LA TEOLOGIA DELLA RIVELAZIONE NELLA RICEZIONE DEL CONCILIO VATICANO II «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo». (1 Gv 1,1-3) L’inizio della prima lettera di Giovanni spiega bene l’atteggiamento con cui ora ci si accosta alla Rivelazione che è di ascolto, ricerca, comunione e missione. Il titolo di questo corso contiene due parole chiave, recezione e rivelazione, di cui è bene chiarire il significato e poi converrà spiegare come mai il riferimento proprio al Concilio Vaticano II. Perché il riferimento al Concilio Vaticano II? Tutti i papi hanno parlato continuamente di necessità di una piena recezione del Concilio Vaticano II, questo vuol dire dunque che non è ancora terminato il processo della sua recezione e questo anche a livello teologico. Il Vaticano II ha infatti aiutato a portare il Vangelo nel nostro tempo e a far teologia in un modo diverso. Ma sono attuali documenti di quaranta anni fa? Il sinodo straordinario del 1985 ha fatto proprio lo stato della situazione, documento per documento. Se il tema degli altr concili era chiaro fin da subito il motivo della convocazione di questo concilio era anomalo già di per sé: non erano dei motivi dogmatici, ma pastorali, perché il mondo stava cambiando e la chiesa doveva tenerne conto. Esso produce tre tipi di documenti: costituzioni, decreti e dichiarazioni. Le prime danno contenuti più dottrinali; i secondi sono quasi tutti, tranne uno, approfondimenti dei vari capitoli della LG; le terze sono pronunciamenti della Chiesa su temi concreti. Se le prime sono sicuramente le più importanti, non è detto che sia tutto in esse (vedasi il caso della libertà religiosa). Lukas Vischer, osservatore del Consiglio mondiale delle chiese, è uno dei pochi ad aver assistito a tutte le sessioni e se dopo ogni sessione stendeva un resoconto, particolarmente importante è quella dopo la quarta (“After the fourth session of the Vaticano Council”, The Ecumenical Review XVIII (1966) 150-206) perché è un po’ una panoramica generale su tutto il concilio. Egli dice che in esso non si è risolto tutto, ma è stato importante che si sia comunque presa coscienza dei vari problemi e quindi la cosa più importante non sono i documenti in sé, quando l’incontrarsi della Chiesa Cattolica con sé stessa e allo stesso tempo con gli altri cristiani e con il mondo. Per la teologia fondamentale due sono i documenti principalmente significativi: Dei Verbum e Gaudium et Spes. La DV perché dedica un capitolo intero alla Rivelazione, che ne diventa anche il cardine attorno a cui interpretare il documento; la GS perché da indicazioni su come i cristiani debbano vivere, accogliendo la rivelazione, perciò offre una metodologia pratico-ricettiva. Il Concilio è dunque il punto di partenza della riflessione sulla teologia imperniata attorno alla rivelazione e su di essa. Inoltre il Concilio Vaticano II introduce un’ulteriore elemento di novità in teologia, perché essa cessa di essere solo europeo-occidentale e prende tratti sempre più mondiali. Perché parlare di recezione del Concilio Vaticano II? Tutti i concili sono stati seguiti da un periodo di recezione e se non c’è stata vuol dire che non hanno inciso abbastanza sulla vita della chiesa. Se 40 anni possono sembrare buoni per tirare le somme, sono in realtà molti pochi in storia, sia perché solitamente gli archivi vaticani vengono aperti 50 anni dopo, anche se in questo caso Paolo VI ne ha autorizzato l’apertura dopo 20 anni, sia perché per giudicare la corretta recezione di un concilio se ne devono valutare gli effetti, i frutti, ed è ancora troppo presto. Detto ciò, essendo la bibliografia in materia molto ampia, proviamo a vedere quali sono state le tappe di questa recezione: I. Conoscenza dei testi, con una ricca bibliografia di commenti fatti sia da persone interne ai lavori conciliari, che esterne ad essi. È un periodo in cui c’è molto entusiasmo. Lentamente però oltre al contenuto dei testi entra in gioco anche l’importanza dello spirito del concilio. Esemplare in tal senso è la riflessione del Vescovo di Metz, Joseph Schmitt, che si articola in due serie di articoli: la prima verte su “un concilio per i nostri tempi” (riflessioni su: i partecipanti al concilio che vengono da tutto il mondo; gli osservatori la cui presenza è stata molto utile per imparare a chiedersi continuamente cosa pensano anche i non cattolici; la libertà politica entro cui si è svolto il concilio, perché non ci sono state alcune pressioni dirette su di esso; l’importanza dei mezzi di comunicazione; l’ateismo visto come fenomeno di massa che chiede ai cristiani di mostrare sempre più un Dio, veramente tale, ma interessato agli uomini) e la seconda su “lo spirito del Vaticano II” (spirito di fede, che porta a rimettere al centro di ogni riflessione l’ascolto della parola di Dio; spirito di ricerca, che porta a capire meglio la rivelazione e come trasmetterla; spirito di equilibrio, che porta a vedere il concilio come evento di una tradizione viva e dinamica e che quindi è un aggiornamento della Chiesa). II. Riflessione sulla recezione dei contenuti principali del Concilio Vaticano II. In questo periodo prevale la delusione generale, anche se per motivi opposti: quella di alcuni per cui l’applicazione è lenta; quella di altri che notano una separazione tra spirito e lettera; quella di coloro che vedono nel Concilio la sorgente di tutte le eresie. III. Con il 1985 si entra in una tappa più serena perché, venendo aperti gli archivi, entrano in gioco i quaderni di ricerca, i documenti dei padri conciliari e dei periti e così si vede la vita del concilio, che era tutt’altro che uniforme! Si riconoscono poi l’attualità e i limiti dei vari documenti, la cui chiave di lettura va cercata alla luce di tutto il Concilio. IV. Inizia poi, attorno al Giubileo, una fase di sereno entusiasmo, in cui si capisce che c’è molto da fare, ma la vita continua anche in merito alla ricerca teologica. E a gurdar bene lo stesso Concilio invitava ad essere aperti alle nuove istanze che sarebbero sorte. Molto importante a proposito della recezione è il discorso di apertura che tenne Giovanni XXIII per cui lo scopo del Concilio era dire efficacemente la dottrina di sempre e invece di combattere gli errori, usare la benzina della misericordia e uno stile propositivo della dottrina. Fedelmente a questo mandato, nei documenti del Vaticano II non si troveranno canoni di condanna e questo anche per favorire un clima di concordia, pace e unione soprattutto con gli altr cristiani la cui unità era per il papa urgente. Altre cose da tener conto sullo svolgimento del concilio e che dopo avranno un peso: - Un teologo gesuita, Smulders, era l’osservatore dei vescovi indonesiani; - Si viene a formare il gruppo “chiesa dei poveri” che cerca di recupera la preoccupazione dell’opzione preferenziale per i poveri e che molto peso avrà sui primi schemi della GS; - Importante apertura agli altri teologi cristiani; - Riconoscimento dell’interdisciplinarietà della teologia rispetto alle altre scienze; - L’importanza del legame tra ortodossia e ortoprassi, per una teologia più incarnata. Come intendere il concetto di rivelazione? Per rivelazione si intende l’autocomunicazione di Dio, ma essa è anche una categoria teologica che include ciò, ma è anche una dottrina, il contenuto della nostra fede. Proprio come categoria è lecito chiedersi se sia giusto partire da lì per fare teologia e se sì cosa tener conto. Vediamo: - L’aspetto dottrinale, così importante nel Vaticano I, nel Vaticano II non viene eliminato, ma subordinato all’esperienza di Dio, all’incontro e alla relazione con Lui. Nella tradizione biblica infatti si vede un Dio che si rivela nella storia e che fa alleanza con il suo popolo e così anche nella Rivelazione non si può prescindere da parole e segni. Coinvolgendo poi la fede tutta la persona, essa ha anche un aspetto comunitario, anche se nei documenti del Vaticano II, questo aspetto è stato poco trattato. - Ma cosa rende l’uomo capace di accogliere la rivelazione? E come la Rivelazione può essere credibile? È importante a questo proposito recuperare il valore unico della memoria storica, che ci apre sull’oggi e su di un futuro escatologico e che mette in luce come la Rivelazione sia anche storia, economia, progetto di salvezza. Così oggi ogni teologia non può non tener conto della storia. - Inoltre è molto importante tener conto degli uomini concreti, con l’esperienza del credente. - Quale relazione tenere poi tra storia e dogma? E tra rivelazione e verità? La Rivelazione pretende di essere un’autorità, quando oggi c’è una grossa crisi nel senso dell’autorità. Come caratterizzare dunque l’autorità della Rivelazione? - Come conciliare poi il carattere divino e umano delle Scritture? Esse danno ragione della Rivelazione, che però allo stesso tempo la trascende. - La Rivelazione con Cristo è arrivata alla sua definitività, ma allo stesso tempo non è chiusa, perché Dio continua a parlare oggi. - In che modo interpretare questa azione di Dio? - Importanza delle altre scienze e soprattutto del linguaggio e dell’antropologia. Sui vari modi di intendere la rivelazione, molto interessante è la classificazione che propone Ghibellini, “Prospettive teologiche per il secolo XXI”. Egli vede quattro movimenti teologici: Teologie dell’identità (rinata a fine secolo XX) → Centrata sul proprium della fede cristiana. Teologie della correlazione → Centrata sull’attenzione al destinatario, all’uomo concreto. Teologie politiche → Oltre alla svolta antropologica, tira anche le conseguenze politiche. Teologie nell’era della mondializzazione → Le varie teologie del dialogo. ARGOMENTI INTRODUTTIVI La Dei Filius del Concilio Vaticano I. Il Concilio Vaticano I è stato indetto per risponde a dei problemi specifici; nel XVIII e XIX secolo infatti si assiste ad un forte sviluppo tecnico-scientifico che porta ad una forte secolarizzazione della società, ad una tensione tra sapere razionale e verità rivelata. Questo sviluppo in teologia porta, in alcuni casi, al fideismo, al rifiuto dell’uso della ragione in teologia, o ai razionalismi vari, che riducono la fede cristiana a religione naturale e mettono in discussione l’ispirazione delle Scritture, l’autorità della gerarchia ed addirittura l’esistenza stessa di Dio. Così il Vaticano I deve cercare di ricordare l’esistenza della prove di Dio, la soprannaturalià e la razionalità della fede. Cominciato nel 1869 e terminato nel 1870 in maniera improvvisa, per l’invasione di Roma, è stato rinviato sine die e così l’inizio del Concilio Vaticano II è vista anche come una ripresa del I. Il Concilio Vaticano I non è riuscito a realizzare tutto ciò che si era prefissato, ma per quel che riguarda il nostro campo sì, nella costituzione Dei Filius. Essa è composta di un’introduzione (prende atto dell’attacco che l’epoca moderna ha scagliato contro la soprannaturalità della religione cristiana), di un capitolo su Dio creatore (1), uno sulla Rivelazione (2), uno sulla fede (3) ed infine uno sul rapporto tra fede e ragione (4). In ognuno di questi capitoli si presenta la dottrina di fede ed alla fine della costituzione si trovano i canoni di condanna contro i sistemi filosofici del momento, non conciliabili con la fede cattolica. Guardiamo nel dettaglio questa costituzione: Il capitolo che ci dà la chiave di interpretazione del documento è proprio quest’ultimo. In allegato si può vedere lo schema del testo. Si noti che parlando della razionalità della fede si afferma la possibilità della ragione di arrivare alla conoscenza di Dio, ma per quanto la Rivelazione aiuti ed illumini questo processo, essa non elimina mai il mistero di Dio. Riguardo al rapporto fede-ragione poi, la fede è superiore, ma tra le due non c’è divergenza e si è invitati a superare le apparenti contraddizioni. Alla luce di questo capitolo è comprensibile il secondo, nel quale si presuppone un Dio nascosto che si rivela all’uomo. Ora esistono due vie per conoscere Dio e solo quella soprannaturale è chiamata Rivelazione, che porta a conoscere Dio, anche se la sua finalità è la salvezza, anche se il termine più ricorrente è “conoscenza”. Nell’affrontare il testo del capitolo 2 è bene distinguere tra ragione e ragionevolezza, tra razionale e ragionevole. I primi fanno infatti riferimento ad una dimostrazione, i secondi alla credibilità. Ora il testo parla della ragionevolezza della fede, perciò si dice che la conoscenza soprannaturale della fede è ragionevole. Forse era meglio intitolare il capitolo 2 “La conoscenza di Dio”, perché non viene spiegato cosa sia la Rivelazione e si identificano spesso rivelazione, dottrina della fede e identità della fede, ma fino ad allora erano ben differenziate nella teologia. Come si può vedere nell’allegato infatti, per Tommaso la dottrina procede dalla rivelazione, mentre nel testo del Concilio Vaticano I, questa distinzione non è così chiara! Attraverso la manifestazione di sé stesso, Dio fa conoscere i decreti della sua volontà, anche se, dopo il concilio, si è sottolineato spesso solo la seconda parte di questo aspetto, e si dice che per aiutarci Dio ci dà le prove della rivelazione: profezie e miracoli. Riprendendo il Concilio di Trento, il Concilio apporta un significativo cambiamento che porterà poi alla teoria delle due fonti. Volendo dire che la Rivelazione è trasmessa dalla Bibbia e dalla Tradizione esso dice che è “contenuta” in esse. Ma questa affermazione porta molte persone a chiedersi in quale quantità sia presente nell’una e nell’altra. Il capitolo 3 è così organizzato: Dio si rivela e la fede è la risposta dell’uomo ad essa. Siccome poi la finalità della rivelazione è la salvezza, la fede è l’inizio dell’umana salvezza e questo avviene tramite la conoscenza, con certezza e senza errore, di verità che, di per sé, non sono contrarie alla ragione e che la fede porta ad accogliere come vere grazie a delle prove: miracoli e profezie. Detto ciò l’atto di fede è e rimane innanzitutto l’accoglienza di Dio e poi certo anche della dottrina che esso rivela. La teologia manualistica Dopo il Concilio Vaticano I, la teologia cerca una giustificazione scientifica della verità religiosa, tramite il metodo apologetico, che è così strutturato: tesi → spiegazione dei termini usati → elenco degli avversari →dottrina della chiesa → dimostrazione della tesi. Quest’ultima è piena di riferimenti biblici, anche se è il modo di usare la Bibbia che crea problema. La dimostrazione era a sua volta distinta in: o Demonstratio religiosa (rivolta agli atei). Se la conoscenza tocca l’intelletto, il