Paolo Cardillo
Sicurezza e legislazione in ambiente chimico, anno accademico 20072008
LE REAZIONI FUGGITIVE (Parte II)
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1. Lo studio delle reazioni di decomposizione
Grazie all'intensa attività di numerosi ricercatori la situazione in questo campo è però
notevolmente migliorata. Negli ultimi anni sono stati fatti notevoli progressi per quanto
riguarda i metodi di prova progettati per rivelare i potenziali pericoli di natura termica
nei processi chimici. Sono stati sviluppati molti nuovi strumenti e molte organizzazioni
hanno codificato gli aspetti procedurali delle sperimentazioni. Anche molti metodi in
uso da decenni sono stati ulteriormente migliorati e automatizzati per cui il numero
delle misure effettuate e delle sostanze studiate è aumentato vertiginosamente. Questo
notevole sviluppo, a partire soprattutto dal 1974-77, trova una spiegazione nel fatto che
in quel periodo si sono avuti alcuni incidenti rilevanti.
1.1. Strumenti e procedura sperimentale
Le domande a cui deve rispondere una procedura sperimentale sono:
•
•
•
quali dati di processo dobbiamo conoscere?
in che modo possiamo ottenere questi dati?
come possiamo utilizzare questi dati e cosa possiamo concludere dai risultati
sperimentali?
Per specificare le condizioni di sicurezza i principali dati richiesti sono:
1. la velocità di liberazione del calore
2. la capacità di raffreddamento dell'impianto
Per valutare le conseguenze di una reazione fuggitiva è necessario determinare:
1.
2.
3.
4.
5.
il calore di reazione
il calore specifico della massa di reazione
l'aumento adiabatico di temperatura
il punto di ebollizione della massa di reazione
l'intervallo di temperatura a cui possono manifestarsi reazioni indesiderate di
decomposizione e il corrispondente calore di decomposizione
6. la quantità e la velocità di liberazione di gas (pressione massima e velocità massima
di aumento della pressione)
7. effetto di errori, impurezze, ecc.
Per quanto riguarda gli errori è bene chiedersi per esempio che cosa può succedere se
non si carica uno dei reattivi previsti dalla reazione (questo vale anche per il
catalizzatore), se non si rispetta il rapporto tra i reagenti, ecc. Per quanto riguarda i
contaminanti è bene considerare anche l'effetto del vapore, dell'acqua, dell'aria, dei
fluidi diatermici, dei sali degli scambiatori, ecc.
I più comuni metodi di prova possono essere raggruppati nelle seguenti categorie:
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•
•
•
•
•
prove a temperatura programmata (condizioni dinamiche): possono fornire
informazioni preliminari rispetto alla probabilità (intervallo di temperatura) e alla
severità (sviluppo di calore) dell'autoriscaldamento;
prove a temperatura costante (condizioni isoterme): possono fornire informazioni sul
tipo di comportamento cinetico, es. eventuale autocatalisi e energia di attivazione
apparente;
prove isoperiboliche o di accumulo di calore: possono fornire una diretta indicazione
della temperatura sicura di immagazzinamento e consentono il facile riconoscimento
di reazioni autocatalitiche;
prove adiabatiche: rappresentano il modo ideale di simulare il caso estremo di uno
smaltimento di calore molto scarso. I risultati possono essere direttamente usati per
valutare il tempo all'esplosione;
prove di calorimetria di reazione: per lo studio delle reazioni desiderate. E’ possibile
riprodurre le condizioni di un processo e determinare i calori di reazione, le velocità
di liberazione del calore, parametri cinetici oltre a dati di trasferimento del calore.
Nella Tabella 1 sono riportate le sigle degli strumenti/tecniche attualmente più utilizzati.
Tabella 1-Sigle degli strumenti/tecniche più comuni
•
•
•
•
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•
•
TG Termogravimetria
DTA, Analisi Termica Differenziale
DSC, Calorimetria Differenziale a Scansione
C 80, calorimetro a flusso di calore
PHI-Tec
Dewar
ARC, Accelerating Rate Calorimeter
RC, Reaction Calorimetry
L'approccio sperimentale non è però un compito facile: non esistono regole e procedure
ben stabilite così come non esiste una singola prova che definisce da sola il pericolo
chimico. Inoltre, molto spesso, è difficile stabilire il significato fondamentale dei metodi
di prova e quindi correlare i dati ottenuti con le proprietà chimico fisiche del sistema
sotto prova. Un'altra ragione deriva dal fatto che una reazione pericolosa può avere
diverse origini e può iniziare in diverse modi. Ogni metodo di prova determina solo la
sensibilità di una sostanza o miscela di reazione a un particolare impulso di energia
nelle condizioni imposte durante la prova. Nessuno degli esperti in questo campo
pretende che le prove siano assolute o conclusive: i risultati non possono essere
considerati isolatamente ma la pericolosità deve essere valutata in base ad una serie di
prove in differenti condizioni.
