Rivelazione in fondo è il mistero dell’amore di Dio, manifestatosi lungo tutta la
storia della salvezza e al quale si risponde con la fede. Se già la fede è legata alla prassi,
l’importanza di quest’ultima aumenta con quell’aspetto della Rivelazione che è l’escatologia.
Guardando ora agli aspetti generali della sua opera teologica possiamo notare che:
 La salvezza è vista come liberazione autentica e non tanto sul livello quantitativo, quando su
quello qualitativo: si salva così chi si apre a Dio e agli altri. E questa salvezza è già in atto
ed il divenire storico è così visto come Colui che abbraccia tutti gli uomini e tutta l’umanità.
 A livello cristologico, si mette molto in luce la sequela, anche perché si accentua
notevolmente (forse anche troppo) la funzione di Cristo rispetto al Regno. La sequela
comporta una prassi di liberazione storica, contro le strutture di peccato. Si cerca insomma
di delineare una cristologia più pratica e se Gutierrez rimane abbastanza equilibrato, quelli
dopo, perderanno un po’ questo equilibrio.
 In questo contesto per la Chiesa è molto importante partecipare alla missione liberatrice che
la storia della salvezza sta portando avanti.
Dando uno sguardo al tema della Rivelazione nell’opera di Gutierrez, va subito fatto notare che è un
tema trasversale a cui egli subordina tutto, anche se egli guarda questo tema dalla prospettiva del
povero. Passando all’analisi dell’uso di questa categoria:
 Se il Concilio Vaticano II usa Rivelazione solo per indicare l’automanifestazione di Dio,
Gutierrez lo estende anche ad altri campi e con più significati: far vedere in generale; parola
rivelata, verità rivelata; realtà strettamente legata alla storia e all’esperienza; manifestare la
presenza di Dio agente ed operante.
 Il contenuto della rivelazione è il mistero dell’amore di Dio, perché è incontro tra Dio e
l’uomo, anche se, essendo nella verità, lo mette di fronte alla scelta tra vita e morte.
 Questa Rivelazione avviene nella storia, che è il luogo dell’incontro con Dio. Il problema è
che egli fa coincidere spesso la storia con la storia della salvezza, come se non ci fosse altra
storia ed infatti cercherà poi di distinguere, non troppo felicemente, tra l’incarnazione come
irruzione di Dio nella storia e la liberazione che è l’intervento ordinario di Dio.
 La fede è un assenso vitale a questa Rivelazione e rimanda l’uomo all’esperienza e così la
fede porta a prendere sul serio il mondo e i teologi, pur partendo dalla fede e muovendosi in
essa, devono attingere agli apporti delle altre scienze.
 L’escatologia poi da un nuovo significato alla storia presente e così la relazione con la
Rivelazione è dono e missione. Il Regno di Dio infatti è dono, ma ha concrete conseguenze
storiche, che orientano il cristiano ad una prassi verso il cambiamento sociale. Alla Chiesa
tocca infatti il compito di manifestare con le opere l’amore di Dio nel mondo, colpendo alla
radice ogni struttura di peccato. In tutto ciò è molto importante l’aspetto contemplativo, per
capire come articolare Rivelazione-fede e prassi.
I contributi della tl alla teologia della rivelazione sono stati:
 Rinnovata coscienza dell’importanza dell’esperienza, alla luce degli ultimi, come luogo di
rivelazione e un rinnovato slancio per la Chiesa ad essere soggetto attivo nella storia.
 Questa azione liberante deve essere comunitaria, anche perché la comunità cristiana è anche
il primo luogo teologico, il primo luogo di rivelazione.
 Rinnovato legame tra la Parola e la storia presente.
Il magistero della Chiesa reagì con i documenti della congregazione per la dottrina della fede:
Libertatis Nuntius del 1984 e Libertatis Coscientia del 1986. Se il secondo è più che altro un
bellissimo studio sulla libertà, il primo invece mette in chiaro una serie di cos:
 Parlare di liberazione a livello teologico, ha senso se si parte da quella del peccato e poi
certo anche sugli altri livelli. Inoltre molte tl nel passo del “vedere”, guardano la realtà
tramite ottiche marxiste e ciò non è in accordo con il cristianesimo.
 Si nota positivamente l’attenzione ai segni dei tempi e alla giustizia, anche se su
quest’ultima si mette in guardia dal considerarla solo una cosa temporale.
 Se certo il peccato ha implicanze sociali, che giustamente sono messe in rilievo, bisogna fare
attenzione a non ridurre il peccato a semplice peccato sociale.
 Viene visto positivamente il tentativo di una lettura comunitaria ed ecclesiale della parola di
Dio, anche se il problema è ridurre ogni aspetto della vita della Chiesa alla liberazione,
guardando tutto a partire da una lettura parziale di Esodo, Beatitudini e Mt 25. Meglio
inserire questi testi nei loro contesti.
Queste teologie della liberazione hanno un futuro? Nel settembre del 1996, in Germania, si è tenuto
un incontro tra vescovi del Celam, rappresentanti della Congregazione per la dottrina della fede e
teologi della liberazione. Gutierrez, nella sua relazione, dice che le tl devono:
o Partire dal tempo concreto, che è il luogo dell’incontro con Dio, è in esso che agisce la
presenza salvifica.
o Mettere sempre più in luce l’aspetto comunitario della fede, che è uno degli elementi più
deboli del Concilio Vaticano II.
o Recuperare la dimensione trinitaria nei vari lavori teologici.
o Tenere conto delle nuove sfide, che non sono più quelle del ’68, ma la post-modernità, la
povertà non solo a livello sociale ed il pluralismo religioso. Quindi: approfondire cosa
significa la diversità tra le varie povertà; tenere sempre più in conto la situazione della
donna; considerare le conseguenze della globalizzazione sulle nuove povertà.