riconoscere tocca anche la volontà. L’esistenza di Dio si può dimostrare anche per via logica, partendo dalla creazione e dimostrando l’esistenza di un Dio creatore, che agisce liberamente sia nelle sue opere, che nelle relazioni con le sue creature. Ora l’uomo è creato per essere felice e la felicità si ha nel rapporto con Dio rapporto di cui un aspetto importante è la religione, da conoscere e praticare. In questa dimostrazione si fa vedere come da sempre essa sia esistita e si mostra spesso il criterio di discernimento tra le vari religioni. o Demonstratio cristiana (rivolta ai non cristiani). La religione autentica è quella cristiana, rivelata da Cristo, perché è in Lui che Dio ha mostrato la verità nascosta e a questa rivelazione si risponde con la fede; fede che non annulla il mistero, tanto che le prove della credibilità sono i miracoli e le profezie. L’apologetica fa dunque attenzione al fatto storico, ma in maniera disincarnata. I contenuto di questa dimostrazione è di solito “le pretese di Gesù” in cui si usano prove a bizzeffe: apparizioni del risorto, sepolcro vuoto, cambiamento degli apostoli e adempimento delle promesse. o Demonstratio cattolica (rivolta ai non cattolici). Per dimostrare la chiesa si usano tre vie: la via storica (continuità nel tempo, da Cristo fino ad oggi), la via delle note (unità, santità, cattolicità e apostolicità) e via empirica (miracolo morale che rimane nel tempo). I manuali cercavano di rispondere, con questa impostazione, a tutte le sfide che il mondo poneva alla fede e in un primo momento in maniera esaustiva, il problema è quando ci si staccherà dal mondo e si fossilizzerà nelle solite trattazioni, mentre intanto il mondo va cambiando: insomma si risponde a domande che non ci sono più e non si risponde alle nuove. La teologia è così rilegata sempre più nelle aule, mentre il rinnovamento arriva da vari movimenti extra-scolastici. IL CONCILIO VATICANO II È proprio per colmare questa lacuna che viene indetto il Concilio Vaticano II, convocato per prendere proprio atto dei cambiamenti avvenuti. Molo importante per noi è la prima sessione, quando viene promulgata la costituzione dogmatica Dei Verbum. La Dei Verbum Il primo schema presentato già dal titolo, “De fontibus revelationis”, è tipicamente manualistico. Esso viene totalmente cambiato e si arriva al documento finale il cui capitolo chiave è il primo, quello sulla Rivelazione, che è presentata principalmente con la categoria di relazione più che con quella di conoscenza. Così al n°2, la rivelazione è presentata come la autocomunicazione e l’automanifestazione di Dio, che parla agli uomini come ad amici, mettendo in luce come Dio esca dal suo mistero per entrare in relazione con noi e l’atto di fede è l’accettazione e l’ingresso in questa relazione di amicizia. Alla base di questa costituzione c’è dunque un’antropologia relazionale, si presenta un uomo capace di relazioni e che si realizza nelle relazioni. Questa manifestazionecomunicazione di dio avviene nella storia con opere e parole, dove le prime non sono a provare le seconde, ma l’una richiama l’altra, in un’ottica sacramentale. All’uomo sta accogliere questa manifestazione storica, ma l’accoglienza implica anche una responsabilità, una missione. L’Alleanza definitiva è suggellata da Cristo che è il mediatore, il rivelatore e la rivelazione al tempo stesso. Perciò la fede in Gesù Cristo, è innanzitutto accoglienza di una persona e poi certamente anche del messaggio che Egli ha portato e trasmesso in opere e parole. E l’opera massima, la prova somma è la persona stessa di Cristo e solo alla luce di questa “prova” vanno lette e interpretate tutte le altre prove, come le chiama il Vaticano I, o segni, come li chiama il Vaticano II. Si recupera così la centralità della persona di Cristo. Al n°3 si parla poi della storia della salvezza, tentando di superare la dicotomia tra naturale e soprannaturale, tanto che si fa iniziare la storia della salvezza con la creazione (passaggio questo criticato da parecchi, perché si rischia di mettere in ombra l’azione della grazia: l’accoglienza della creazione come atto di Dio, comporta infatti l’azione della grazia). C’è poi un punto dove si vede la fede come risposta alla rivelazione ed essa è un dono di Dio. Fede che è innanzitutto fides qua, poi fides quae e che deve poi diventare testimonianza. Il secondo capitolo tratta della trasmissione delle divina rivelazione e si supera il problema delle due fonti, ritornando all’impostazione del Concilio di Trento. Le forme privilegiate di questa trasmissione sono la Scrittura e la Tradizione e il rapporto che c’è tra di esse è di rapporto qualitativo più che quantitativo. Se ogni paragrafo parla di entrambe, l’ottavo parla solo della Tradizione. Il problema più grosso infatti non era più la Scrittura, ma il progresso della Tradizione. Progresso non tanto perché si aggiunga o si modifichi qualcosa della Rivelazione, ma riguardo alla sua comprensione. Si parla così della differenza che c’è tra Tradizione apostolica e post-apostolica e di come essa non sia solo la trasmssione di contenuti, ma di una vita, perché garantisce l’eterna presenza di Cristo, grazie alla guida e all’assistenza dello Spirito Santo. Questa crescita nella comprensione avviene «sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (n.8). Infine il testo propone un rinnovamento del metodo teologico, più fondato sulla Parola di Dio. La Gaudium et Spes Questo testo rispetta la finalità del Concilio ed è molto intenso e travagliato, già nella sua preparazione e nella sua gestazione. Esso non tratta direttamente della rivelazione, ma riguarda le implicazioni della sua accoglienza. Essendo essa rivolta ai cattolici, ma anche a tutti gli uomini di buona volontà, inizialmente si voleva partire facendo leva sulla legge naturale, ma poi, anche grazie all’intervento del sopracitato Lukas Vischer,si scelse di partire da ciò che era proprio della Chiesa e quindi dalla Rivelazione. Così dopo un inizio di ampio respiro teologico nel quale si dice cosa la Chiesa può offrire agli uomini, al n°2 si spiega cosa si intenda per “mondo”. La Rivelazione è qui vista come una luce che più che offrire soluzioni, aiuta nel discernimento. Si sottolinea poi molto l’aspetto dialogale della Rivelazione e così l’essere umano stesso è presentato nelle sue relazioni e realizzantesi in esse. Il culmine di questa lettura antropologica alla luce della fede si ha nel n°22, che mostra come la rivelazione e l’automanifestazione di Dio, rivelino e manifestino l’uomo a sé stesso. E ciò è possibile perché essa avviene con il linguaggio dell’amore che è l’unico comprensibile da tutti. La salvezza è poi partecipazione della vita trinitaria mediante l’amicizia con Dio. Siccome poi è molto presente e importante il tema della Signoria di Dio sull’universo e sulla storia umana ecco l’apertura ecatologica del testo, visibile nel forte riferimento alla speranza, che è attesa della manifestazione totale e definitiva di Dio. Così nella prima parte (La Chiesa e la vocazione dell’uomo), i primi tre capitoli (La Dignità della Persona Umana, La Comunità degli Uomini, L'Attività Umana nell'Universo) hanno tutti lo stesso schema: vocazione dell’uomo da parte di Dio → condizione deformata dal peccato → restaurazione in Cristo. Discorso particolare va fatto per la categoria di “segni dei tempi”, che è citata esplicitamente una volta, ma che è un po’ il leit-motiv di tutto il documento. Essa è una terminologia talmente ambigua che, nel dopo Concilio, è stata dapprima abusata e poi dimenticata, mentre ora viene lentamente ripresa. Con questo termine si intendono i continui appelli di Dio nella storia alla conversione a Cristo, perché solo Cristo è la possibilità di senso per la vita dell’uomo (cf n°10) e solo in lui si impara il vero rapporto tra Padre, uomini e mondo. Il quarto capitolo (La Missione della Chiesa nel Mondo Contemporaneo) riprende i primi tre e sta a ricordare come la missione della chiesa, intesa come totalità del popolo di Dio, non sia fine a sé stessa, ma debba condurre tutti a Cristo che è il solo segno di credibilità. In quest’ottica è molto importante la testimonianza dei cristiani, perché l’accoglienza della Rivelazione come dono gratuito, implica una forte responsabilità verso il deposito ricevuto e il mondo. La teologia dopo il Concilio Vaticano II Nei trattati successivi al Concilio si può notare: Continuo riferimento al Concilio Vaticano II Sviluppo delle prospettive storiche della Rivelazione, vista sempre più come Storia della Salvezza e parallelamente a ciò le varie “teologie del genitivo” (della speranza ecc.) Rapporto di illuminazione reciproca tra cristologia e antropologia, in seguito alla crescita dell’interesse della dimensione storica nell’esistenza cristiana. Cresce l’interesse per la Chiesa nel mondo, l’apertura alla cultura e ai problemi umani. Nasce una nuova teologia fondamentale, di frontiera e aperta al mondo, ma che ha come punto normativo al Rivelazione e la sua trasmissione. Dunque le prospettive della teologia dopo il Concilio Vaticano II sono: Rimanere sul livello scientifico Essere sensibile ai temi del mondo, partendo dalla fede e dalla rivelazione Dialogo vivo con le altre scienze, riconoscendo gli aiuti che vengono spesso da esse LA TEOLOGIA IN EUROPA DOPO IL CONCILIO VATICANO II JUAN ALFARO: RAPPORTO TRA CRISTOLOGIA E ANTROPOLOGIA Cominciamo con questo autore (vedasi bibliografia e inoltre libri di Citrini e Piè Ninot, che trattano di lui) perché è generalmente poco trattato, mentre insieme a Latourelle è colui che riorganizzato il piano di studi in Gregoriana dopo il Vaticano II. Due sono i temi che fondano la sua trattazione: la rivelazione del Cristo glorioso e la fede come accoglienza di questa rivelazione. Egli parte sempre dalla Bibbia, per approdare ai dogmi e ai vari temi antropologici. Noi partiremo dall’ultimo suo libro, molto filosofico, che egli disse essere però primo nell’ordine logico del suo pensiero. Premessa filosofica Il punto di partenza del suo filosofare è la fede e la sua visione unitaria dell’uomo. Egli invece di chiedersi cosa sia l’uomo, si chiede chi è l’uomo e si risponde dicendosi che è l’unica creatura capace di interrogarsi su se stessa, sulle finalità della sua esistenza e sul suo senso, sulla sua origine. Domande che egli articola bene nel gioco di parole spagnolo: Porque (finalità) e Parque (origine). Solo ponendosi queste domande e cercando una risposta egli dall’essere uomo si fa sempre più uomo, che è il compito principale di ogni persona. Questo “farsi uomo” comporta però grande sincerità ed è legato all’opzione fondamentale della persona, vista come la responsabilità del passaggio dall’avere senso al dare senso, passaggio in cui entrano in gioco l’intelligenza, la libertà ed i valori. Questo farsi uomo va però motivato da qualcosa o da qualcuno e Afaro vede ciò nelle relazioni che l’uomo ha con ciò che lo circond e che egli analizza in maniera esistenziale (il punto di partenza è l’esistenza …), fenomenologica (… nella sua realtà …) e trascendentale (… nella quale si cerca il presupposto che la rende possibile). In particolare egli analizza quattro relazioni: Uomo-Mondo. Il modno è infatti il luogo di origine e la base per l’attività dell’uomo. Chi fa esperienza di sé, fa dunque esperienza del mondo. Ci si scopre “nel” mondo grazie alla corporalità e “di fronte al mondo” diverso da esso, grazie alla propria spiritualità; e questi due elementi sono inscindibilmente legati, vanno dunque integrati sempre più nel processo di “farsi uomo”. È nel mondo infatti che ci si realizza, ma ciò avviene se parallelamente si tiene viva la domanda sulla propria identità e sul proprio senso. Due aspetti sono dunque necessari per il farsi della persona: la conoscenza di sé stessi e del proprio ruolo nella trasformazione del mondo. In questa doppia conoscenza cresce sempre più la coscienza di sé stessi e della propria libertà e per esprimerle ecco l’importanza dell’arte, della lingua, della cultura ecc. L’origine della relazione tra l’uomo e il mondo, sta dunque nella soggettività dell’uomo che esperimenta il dominio e la coscienza e più queste due dimensioni entrano in gioco e in relazione, più l’uomo è libero. Libertà è dunque un concetto strettamente in relazione con responsabilità, con un compito: è libertà “di” qualcosa e “per qualcosa”. Ma davanti a chi si è responsabili? Quale è o chi è il fondamento della mia libertà? Non può che essere un essere trascendente che finalizza e responsabilizza la mia libertà. Uomo-Altri. Nell’azione nel e con il mondo, siamo aperti alle relazioni con gli altri, relazioni che se rifiutate, portano alla nostra morte. Scoprendosi liberi si incontrano infatti altri esseri liberi e irripetibili come me e dunque il rispetto che io merito, anche essi lo meritano. Questo rispetto comporta l’accoglienza dell’altro nella e con la sua situazione particolare e l’incontro con quest’altro apre all’umanità perché è personale e collettivo. Il farsi uomo è dunque vero, quando si agisce a favore di una comunità dche è capace di contribuire allo sviluppo di ogni persona. L’uomo vive dunque nella solidarietà, per il bene dell’umanità intera. Insieme alla libertà ecco dunque l’importanza dell’amore. Ma qual è il fondamento dell’amore che mi fa responsabile dell’altro e della comunità umana? In ultima battuta è un essere trascendentale che sia l’amore originario. Uomo-Morte. Proprio il rapporto con gli altri ci mette di fronte al tema della morte presa in sé stessa e come termine della propria vita, che si può però analizzare prima della propria fine. Questa relazione aiuta anche a dare il giusto senso alla vita. Con la morte finiscono infatti tutte le nostre relazioni e quindi cosa è la morte? Quale è il suo senso? Nel trattare la morte bisogna poi dire che essa è un tema sconosciuto, perché mai nessuno è tornato a spiegarcela. Questo tema parla della nostra finitezza, ci questione e viene da noi questionato. Questo tema è conseguente a quello del rapporto con gli altri, perché noi facciamo esperienza della morte o con la morte degli altri o quando siamo soli. Paura della solitudine è dunque spesso paura della morte, come anche l’ansia di possedere, di prevedere il futuro, di organizzare, di vedere o no immagini di morti ecc. La voglia di confrontarsi con questo tema, porta dunque al desiderio dell’immortalità, alla lotta per la vita grazie ad una speranza sperante. Ma cosa o chi può mantenere continua questa speranza sperante? Un essere trascendente che trasmette