1.2. La temperatura di decomposizione
Fino a qualche anno fa l'obiettivo principale delle determinazioni sperimentali era
quello di identificare le condizioni - soprattutto gli intervalli di temperatura - di un
evento termico indesiderato e di mantenere le condizioni del processo ben lontane da
tali temperature. La domanda cruciale però è: quanto lontano ci si deve tenere, nelle
condizioni operative, dalla temperatura di decomposizione determinata
sperimentalmente?
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In realtà sono pochissime le sostanze che hanno una temperatura di decomposizione ben
definita. La decomposizione non inizia infatti repentinamente ad una data temperatura
ma come la maggior parte delle reazioni chimiche avviene a tutte le temperature: la
velocità di reazione aumenta esponenzialmente con la temperatura. Poiché la
liberazione di calore è proporzionale alla velocità di reazione, la velocità di liberazione
del calore aumenterà anch'essa esponenzialmente con la temperatura. L'inizio di una
decomposizione esotermica è osservato alla temperatura alla quale il calore generato
supera il limite inferiore di rilevabilità dello strumento di misura. È quindi ovvio che
strumenti più sensibili segnalino una temperatura iniziale inferiore, per la stessa
reazione di decomposizione, rispetto a strumenti meno sensibili.
La scelta del metodo di prova è spesso governata dalla disponibilità di una data
apparecchiatura, dalla tradizione e dall'abitudine piuttosto che dalla sua specificità. Non
sempre ci si rende conto che i risultati ottenuti con metodi differenti possono variare
considerevolmente da uno all'altro. La capacità di uno strumento di rivelare velocità di
autoriscaldamento molto basse è di notevole importanza (Fig. 1).
Fig. 1 - Strumenti diversi rivelano temperature di
decomposizione diverse
La relativamente scarsa sensibilità dello strumento A permette di rilevare solo una
piccola porzione dell'esoterma; lo strumento B una porzione maggiore mentre il quadro
quasi intero è mostrato dallo strumento C. In altre parole, con lo strumento C si osserva
l'autoriscaldamento a partire dalla temperatura T1 mentre con gli strumenti B e A
rispettivamente a T2 e T3. La differenza tra T1 e T3 è generalmente di 50-80 °C ma
talvolta anche maggiore. La Figura mostra anche una situazione molto frequente,
costituita da due picchi esotermici parzialmente sovrapposti. Il pericolo termico
principale è provocato dal picco maggiore. Tuttavia, in condizioni adiabatiche, questa
esoterma è innescata dal calore liberato dalla prima reazione che avviene a temperatura
inferiore. E’ molto importante riconoscere questo evento per poter controllare il pericolo
termico: le tecniche poco sensibili non sono in grado di farlo.
Quando si riporta una temperatura di decomposizione è pertanto necessario citare lo
strumento utilizzato e descrivere le condizioni sperimentali (quantità di campione,
velocità di riscaldamento, ecc.). In questo modo si forniscono i dati utili per un
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eventuale confronto. Nel caso delle decomposizioni esotermiche non è detto però che la
conoscenza della temperatura iniziale di decomposizione sia sufficiente da sola per
caratterizzare la pericolosità della reazione. Il pericolo principale di una esplosione
termica è dovuto, come è stato più volte sottolineato, all'effetto che accompagna la
decomposizione che, solitamente, è caratterizzato dall'aumento di pressione e dalla
velocità di aumento di pressione.