La Conferenza di Aparecida (2007)
Non guardiamo quella di Santo Domingo del 1992, perché era tutta incentrata sul tema dei
cinquecento anni dello sbarco di Colombo in America. La Conferenza di Aparecida viene convocata
con il titolo “Discepoli e missionari di Gesù Cristo, perché i nostri popoli abbiano vita in Lui: Io
sono la Via, la Verità e la Vita (Gv 14,6)”. Lo scopo è quello di capire il compito della Chiesa nel
continente, davanti ai grandi cambiamenti sociali, politici, economici e religiosi e quindi anche il
tono del documento finale è comprensibile che sia principalmente pastorale. È curioso notare che il
cammino seguito per approvare il documento finale, è molto simile a quello del testo conciliare di
DV. Infatti il documento inizialmente proposto, dopo consultazione di conferenze episcopali e
congregazioni romane, è stato rifiutato, soprattutto dopo il discorso iniziale di Benedetto XVI che
trattava i seguenti punti: centralità di Cristo; un’antropologia rispettosa della centralità della
persona; una lettura della realtà non faziosa, ma integrale, ben ricordandosi che solo chi conosce
Dio, conosce veramente la realtà. Egli analizza così come l’incontro con Cristo abbia significato un
arricchimento per molte delle culture indios che si può vedere nella scoperta dell’amore di Dio nel
Cristo sofferente, nella devozione eucaristica e mariana e nella varie forme di devozione popolare.
Egli insiste poi molto sul tema attuale della globalizzazione. Infine pone una serie di domande, che
formano un itinerario ben preciso e per le quali inizia un accenno di risposta. Egli riconosce poi
l’importante legame tra Rivelazione ed impegno per la promozione umana.
Passando al documento finale della conferenza vediamo i tratti salienti. Si prende atto di come i
cambiamenti dell’America Latina, siano legati ai cambiamenti globali e ciò è una novità.
Guardando agli effetti di questa globalizzazione, si fa notare come essa si ripercuota su tutta la vita
ed anche su quella religiosa. Essa è dominata dall’individualismo e dalle parole d’ordine
“economia” e “comunicazione” ed entrambe provocano nuove povertà, tanto che in entrambe i
campi a molti sono negati gli elementi basilari; in particolare è importante aumentare l’interesse per
la questione ecologica e per le varie popolazioni indigene. Essa ha portato però anche notevoli
positività quali un ruolo della donna più consapevole; la diversità delle culture come un fattore
positivo; la caduta delle ideologie con una conseguente interrogazione sul vero senso della vita.
Tutto ciò spinge dunque ad investire su di una “globalizzazione alternativa” vista come fonte di
speranza e di responsabilità. Alla riflessione sul perché molte persone si allontanino dalla Chiesa,
non si trova una risposta, ma si ribadisce l’importanza della dignità della persona e della libertà
religiosa che, per altro, spesso non c’è realmente. Si rinnova poi l’importanza di un dialogo interculturale, inter-religioso ed inter-ecumenico. A proposito delle strutture di peccato poi, si deve
attivare un discernimento comunitario e personale ed in merito al criterio ultimo di discernimento
esso è Gesù Cristo e soprattutto nel suo essere Salvatore per tutti gli uomini. Nell’ultima parte del
documento si presentano poi le sfide che la teologia ha davanti: integrarsi con le scienze sociali e
l’antropologia ed aiutare la trasmissione e la testimonianza della fede.
TEOLOGIA IN AFRICA
Ricordando che la storia del Cristianesimo in Africa risale agli inizi della predicazione apostolica,
noi guardiamo alla sua situazione ecclesiale a partire dal Concilio Vaticano II.
Al Concilio i vescovi di origine africana erano pochi e nella commissione “Segni dei tempi” solo
due che per altro, lamentando al mancanza di centri teologici e di esperti qualificati sulla questione
africana, dicevano di non aver abbastanza formazione in materia. Oltre ai segni dei tempi messi in
luce da GS essi ne fecero notare anche altri relativi alla loro realtà: l’assenza di una classe media e
di una forte divisione tra ricchi e poveri; la voglia di una propria identità; il pluralismo religioso e la
conseguente situazione minoritaria della Chiesa, che le impone di essere fermento nella massa; il
forte legame al mondo ancestrale e tradizionale; l’atteggiamento passivo. Le sfide che questa
situazione pone sono: passaggio verso una struttura più comunitaria; fare dell’uomo nero un
interlocutore di Dio e dei suoi fratelli; una crescente coscienza continentale; la rivendicazione dei
valori ancestrali; l’apparizione delle sette; il valore della cultura; l’urgenza dell’ecumenismo.
Dopo il Concilio va sviluppandosi, grazie anche all’aumento del clero locale, il concetto di
evangelizzazione, di affermazione delle varie chiese locali e di ricerca di una propria identità
teologica. Nel 1994, anno del Sinodo africano, questo cammino viene riaffermato e si continua con
nuovi orizzonti e con più speranza. Questa progressiva nascita di una Chiesa “più africana” è
accompagnata ed anche aiutata, dallo sviluppo di una teologia africana. Tappa importante sarà la
nascita, nel 1977, della associazione di teologi pan-africani, che era fondata su due convinzioni:
l’importanza di una teologia contestuale e di una della liberazione. Tre sono le correnti teologiche
che si muovono all’interno di questa neo-nata associazione:
 Missionaria. La missione ecclesiale infatti tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo
era di carattere salvifico, con poca attenzione alle tradizioni e alle religiosità popolari; poi si
passò alla fase della plantatio ecclesiae; infine si è arrivati ad una missione, segnata dai temi
dell’incarnazione e della comunione, da qui la necessità di una teologia missionaria africana.