la ragione di vivere e che è la speranza ultima. Uomo-Storia. Proprio il tema della morte ci inserisce nel rapporto dell’uomo con il passato, il presente e il futuro e quindi con la nostra storicità. Nella storia dell’umanità si stabilisce una dialettica tra passato, presente e futuro che fa della storicità una dimensione ontologica dell’uomo, che si conosce però solo facendo la storia, nel concreto divenire storico: se la storicità dell’uomo è prima a livello ontologico, è seconda a livello nooetico. Il diventare persona è dunque un processo storico aiutato dalla riflessione della pesona su ciò che accade e che aiuta a “costruire la storia ed è proprio questa riflessione, conseguenza della libertà dell’uomo, che si realizza la discontinuità tra passato, presente e futuro. È grazie alla libertà dell’uomo che il passato influisce su di noi, senza tuttavia vincolare il futuro: la persona è soggetta la storia, ma allo stesso momento ne è anche protagonista. La morte provoca una frattura in questo divenire, che non per questo ferma il futuro però, perché se c’è una speranza-sperante c’è anche un futuro che supera quello visibile. C’è bisogno dunque di un futuro assoluto-trascendente, possibile se esiste una libertà assoluta e trascendente. Questi quattro aspetti analizzati mostrano come l’uomo abbia in sé i segni della sua stessa trascendenza, perché ha mostra i segni dell’esistenza di un Dio: realtà fondante; amore originario, personale e totalmente trascendente; speranza ultima dell’uomo; futuro assoluto e libertà assoluta. Ma esiste questo Dio? E l’uomo lo può conoscere? E se sì come? Ciò pone l’uomo in un’ottica esistenziale perché bisognoso di conoscere Dio, ma in attesa che esso si faccia conoscere. La risposta a questa traccia nell’uomo è l’autorivelazione di Dio, che liberamente si fa incontro all’uomo in maniera massima in Cristo per farsi conoscere. Ecco allora che Alfaro ha tre tappe: - Importanza della relazione tra Rivelazione e Incarnazione. - Analisi dell’esistenza cristica dell’uomo - Fede come ri-conoscimento della Rivelazione e come opzione fondamentale dell’uomo. La funzione rivelatrice di Cristo e l’Incarnazione1 L’iniziativa autocomunicativa di Dio avviene per amore ed è libera e gratuita, anche se avviene in maniera comprensibile all’uomo. Fine di questo processo rivelativo è la persona e l’opera di Cristo. Ma quali sono le caratteristiche della sua funzione rivelatrice? Nei sinottici Egli è presentato nella sua particolare relazione filiale con il Padre e con la missione di annunciatore e instauratore del Regno di Dio. Paolo lo presenta come pre-esistente e come ricapitolare di tutto in sé stesso: la morte è il momento culminante di quest’opera di ri-appropriazione dell’umanità e la risurrezione diventa così principio fondante dell’uomo. Nella lettera agli Ebrei Cristo è presentato come il Sommo Sacerdote. Per Giovanni, che è il più usato da Alfaro, è forte il rapporto tra Incarnazione e Rivelazione, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto conoscitivo del messaggio di Gesù: in Lui si porta a compimento e si rivela l’amore salvifico di Dio e davanti a Lui ogni persona deve prendere una decisione. La Rivelazione diventa così il fondamento della fede e la fede rispecchia la Rivelazione. Siccome Cristo si è incarnato per manifestare il mistero di Dio, senza l’incarnazione la Rivelazione sarebbe incompiuta e il mistero della Trinità inaccessibile. L’opzione fondamentale di tutta la vita di Cristo è quella di fare la volontà del Padre e ciò lo rende amore disinteressato per gli uomini, permettendogli di assumere tutto l’uomo. Con l’Incarnazione quindi il Verbo si appropria ontologicamente, e dunque definitivamente, della nostra umanità, appropriazione che avviene sia in senso discendente che ascendente: Discendente, perché il Verbo, sussistenza divina tutta relativa al Padre, sussiste nella sua umanità. In quest’ottica Cristo è rivelatore del Padre. Ascendente, perchè l’umanità di Cristo è intrinsecamente attuata da una determinazione sostanziale, che la mette in relazione con la sussistenza del Verbo. In quest’ottica di autocoscienza singolare di Gesù, Egli è segno di un mistero assoluto, che si manifesta e si nasconde anche attraverso ai suoi segni e alle sue parole. Particolare attenzione va posta poi alla morte di Cristo in croce, perchè rappresenta il massimo segno della filiazione divina e del suo essere donazione per l’umanità. La Rivelazione acquista così nella croce, anche tutta la sua portata salvifica per gli uomini, che li apre ad una nuova relazione con il Padre e realizzando la traccia di relazionalità insita nell’uomo che finalmente acquista un volto. Non si può dunque separare la cristologia dalla soteriologia, il Cristo in sé dal Cristo in noi. Così decidersi per Cristo è una opzione per Dio e per gli uomini, abbandono al Padre e solidarietà con gli uomini. In Cristo infatti Dio ha detto il suo sì definitivo e la vita nuova del cristiano è improntata all’amare e conoscere Dio, per sprofondarsi sempre più in Lui, che porta a scoprire simultaneamente la profondità dell’uomo. La Risurrezione di Gesù riempie poi di senso il gesto-mistero della croce, dando la possibilità di una nuova presenza di Cristo nel mondo e di una continuazione della sua missione rivelativosalvifica: questo apre il capitolo La funzione rivelatrice del Cristo glorioso Se la Rivelazione è ordinata all’Incarnazione, l’Incarnazione è ordinata alla glorificazione che ne rappresenta la pienezza. Nella gloria Cristo continua infatti ad essere Rivelatore del Padre e 1 Per Incarnazione, Alfaro intende il mistero di Incarnazione, Vita, Morte e Risurrezione di N.S. Gesù Cristo. sacramento di Dio e per fondare ciò Alfaro si fonda sul prologo di Giovanni che mette a confronto con la preghiera sacerdotale di Gv 17: la prima rappresenta infatti l’entrata nel mondo e la seconda l’entrata nella gloria, la prima è il passaggio dall’eternità al tempo e la seconda dal tempo all’eternità. Leit-motiv di entrambe questi passi sono i temi di vita, gloria e verità. Già nell’incarnazione vediamo dunque la gloria del Figlio, come unigenito del Padre. Alfaro suddivide poi il cap. 17 in passi che fanno riferimento alla vita terrena di Cristo, alla vita dei fedeli in Cristo e alla vita del Cristo glorificato, per mostrare in cosa consista questa gloria (far conoscere il Padre, conservare nel suo nome e nell’unità quelli che Egli gli ha dato) e quale sia la sua finalità (far sì che i suoi abbiano la vita eterna). Il v.26 mostra come questa missione di Gesù, di Rivelare il Padre e così far sì che tutti abbiano la vita eterna, continua anche dopo la morte. Cristo continua così anche nella gloria ad essere rivelatore e rivelazione del Padre e nella parusia questa sua funzione sarà piena, definitiva e totale, perché in Lui saremo chiamati ad una piena comunione con Dio e con i fratelli. Già ora nella comunione con Lui partecipiamo di questa comunione escatologica, ma in maniera da pellegrini, alla fine essa sarà piena. Questa mediazione cristica allora non sarà più però oggettiva, ma ontologica sì perché sarà comunque presente. Questa missione di Cristo nella gloria va avanti grazie al dono dello Spirito, che ci guida alla vera conoscenza, all’amore, alla speranza e alla libertà, ci rende figli, inserendoci nella relazione intima con il Padre e mettendoci sulla via della carità. La nuova esistenza a cui conduce la vita nello Spirito è dunque una vita di fede, speranza e carità. Il Cristo glorificato agisce, con il suo Spirito, in modo particolare nella e attraverso la Chiesa, sacramento del Cristo glorioso. L’uomo, il mondo e la storia alla luce di Cristo: l’esistenziale cristico. La storia è stata trasformata dalla Risurrezione di Cristo, anche se ciò non significa che sia finito l’effetto del peccato su di essa, ma comunque il destino della storia e dell’umanità è incluso nel destino di Cristo. La grazia di Cristo suscita in ognuno un’apertura che ci porta a vivere la vita di Dio-Trinità. Questa è la dimensione più profonda dell’uomo, perché l’accoglienza della grazia trasforma tutte le nostre relazioni, facendo trasparire Dio in noi. L’uomo è dunque cristofinalizzato e nell’uomo tutta la creazione lo è. Questa sua dimensione cristica è la più profonda e mediante l’incarnazione l’uomo ricevendo la propria realizzazione più profonda, riceve anche il proprio senso, la ragione di essere sua e del mondo. Progredire nella conoscenza di Cristo è progredire nella conoscenza del mistero cristiano in noi e della vita di Dio in noi. Proprio per ciò l’incarnazione del Verbo è il fondamento della dignità umana, perché è l’essere cristofinalizzato la cosa più essenziale dell’uomo. La storia da questo momento è dunque già storia salvata. La risposta dell’uomo alla Rivelazione … … la fede … L’accoglienza e la confessione della Rivelazione e della Salvezza di Dio in Cristo è la fede. Risposta che è possibile nell’uomo, perché in lui ci sono le condizioni possibili per farlo e perché c’è poi anche l’azione della grazia. Grazia che è dono del Padre, per-con-in Cristo e nello Spirito Santo e che, oltre a rendere possibile la risposta di fede, eleva anche nell’uomo la capacità di autodonazione e di autopossessione. Detto ciò la fede, la risposta alla Rivelazione-Salvezza è sempre un mistero e soprattutto abbandono alla fedeltà di Dio, più che alle cose capite. Così salvezza e fede vanno insieme: Dio salva donandosi liberamente l’uomo, che vive di questa salvezza nella fede. La fede, l’optare per Cristo e la sua missione, diventa così opzione fondamentale della vita e dà senso a tutte le altre scelte. La vita dell’uomo è dunque accoglienza di Cristo o non accoglienza di Cristo, non ci sono altre possibilità. E l’accoglienza di Cristo consiste nel credere in Lui e credere a Lui, credere che Lui è il Centro e il Rivelatore e che è il Figlio e il Rivelato: nell’atto di fede queste due dimensioni sono inseparabili. Così è in Cristo che si verifica il luogo dell’incontro con Dio e la storia, in Lui, è tutta vista come momento aperto al futuro e creativo di cose nuove. La fede è così un’opzione libera e responsabile e se nell’AT si mette l’accento più sull’abbandono, nel NT si mette l’accento più sui contenuti di questo abbandono. L’abbandono in Dio ed il conoscere questi contenuti (più che nella forma, nella realtà che essi esprimono), implicano un ri-conoscimento che è l’opzione fondamentale sopra-citata, con cui l’uomo riconosce Dio e si dona a Lui. Se tutto ciò è razionale è anche vero che non si può analizzare razionalmente anche se abbiamo dei segni di credibilità. La ragione ci aiuta a discernere tali segni, ma è poi la grazia che aiuta a vedere in essi delle chiamate di Dio all’uomo. La fede è infatti più che altro risposta di amore e solo amando si può scoprire sempre più questo mistero di amore. Certo questa opzione fondamentale della fede, portando al dono di sé comporta anche ad una rinuncia, ci spoglia, portandoci così ad un incontro ancor più profondo anche con noi stessi! … l’esistenza cristiana … Questa fede è dunque atto dinamico che si deve attuare e vivere quotidianamente e momenti privilegiati, per vivere la vita come chiamata di Dio, sono la preghiera, la vita ecclesiale, la sofferenza e la morte. Così l’esperienza cristiana è vita di virtù teologali che, nel seguente schema sono seguite da cosa le ha originate e da cosa sia il loro specifico nella vita del cristiano: Fede → Parola-Rivelazione → Credere in ciò che Dio ha fatto e detto. Speranza → Promessa → Tensione al futuro Carità → Dono di sé → Comunione di vita Una vita che viva di queste tre virtù, è una vita che è in continua ricerca della volontà di Dio: in risposta alla chiamata di Cristo si entra in una relazione “operativa” e particolare in Cristo. Per Alfaro una virtù non esiste separata dalle altre e perciò egli non ne vede una prima, tra di loro c’è una circolarità: nascono insieme ed ognuna rimanda all’altra. Ampio spazio egli dà poi alla speranza mostrandone il forte impatto sociale, perché è chiamata per natura sua ad incarnarsi del mondo, all’impegnarsi nell’essere presenti nel mondo per la liberazione integrale dell’uomo. Tra le tre virtù è ovvio che quella che spicca è comunque la carità, perché essa è l’aspirazione più profonda dell’uomo, ed esige il fare di Dio l’esigenza suprema dell’esistenza. Questo amore a Dio poi non solo conduce, ma esige, per natura sua, l’amore agli uomini. Per vivere bene queste tre virtù bisogna fondarle su un atteggiamento di abbandono-fiducia, sapendo che la stessa Trinità è unità perfetta di tre “diversi”. L’essere cristiano è dunque un essere per-con-in Cristo, vivendo così un legame sempre più saldo e fecondo tra ortodossia e ortoprassi. … impegno nel mondo. Le tre virtù teologali a livello antropologico si traducono in riconoscimento dell’altro, apertura e solidarietà. A loro volta esse si traducono in: Essere responsabili. Senso del progresso, nel senso di opzione per la persona umana. La trasformazione del mondo va poi fatta alla luce dell’escatologia: farsi uomini e far sì che tutti possano esserlo. Opzione per la giustizia, che è profondamente legata all’eucaristia dove partecipando al pane spezzato (Pan Partido) si è chiamati ad essere pane condiviso (Pan Re-partido). Conclusioni Si noti innanzitutto che la sua opera è stata stilata tra il ’69 ed il ’75 e cose che oggi sembrano a noi scontate allora non lo erano affatto. A parte questo possiamo notare che: - Egli fonda scritturisticamente tutti i temi trattati. - Riesce a stabilire un buon e profondo legame tra deposito di fede e uomo contemporaneo, portando ad approfondimenti sull’uomo e su ciò che Dio ci ha rivelato in Cristo. - L’esistenza cristiana come esistenza virtuosa. JOHANN BATTIS METZ: LA NUOVA TEOLOGIA POLITICA La teologia politica è sempre stata più o meno presente, ma trova una particolare rifioritura in Germania, dopo la seconda guerra mondiale, grazie soprattutto a questo teologo. Discepolo di Rahner egli si allontanerà poi da lui, perché diceva che la teologia trascendentale offriva risposte ad una situazione sociale post-illuminista, ma trascurava quella attuale e poi perché favoriva il rapporto privato con Dio, che è estraneo alla fede cristiana. Egli intende dunque la sua teologia come un correttivo critico per mostrare il contenuto pubblico-sociale della fede. Cristologia ed escatologia devono infatti avere conseguenze politiche e condurre ad un impegno concreto e significativo nella costruzione della storia. Legato a questo ecco anche