La valutazione della pericolosità dovrebbe venire effettuata prima della produzione su
larga scala. Il problema è quindi quello di disporre di un campione rappresentativo della
produzione finale. Ci sono però delle difficoltà, perché il prodotto del laboratorio può
contenere impurezze diverse da quello di produzione corrente. Anche dopo l’avvio della
produzione, variazioni apparentemente insignificanti in una materia prima possono
indurre variazioni del comportamento termico. In molti casi le prove di stabilità termica
sulle sostanze pure non sono rappresentative del loro comportamento in miscele di
reazione. Oltre alla temperatura, altre condizioni influenzano le reazioni fuggitive:
•
•
•
mezzo di reazione (solventi differenti, diversa acidità);
materiale da costruzione del reattore;
impurezze, sottoprodotti
2. Descrizione dei principali strumenti
In senso generale il termine analisi termica comprende un gruppo di tecniche che
misurano una grandezza fisica di un campione sottoposto a un ciclo termico controllato
in funzione della temperatura o del tempo.
Le tecniche di analisi termica che più interessano in questa sede sono basate sulla
determinazione della massa (termogravimetria, TG) e dell'entalpia (analisi termica
differenziale, DTA e calorimetria differenziale a scansione, DSC) e sulla loro variazione
con la temperatura. La TG e la DTA/DSC sono tecniche ormai ben consolidate in
numerosi campi dell'analisi e della ricerca per cui, per una trattazione approfondita, si
rimanda alla letteratura.
2.1. Termogravimetria (TG)
La termogravimetria (TG) è basata sulla misura, in funzione della temperatura T o del
tempo t, del peso di un campione posto in un apposito forno riscaldato a velocità
costante. Per ottenere utili informazioni da questa tecnica, il campione deve liberare
prodotti volatili. La curva termogravimetrica risultante fornisce informazioni sulla
stabilità termica del campione iniziale, sulla stabilità termica e sulla composizione degli
intermedi e sulla composizione di un eventuale residuo.
Nella Fig. 2 è riportato un esempio di curva termogravimetrica relativa ad una reazione
di decomposizione. Si possono individuare due temperature caratteristiche: Ti che è
definita temperatura iniziale di decomposizione e Tf che è la temperatura finale. Ti è la
temperatura a cui la perdita di peso raggiunge il valore corrispondente alla sensibilità
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dello strumento; Tf è la temperatura a cui la perdita di peso raggiunge il suo massimo
valore, corrispondente alla decomposizione completa. Le variazioni di peso del
campione possono essere valutate quantitativamente dalla differenza di livello sulla
curva (∆m). Nonostante Ti e Tf siano temperature strumentali e non fondamentali, gli
strumenti commerciali (termobilance) consentono di confrontare i dati TG di un campione da laboratorio a laboratorio se si impiegano condizioni sperimentali simili.
Fig. 2 - Esempio di curva termogravimetrica
Le termobilance sono costituite essenzialmente da: un forno, un programmatore di
temperatura, un registratore, una bilancia. Le variazioni di peso del campione sono
misurate valutando o la forza necessaria per riportare in posizione orizzontale il braccio
della bilancia o valutando la deflessione di quest'ultimo. Il peso misurato dalla bilancia,
opportunamente amplificato, viene registrato contemporaneamente alla temperatura
misurata da una termocoppia posta in contatto con il campione o il portacampione.
Analogamente ad altre tecniche strumentali anche la TG risente di numerosi fattori che
possono influenzare la precisione, l'accuratezza e la riproducibilità delle misure. I fattori
che più influenzano una curva TG sono soprattutto strumentali (velocità di
riscaldamento, atmosfera nel forno e nel portacampione, geometria del forno e del
portacampione, natura del portacampione) o direttamente dipendenti dal campione
(quantità, solubilità nel campione dei gas svolti, dimensioni delle particelle,
impaccamento del campione, conducibilità termica). Tra questi fattori quelli più studiati
sono la velocità di riscaldamento e l'atmosfera nel forno.
In termini generali, un aumento della velocità di riscaldamento aumenta le temperature
Ti e Tf anche se la variazione di peso rimane immutata. L'effetto dell'atmosfera del
forno sulla curva TG dipende soprattutto da:
a) tipo di reazione
b) natura dei prodotti di decomposizione
c) tipo di atmosfera impiegata
Per valutare la stabilità termica ai fini della sicurezza le prove TG si effettuano
normalmente in atmosfera ossidante (aria) e/o in atmosfera inerte (azoto). E' così
possibile distinguere soprattutto una reazione di decomposizione da una di ossidazione
(combustione).