 Africana. Essa sottolinea l’importanza di una teologia che si adatti al sistema africano e che
sia però allo stesso tempo critica, che rifletta cioè teologicamente sull’inculturazione. Da qui
è nata la metafora della pelle di leopardo, che è una, ma formata da tante macchie diverse:
così dovrebbe essere la teologia della chiesa cattolica, una e variegata. Il paradigma per
l’inculturazione è l’incarnazione e così la teologia deve riflettere tanto sul polo teico, che su
quello andrico, ma soprattutto su quest’ultimo.
 Nera-sudafricana. È la teologia della liberazione africana nata nel contesto sudafricano di
affrontare il problema del razzismo. Essa rivendica la dignità della persona di pelle “nera”,
ma allo stesso tempo si muove, nella linea di Mandela, su di una linea di forte
riconciliazione. Documento programmatico di questa corrente è il documento Kairos che
150 teologi cattolici ed anglicani firmarono nel 1985.
Guardando alle sfide che la teologia africana oggi deve affrontare:
 Centrale è come presentare Cristo, tenendo conto di Dio e degli antenati, che nella società
africana sono molto importanti e così Cristo può essere visto come: il proto-antenato,
concetto fortemente legato alla vita; capo-tribù, che solitamente è proprio il mediatore tra la
comunità e gli antenati ed è inteso come uomo di riconciliazione e di pace, a servizio degli
altri e soprattutto dei più bisognosi; maestro iniziatico, che fa passare dalla morte alla vita e
così forte aggancio al mistero pasquale; vero guaritore, non solo del singolo, ma anche della
comunità perché quando un uomo è toccato, sono toccate anche le sue relazioni.
 La relazione tra la riflessione teologica e l’azione missionaria,
 L’inculturazione della fede cristiana,
 Il rapporto tra la Tradizione e le tradizioni locali.
 Relazione tra la persona e la comunità.
Un teologo particolarmente importante è Jena Marc Éla. Egli si chiede come parlare di Dio in un
contesto in cui da un lato Dio è percepito come silenzio, come uno che ha condannato l’umanità alla
morte ed alla sofferenza. Qui viene l’importanza di Gesù e della sua solidarietà con gli uomini,
soprattutto con gli ultimi, manifestata anche con atti vari. Perciò l’inculturazione del Vangelo
nell’Africa, deve progredire di pari passo con la solidarietà con tutti e soprattutto con gli “ultimi”
della terra e la teologia dell’incarnazione deve procedere dunque da un lato sull’inculturazione e
dall’altro sulla liberazione. Soprattutto questo ultimo aspetto, richiede alla Chiesa di essere presente
nel cambiamento sociale e politico. La Rivelazione ha dunque legata alla vita, non tanto nel tentare
delle risposte, quanto nell’illuminarla, per dare una speranza alle situazioni di povertà. Fare teologia
obbliga così a guardarsi intorno, anche per imparare ad usare il linguaggio della vita.
Egli vede poi una serie di presupposti, necessari per far teologia in Africa:
o Deve essere fatta sotto l’albero della croce. L’albero, per l’africano, significa un luogo di
protezione e di incontro, dove tutti stanno insieme e si trasmettono le tradizioni. Così la
croce è il solo albero attorno a cui trovarsi per leggere ed interpretare la parola, sapendo che
quell’albero ha segnato la vittoria della vita sulla morte, della luce sull’oscurità e proprio per
questo è fonte di vita e di luce e sotto di esso il cristiano deve vivere in comunità.
o Altri luoghi importanti come fonti per la teologia sono la cultura, l’economia e la politica.
o Si deve tener conto del popolo africano nella lettura di temi quali peccato, grazia e
sacramenti, legandoli più al contesto del Regno di Dio e tenendo conto dell’importanza del
simbolo, che per loro è essenziale, perché proverbi, riti, miti e danze, comunicano, più di
tante parole, la risposta di senso alla base di ogni elemento umano. Questa è d’altronde la
ricchezza che l’Africa può offrire al mondo e alla teologia.
o Il popolo africano deve però essere anche soggetto di conoscenza teologica, solo così esso si
sentirà parte integrante dell’annuncio. Tenendo conto dell’uscita recente dal colonialismo, si
capisce perché sono molto usati certi passi dell’Antico Testamento come l’Esodo.
In tutto questo egli è sostenuto da AG 22, ma anche dal fatto che nessun approccio alla Rivelazione
costituisce una prospettiva totalizzante ed ecco così l’importanza della ricerca continua e della
significatività per la Parola di Dio nell’oggi di ogni cultura. Così il suo programma teologico è:
 Interrogarsi sulla situazione attuale dell’uomo africano, alla luce del Vangelo.
 Mostrare che in Gesù, Dio: si fa vicino; si presenta come Dio della vita soprattutto per i
deboli e che coccola il suo popolo; mostra la sua potenza, vincendo nella debolezza.
 Il luoghi della Rivelazione sono la storia e la comunità.
 Il linguaggio da usare è quello simbolico e la comunicazione dinamica.