il tema dell’opzione fondamentale per i poveri. Tre sono le tappe nella sua produzione teologica. Prima tappa: la programmazione Egli dice che la teologia deve entrare nel rapporto tra Chiesa e mondo con una doppia funzione: Negativa. Deve svolgere un’azione correttivo-critica, spingendo verso la deprivatizzazione che è cosa ben diversa dalla depersonalizzazione. Positiva. Sviluppando le implicazioni pubbliche del magistero ecclesiale e formulando il messaggio escatologico nella nuova situazione del mondo. Qualsiasi teologia escatologica deve dunque diventare politica. Ma come leggere le promesse cristiane in riferimento al momento storico? Con la “riserva escatologica”. Così attingendo a questo potenziale dirompente a livello politico, insito nella fede, ecco che il compito dell’azione liberante della Chiesa è quello di: Salvare il valore della persona umana, soprattutto nel contesto del nuovo sistema economico. Ricordare continuamente la signoria di Dio su ogni sistema politico. Mobilitare la forza dell’amore. Detto ciò la teologia deve essere aperta a tutto, per accogliere le sfide a cui rispondere e da cui trarre spunto per ripensare il modo di esprimere la fede. Dopo la prima pubblicazione (1969) gli vengono mosse varie critiche alle quali risponde chiarendo: - Il significato del termine “politico” che è prendere sul serio la realtà sociale. - Il senso della signoria di Dio che è la relativizzazione di ogni potere umano. - La centralità della libertà delle realtà temporali, per difendere la Chiesa dal rischio della monocultura e da una cristianizzazione forzata della società. - Il carattere critico-liberante della fede, perché essendo la fede cristiana un farsi continuamente memoria viva e infinita, essa diventa “memoria pericolosa”, perché ci spinge verso un impegno concreto, non ci lascia come eravamo. Fondamento di questa “memoria pericolosa” è la memoria della passione-morte-risurrezione di Gesù. - L’embrionalità della sua costruzione teologica. - Il nesso profondo tra dogmi e critica della società e quindi l’ontologica criticità della Chiesa nei confronti di qualsiasi società. - Far attenzione a non essere padroni della Rivelazione, ma lasciando che lo sia sempre Dio! - La riserva escatologica dà al cristianesimo il suo necessario potere trasformante. - Di fronte alle moltissime domande della società, la chiesa deve portare le risposte che nascono dalla fede, ma che siano significative per il mondo d’oggi. Seconda tappa Visibile in “Teologia nella chiesa e nella società”, egli mette sempre più in chiaro come il politico sia fondamentale per capire l’influsso sociale della fede, anche se ciò non vuol dire che la fede debba essere al servizio della politica, perché è e rimane al servizio dell’unico Re, Cristo. La missione della Chiesa è così pubblica, come anche la teologia. Su questo sfondo, egli usa tre categorie per sistematizzare la sua produzione teologica: Memoria. È il contenuto della memoria cristiana che è collegata vitalmente alla tradizione. Questa memoria distingue tra storia come eventi e narrazione di questi eventi. In particolare in riferimento all’evento pericolo del mistero pasquale che ci spinge alla conversione. Narrazione. Essa permette alla prima di essere vivente ed è in profonda relazione con la propria esperienza e la deve suscitare, perché è un’apologia pratica dell’esistenza cristiana. Solidarietà. Necessaria perché la memoria e la narrazione siano vive. Essa ha tre caratteristiche, perché è: mistica (scaturisce dalla fede), politica (ha un aspetto sociale) e porta all’impegno concreto (volto a riconfermare la dignità di ogni essere umano). Egli approfondisce in particolare il primo aspetto e approfondisce in che senso la teologia politica possa essere teologia fondamentale e analizzando così quale rapporto ci possa essere tra teologia e mondo. Egli vede tre modi diversi, da parte della fede, di rapportarsi al mondo: Secolarizzante, che restituisce al mondo la sua autonomia ed identità, ma che ha il difetto di nascondere il carattere universalistico della fede. Liberale, che ha portato a confrontarsi con l’illuminismo e ad utilizzare i metodi razionali. Più che elemento critico, la fede è però spesso stata semplicemente conformismo. Politico-escatologica, che trasmettendo la memoria pericolosa entra in dialogo critico con il mondo. Quale relazione però tra questa teoria e la prassi? Il soggetto della storia totale è infatti Dio nella sua signoria che è già presente, ma in modo pieno nell’escatologia. Terza tappa L’obiettivo è ridire nuovamente la teologia politica, insistendo sulla necessità di non astrarre la teologia dai problemi del mondo. È per questo che anche se non si parla di Dio, Dio è presente: a noi scoprire i segni di questa presenza e le domande sulle conseguenze di questa scoperta. Proprio nella Bibbia si vede la chiamata a vivere una nuova storia e il testo chiave è l’inno di Fil 2. Spesso la religione si è dimenticata infatti del vero Dio e si è così borghesizzata, perché relegandosi a roba per pochi eletti si è separata dal mondo e non è stata più significativa per esso. Il cambiamento di impostazione che Metz ha sempre proposto è dovuto in modo particolare all’esistenzialismo di Kierkegaard ed egli chiama questo tipo di teologia come “teologia di fronte ad Auschwitz”. Egli chiede infatti una presa di coscienza delle sofferenze del mondo, passando così da una mistica trascendentale ad una mistica politica del Regno di Dio. Quali sono le conseguenze di questo spostamento di accento? La teologia non può più essere astratta, ma deve: fatta parlando in prima persona; concentrarsi sui soggetti in particolare sofferenza e sugli avvenimenti della storia. La teologia non prende il via ad es. da “cosa succede a me nella morte”, ma da “cosa succede di te nella morte” e mette così di fronte ad una responsabilità universale. Memoria e sofferenza fanno dunque parte delle premesse teologiche, altrimenti si cade nelle varie teologie dell’onnipotenza. In quest’ottica la povertà è poi un problema non solo sociale, ma tocca il cuore del cristianesimo, che è in crisi non tanto per motivi dottrinali, ma di prassi. Egli vede dunque tra modi di fare teologia: Neoscolastica, volta a difendersi dalla società moderna; Idealistico-trascendentale, molto importante per il secolo ventesimo, perché ha capito le crisi ed ha aiutato a salvarsi da esse, ma nello stato attuale non è più buona, perché il problema odierno non è la modernità, ma la sofferenza. Post-idealistico che vede di fronte a sé tre nuove sfide: o Marxista. Per quanto riguarda il rapporto tra verità e storia. o Auschwitz. Porta in primo piano le storie di sofferenza a cui non si deve dare risposte razionali, ma di cui si deve fare continuamente memoria, insieme a tutte le altre passioni, unitamente alla memoria continua della Passione di Gesù. o Terzo mondo. La teologia occidentale diventando borghese, solo per alcuni, non è più universale ed oggi più che mai deve tenere conto delle proprie ripercussioni. Ecco quindi l’importanza di teologie storiche ed etnico-culturali. In conclusione la sua proposta è la novità del cambio delle categorie, per cui il teologo non deve riflettere su qualcosa, ma a partire dalla storia e dagli avvenimenti. Se però la sua proposta è buona, in realtà egli la applicata molto poco. Certo in questo partire dalla storia si deve fare attenzioni alle pre-comprensioni che sempre ci accompagnano. JURGEN MOLTMANN: LA TEOLOGIA DELLA CROCE È bello in questa carrellata vedere anche un teologo evangelico, che per altro è anche il rappresentante di un filone teologico sviluppatosi intorno agli anni ’70. La questione di fondo per lui è: se Dio esiste perché è che senso ha il male? Il compito specifico della sua teologia è dunque quello di attualizzare e analizzare il grido di Gesù in croce e l’ambito in cui si svolge tutto ciò, sono i sofferenti del mondo. Molto significativa per il suo modo di fare teologia, è stata anche per lui l’esperienza della seconda guerra mondiale. Nel 1964 egli uscì con “Teologia della speranza” e nel 1972 con “Il Dio crocifisso” e per lui il secondo è conseguenza logica del primo perché la speranza vera guarda alla croce e parte da essa. Una volta posta la questione di fondo, seguono una serie di domande: Come la storia allora è coinvolta in Dio? Come Dio è coinvolto nella storia? Dio può soffrire? Soprattutto all’ultima domanda egli risponde sì perché la vede come capacità di amore ed in questo senso non come sofferenza passiva, ma attiva. Con questa sua proposta teologica egli cerca così di dare una risposta alla teodicea cristiana. Partendo dalla morte di Cristo in croce come evento di salvezza, viene da chiedersi cosa sia successo a Dio e chi sia il Dio sulla croce, del Cristo abbandonato da Dio! I termini chiave per capire la croce sono l’abbandono (del Figlio) e la consegna (del Padre), perché tengono conto della unione e separazione dei due e dello Spirito che sta tra i due, che li unisce e dà la vita. Il Dio crocifisso Cosa significa oggi fare una teologia della croce? Capire il Crocifisso alla luce della Risurrezione. Capire quale rivoluzione la croce porti al concetto di Dio. Come essa sia legata al problema della liberazione dell’uomo. Tradurre le istanze critiche della teologia riformata, rispetto alla società. Perché lui sceglie di partire da questa teologia? Lui vede da un lato una crisi di identità del cristianesimo legata ad una conseguente crisi dell’impegno sociale e dall’altra nel tentativo di riallacciare il dialogo con i vari settori della società emergono nuovi contesti e nuove categorie per la teologia. Tutto ciò porta ad una crisi del cristiano e del cristianesimo nella società odierna. Per essere in dialogo da cristiani si deve dunque ritornare a stare sotto l’albero della croce, per essere nel mondo, ma non del mondo. Questo stare è possibile in due luoghi: nella comunione ecclesiale e nel Cristo Crocifisso. La stessa chiesa non deve dunque cercare sicurezze nei propri aspetti, ma solo dal Dio crocifisso. Certo ciò può portare ad isolamenti e persecuzioni, ma dà la forza per superare tutte le paure. La teologia cristiana è dunque teologia a cui si aggiunge la croce e la teologia cristiana contemporanea è unione di teologia, croce e sofferenze del mondo d’oggi. Per far ciò egli ricorre all’approfondimento del senso della croce, alla luce delle varie teorie della conoscenza e usando la dimostrazione per assurdo, visti i suoi passati da matematico! Poi egli passa a presentare le possibili diverse interpretazioni della croce: Il senso irreligioso della croce nella Chiesa, quando la croce, che in sé è segno di contraddizione ed è ciò che deve fondare il cristiano, perde senso. Il Dio crocifisso è in sé contraddizione e porta a solidarizzare con le vittime di sempre della religione, della società e dello stato, ma facendolo come ha fatto Gesù (vedi allegato → Più che prendere congedo non sarebbe meglio dire che la croce purifica? Certo è troppo cattolico …) Il culto della croce, soprattutto nell’Eucaristia, quando facciamo memoria dell’unico evento della croce! Mistica della croce, legata al vissuto del significato della sofferenza di Cristo e della sofferenza come comunione con Lui. Questo ha portato però spesso alla rassegnazione (basta guardare nelle chiese il passaggio dal Cristo Pantocratore o glorioso al Cristo Crocifisso). Dio è in croce per ridare dignità, rispetto e speranza all’uomo, e non deve solo ispirare sopportazione, per vivere da rassegnati, ma bisogna riconoscerne il carattere attivo. Sequela della croce. Cosa significa imitare Gesù e seguirlo? Non si deve diventare altri Gesù, ma cercare di tradurre la sua passione nella nostra vita di tutti i giorni. Essere discepoli porta così ad un’unione tra ortodossia e ortoprassi, tra dottrina e vita. Inoltre in questa sequela si deve distinguere tra quella: apostolica; dei martiri, che attestano l’unica signoria di Cristo; di chi ama, soprattutto i più poveri; degli uomini di questo tempo. Teologia della croce, la teologia cioè trasformata dallo sguardo della croce, che va a vedere cioè l’abbandono subito ed attuato da Gesù in croce, perché è da lì che nasce la fede. Nei capitoli cristologici seguono poi una serie di domande su chi sia Gesù e quale sia il significato per l’umanità (vedi allegato), domande che per altro si sono succedute anche nella cristologia che: nei primi secoli si è soffermata sul suo essere vero Dio; nell’epoca moderna, sul suo essere vero uomo; nel dialogo con gli ebrei, sul suo essere il vero messia. Tutto questo nella coscienza che il primo a far domande sulla sua identità è stato Gesù stesso. La chiave di tutta l’interpretazione della croce è dunque l’amore con il Padre, che si vede sia nella sua Risurrezione che nella vita. E la soluzione per parlare di Gesù è quella di concepire l’una alla luce dell’altra e quindi l’indagine storica, come indagine teologica e in questa indagine la comprensione del crocifisso è cruciale! Cristologia e Gesuologia van tenute strettamente insieme e ciò può essere fatto solo nella croce ed in una sua retta comprensione. Il Sal 22 (vedi lucidi = v.l.) a tal proposito è più che mai eloquente. Riguardo poi alla citazione di questo salmo fatta da Gesù in croce come continuare a parlare di Dio, visto che abbandona Gesù? E come è possibile non parlare di Dio visto che Gesù lo tira in causa? Cosa dice e cosa non dice dunque la fede pasquale? Essa si fonda sul vedere, anche perché il Risorto non cancella i segni della passione e li ostenta! Questo atteggiamento di Gesù aiuta anche il rapporto tra la storia ed il mondo, tra la storia e la giustizia, perché ci aiuta a vedere i segni della passione del mondo d’oggi. Nel crocifisso Dio manifesta infatti la sua giustizia, e così guardare il crocifisso ed impegno per la giustizia nel mondo vanno di pari passo. E anche le formule di fede su passione-morte-resurrezione di Gesù sono molto importanti (es. 1 Cor 15,3-8) perché mostrano come la risurrezione di Gesù non svuota la croce, ma le dà pieno significato. Abbiamo visto come nella croce ci sia il senso dell’abbandono, ma c’è anche quello della consegna da parte del Padre, che consegnando il Figlio soffre e in Lui soffre di tutte le sofferenze umane (v.l.). [Riflessione mia personale: in ‘sto ragazzo l’assenza totale di metafisica, di ontologia, lo porta a delle conclusioni astruse e devastanti! Perché che soffra il Figlio, certo vuol dire che soffre Dio, ma perché il Figlio è Dio, ma è Dio distinto dal Padre che è Dio! Il ragazzo fa