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2.2. Termogravimetria derivativa (DTG)
Registrando la derivata rispetto al tempo della variazione di peso del campione in
funzione della temperatura si ottiene una serie di picchi (Fig. 3), le cui aree sono proporzionali alla variazione di peso del campione. I vantaggi della DTG sono riassunti di
seguito:
•
•
la curva DTG mette in rilievo piccole variazioni di pendenza che possono non essere
rilevate dalla curva TG; in altre parole si riesce a separare meglio gli stadi che si
sovrappongono;
la curva DTG indica chiaramente la temperatura di inizio e fine delle variazioni di
peso oltre che la temperatura corrispondente alla massima velocità di perdita di peso.
Fig. 3 – Esempio di curva DTG
2.3. Analisi termica differenziale (DTA) e calorimetria differenziale a scansione
(DSC)
Il principio della DTA consiste nel riscaldare il campione in esame e un campione inerte
di riferimento e nel misurare ad ogni istante la differenza di temperatura tra i due
campioni. La temperatura di entrambi sale senza differenze fino a quando non si verifica
nel campione in esame un cambiamento tale da provocare assorbimento o emissione di
calore e quindi una differenza di temperatura tra campione e riferimento. Questa
differenza di temperatura viene registrata dallo strumento. Alla temperatura iniziale Ti
la curva devia dalla linea orizzontale per formare un picco che può essere verso l'alto o
verso il basso, secondo le variazioni energetiche (eso o endo). La temperatura di fine
reazione Tf non si ha al massimo o al minimo del picco ma piuttosto verso la parte della
curva a temperatura più alta. E' così possibile seguire gli eventi termici, individuarne
eventualmente la natura (fusione, decomposizione, transizione cristallina, ecc.) e la
temperatura a cui avvengono, senza però misurarne l'effetto.
Una tipica curva DTA è riportata in Fig. 4.
Si notano due tipi di transizione:
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1. picco endotermico causato dalla fusione del campione;
2. picco esotermico dovuto ad una reazione di decomposizione.
Il numero, la forma e la posizione (temperatura) dei diversi picchi endo e/o eso
forniscono informazioni qualitative sul comportamento termico di una sostanza. Anche
le curve DTA possono essere influenzate da un gran numero di fattori, alcuni dei quali
sono simili a quelli discussi per la TG. Per i nostri scopi, particolare interesse rivestono
l'influenza della velocità di riscaldamento, l'atmosfera nel forno e il materiale del
crogiolo.
Fig. 4 - Tipiche curve DTA e DSC
La determinazione quantitativa del calore in gioco è possibile per mezzo della DSC che
rappresenta un'evoluzione della DTA. Anche in questa tecnica si confronta il campione
in esame con un campione inerte ma, in corrispondenza di una trasformazione o
reazione chimica, si fornisce al campione una quantità misurata di energia per
mantenerlo alla stessa temperatura del campione inerte di riferimento. In altre parole,
ogni modificazione eso o endotermica del campione provoca uno squilibrio del sistema,
che viene immediatamente corretto per ristabilire l'eguaglianza di temperatura.
L'energia elettrica necessaria per ristabilire l'equilibrio rappresenta la misura diretta
dell'energia termica sviluppata o assorbita nella trasformazione. Lo strumento registra la
velocità con cui il calore viene assorbito o ceduto dal campione (dH/dt) durante la
transizione in funzione della temperatura o del tempo. Si ottiene in tal modo un
diagramma caratteristico che indica non solo il numero, la natura e la temperatura degli
eventi termici (come nella curva DTA), ma anche l'entità dei medesimi (l'area di un
picco è direttamente proporzionale alla variazione energetica) (Fig. 4).
Nella Fig 5 sono riportati alcuni esempi di applicazione della DSC in campo organico. I
fattori che influenzano le curve DSC sono gli stessi delle curve DTA.
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Fig. 5 - Esempi di curve DSC
Entrambe le tecniche sono da tempo impiegate per studiare il comportamento termico
delle sostanze e i pericoli derivanti da reazioni esotermiche. Richiedono una quantità
limitata di campione (pochi mg) e brevi tempi di analisi (meno di due ore). Lavorare
con pochi mg di sostanza è un grande vantaggio soprattutto per un esame preliminare
nel caso di sostanze sconosciute che possono decomporsi o esplodere violentemente.
Per questo motivo vengono utilizzate soprattutto per lo screening iniziale sui materiali
di partenza, sugli intermedi isolati, sui residui di evaporazione, sui residui di
distillazione, sui prodotti, sulle acque madri, ecc.