 Il termine “Rivelazione” significa che Dio nella storia della Salvezza si rivela ed è rivelato,
portando un messaggio ed una promessa di salvezza, perché Dio vuole saziare tutti e proprio
per questo si identifica con i poveri. Questo termine non esaurisce comunque il significato
del mistero di Dio, che è infinitamente ricco ed ecco così anche l’importanza di altri termini
per l’azione di Dio, quali Parola (ad intendere la comunicazione della totalità della persona
di Dio) e Vangelo (riferimento ai quattro vangeli, ma anche al cammino di vita di Gesù, nel
quale la comunità è chiamata ad entrare).
 Centralità del mistero pasquale, visto come tensione tra vita e morte e come mistero in cui
emerge la forza della prima e ciò è molto importate per un popolo che vive costantemente in
una situazione di morte. E siccome questo mistero si può vivere già adesso, ecco
l’importanza di salvezza e liberazione, perché il reale deve già dire questa vita nuova
presente nella quotidianità: l’opzione di vita del cristiano che ha accolto la Rivelazione, deve
essere incarnata in una tensione continua alla liberazione integrale.
 Così il contesto africano può traghettarsi verso un nuovo linguaggio della fede, che tenga
conto di come esperienza concreta e Parola si illuminino a vicenda e far sì dunque che la
rilettura del Vangelo in Africa non sia solo un adattamento, ma un’incarnazione della Parola
in un contesto preciso e fatta nella Tradizione, in comunione cioè con l’esperienza originaria
della prima Chiesa e con quella della Chiesa universale.
La difficoltà maggiore dell’opera di Éla è il suo approccio antropologico, che se da un lato è molto
importante, dall’altro è spesso troppo sociologico e dimentica ciò che la Rivelazione ha da dire.
TEOLOGIA IN ASIA
Il contesto asiatico è molto particolare, perché:
 È molto religioso, ma poco cristiano (solo il 2,5%, che per altro è concentrato nella maggior
parte in Corea, nelle Filippine e a Timor Est).
 All’interno di questa pluralità, che è la caratteristica del continente, ci sono poi anche le
diversità delle lingue, delle religioni e delle culture, spesso secolari.
 Tra le religioni presenti quelle più grandi sono divise tra religioni monoteistiche e altre
mistiche, che parlano del divino in maniera impersonale.
 Oggi poi è molto visibile la differenza tra il grande sviluppo tecnologico e la grande povertà.
 La povertà è vista poi come carenza, ma anche come elemento positivo se scelta come
distaccamento dalle cose.
Tutto questo pone molte sfide alla teologia cristiana.
Storia della teologia in Asia
Un primo tentativo fu quello di Matteo Ricci ed altri gesuiti, nel XVI secolo, ma la vera teologia
asiatica comincia nel XIX secolo e si arriva nel 1938 con la presentazione, da parte di teologi
indiani, di un ripensamento del cristianesimo in India. L’Asia viene vista sempre più non solo come
terra di missione in seguito alla de-colonizzazione, ma anche come terra-soggetto. Particolare è ad
esempio il caso della Corea, in cui il Cristianesimo non si è esteso grazie a dei ragionamenti
teologici, ma tramite la vita di alcuni laici che poi si è diffusa a macchia d’olio (ndr ma porca
miseria è quello che dico sempre io! La teologia non ha senso prima, ma dopo e a servizio di ciò
che nasce, il messaggio cristiano non ha efficacia grazie ad una tattica, ma per la vita che cambia!).
L’impatto dei vescovi asiatici al concilio è quasi inesistente, vista anche l’assenza di molti per
motivi politici. Unica eccezione è la chiesa indonesiana che avendo come teologo Smulders, riesce
a farsi sentire. Nel 1970 nasce poi la conferenza episcopale asiatica, che attiva subito una
commissione teologica, che ha scelto di muoversi tra due poli, quello della religiosità e quello della
povertà, scegliendo di mettersi a servizio dei poveri in generale (la cui maggioranza è non cristiana,
ma profondamente religiosa) e soprattutto delle donne.
La teologia in Asia oggi
Parola chiave per teologare è il dialogo, sapendo però che la persona in questo contesto plurale è
concepita in maniera inclusiva e che bisogna spesso distinguere tra religione e filosofia, che sono
spesso mischiate. La teologia asiatica si muove così sul versante della liberazione e quello
dell’inculturazione, alla ricerca di quegli elementi positivi presenti in ogni religione. Ma come
portare il messaggio cristiano? Come mettere in rapporto Cristo con le religioni? dire che la Chiesa
è mezzo di salvezza? Attualmente sono quattro:
 Cristo contro le religioni, residuo dell’impostazione colonialista-espansionista.
 Cristo nelle religioni. Impostazione che, cerca di trovare un modo per spiegare l’esistenza di
tante religioni (tipo “cristiani anonimi”) e mettendosi nella scia del Concilio, riconosce
valore salvifico alle religioni, vede un’azione di Cristo in esse. Sul valore dei loro testi scritti,
in un seminario del 1974 si disse che sono mezzi per aprirsi all’incontro con Dio.
 Cristo al di sopra delle religioni. Per tenere insieme la novità cristiana ed il rispetto verso le
altre religioni, si mette in relazione la Chiesa con il Regno, mettendo in luce come sia Cristo
che salva, più che le religioni o la Chiesa.
 Cristo con le religioni. Si stabilisce (Pannikar) una differenza tra Gesù e Cristo, tra Logos
Incarnato e Logos eterno, dicendo che il primo non è in nessun modo assoluto e vincolante.
Contro questa impostazione si è diretta la dichiarazione Dominus Iesus.
In generale è comunque un tentativo di reazione ad un’impostazione europea.