decisamente tanta confusione! E quando dice che viene meno la paternità … arghhh: Il Padre è la Paternità ipostatizzata! Vabbè un po’ più di dinamica, ma fondata su qualche cosa. Non per niente poi con l’umano deve fare dei salti pindarico-devozionali per far vedere la vicinanza di Dio. Infatti egli insiste molto sugli effetti visibili del Dio in noi: va bene può avere un senso, ma non assolutizzare! Mancandogli una metafisica egli enfatizza infatti la storia, caricandola di responsabilità che ella non è in grado di portare e sopportare: esaltando la storia, in realtà la distrugge.] Tutte queste riflessioni portano Moltmann a trarre delle conseguenze (v.l.8-10): a) La morte di Dio va messa come origine della teologia cristiana, perché cosa significa la morte di Cristo per Dio stesso? Cristo introduce la morte in Dio e di questo si deve tenere conto [Io: ok, però riflettere sulla morte in Dio, non vuol dire per forza che il Padre soffra, molto meglio l’ipotesi sequeriana della bomba che esplode tra il Padre e il Figlio, nello Spirito Santo, ma i segni di questa esplosione rimangono sul Figlio e solo questo si sa!] b) Quale rapporto ci può essere tra teismo e teologia della croce? Se il primo è difficilmente applicabile alla seconda, la seconda obbliga a rileggere il primo. E questo nuovo pensare Dio, porta ad entrare nella nuova creazione che viene dalla croce e ad impegnarsi a vivere per questa nuova creazione, senza rassegnazione. c) La croce aiuta anche a rileggere l’ateismo. La sofferenza in Dio scaturisce infatti dall’amore, non è una castrazione, ma espressione di un amore sovrabbondante. Certo bisogna intendere bene in che senso Dio soffre, perché per lui la sofferenza non sarà una carenza d’essere! Solo riflettendo su questa sofferenza in Dio si può poi riflettere sulle sofferenze del mondo! d) Ed egli dice che per questa riflessione bisogna partire da una reinterpretazione delle due nature di Cristo, che bisogna vedere in maniera più unitaria. e) Ma soprattutto più che del Gesù in sé, si deve vedere l’impatto della croce su Gesù nel suo rapporto con il Padre: ed ecco così i concetti di abbandono e consegna. Il Padre abbandona il Figlio ed il Figlio è abbandonato dal Padre; il Padre consegna il Figlio ed il Figlio è da Lui consegnato e si consegna. Ed il dolore di Dio-Padre è proporzionato alla sofferenza del Figlio, perché nella morte del Figlio, il Padre vede morire il suo essere Padre (arghhhh!) f) Ora si può dunque parlare dell’ateismo che spesso è originato dalle sofferenze del mondo e dal silenzio di Dio. Cristo sulla Croce permette di rimanere e di credere nell’amore, anche perché la risposta di Dio alla sofferenza non è logica, ma di coinvolgimento, Dio si coinvolge nella storia e così la storia è coinvolta nell’amore di Dio. g) Così per ogni dimensione umana egli vede un cerchio diabolico, da cui la teologia della croce aiuta ad uscire, a liberare (v.l.11). Così eccoci alla conclusione per cui una lettura trinitaria della croce di Gesù ci aiuta a vedere la liberazione da Lui operata e ci spinge a liberare l’uomo qui in terra. Moltmann è dunque spinto dalle domande: «Cosa significa la morte di Cristo per noi oggi?» e «Cosa significa la morte di Cristo per Dio?» [Ok, due domande belle e legittime, ma la soluzione è alquanto scadente per Dio e quindi anche per l’uomo, perché quando si sballa Dio salta anche l’uomo!] LA TEOLOGIA FUORI DALL’EUROPA DOPO IL CONCILIO VATICANO II Nascendo dopo il Concilio una teologia più attenta ai destinatari della Rivelazione vediamo ora, come la teologia si è sviluppata fuori dall’Europa, dove i contesti sono diversi. La società infatti influisce molto sulla persona e quindi anche sulla concreta comunità ecclesiale che è il soggetto della teologia e questo vedremo che ha influsso anche sulla teologia fondamentale. TEOLOGIA IN AMERICA LATINA La prima teologia che prendiamo in analisi è la teologia latino-americana, la prima che viene prendendo forma e che tiene molto conto della povertà e delle ingiustizie sociali che caratterizzano la società del centro-sud America. È quindi una teologia molto attenta al rapporto tra teoria e prassi. Essa viene prendendo il nome di teologia o teologie della liberazione ed è particolarmente importante perché è una teologia espressione di una chiesa intera. Ciò che ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di questa teologia è stata la partecipazione attiva e propositiva al concilio dell’episcopato latino-americano e in modo particolare alla sottocommissione della GS “Segni dei Tempi”. In seguito la recezione dei documenti conciliari e soprattutto della GS, da parte di quelle chiese, è stata attiva e immediata, ed ha portato alla lenta presa di coscienza della situazione di sottosviluppo in cui versava gran parte della popolazione. Così fino al ’68 si è preparato in fondo il terreno su cui è poi germogliata questa nuova teologia. Nel 1968 la svolta è arrivata con la prima conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellin. Lì nasce effettivamente la teologia della liberazione che viene poi man mano formulandosi fino al 1970 o al 1975, e viene poi sistematizzandosi fino al 2007 anno della conferenza di Aparecida che ha un cambio si sguardo perché prende coscienza della situazione di globalizzazione del continente. Vediamo ora più nel dettaglio alcuni momenti di questo sviluppo. Contesto visto dalla “Commissione dei segni dei tempi” L’espiscopato latino-americano è espressione di un continente decisamente giovane, tanto che la maggior parte della popolazione ha meno di venticinque anni. Continente che però è segnato da profondi cambiamenti sociali in atto quali in particolare l’esplosione demografica e la progressiva urbanizzazione con tutti gli annessi cambiamenti socio-culturali. Essi hanno comunque anche ben presenti gli ostacoli ad uno sviluppo del continente. In generale propongono come segni dei tempi di cui la Chiesa deve tenere conto nel loro continente: un cambio nel modo di vedere il rapporto del mondo e della storia; un desiderio di partecipazione integrale; il pluralismo ideologico e religioso; la situazione di povertà ed il dinamismo della gioventù. La conferenza di Medellin (1968) A questa prima conferenza dell’episcopato latino-americano partecipano anche molti teologi tra cui Gutierrez e altri futuri attori della teologia liberazionista. Il tema della conferenza è “La Chiesa nella attuale trasformazione dell’America Latina alla luce del Concilio”. L’orientamento dichiarato è decisamente pastorale ed è forte la voglia di inculturare il Vangelo nelle realtà concrete e di capire come la Chiesa possa essere sacramento di salvezza in un mondo, come quello latino-americano, contrassegnato da povertà e ingiustizia. I segni dei tempi di cui la Chiesa deve in particolar modo tenere conto è il lamento dei fratelli poveri ed ecco così che la Chiesa latino-americana imbocca l’opzione preferenziale per i poveri. Il mondo dei poveri diventa e la tensione alla loro liberazione integrale diventano così locus teologico e invitano la Chiesa ad avere un volto più povero, missionario e pasquale. I documenti ai quali la conferenza si ispira sono direttamente, ma spesso anche indirettamente, quelli del Concilio Vaticano II ed in particolare GS e LG, e poi la Populorum Progressio di Paolo VI. Ciò porta ad un’attenzione alla persona concreta alla luce di Cristo e ciò porta al vedere la necessità di una trasformazione che deve sintonizzare il progresso umano con le necessità del Regno di Dio e ciò per quanto riguarda l’ambito sociale, quello antropologico (in particolare alla dignità di qualsiasi essere umano) e quello religioso. Tutti e tre questi aspetti vanno infatti purificati alla luce di Cristo, del suo Regno e della fede. Importanti per noi sono in particolare due documenti: Sulla giustizia, i cui destinatari sono tutti gli uomini e le donne che hanno fame e sete di giustizia. L’uomo ha infatti ricevuto da Dio l’incarico di trasformare la terra e in questo contesto si inserisce l’incarnazione salvifica del Figlio che porta alla comunione con Dio. Perciò siamo chiamati continuamente alla conversione a Dio, alla comunione con Lui, ma vista la situazione concreta di peccato e l’incarico da noi ricevuto, ciò si traduce nel concreto nel cambio delle strutture. Il mistero dell’uomo guardato alla luce del Verbo Incarnato (cf GS 22) porta dunque alla promozione dell’uomo fatta nell’amore, che è dono dello Spirito Santo, che dà anche lo slancio per la trasformazione del mondo guidata dalla giustizia. La missione principale della Chiesa è dunque quella di aiutare ogni persona a vivere secondo la dignità dei figli di Dio, perché la perfezione umana a cui è chiamato ogni uomo, ed in modo particolare il cristiano, è la partecipazione al mistero pasquale che porta a ragionare sempre più secondo il Regno di Dio, soprattutto nell’impegno del mondo. Si cerca così di evitare il dualismo classico tra vita in Dio e vita nel mondo. Sulla catechesi, rivolto a tutti i preti e gli operatori pastorali. Si deve instaurare una relazione prolifica tra: progetto salvifico di Dio e le aspirazioni dell’uomo, storia della salvezza e storia umana, azione rivelatrice di Dio ed esperienza umana. Ecco così che la Rivelazione salvifica di Dio va posta a fondamento del deposito, della verità rivelata che va approfondita per essere trasmessa, ma anche della vita dei cristiani che devono assumere sempre più le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’uomo concreto, come ha fatto il Verbo. Se dunque la Conferenza di Medellin non è centrata sulla Rivelazione, essa, come la GS, ne dice le conseguenze per la vita cristiana: l’accettazione della Rivelazione comporta l’opzione fondamentale analoga a quella presa dalla Rivelazione! La Conferenza di Puebla (1979) Essa si colloca in continuità con la precedente conferenza anche per la sua caratteristica eminentemente pastorale per la voglia di rendere attuale il Concilio Vaticano II (i documenti conciliari più citati sono sempre GS e LG). Il tema è “L’evangelizzazione nel presente e nel futuro dell’America Latina” e riprende il sinodo dei vescovi del 1974 al cui termine Paolo VI scrisse la Evangelii Nuntiandi. In questa conferenza si fa poi un’analisi della situazione concreta in cui vive la chiesa latino-americana ed in modo particolare a partire da Medellin. Il fondamento di questa evangelizzazione è in fondo la storia della salvezza (rivelazione, non è mai citata) ed oltre a Scrittura e Tradizione i luoghi teologici privilegiati per scoprirla vengono identificati nella storia e la cultura, ridando voce alla teologia dei segni dei tempi. L’asse trasversale di tutta la conferenza è comunque stato il Cristo rivelatore ed ecco anche perché in essa si darà tanta importanza alla testimonianza cristiana, perché se essa è scadente, invece di rivelare, vela il volto di Cristo! Guardando ai punti di maggiore rilevanza nella ricezione del Vaticano II vengono visti: - Il primato dell’evangelizzazione nella vita della Chiesa - La dignità umana - L’impegno della Chiesa a favore dei più poveri e dei giovani - L’importanza dell’evangelizzazione delle culture locali e dei nuovi popoli - Un’ecclesiologia di comunione con slancio missionario - Il rapporto tra povertà ed annuncio del vangelo Teologia della liberazione Su queste due conferenze, così importanti per la chiesa latino-americana, si fonda la nascita di una teologia latino-americana: la teologia della liberazione che poi si divide in più teologie. Noi guardiamo la teologia di Gustavo Gutierrez un po’ perché è il primo esponente, ed in fondo il fondatore, un po’ perché è quello che è sempre rimasto fedele alla Chiesa ed è anche quello più equilibrato. Già prima di Medellin egli stava facendo una revisione critica delle diverse teologie presenti, facendo notare come esse conducessero anche a diverse impostazioni pastorali. Nel ’68 si indirizzò poi verso una teologia che fosse riflessione critica sull’azione della Chiesa nel modo, alla luce della fede. Nel 1972 edita il suo “Teologia della liberazione” in cui riflette appunto sulla situazione della chiesa ed in particolare della sua latino-americana, che egli cerca di vedere alla luce della fede appunto. Egli dimostra infatti che la sua teologia oscilla tra due poli: la fedeltà a Dio e la fedeltà al popolo latino-americano. Egli fa una dunque un’analisi particolare, che è cosa ben diversa per lui da un’analisi isolata, la particolarità è infatti vera se ha un respiro universale, se è legata all’unica Parola rivelata, anche se essendo legata ad un posto, non si può trasportare altrove. Egli analizza la liberazione su vari livelli: socio-politico (liberazione dalla schiavitù di strutture di peccato), antropologico (liberazione da schiavitù interiori dell’uomo) e teologico (liberazione dalla schiavitù del peccato). Va subito detto che forse egli si è fermato un po’ troppo sul primo livello, mentre per la teologia è comunque sempre più importante il terzo. Egli dice subito che la teologia della liberazione (tl) non propone niente di nuovo e va vista come completamento di un normale studio teologico: essa tende ad una riflessione critica sulla prassi storica alla luce della Parola vissuta e accettata nella fede. La tl cerca dunque di investigare l’ortoprassi come conseguenza dell’ortodossia. È dunque forse il metodo che è un po’ nuovo, perché pur presupponendo la teologia come sapere razionale, come scienza, vede come luogo ermeneutica non la prassi ecclesiale in generale, ma la prassi ecclesiale nella società. La domanda chiave che anima tutta la tl è: come annunziare Dio Padre in un mondo non umano? Come dire ad un povero che Dio lo ama? Tl nasce dal confronto tra il Dio della vita e la situazione di morte che regna nel mondo. Il punto di riferimento primo è così la vittoria del Cristo Risorto e in quest’ottica la solidarietà umana è il segno permanente di questa partecipazione alla sua Risurrezione e che come tale può aiutare a mantenere viva la speranza. Detto ciò, il lavoro teologico comincia quando si legge la realtà sociale alla luce della Parola di Dio, che deve portare a dei segni concreti di liberazione su tutti e tre i livelli sopra-citati. E così l’opzione preferenziale per i poveri diventa un’opzione di fede, perché siamo amati da un Dio che per amore ha scelto di essere povero! L’opzione preferenziale per i poveri è dunque una conseguenza della rivelazione si traduce in povertà materiale, povertà spirituale (disponibilità alla volontà di Dio) e solidarietà con i poveri. E tutta questa