I metodi DTA/DSC sono utili come screening poiché i laboratori hanno poco tempo,
poco campione e molti campioni. Le prove sono spesso più qualitative che quantitative.
Infatti, in alcuni casi non è possibile garantire che un campione di pochi mg di una
miscela eterogenea corrisponda alla composizione di una miscela in un reattore. I
metodi di omogeneizzazione usati nella chimica microanalitica non sempre sono
applicabili perché, cambiando la grandezza dei cristalli, può cambiare la reattività della
miscela. L'interesse per queste prove consiste soprattutto nell'osservare se il campione
mostra segnali di instabilità termica e a quale temperatura.
Le prove in condizioni di riscaldamento dinamico (Fig. 5) sono molto veloci e possono
abbracciare un largo intervallo di temperatura, inoltre garantiscono una maggiore
sensibilità.
Le prove in condizioni isoterme sono più utili per rivelare temperature iniziali di
decomposizione più significative; inoltre consentono di identificare le sostanze che
hanno una stabilità termica dipendente dal tempo. La decomposizione termica di queste
sostanze non segue la legge di Arrhenius, per cui la velocità di decomposizione aumenta
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esponenzialmente all'aumentare della temperatura: può essere quindi necessario un
lungo periodo di induzione prima che la decomposizione diventi rilevabile (Fig. 6).
Fig. 6 - Prove DSC in condizioni isoterme
Una limitazione all'impiego di DTA/DSC per la valutazione dei pericoli termici è la
differenza tra le condizioni delle prove e le condizioni operative in un impianto
industriale. I dati DTA/DSC sono ottenuti con una velocità di riscaldamento costante
che accelera la reazione in modo tale che questa avviene a temperature più alte nello
strumento di quanto avviene nella realtà. Come risultato i dati sperimentali devono
spesso essere estrapolati alle condizioni operative normali. Si devono anche utilizzare
prove in isoterma per convalidare l'estrapolazione a temperatura inferiore. Inoltre, con i
DTA/DSC non si possono ottenere informazioni sulla pressione né sull'influenza delle
condizioni sperimentali, tipo agitazione o aggiunta di reagenti.
La produzione minima di calore rilevabile con gli strumenti più moderni è di circa 25
mW (sensibilità assoluta) mentre la sensibilità relativa (che tiene conto della quantità di
campione, 3-5 mg) è di 5 mW. Non si hanno problemi quando si studiano effetti fisici
tipo transizioni di fase che producono o consumano una quantità di calore relativamente
grande ad una temperatura ben definita. Ma la sensibilità relativa dei DTA/DSC è,
rispetto ad altri strumenti appositamente progettati, certamente troppo bassa per studiare
l'autoriscaldamento di un campione.
Nella valutazione della stabilità termica si incontrano spesso sostanze che fondono con
conseguente successivo aumento di pressione a causa dell'evaporazione o che si
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decompongono liberando notevoli quantità di gas. I crogiuoli standard di alluminio,
anche se chiusi con il coperchietto e sigillati, non possono resistere all'aumento di
pressione, per cui la rottura del portacampione durante la prova rende molto difficile la
valutazione quantitativa del dato. Per risolvere questo problema sono stati sviluppati
diversi portacampioni ad alta pressione: celle sigillate di acciaio inossidabile, capillari in
vetro sigillati, capsule metalliche sigillate con teflon, crogiuoli in alluminio sigillati con
adesivi, ampolle di vetro con base piatta, microreattori sigillati in vetro. Diverse case
costruttrici hanno più recentemente proposto crogiuoli resistenti fino a 100 bar e il loro
impiego è stato descritto in letteratura. Bisogna porre particolare attenzione anche alla
scelta del materiale delle capsuline perché, per esempio, quelle in alluminio possono
reagire con molti prodotti chimici (composti alogenati, acidi e basi forti) portando a
risultati errati.