Aloysius Pieris
Nativo dello Sri Lanka, è uno degli esponenti maggiori della teologia asiatica. Egli parte dal fatto
che la maggior parte dei poveri, nelle loro diverse forme, è non cristiana e la Chiesa si deve
chiedere come parlare a loro! Egli inizialmente, avendo conosciuto il pensiero di Rahner, si mette
nella linea del “Cristo nelle religioni”, ma poi si sposta di più sul versante soteriologico e quindi su
quello della teologia della speranza, calata soprattutto nel dialogo con i buddisti (che in Sri Lanka
sono la maggior parte). Il concetto di salvezza è infatti per lui fondamentale per discernere nelle
culture tra religione e filosofia, perché egli dice che ogni religione offre, propone, dei cammini,
delle vie per la salvezza. Cosa è che crea problema nella sua posizione? Non è chiara la finalità del
dialogo con le religioni, a parte quella che ognuna ritorni su stessa per rivedersi. In questo dialogo
infatti sono necessari degli elementi per il discernimento e in fondo l’ultima chiave è Cristo.
Egli dice che il contesto di povertà e pluri-religioso, ha degli aspetti positivi e negativi. La povertà
in sé non è né bene, né male, ma la povertà forzata rende schiavi e quella volontaria rende liberi, ma
questo non è tipico del cristianesimo. Ciò che è tipico del cristianesimo è invece la scelta dei poveri,
ed è questo uno dei suoi elementi tipici, ciò che Gesù ha da offrire di “nuovo”. Nel dialogo con i
buddisti invece bisogna trovare come far incontrare il Dio della Parola (cristianesimo) con quello
del silenzio (buddisti). Egli vede nello Spirito Santo il legame tra questi due poli, perché è Egli a
trasformare il silenzio da un’assenza in un modo di presenza possibile della Parola, è lo Spirito
Santo che fa del silenzio una Parola non pronunciata e della parola, un Silenzio ascoltato. Egli dice
di tener poi da conto che se per il Cristianesimo l’Assoluto ha un volto, è una realtà personale, per il
buddismo no. Detto ciò egli vede tre possibili approcci tra cristianesimo e religione:
 Livello esperienziale. Con il buddismo, ciò significa l’incontro tra conoscenza e amore.
 Livello religioso. Le tradizioni, soprattutto rituali, permettono all’esperienza originaria di
essere vive nell’oggi e per il cristianesimo questa è duplice: le beatitudini ed il mistero
pasquale, che egli vede come Battesimo della croce.
 Livello teologico. Se Budda non ha pretese mediatico-salvifiche Gesù le ha! È importante
questo livello, perché egli vede la teologia come la formula di vita che riflette sulla prassi
ecclesiale di liberazione, continuamente interiorizzata tramite la prassi liturgica.
Per quanto riguarda l’ultimo livello egli parte prima dall’approccio missiologico, criticando le
impostazioni che identificano Chiesa e Regno, quelle di adattamento alla cultura e quelle che
vedono il cristianesimo come il compimento delle religioni. Egli opta per il modello sacramentale,
insistendo molto sull’essere segno della Chiesa, dicendo che essa deve immergersi, come Gesù nel
Battesimo, nelle altre religioni, sapendo che questa immersione conduce fino alla croce. Solo se si
passa per questi due battesimi il dialogo Chiesa-Religione è vero! Dopo l’approccio missiologico
egli passa a criticare anche la cristologia. Egli opta per la soluzione “Cristo nelle religioni”, ma in
una maniera un po’ particolare perché se vede come luoghi della rivelazione la Parola di Dio e la
Tradizione, egli dice poi che l’incarnazione è sì il momento culmine della Rivelazione, ma che con
ciò non si vuol dire che esso sia esaustivo! Egli separa Cristo da Gesù, dicendo che la presenza di
questo Cristo c’è anche nelle altre religioni. Partendo infatti da una cristologia discendente (Cristo
come Sacramento), egli passa poi ad una cristologia ascendente (che esalta la dimensione umana di
Cristo) per poi arrivare appunto a questa dimensione cosmica del Cristo (che è massima in Gesù,
ma lo eccede), che permette di parale di un Cristo asiatico. Se il suo tentativo è buono e cerca di
inserire anche lo Spirito Santo nella sua trattazione, confrontandolo con DV 2 e 4 si vedranno le sue
grosse lacune, soprattutto lo scarso riferimento al Padre.
CONCLUSIONI
Guardando soprattutto alle teologie extra-occidentali si notano delle costanti:
 L’importanza del contesto storico e culturale in cui si fa teologia.
 Il tentativo di recuperare la relazione tra ortoprassi e ortodossia.
 Tutte giungono, per strade diverse, ad un recupero del senso della Tradizione.
 Il povero è visto come soggetto teologico.
 La sottolineatura, della dimensione comunitaria della fede.
Fino a qui si sono analizzate le varie teologie nei loro diversi contesti. Esistono però, oggi più che
mai vista la crescente globalizzazione, anche degli elementi comuni ai vari contesti. Vediamoli.
POSTMODERNITÀ E CRISTIANESIMO
Il primo problema nell’affrontare questo tema, è che non abbiamo una visione storica del momento
in cui viviamo, perché ci siamo immersi dentro. Se poi questo fenomeno ha avuto inizio
nell’Occidente, l’odierna situazione comunicativa, ha fatto sì che avesse ripercussioni ovunque.
Inoltre è caratteristico definire un periodo in relazione con quello precedente, con il quale ha rotture
e continuità. Vediamo dunque le caratteristiche della modernità:
 Ricerca della verità tramite certezze e l’oggettività.