riflessione nasce dal non riuscire a capire come possa esse l’America Latina un continente cristiano ed avere allo stesso tempo così tanti oppressi! Il modo di procedere nel confronto della Parola con la situazione e le scelte da prendere è nel circolo ermeneutico, che per essere fruttuoso deve supporre la fede. Esso parte dalla situazione concreta che pone degli interrogativi → si confrontano questi interrogativi con la rivelazione → si ottiene la risposta pratica da vivere. Esso segue lo schema del vedere-criticare-agire. Così il vivere cristianamente una situazione sociale porta a cercare di vivere una precisa prassi. Certo nel passaggio dal primo al secondo momento, è molto importante il discernimento, la riflessione teologica fatta nella Chiesa, per lei e in comunione con lei. Per quanto riguarda il secondo momento, il contenuto della Rivelazione in fondo è il mistero dell’amore di Dio, manifestatosi lungo tutta la storia della salvezza e al quale si risponde con la fede. Se già la fede è legata alla prassi, l’importanza di quest’ultima aumenta con quell’aspetto della Rivelazione che è l’escatologia. Guardando ora agli aspetti generali della sua opera teologica possiamo notare che: La salvezza è vista come liberazione autentica e non tanto sul livello quantitativo, quando su quello qualitativo: si salva così chi si apre a Dio e agli altri. E questa salvezza è già in atto ed il divenire storico è così visto come Colui che abbraccia tutti gli uomini e tutta l’umanità. A livello cristologico, si mette molto in luce la sequela, anche perché si accentua notevolmente (forse anche troppo) la funzione di Cristo rispetto al Regno. La sequela comporta una prassi di liberazione storica, contro le strutture di peccato. Si cerca insomma di delineare una cristologia più pratica e se Gutierrez rimane abbastanza equilibrato, quelli dopo, perderanno un po’ questo equilibrio. In questo contesto per la Chiesa è molto importante partecipare alla missione liberatrice che la storia della salvezza sta portando avanti. Dando uno sguardo al tema della Rivelazione nell’opera di Gutierrez, va subito fatto notare che è un tema trasversale a cui egli subordina tutto, anche se egli guarda questo tema dalla prospettiva del povero. Passando all’analisi dell’uso di questa categoria: Se il Concilio Vaticano II usa Rivelazione solo per indicare l’automanifestazione di Dio, Gutierrez lo estende anche ad altri campi e con più significati: far vedere in generale; parola rivelata, verità rivelata; realtà strettamente legata alla storia e all’esperienza; manifestare la presenza di Dio agente ed operante. Il contenuto della rivelazione è il mistero dell’amore di Dio, perché è incontro tra Dio e l’uomo, anche se, essendo nella verità, lo mette di fronte alla scelta tra vita e morte. Questa Rivelazione avviene nella storia, che è il luogo dell’incontro con Dio. Il problema è che egli fa coincidere spesso la storia con la storia della salvezza, come se non ci fosse altra storia ed infatti cercherà poi di distinguere, non troppo felicemente, tra l’incarnazione come irruzione di Dio nella storia e la liberazione che è l’intervento ordinario di Dio. La fede è un assenso vitale a questa Rivelazione e rimanda l’uomo all’esperienza e così la fede porta a prendere sul serio il mondo e i teologi, pur partendo dalla fede e muovendosi in essa, devono attingere agli apporti delle altre scienze. L’escatologia poi da un nuovo significato alla storia presente e così la relazione con la Rivelazione è dono e missione. Il Regno di Dio infatti è dono, ma ha concrete conseguenze storiche, che orientano il cristiano ad una prassi verso il cambiamento sociale. Alla Chiesa tocca infatti il compito di manifestare con le opere l’amore di Dio nel mondo, colpendo alla radice ogni struttura di peccato. In tutto ciò è molto importante l’aspetto contemplativo, per capire come articolare Rivelazione-fede e prassi. I contributi della tl alla teologia della rivelazione sono stati: Rinnovata coscienza dell’importanza dell’esperienza, alla luce degli ultimi, come luogo di rivelazione e un rinnovato slancio per la Chiesa ad essere soggetto attivo nella storia. Questa azione liberante deve essere comunitaria, anche perché la comunità cristiana è anche il primo luogo teologico, il primo luogo di rivelazione. Rinnovato legame tra la Parola e la storia presente. Il magistero della Chiesa reagì con i documenti della congregazione per la dottrina della fede: Libertatis Nuntius del 1984 e Libertatis Coscientia del 1986. Se il secondo è più che altro un bellissimo studio sulla libertà, il primo invece mette in chiaro una serie di cos: Parlare di liberazione a livello teologico, ha senso se si parte da quella del peccato e poi certo anche sugli altri livelli. Inoltre molte tl nel passo del “vedere”, guardano la realtà tramite ottiche marxiste e ciò non è in accordo con il cristianesimo. Si nota positivamente l’attenzione ai segni dei tempi e alla giustizia, anche se su quest’ultima si mette in guardia dal considerarla solo una cosa temporale. Se certo il peccato ha implicanze sociali, che giustamente sono messe in rilievo, bisogna fare attenzione a non ridurre il peccato a semplice peccato sociale. Viene visto positivamente il tentativo di una lettura comunitaria ed ecclesiale della parola di Dio, anche se il problema è ridurre ogni aspetto della vita della Chiesa alla liberazione, guardando tutto a partire da una lettura parziale di Esodo, Beatitudini e Mt 25. Meglio inserire questi testi nei loro contesti. Queste teologie della liberazione hanno un futuro? Nel settembre del 1996, in Germania, si è tenuto un incontro tra vescovi del Celam, rappresentanti della Congregazione per la dottrina della fede e teologi della liberazione. Gutierrez, nella sua relazione, dice che le tl devono: o Partire dal tempo concreto, che è il luogo dell’incontro con Dio, è in esso che agisce la presenza salvifica. o Mettere sempre più in luce l’aspetto comunitario della fede, che è uno degli elementi più deboli del Concilio Vaticano II. o Recuperare la dimensione trinitaria nei vari lavori teologici. o Tenere conto delle nuove sfide, che non sono più quelle del ’68, ma la post-modernità, la povertà non solo a livello sociale ed il pluralismo religioso. Quindi: approfondire cosa significa la diversità tra le varie povertà; tenere sempre più in conto la situazione della donna; considerare le conseguenze della globalizzazione sulle nuove povertà. La Conferenza di Aparecida (2007) Non guardiamo quella di Santo Domingo del 1992, perché era tutta incentrata sul tema dei cinquecento anni dello sbarco di Colombo in America. La Conferenza di Aparecida viene convocata con il titolo “Discepoli e missionari di Gesù Cristo, perché i nostri popoli abbiano vita in Lui: Io sono la Via, la Verità e la Vita (Gv 14,6)”. Lo scopo è quello di capire il compito della Chiesa nel continente, davanti ai grandi cambiamenti sociali, politici, economici e religiosi e quindi anche il tono del documento finale è comprensibile che sia principalmente pastorale. È curioso notare che il cammino seguito per approvare il documento finale, è molto simile a quello del testo conciliare di DV. Infatti il documento inizialmente proposto, dopo consultazione di conferenze episcopali e congregazioni romane, è stato rifiutato, soprattutto dopo il discorso iniziale di Benedetto XVI che trattava i seguenti punti: centralità di Cristo; un’antropologia rispettosa della centralità della persona; una lettura della realtà non faziosa, ma integrale, ben ricordandosi che solo chi conosce Dio, conosce veramente la realtà. Egli analizza così come l’incontro con Cristo abbia significato un arricchimento per molte delle culture indios che si può vedere nella scoperta dell’amore di Dio nel Cristo sofferente, nella devozione eucaristica e mariana e nella varie forme di devozione popolare. Egli insiste poi molto sul tema attuale della globalizzazione. Infine pone una serie di domande, che formano un itinerario ben preciso e per le quali inizia un accenno di risposta. Egli riconosce poi l’importante legame tra Rivelazione ed impegno per la promozione umana. Passando al documento finale della conferenza vediamo i tratti salienti. Si prende atto di come i cambiamenti dell’America Latina, siano legati ai cambiamenti globali e ciò è una novità. Guardando agli effetti di questa globalizzazione, si fa notare come essa si ripercuota su tutta la vita ed anche su quella religiosa. Essa è dominata dall’individualismo e dalle parole d’ordine “economia” e “comunicazione” ed entrambe provocano nuove povertà, tanto che in entrambe i campi a molti sono negati gli elementi basilari; in particolare è importante aumentare l’interesse per la questione ecologica e per le varie popolazioni indigene. Essa ha portato però anche notevoli positività quali un ruolo della donna più consapevole; la diversità delle culture come un fattore positivo; la caduta delle ideologie con una conseguente interrogazione sul vero senso della vita. Tutto ciò spinge dunque ad investire su di una “globalizzazione alternativa” vista come fonte di speranza e di responsabilità. Alla riflessione sul perché molte persone si allontanino dalla Chiesa, non si trova una risposta, ma si ribadisce l’importanza della dignità della persona e della libertà religiosa che, per altro, spesso non c’è realmente. Si rinnova poi l’importanza di un dialogo interculturale, inter-religioso ed inter-ecumenico. A proposito delle strutture di peccato poi, si deve attivare un discernimento comunitario e personale ed in merito al criterio ultimo di discernimento esso è Gesù Cristo e soprattutto nel suo essere Salvatore per tutti gli uomini. Nell’ultima parte del documento si presentano poi le sfide che la teologia ha davanti: integrarsi con le scienze sociali e l’antropologia ed aiutare la trasmissione e la testimonianza della fede. TEOLOGIA IN AFRICA Ricordando che la storia del Cristianesimo in Africa risale agli inizi della predicazione apostolica, noi guardiamo alla sua situazione ecclesiale a partire dal Concilio Vaticano II. Al Concilio i vescovi di origine africana erano pochi e nella commissione “Segni dei tempi” solo due che per altro, lamentando al mancanza di centri teologici e di esperti qualificati sulla questione africana, dicevano di non aver abbastanza formazione in materia. Oltre ai segni dei tempi messi in luce da GS essi ne fecero notare anche altri relativi alla loro realtà: l’assenza di una classe media e di una forte divisione tra ricchi e poveri; la voglia di una propria identità; il pluralismo religioso e la conseguente situazione minoritaria della Chiesa, che le impone di essere fermento nella massa; il forte legame al mondo ancestrale e tradizionale; l’atteggiamento passivo. Le sfide che questa situazione pone sono: passaggio verso una struttura più comunitaria; fare dell’uomo nero un interlocutore di Dio e dei suoi fratelli; una crescente coscienza continentale; la rivendicazione dei valori ancestrali; l’apparizione delle sette; il valore della cultura; l’urgenza dell’ecumenismo. Dopo il Concilio va sviluppandosi, grazie anche all’aumento del clero locale, il concetto di evangelizzazione, di affermazione delle varie chiese locali e di ricerca di una propria identità teologica. Nel 1994, anno del Sinodo africano, questo cammino viene riaffermato e si continua con nuovi orizzonti e con più speranza. Questa progressiva nascita di una Chiesa “più africana” è accompagnata ed anche aiutata, dallo sviluppo di una teologia africana. Tappa importante sarà la nascita, nel 1977, della associazione di teologi pan-africani, che era fondata su due convinzioni: l’importanza di una teologia contestuale e di una della liberazione. Tre sono le correnti teologiche che si muovono all’interno di questa neo-nata associazione: Missionaria. La missione ecclesiale infatti tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo era di carattere salvifico, con poca attenzione alle tradizioni e alle religiosità popolari; poi si passò alla fase della plantatio ecclesiae; infine si è arrivati ad una missione, segnata dai temi dell’incarnazione e della comunione, da qui la necessità di una teologia missionaria africana. Africana. Essa sottolinea l’importanza di una teologia che si adatti al sistema africano e che sia però allo stesso tempo critica, che rifletta cioè teologicamente sull’inculturazione. Da qui è nata la metafora della pelle di leopardo, che è una, ma formata da tante macchie diverse: così dovrebbe essere la teologia della chiesa cattolica, una e variegata. Il paradigma per l’inculturazione è l’incarnazione e così la teologia deve riflettere tanto sul polo teico, che su quello andrico, ma soprattutto su quest’ultimo. Nera-sudafricana. È la teologia della liberazione africana nata nel contesto sudafricano di affrontare il problema del razzismo. Essa rivendica la dignità della persona di pelle “nera”, ma allo stesso tempo si muove, nella linea di Mandela, su di una linea di forte riconciliazione. Documento programmatico di questa corrente è il documento Kairos che 150 teologi cattolici ed anglicani firmarono nel 1985. Guardando alle sfide che la teologia africana oggi deve affrontare: Centrale è come presentare Cristo, tenendo conto di Dio e degli antenati, che nella società africana sono molto importanti e così Cristo può essere visto come: il proto-antenato, concetto fortemente legato alla vita; capo-tribù, che solitamente è proprio il mediatore tra la comunità e gli antenati ed è inteso come uomo di riconciliazione e di pace, a servizio degli altri e soprattutto dei più bisognosi; maestro iniziatico, che fa passare dalla morte alla vita e così forte aggancio al mistero pasquale; vero guaritore, non solo del singolo, ma anche della comunità perché quando un uomo è toccato, sono toccate anche le sue relazioni. La relazione tra la riflessione teologica e l’azione missionaria, L’inculturazione della fede cristiana, Il rapporto tra la Tradizione e le tradizioni locali. Relazione tra la persona e la comunità. Un teologo particolarmente importante è Jena Marc Éla. Egli si chiede come parlare di Dio in un contesto in cui da un lato Dio è percepito come silenzio, come uno che ha condannato l’umanità alla morte ed alla sofferenza. Qui viene l’importanza di Gesù e della sua solidarietà con gli uomini, soprattutto con gli ultimi, manifestata anche con atti vari. Perciò l’inculturazione del Vangelo nell’Africa, deve progredire di pari passo con la solidarietà con tutti e soprattutto con gli “ultimi” della terra e la teologia dell’incarnazione deve procedere dunque da un lato sull’inculturazione e dall’altro sulla liberazione. Soprattutto questo ultimo aspetto, richiede alla Chiesa di essere presente nel cambiamento sociale e politico. La Rivelazione ha dunque legata alla vita, non tanto nel tentare delle risposte, quanto nell’illuminarla, per dare una speranza alle situazioni di povertà. Fare teologia obbliga così a guardarsi intorno, anche per imparare ad usare il linguaggio della vita. Egli vede poi una serie di presupposti, necessari per far teologia in Africa: o Deve essere fatta sotto l’albero della croce. L’albero, per l’africano, significa un luogo di protezione e di incontro, dove tutti stanno insieme e si trasmettono le tradizioni. Così la croce è il solo albero attorno a cui trovarsi per leggere ed interpretare la parola, sapendo che quell’albero ha segnato la vittoria della vita sulla morte, della luce sull’oscurità e proprio per questo è fonte di vita e di luce e sotto di esso il cristiano deve vivere in comunità. o Altri luoghi importanti come fonti per la teologia sono la cultura, l’economia e la politica. o Si deve tener conto del popolo africano nella lettura di temi quali peccato, grazia e sacramenti, legandoli più al contesto del Regno di Dio e tenendo conto dell’importanza del simbolo, che per loro è essenziale, perché proverbi, riti, miti e danze, comunicano, più di tante parole, la risposta di senso alla base di ogni elemento umano. Questa è d’altronde la ricchezza che l’Africa può offrire al mondo e alla teologia. o Il popolo africano deve però essere anche soggetto di conoscenza teologica, solo così esso si sentirà parte integrante dell’annuncio. Tenendo conto dell’uscita recente dal colonialismo, si capisce perché sono molto usati certi passi dell’Antico Testamento come l’Esodo. In tutto questo egli è sostenuto da AG 22, ma anche dal fatto che nessun approccio alla Rivelazione costituisce una prospettiva totalizzante ed ecco così l’importanza della ricerca continua e della significatività per la Parola di Dio nell’oggi di ogni cultura. Così il suo programma teologico è: Interrogarsi sulla situazione attuale dell’uomo africano, alla luce del Vangelo. Mostrare che in Gesù, Dio: si fa vicino; si presenta come Dio della vita soprattutto per i deboli e che coccola il suo popolo; mostra la sua potenza, vincendo nella debolezza. Il luoghi della Rivelazione sono la storia e la comunità. Il linguaggio da usare è quello simbolico e la comunicazione dinamica. Il termine “Rivelazione” significa che Dio nella storia della Salvezza si rivela ed è rivelato, portando un messaggio ed una promessa di salvezza, perché Dio vuole saziare tutti e proprio per questo si identifica con i poveri. Questo termine non esaurisce comunque il significato del mistero di Dio, che è infinitamente ricco ed ecco così anche l’importanza di altri termini per l’azione di Dio, quali Parola (ad intendere la comunicazione della totalità della persona di Dio) e Vangelo (riferimento ai quattro vangeli, ma anche al cammino di vita di Gesù, nel quale la comunità è chiamata ad entrare). Centralità del mistero pasquale, visto come tensione tra vita e morte e come mistero in cui emerge la forza della prima e ciò è molto importate per un popolo che vive costantemente in una situazione di morte. E siccome questo mistero si può vivere già adesso, ecco l’importanza di salvezza e liberazione, perché il reale deve già dire questa vita nuova presente nella quotidianità: l’opzione di vita del cristiano che ha accolto la Rivelazione, deve essere incarnata in una tensione continua alla liberazione integrale. Così il contesto africano può traghettarsi verso un nuovo linguaggio della fede, che tenga conto di come esperienza concreta e Parola si illuminino a vicenda e far sì dunque che la rilettura del Vangelo in Africa non sia solo un adattamento, ma un’incarnazione della Parola in un contesto preciso e fatta nella Tradizione, in comunione cioè con l’esperienza originaria della prima Chiesa e con quella della Chiesa universale. La difficoltà maggiore dell’opera di Éla è il suo approccio antropologico, che se da un lato è molto importante, dall’altro è spesso troppo sociologico e dimentica ciò che la Rivelazione ha da dire. TEOLOGIA IN ASIA Il contesto asiatico è molto particolare, perché: È molto religioso, ma poco cristiano (solo il 2,5%, che per altro è concentrato nella maggior parte in Corea, nelle Filippine e a Timor Est). All’interno di questa pluralità, che è la caratteristica del continente, ci sono poi anche le diversità delle lingue, delle religioni e delle culture, spesso secolari. Tra le religioni presenti quelle più grandi sono divise tra religioni monoteistiche e altre mistiche, che parlano del divino in maniera impersonale. Oggi poi è molto visibile la differenza tra il grande sviluppo tecnologico e la grande povertà. La povertà è vista poi come carenza, ma anche come elemento positivo se scelta come distaccamento dalle cose. Tutto questo pone molte sfide alla teologia cristiana. Storia della teologia in Asia Un primo tentativo fu quello di Matteo Ricci ed altri gesuiti, nel XVI secolo, ma la vera teologia asiatica comincia nel XIX secolo e si arriva nel 1938 con la presentazione, da parte di teologi indiani, di un ripensamento del cristianesimo in India. L’Asia viene vista sempre più non solo come terra di missione in seguito alla de-colonizzazione, ma anche come terra-soggetto. Particolare è ad esempio il caso della Corea, in cui il Cristianesimo non si è esteso grazie a dei ragionamenti teologici, ma tramite la vita di alcuni laici che poi si è diffusa a macchia d’olio (ndr ma porca miseria è quello che dico sempre io! La teologia non ha senso prima, ma dopo e a servizio di ciò che nasce, il messaggio cristiano non ha efficacia grazie ad una tattica, ma per la vita che cambia!). L’impatto dei vescovi asiatici al concilio è quasi inesistente, vista anche l’assenza di molti per motivi politici. Unica eccezione è la chiesa indonesiana che avendo come teologo Smulders, riesce a farsi sentire. Nel 1970 nasce poi la conferenza episcopale asiatica, che attiva subito una commissione teologica, che ha scelto di muoversi tra due poli, quello della religiosità e quello della povertà, scegliendo di mettersi a servizio dei poveri in generale (la cui maggioranza è non cristiana, ma profondamente religiosa) e soprattutto delle donne. La teologia in Asia oggi Parola chiave per teologare è il dialogo, sapendo però che la persona in questo contesto plurale è concepita in maniera inclusiva e che bisogna spesso distinguere tra religione e filosofia, che sono spesso mischiate. La teologia asiatica si muove così sul versante della liberazione e quello dell’inculturazione, alla ricerca di quegli elementi positivi presenti in ogni religione. Ma come portare il messaggio cristiano? Come mettere in rapporto Cristo con le religioni? dire che la Chiesa è mezzo di salvezza? Attualmente sono quattro: Cristo contro le religioni, residuo dell’impostazione colonialista-espansionista. Cristo nelle religioni. Impostazione che, cerca di trovare un modo per spiegare l’esistenza di tante religioni (tipo “cristiani anonimi”) e mettendosi nella scia del Concilio, riconosce valore salvifico alle religioni, vede un’azione di Cristo in esse. Sul valore dei loro testi scritti, in un seminario del 1974 si disse che sono mezzi per aprirsi all’incontro con Dio. Cristo al di sopra delle religioni. Per tenere insieme la novità cristiana ed il rispetto verso le altre religioni, si mette in relazione la Chiesa con il Regno, mettendo in luce come sia Cristo che salva, più che le religioni o la Chiesa. Cristo con le religioni. Si stabilisce (Pannikar) una differenza tra Gesù e Cristo, tra Logos Incarnato e Logos eterno, dicendo che il primo non è in nessun modo assoluto e vincolante. Contro questa impostazione si è diretta la dichiarazione Dominus Iesus. In generale è comunque un tentativo di reazione ad un’impostazione europea. Aloysius Pieris Nativo dello Sri Lanka, è uno degli esponenti maggiori della teologia asiatica. Egli parte dal fatto che la maggior parte dei poveri, nelle loro diverse forme, è non cristiana e la Chiesa si deve chiedere come parlare a loro! Egli inizialmente, avendo conosciuto il pensiero di Rahner, si mette nella linea del “Cristo nelle religioni”, ma poi si sposta di più sul versante soteriologico e quindi su quello della teologia della speranza, calata soprattutto nel dialogo con i buddisti (che in Sri Lanka sono la maggior parte). Il concetto di salvezza è infatti per lui fondamentale per discernere nelle culture tra religione e filosofia, perché egli dice che ogni religione offre, propone, dei cammini, delle vie per la salvezza. Cosa è che crea problema nella sua posizione? Non è chiara la finalità del dialogo con le religioni, a parte quella che ognuna ritorni su stessa per rivedersi. In questo dialogo infatti sono necessari degli elementi per il discernimento e in fondo l’ultima chiave è Cristo. Egli dice che il contesto di povertà e pluri-religioso, ha degli aspetti positivi e negativi. La povertà in sé non è né bene, né male, ma la povertà forzata rende schiavi e quella volontaria rende liberi, ma questo non è tipico del cristianesimo. Ciò che è tipico del cristianesimo è invece la scelta dei poveri, ed è questo uno dei suoi elementi tipici, ciò che Gesù ha da offrire di “nuovo”. Nel dialogo con i buddisti invece bisogna trovare come far incontrare il Dio della Parola (cristianesimo) con quello del silenzio (buddisti). Egli vede nello Spirito Santo il legame tra questi due poli, perché è Egli a trasformare il silenzio da un’assenza in un modo di presenza possibile della Parola, è lo Spirito Santo che fa del silenzio una Parola non pronunciata e della parola, un Silenzio ascoltato. Egli dice di tener poi da conto che se per il Cristianesimo l’Assoluto ha un volto, è una realtà personale, per il buddismo no. Detto ciò egli vede tre possibili approcci tra cristianesimo e religione: Livello esperienziale. Con il buddismo, ciò significa l’incontro tra conoscenza e amore. Livello religioso. Le tradizioni, soprattutto rituali, permettono all’esperienza originaria di essere vive nell’oggi e per il cristianesimo questa è duplice: le beatitudini ed il mistero pasquale, che egli vede come Battesimo della croce. Livello teologico. Se Budda non ha pretese mediatico-salvifiche Gesù le ha! È importante questo livello, perché egli vede la teologia come la formula di vita che riflette sulla prassi ecclesiale di liberazione, continuamente interiorizzata tramite la prassi liturgica. Per quanto riguarda l’ultimo livello egli parte prima dall’approccio missiologico, criticando le impostazioni che identificano Chiesa e Regno, quelle di adattamento alla cultura e quelle che vedono il cristianesimo come il compimento delle religioni. Egli opta per il modello sacramentale, insistendo molto sull’essere segno della Chiesa, dicendo che essa deve immergersi, come Gesù nel Battesimo, nelle altre religioni, sapendo che questa immersione conduce fino alla croce. Solo se si passa per questi due battesimi il dialogo Chiesa-Religione è vero! Dopo l’approccio missiologico egli passa a criticare anche la cristologia. Egli opta per la soluzione “Cristo nelle religioni”, ma in una maniera un po’ particolare perché se vede come luoghi della rivelazione la Parola di Dio e la Tradizione, egli dice poi che l’incarnazione è sì il momento culmine della Rivelazione, ma che con ciò non si vuol dire che esso sia esaustivo! Egli separa Cristo da Gesù, dicendo che la presenza di questo Cristo c’è anche nelle altre religioni. Partendo infatti da una cristologia discendente (Cristo come Sacramento), egli passa poi ad una cristologia ascendente (che esalta la dimensione umana di Cristo) per poi arrivare appunto a questa dimensione cosmica del Cristo (che è massima in Gesù, ma lo eccede), che permette di parale di un Cristo asiatico. Se il suo tentativo è buono e cerca di inserire anche lo Spirito Santo nella sua trattazione, confrontandolo con DV 2 e 4 si vedranno le sue grosse lacune, soprattutto lo scarso riferimento al Padre. CONCLUSIONI Guardando soprattutto alle teologie extra-occidentali si notano delle costanti: L’importanza del contesto storico e culturale in cui si fa teologia. Il tentativo di recuperare la relazione tra ortoprassi e ortodossia. Tutte giungono, per strade diverse, ad un recupero del senso della Tradizione. Il povero è visto come soggetto teologico. La sottolineatura, della dimensione comunitaria della fede. Fino a qui si sono analizzate le varie teologie nei loro diversi contesti. Esistono però, oggi più che mai vista la crescente globalizzazione, anche degli elementi comuni ai vari contesti. Vediamoli. POSTMODERNITÀ E CRISTIANESIMO Il primo problema nell’affrontare questo tema, è che non abbiamo una visione storica del momento in cui viviamo, perché ci siamo immersi dentro. Se poi questo fenomeno ha avuto inizio nell’Occidente, l’odierna situazione comunicativa, ha fatto sì che avesse ripercussioni ovunque. Inoltre è caratteristico definire un periodo in relazione con quello precedente, con il quale ha rotture e continuità. Vediamo dunque le caratteristiche della modernità: Ricerca della verità tramite certezze e l’oggettività. Riduzione della ragione a semplice razionalità. Sbordamento della tecnica nella ragione e riduzione di questa a mentalità funzionale. Conseguente formazione di motivazioni morali autonome. Il posto che prima aveva la religione, viene preso dall’economia. Di conseguenza la religione è confinata nell’aspetto individuale. Si assise alla dissoluzione della metafisica, con il conseguente spostamento della ricerca di senso sul piano materiale e l’approdo ad un relativismo totale. Tutto ciò porta sempre più la persona ad essere considerata come un oggetto. La postmodernità cerca invece di avere come perno della ragione, della storia e della società l’uomo, ma ciò avviene mettendo in crisi i tratti salienti della modernità, perché si ha una perdita di fiducia nella ragione. A ben vedere però, ogni qual volta nella storia c’è un cambio di paradigma, si assiste ad una crisi, ad un cambio di mentalità, di stili di vita e di religiosità. Nel concreto: o Si mette in seria questione l’accesso alla verità ed i valori ad essa legati, passando in maniera esagerata all’importanza dell’esperienza: «È vero, perché io l’ho sperimentato». o Dopo la morte di Dio si arriva alla morte del soggetto, alla sua dissoluzione. o Ciò che conta non è il senso ultimo, ma il qui ed