Riduzione della ragione a semplice razionalità.
Sbordamento della tecnica nella ragione e riduzione di questa a mentalità funzionale.
Conseguente formazione di motivazioni morali autonome.
Il posto che prima aveva la religione, viene preso dall’economia.
Di conseguenza la religione è confinata nell’aspetto individuale.
Si assise alla dissoluzione della metafisica, con il conseguente spostamento della ricerca di
senso sul piano materiale e l’approdo ad un relativismo totale.
Tutto ciò porta sempre più la persona ad essere considerata come un oggetto.
La postmodernità cerca invece di avere come perno della ragione, della storia e della società l’uomo,
ma ciò avviene mettendo in crisi i tratti salienti della modernità, perché si ha una perdita di fiducia
nella ragione. A ben vedere però, ogni qual volta nella storia c’è un cambio di paradigma, si assiste
ad una crisi, ad un cambio di mentalità, di stili di vita e di religiosità. Nel concreto:
o Si mette in seria questione l’accesso alla verità ed i valori ad essa legati, passando in
maniera esagerata all’importanza dell’esperienza: «È vero, perché io l’ho sperimentato».
o Dopo la morte di Dio si arriva alla morte del soggetto, alla sua dissoluzione.
o Ciò che conta non è il senso ultimo, ma il qui ed ora, l’immediatezza e così siccome il reale
è esperienza di pluralità, nulla ha veramente valore.
o Si ha una rottura con il cristianesimo e con il “religioso istituzionale” in generale.
Questa crisi della modernità sta mettendo in crisi anche il cristianesimo, soprattutto per il suo
necessario impatto culturale. Stiamo in fondo assistendo ad una seconda secolarizzazione. Questo
può forse servirci, per rifondarsi sull’essenziale. Le cause di questa crisi sono da ricercare in:
 Una razionalità scientifica che ha spodestato quella religiosa.
 La presa di coscienza, da parte dell’uomo, dell’insignificanza della sua esistenza.
 L’esperienza del male e della sofferenza.
 La velocità dei cambiamenti e delle informazioni.
Le reazioni di fronte a questa crisi sono da un lato quella fondamentalista, di di tornare al passato,
prima della modernità; dall’altro lato c’è chi dice di accettare la situazione di pluralismo, negando la
possibilità di ogni unità e quindi l’importanza della tolleranza, ma l’inutilità del dialogo. In mezzo a
queste due c’è la posizione di Benedetto XVI di recuperare il senso pieno della ragione, per
recuperare: un’utopia, un motivo per vivere; l’idea della vita come un progetto; una visione
trascendente della realtà, per uscire dal carpe diem; il senso della storia; il senso del silenzio. (ciò
per altro porta la gente a rivolgersi al mondo orientale); il senso pieno della persona umana e non
solo quello utilitaristico. Proprio nel cammino verso questa ragione piena, il contributo delle
religioni è quanto mai importante e fondamentale.
Riguardo al pluralismo esso è vero se si riconoscono le differenze e si valutano come tali,
riconoscendo però anche ciò che è Assoluto e superando così l’individualismo edonista.
Le caratteristiche della cultura post-moderna, che è in fondo una seconda secolarizzazione, sono:
l’essere una cultura dell’intrascendenza; la fine della storia; essere una cultura del divertimento; la
sostituzione dell’essere per il possedere; il passaggio dal pluralismo al relativismo e
all’indifferenza; l’individualismo edonista e narcisista. Come comunicare comunque il
cristianesimo in questo contesto postmoderno? Per Tillich l’attecchimento del messaggio
evangelico è dovuto anche ad un eccessiva identificazione tra fede e credenza, la mancanza di
novità che il Vangelo comporta, un atteggiamento tradizionalista verso la Tradizione e la mancanza
di alcune classi sociali nella Chiesa. Per arrivare ad un nuovo paradigma dunque si deve:
- Ripensare la trascendenza, che è unione di esperienza religiosa ed esperienza etica, come
elemento antropologico fondamentale.
- Ripensare la fede non tanto nei suoi contenuti, quanto nella loro trasmissione.
- Affrontare il pluralismo ed il relativismo mostrando la volontà di verità presente nell’uomo.
- Recuperare l’opzione personale, il valore del desiderio, il senso di identità ed appartenenza.
- Rapporto con le nuove sette e le varie religioni, soprattutto orientali, da vedere non solo
come sfida, ma anche come qualcosa su cui riflettere.
A tutto questo sottostà però la domanda centrale che è: «Cosa significa credere?». Risposte:
@ Abbandonarsi a Dio, accettare di vivere il mistero, nel mistero.
@ Vivere con un atteggiamento teologale, fatto di fede, speranza e carità.
@ La conseguente antropologia: corretta visione di sé stessi e quindi degli altri.
@ L’importanza della dimensione etico-politica nell’esperienza cristiana.
@ Dialogare con tutti.
@ L’uso di un linguaggio teologico più narrativo
@ Una coscienza sempre più planetaria ed allo stesso tempo più locale.
@ Entrare in relazione con le religioni.
@ Ripartire dalla mistica, dall’esperienza profonda e gioiosa di Dio.
RAPPORTO FEDE E RAGIONE, TEOLOGIA E FILOSOFIA
Tema al centro dei dibattiti dell’ultimo secolo, importantissimo per la teologia fondamentale, e del
magistero soprattutto di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, anche se con accenti diversi, e che nel
caso di GPII, si è cristallizzata nell’enciclica Fides et Ratio.
Fides et ratio (1998)
Il tema di questa enciclica è proprio il rapporto tra teologia e filosofia ed il problema che c’è sullo
sfondo sono i nuovi problemi che i sistemi filosofici attuali pongono alla teologia. Ciò che motiva
l’intervento del Magistero su questo tema, sono dunque le seguenti cose:
 La ricerca della verità è un tema strettamente legato alla missione della Chiesa, perché
essendo l’uomo la via della Chiesa, la ricerca interiore dell’uomo è ciò che più le sta a cuore.
 La chiesa è al servizio della verità, «pur nella consapevolezza che ogni verità raggiunta, è
sempre solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima
di Dio» (FR 2).
 Si pone nella scia del Concilio Vaticano II e della Veritatis Splendor e cioè aiutare l’uomo
nella ricerca del significato dell’essere umano e della vita.
 Si percepisce una sempre maggiore separazione tra fede e ragione, che porta da un lato a
nuove forme di fideismo e dall’altro alla fine della metafisica.
 Così «la ricerca della verità ultima, appare spesso offuscata» (FR 5), anche a causa della
situazione di angoscia e di paura dovuta alla separazione tra fede e ragione, che porta alla
difficoltà di trovare dei punti di riferimento e porta così ad un approccio parziale alla verità.
 Affrontare la «crisi di senso» (FR 81) che permea la società e che ingloba tutto il resto.
 La filosofia ha dimenticato la trascendenza della persona, impoverendosi e degenerando in
relativismi o gnosticismi, anche se continuano a trovarsi in essa degli elementi di verità. La
Chiesa ha il dovere di aiutarla a recuperare al sua dignità.
 Ridare all’uomo la fiducia nella sua capacità conoscitiva: «portare gli uomini alla scoperta
delle loro capacità di conoscere il vero» (FR 102)
Per un nuovo rapporto tra fede e ragione ci vogliono però dei presupposti:
 Innanzitutto l’antropologia, la visione dell’essere umano. Solo mettendo al centro la persona
umana nella sua interezza, fede e ragione si possono re-incontrare. Ecco allora l’importanza
di un uomo visto come essere: trascendente; capace di conoscere, domandare e cercare
risposte (oggi da rivitalizzare, provocando la domanda di senso e lo stupore); in relazione;
che vive di credenze da cui parte per ragionare e per vivere rapporti di donazione e fedeltà;
storico; inserito nella tradizione.
 Il rapporto tra fede e ragione. GPII le vede come due ali , come due momenti costituenti, per
la contemplazione della verità, per la vita dell’uomo. Certo oggi più che mai è importante il
discernimento, di ciò che si sa di sapere, perché sia fede che ragione sono impoverite.
Siccome infatti la ricerca di Dio è connaturale all’uomo, dopo un inizio passato ad
“annusarsi” fede e ragione sono andate a braccetto, anche se, nonostante qualche eccezione,
non si sono mai identificate. Con l’epoca moderna è iniziata la sfiducia nella ragione piena,
manifestatasi con il fideismo (ragione inutile) o il razionalismo (ragione limitata ai sensi).

La Rivelazione è il punto di incontro ideale tra fede e ragione e ciò si vede prima nella Dei
Filius, che ne mette in luce il carattere soprannaturale, e poi nella Dei Verbum, che ne mette
in luce invece il carattere salvifico. Il papa aggiunge poco ad esse, ma ha il pregio di
mostrare la continuità tra le due costituzioni e la relazione intercorrente in esse, e quindi
nella Rivelazione, tra fede e ragione. La Rivelazione è presentata così, come risposta di
verità piena alle domande dell’uomo. Proprio per questo essa può essere fonte di pensiero
che chiede di essere accolto ed è universale, e può venire così in aiuto alla filosofia.
Nel rapporto tra fede e ragione, ci sono una serie di concetti che vanno visti ed analizzati:
 Credenza. Insieme di conoscenze, legate anche alla fede, acquisite da altre persone e che
sono ritenute come certo, ma che sono da perfezionare mediante l’evidenza personale.
 Metafisica. Capacità della ragione di andare oltre la conoscenza sensoriale, argomentando
sui dati, fino ad arrivare alla causa che sta all’origine di ogni realtà sensibile.
 Filosofia. Processo di sistematizzazione del pensiero/sapere, mediante la capacità
speculativa propria dell’intelletto umano, che cerca di dare delle risposte alle domande
legate al senso della vita. Essa permette di passare da una conoscenza individuale ad una
universale. Se ci sono poi diversi modi di sistematizzare, diversi sistemi diverse filosofie,
c’è un nucleo che è comune a tutti, che è il punto di riferimento per dire che quel modo di
procedere è una filosofia. Esiste quindi anche una filosofia cristiana, che è il processo di
sistematizzazione guidato dalla ragione illuminata e purificata dalla fede, che fa uso spesse
volte, anche di alcuni concetti derivati dalla fede.
 Autonomia. È la capacità di procedere secondo metodi e regole propri. Essa non significa
però chiusura e separazione dal resto. Così teologia e filosofia sono entrambe autonome, ma
in relazione necessaria tra loro, relazione che non deve essere di subordinazione.
 Fede. Risposta “obbediente” a Dio, che porta a riconoscere Dio come Dio e a dare l’assenso
alla testimonianza divina, è un atto di affidamento che coinvolge tutta la persona (FR 13).
 Sapienza. Forma di conoscenza che unisce le conoscenze della fede e della ragione,
sull’uomo, sul mondo e su Dio. L’uomo saggio ama la verità e la cerca con tutto se stesso.