ora, l’immediatezza e così siccome il reale è esperienza di pluralità, nulla ha veramente valore. o Si ha una rottura con il cristianesimo e con il “religioso istituzionale” in generale. Questa crisi della modernità sta mettendo in crisi anche il cristianesimo, soprattutto per il suo necessario impatto culturale. Stiamo in fondo assistendo ad una seconda secolarizzazione. Questo può forse servirci, per rifondarsi sull’essenziale. Le cause di questa crisi sono da ricercare in: Una razionalità scientifica che ha spodestato quella religiosa. La presa di coscienza, da parte dell’uomo, dell’insignificanza della sua esistenza. L’esperienza del male e della sofferenza. La velocità dei cambiamenti e delle informazioni. Le reazioni di fronte a questa crisi sono da un lato quella fondamentalista, di di tornare al passato, prima della modernità; dall’altro lato c’è chi dice di accettare la situazione di pluralismo, negando la possibilità di ogni unità e quindi l’importanza della tolleranza, ma l’inutilità del dialogo. In mezzo a queste due c’è la posizione di Benedetto XVI di recuperare il senso pieno della ragione, per recuperare: un’utopia, un motivo per vivere; l’idea della vita come un progetto; una visione trascendente della realtà, per uscire dal carpe diem; il senso della storia; il senso del silenzio. (ciò per altro porta la gente a rivolgersi al mondo orientale); il senso pieno della persona umana e non solo quello utilitaristico. Proprio nel cammino verso questa ragione piena, il contributo delle religioni è quanto mai importante e fondamentale. Riguardo al pluralismo esso è vero se si riconoscono le differenze e si valutano come tali, riconoscendo però anche ciò che è Assoluto e superando così l’individualismo edonista. Le caratteristiche della cultura post-moderna, che è in fondo una seconda secolarizzazione, sono: l’essere una cultura dell’intrascendenza; la fine della storia; essere una cultura del divertimento; la sostituzione dell’essere per il possedere; il passaggio dal pluralismo al relativismo e all’indifferenza; l’individualismo edonista e narcisista. Come comunicare comunque il cristianesimo in questo contesto postmoderno? Per Tillich l’attecchimento del messaggio evangelico è dovuto anche ad un eccessiva identificazione tra fede e credenza, la mancanza di novità che il Vangelo comporta, un atteggiamento tradizionalista verso la Tradizione e la mancanza di alcune classi sociali nella Chiesa. Per arrivare ad un nuovo paradigma dunque si deve: - Ripensare la trascendenza, che è unione di esperienza religiosa ed esperienza etica, come elemento antropologico fondamentale. - Ripensare la fede non tanto nei suoi contenuti, quanto nella loro trasmissione. - Affrontare il pluralismo ed il relativismo mostrando la volontà di verità presente nell’uomo. - Recuperare l’opzione personale, il valore del desiderio, il senso di identità ed appartenenza. - Rapporto con le nuove sette e le varie religioni, soprattutto orientali, da vedere non solo come sfida, ma anche come qualcosa su cui riflettere. A tutto questo sottostà però la domanda centrale che è: «Cosa significa credere?». Risposte: @ Abbandonarsi a Dio, accettare di vivere il mistero, nel mistero. @ Vivere con un atteggiamento teologale, fatto di fede, speranza e carità. @ La conseguente antropologia: corretta visione di sé stessi e quindi degli altri. @ L’importanza della dimensione etico-politica nell’esperienza cristiana. @ Dialogare con tutti. @ L’uso di un linguaggio teologico più narrativo @ Una coscienza sempre più planetaria ed allo stesso tempo più locale. @ Entrare in relazione con le religioni. @ Ripartire dalla mistica, dall’esperienza profonda e gioiosa di Dio. RAPPORTO FEDE E RAGIONE, TEOLOGIA E FILOSOFIA Tema al centro dei dibattiti dell’ultimo secolo, importantissimo per la teologia fondamentale, e del magistero soprattutto di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, anche se con accenti diversi, e che nel caso di GPII, si è cristallizzata nell’enciclica Fides et Ratio. Fides et ratio (1998) Il tema di questa enciclica è proprio il rapporto tra teologia e filosofia ed il problema che c’è sullo sfondo sono i nuovi problemi che i sistemi filosofici attuali pongono alla teologia. Ciò che motiva l’intervento del Magistero su questo tema, sono dunque le seguenti cose: La ricerca della verità è un tema strettamente legato alla missione della Chiesa, perché essendo l’uomo la via della Chiesa, la ricerca interiore dell’uomo è ciò che più le sta a cuore. La chiesa è al servizio della verità, «pur nella consapevolezza che ogni verità raggiunta, è sempre solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio» (FR 2). Si pone nella scia del Concilio Vaticano II e della Veritatis Splendor e cioè aiutare l’uomo nella ricerca del significato dell’essere umano e della vita. Si percepisce una sempre maggiore separazione tra fede e ragione, che porta da un lato a nuove forme di fideismo e dall’altro alla fine della metafisica. Così «la ricerca della verità ultima, appare spesso offuscata» (FR 5), anche a causa della situazione di angoscia e di paura dovuta alla separazione tra fede e ragione, che porta alla difficoltà di trovare dei punti di riferimento e porta così ad un approccio parziale alla verità. Affrontare la «crisi di senso» (FR 81) che permea la società e che ingloba tutto il resto. La filosofia ha dimenticato la trascendenza della persona, impoverendosi e degenerando in relativismi o gnosticismi, anche se continuano a trovarsi in essa degli elementi di verità. La Chiesa ha il dovere di aiutarla a recuperare al sua dignità. Ridare all’uomo la fiducia nella sua capacità conoscitiva: «portare gli uomini alla scoperta delle loro capacità di conoscere il vero» (FR 102) Per un nuovo rapporto tra fede e ragione ci vogliono però dei presupposti: Innanzitutto l’antropologia, la visione dell’essere umano. Solo mettendo al centro la persona umana nella sua interezza, fede e ragione si possono re-incontrare. Ecco allora l’importanza di un uomo visto come essere: trascendente; capace di conoscere, domandare e cercare risposte (oggi da rivitalizzare, provocando la domanda di senso e lo stupore); in relazione; che vive di credenze da cui parte per ragionare e per vivere rapporti di donazione e fedeltà; storico; inserito nella tradizione. Il rapporto tra fede e ragione. GPII le vede come due ali , come due momenti costituenti, per la contemplazione della verità, per la vita dell’uomo. Certo oggi più che mai è importante il discernimento, di ciò che si sa di sapere, perché sia fede che ragione sono impoverite. Siccome infatti la ricerca di Dio è connaturale all’uomo, dopo un inizio passato ad “annusarsi” fede e ragione sono andate a braccetto, anche se, nonostante qualche eccezione, non si sono mai identificate. Con l’epoca moderna è iniziata la sfiducia nella ragione piena, manifestatasi con il fideismo (ragione inutile) o il razionalismo (ragione limitata ai sensi). La Rivelazione è il punto di incontro ideale tra fede e ragione e ciò si vede prima nella Dei Filius, che ne mette in luce il carattere soprannaturale, e poi nella Dei Verbum, che ne mette in luce invece il carattere salvifico. Il papa aggiunge poco ad esse, ma ha il pregio di mostrare la continuità tra le due costituzioni e la relazione intercorrente in esse, e quindi nella Rivelazione, tra fede e ragione. La Rivelazione è presentata così, come risposta di verità piena alle domande dell’uomo. Proprio per questo essa può essere fonte di pensiero che chiede di essere accolto ed è universale, e può venire così in aiuto alla filosofia. Nel rapporto tra fede e ragione, ci sono una serie di concetti che vanno visti ed analizzati: Credenza. Insieme di conoscenze, legate anche alla fede, acquisite da altre persone e che sono ritenute come certo, ma che sono da perfezionare mediante l’evidenza personale. Metafisica. Capacità della ragione di andare oltre la conoscenza sensoriale, argomentando sui dati, fino ad arrivare alla causa che sta all’origine di ogni realtà sensibile. Filosofia. Processo di sistematizzazione del pensiero/sapere, mediante la capacità speculativa propria dell’intelletto umano, che cerca di dare delle risposte alle domande legate al senso della vita. Essa permette di passare da una conoscenza individuale ad una universale. Se ci sono poi diversi modi di sistematizzare, diversi sistemi diverse filosofie, c’è un nucleo che è comune a tutti, che è il punto di riferimento per dire che quel modo di procedere è una filosofia. Esiste quindi anche una filosofia cristiana, che è il processo di sistematizzazione guidato dalla ragione illuminata e purificata dalla fede, che fa uso spesse volte, anche di alcuni concetti derivati dalla fede. Autonomia. È la capacità di procedere secondo metodi e regole propri. Essa non significa però chiusura e separazione dal resto. Così teologia e filosofia sono entrambe autonome, ma in relazione necessaria tra loro, relazione che non deve essere di subordinazione. Fede. Risposta “obbediente” a Dio, che porta a riconoscere Dio come Dio e a dare l’assenso alla testimonianza divina, è un atto di affidamento che coinvolge tutta la persona (FR 13). Sapienza. Forma di conoscenza che unisce le conoscenze della fede e della ragione, sull’uomo, sul mondo e su Dio. L’uomo saggio ama la verità e la cerca con tutto se stesso. La sapienza pone alcune regole alla ragione: il cammino è senza sosta; il limite va riconosciuto ed integrato; è strettamente legata al timore di Dio (cf Sir 1,16.24; 19,18; 25,6), all’aspetto di chi sa di aver ricevuto molto dalla vita; la sapienza vera è quella della croce. Verità. Essa può presentarsi sotto molte forme (ricerca scientifica, carattere filosofico, religiosa, credenza della persona), ma Cristo è la verità ultima e definitiva. Ancora una volta la Rivelazione è poi vista come terreno di incontro tra fede e ragione. Apertura. È la capacità dell’uomo di uscire da se stesso, di trascendersi e di trovare risposte nell’Assoluto. Essa è la caratteristica che definisce l’essere umano in sé ed è dunque questa l’antropologia soggiacente all’enciclica. L’enciclica passa poi a fare anche delle proposte. Innanzitutto bisogna recuperare la ricerca della verità, ricerca inscritta nella necessità di uscire da sé, ma frenata dalla paura di ciò che comporta. Bisogna poi recuperare l’unità tra ragione e fede, in un rapporto di circolarità (n°73), dove ognuna delle due porta un proprio contributo, anche se bisogna discernere, perché non tutti i sistemi filosofici sono buoni interlocutori: la filosofia è necessaria alla teologia, che ha bisogno di una ragione adeguata; la teologia è necessaria alla filosofia per evitarle di impadronirsi di cose non sue. Per recuperare questa rapporto circolare entrambe hanno dei compiti: la filosofia deve ritrovare il suo ruolo sapienziale, avere un ruolo analitico ed una portata autenticamente metafisica, passando dal fenomeno al fondamento. Ma deve fare attenzione ad alcuni rischi: l’eclettismo, lo storicismo, lo scientismo, il pragmatismo e il nichilismo. La teologia invece deve superare ogni relativismo, rinnovare la propria metodologia ed approfondire tutto nella verità ultima. La FR ha così aperto una strada importante e le sue proposte sono ancora attuali. Il magistero di Benedetto XVI Questo papa ha ripreso il tema approfondendolo in almeno tre occasioni: il discorso all’Università di Regensburg (o Ratisbona), l’angelus su Tommaso d’Aquino e il discorso che avrebbe dovuto tenere all’Università “La Sapienza” di Roma. Riguardo al primo discorso egli riprende il discorso di un retto e pieno uso della ragione. La sua tesi di fondo è che «Non agire secondo ragione, è contrario alla natura di Dio». Le domande sottese al suo discorso sono: «Come condurre qualcuno alla fede? Con la violenza o con la ragionevolezza?» e «La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre per sé stesso?». Egli sviluppa così il significato del termine Logos, visto come Parola e Ragione, facendo notare come Dio agisca con “ragione creatrice” e come l’essere di Dio sia una contestazione al mito. Questa grecizzazione del messaggio cristiano, preceduta dal fecondo incontro tra AT e cultura greca, culminato nella traduzione dei LXX, è parte essenziale dello stesso, ma si è cercato in tre ondate di deellenizzare il cristianesimo (Riforma, Teologia Liberale e oggi) e la radice la si può trovare nel volontarismo, che separava libertà di Dio, da ragionevolezza del suo agire. La conclusione del suo discorso è che la fede ha bisogno, in quanto atto ragionevole, di una ragione piena, che non sia ridotta e che la nostra struttura antropologica è fatta per accogliere la Rivelazione. Analoghe idee si trovano nell’angelus su san Tommaso. Sul discorso alla Sapienza esso, nella parte finale, verte sul tema di come cercare di rimettere insieme ragione e fede, e se da un lato recupera FR, dall’altra insiste sul non ridurre la ragione. TEOLOGIA ECUMENICA Nell’affrontare il tema, innanzitutto è bene distinguere tra dialogo ecumenico e dialogo interreligioso, perché se il primo ha basi solide (fede nella Trinità, nel mistero di Gesù Cristo e nel comune Battesimo) ed ha come finalità una sempre maggiore base comune, il secondo ha come finalità non tanto una situazione di compromesso, quanto più una volontà di camminare insieme. Per quanto riguarda dunque l’ecumenismo, va detto che innanzitutto la Chiesa sussiste nella Chiesa Cattolica, ed argomenti che vanno approfonditi sono: la relazione tra Scrittura e Tradizione, l’Eucaristia, l’ordine come sacramento triplicemente strutturato, il magistero della Chiesa affidato al papa e ai vescovi in comunione con lui, la Vergine Maria e la sua intercessione; la natura e la missione della Chiesa; la natura e l’esercizio del primato del vescovo di Roma. Tra i tentativi fatti da singoli teologi sono da segnalare “Diversità e comunione” di Congar (1982), “Unione delle chiese, possibilità reale” di Rahner-Fries (1983) e “L’unità attraverso la diversità” di Cullmann. Esistono poi vari organi dove discutere e cercare delle vie, ma i più interessanti sono i rapporti bilaterali e ciò che da essi scaturisce, come nel caso dei Luterani sulla giustificazione e degli Anglicani sulla Madonna. Questo perché forse si riesce a tenere meglio in conto l’identità di chi si ha davanti. Per la teologia fondamentale particolarmente importanti sono stati i dialoghi con i metodisti: il rapporto di Singapore del 1991 “La tradizione apostolica” e il rapporto del 1997 “La Parola di vita – La rivelazione e la fede”.