La sapienza pone alcune regole alla ragione: il cammino è senza sosta; il limite va
riconosciuto ed integrato; è strettamente legata al timore di Dio (cf Sir 1,16.24; 19,18; 25,6),
all’aspetto di chi sa di aver ricevuto molto dalla vita; la sapienza vera è quella della croce.
 Verità. Essa può presentarsi sotto molte forme (ricerca scientifica, carattere filosofico,
religiosa, credenza della persona), ma Cristo è la verità ultima e definitiva. Ancora una volta
la Rivelazione è poi vista come terreno di incontro tra fede e ragione.
 Apertura. È la capacità dell’uomo di uscire da se stesso, di trascendersi e di trovare risposte
nell’Assoluto. Essa è la caratteristica che definisce l’essere umano in sé ed è dunque questa
l’antropologia soggiacente all’enciclica.
L’enciclica passa poi a fare anche delle proposte. Innanzitutto bisogna recuperare la ricerca della
verità, ricerca inscritta nella necessità di uscire da sé, ma frenata dalla paura di ciò che comporta.
Bisogna poi recuperare l’unità tra ragione e fede, in un rapporto di circolarità (n°73), dove ognuna
delle due porta un proprio contributo, anche se bisogna discernere, perché non tutti i sistemi
filosofici sono buoni interlocutori: la filosofia è necessaria alla teologia, che ha bisogno di una
ragione adeguata; la teologia è necessaria alla filosofia per evitarle di impadronirsi di cose non sue.
Per recuperare questa rapporto circolare entrambe hanno dei compiti:
 la filosofia deve ritrovare il suo ruolo sapienziale, avere un ruolo analitico ed una portata
autenticamente metafisica, passando dal fenomeno al fondamento. Ma deve fare attenzione
ad alcuni rischi: l’eclettismo, lo storicismo, lo scientismo, il pragmatismo e il nichilismo.
 La teologia invece deve superare ogni relativismo, rinnovare la propria metodologia ed
approfondire tutto nella verità ultima.
La FR ha così aperto una strada importante e le sue proposte sono ancora attuali.
Il magistero di Benedetto XVI
Questo papa ha ripreso il tema approfondendolo in almeno tre occasioni: il discorso all’Università
di Regensburg (o Ratisbona), l’angelus su Tommaso d’Aquino e il discorso che avrebbe dovuto
tenere all’Università “La Sapienza” di Roma.
Riguardo al primo discorso egli riprende il discorso di un retto e pieno uso della ragione. La sua tesi
di fondo è che «Non agire secondo ragione, è contrario alla natura di Dio». Le domande sottese al
suo discorso sono: «Come condurre qualcuno alla fede? Con la violenza o con la ragionevolezza?»
e «La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto
un pensiero greco o vale sempre per sé stesso?». Egli sviluppa così il significato del termine Logos,
visto come Parola e Ragione, facendo notare come Dio agisca con “ragione creatrice” e come
l’essere di Dio sia una contestazione al mito. Questa grecizzazione del messaggio cristiano,
preceduta dal fecondo incontro tra AT e cultura greca, culminato nella traduzione dei LXX, è parte
essenziale dello stesso, ma si è cercato in tre ondate di deellenizzare il cristianesimo (Riforma,
Teologia Liberale e oggi) e la radice la si può trovare nel volontarismo, che separava libertà di Dio,
da ragionevolezza del suo agire. La conclusione del suo discorso è che la fede ha bisogno, in quanto
atto ragionevole, di una ragione piena, che non sia ridotta e che la nostra struttura antropologica è
fatta per accogliere la Rivelazione. Analoghe idee si trovano nell’angelus su san Tommaso.
Sul discorso alla Sapienza esso, nella parte finale, verte sul tema di come cercare di rimettere
insieme ragione e fede, e se da un lato recupera FR, dall’altra insiste sul non ridurre la ragione.
TEOLOGIA ECUMENICA
Nell’affrontare il tema, innanzitutto è bene distinguere tra dialogo ecumenico e dialogo
interreligioso, perché se il primo ha basi solide (fede nella Trinità, nel mistero di Gesù Cristo e nel
comune Battesimo) ed ha come finalità una sempre maggiore base comune, il secondo ha come
finalità non tanto una situazione di compromesso, quanto più una volontà di camminare insieme.
Per quanto riguarda dunque l’ecumenismo, va detto che innanzitutto la Chiesa sussiste nella Chiesa
Cattolica, ed argomenti che vanno approfonditi sono: la relazione tra Scrittura e Tradizione,
l’Eucaristia, l’ordine come sacramento triplicemente strutturato, il magistero della Chiesa affidato al
papa e ai vescovi in comunione con lui, la Vergine Maria e la sua intercessione; la natura e la
missione della Chiesa; la natura e l’esercizio del primato del vescovo di Roma. Tra i tentativi fatti
da singoli teologi sono da segnalare “Diversità e comunione” di Congar (1982), “Unione delle
chiese, possibilità reale” di Rahner-Fries (1983) e “L’unità attraverso la diversità” di Cullmann.
Esistono poi vari organi dove discutere e cercare delle vie, ma i più interessanti sono i rapporti
bilaterali e ciò che da essi scaturisce, come nel caso dei Luterani sulla giustificazione e degli
Anglicani sulla Madonna. Questo perché forse si riesce a tenere meglio in conto l’identità di chi si
ha davanti. Per la teologia fondamentale particolarmente importanti sono stati i dialoghi con i
metodisti: il rapporto di Singapore del 1991 “La tradizione apostolica” e il rapporto del 1997 “La
Parola di vita – La rivelazione e la fede”.
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