L'influenza dell'atmosfera che circonda il campione è stata attentamente valutata da
diversi ricercatori; tuttavia, durante le determinazioni di routine, quando è necessario
esaminare in crogiuoli chiusi un grande numero di campioni in breve tempo, l'influenza
dell'aria statica che rimane nel portacampione viene spesso dimenticata con conseguenti
reazioni secondarie di ossidazione, soprattutto con i crogiuoli in acciaio inossidabile
(volume 120-270 µl). E' stato riportato che con crogiuoli di 270 µl, l'aria statica che
rimane nel crogiuolo (circa 60 µg di ossigeno) è sufficiente per ossidare circa 30 µg di
sostanza organica. Quando si usano piccole quantità di campione (2-5 mg) questa
reazione di ossidazione può sviluppare anche 500 J/g con comparsa di picchi esotermici
non reali che possono indurre a misure preventive non necessarie con conseguente
penalizzazione di un processo. Diverse prove di confronto hanno confermato che anche
minime tracce di aria statica rimasta nel crogiolo possono influenzare enormemente il
tracciato della curva DSC (Figg. 7,8).
Fig. 7 - Morfolina; a) prova DSC in aria, b) prova DSC in azoto
Fig. 8 - Dodecano; a) prova DSC in aria, b) prova DSC in azoto
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Le prove in aria statica possono però essere utilizzate per valutare la reattività del
campione nei confronti dell’aria. Una applicazione molto importante riguarda la
stabilità dei residui di distillazione sotto vuoto, quando si rompe il vuoto con aria.
2.4. Valutazione delle costanti cinetiche di Arrhenius
Nella Tabella 2 sono elencate le relazioni generali riguardanti l'analisi cinetica.
Tabella 2
Relazioni tra le costanti cinetiche
La velocità di reazione è data da:
dove
C = frazione reagita
t = tempo, min
k = costante di velocità, min-1
n = ordine di reazione
A = fattore preesponenziale, min-1
E = energia di attivazione, cal/mole
R = costante dei gas
T = temperatura
dC/dt = k (1-C)n
La costante di velocità specifica da:
k = A e –E/RT
Il tempo di dimezzamento da:
t1/2 = 0,693 /k
La costante di velocità specifica può essere calcolata per ogni temperatura una volta
determinati E e A. Determinata k a diverse temperature, si può stimare il tempo di
dimezzamento. Il metodo E 698 (Test Method for Arrhenius Kinetic Constants for
Thermally Unstable Materials) deriva dal metodo di Ozawa e consiste nel riscaldare il
campione con diverse velocità di riscaldamento (da 1 a 20 °C/min). La Fig.9 si riferisce
alla nitrocellulosa, uno degli standard dell’ASTM.
Fig. 9 - Prove DSC sulla nitrocellulosa con diverse velocità di riscaldamento
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Scaldando un campione di nitrocellulosa fino a 250 °C, questo si decompone
esotermicamente: per gli scopi del metodo è sufficiente determinare, per una data
velocità di riscaldamento, la temperatura corrispondente alla massima velocità di
decomposizione, Tmax (all’apice del picco esotermico). Si riportano su un grafico
1/Tmax in funzione delle velocità di riscaldamento (log β). L’energia di attivazione
viene ricavata dalla pendenza della retta corrispondente (Fig. 10):
Eatt = 2,19 R dlogβ /d(1/T)
dove
Eatt = J/mol
β
= °C/min
T
= Tmax, °C
Fig. 10 - Determinazione grafica dell’energia di attivazione
2. 5. Accelerating Rate Calorimeter
L'Accelerating Rate Calorimeter (ARC) è un calorimetro adiabatico controllato da un
microprocessore e da un sistema di analisi dei dati particolarmente adatto per lo studio
di reazioni di decomposizione potenzialmente pericolose. Lo strumento è stato
inizialmente sviluppato dalla Dow. Il fattore chiave nella progettazione e nella
costruzione dello strumento è il mantenimento del campione in condizioni di quasi
perfetta adiabaticità. Sono stati sviluppati modelli matematici da cui si possono ricavare
i parametri cinetici per reazioni esotermiche.
L'involucro del calorimetro e il sistema portacampione sono mostrati in Fig. 11.
Le parti essenziali sono cambiate poco negli anni, anche se alcuni utilizzatori hanno
apportato alcune modifiche. Il portacampione sferico di materiale diverso (titanio,
Hastelloy C, acciaio inossidabile, ecc.) contiene fino a 8-10 g di sostanza, sia liquida
che solida ed è sospeso entro l'involucro del calorimetro. Questo involucro (camicia) è
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costruito in rame rivestito di nickel e contiene tre termocoppie per la misura della
temperatura e otto riscaldatori per minimizzare la differenza di temperatura tra le pareti
del calorimetro e il campione durante la reazione esotermica. Una quarta termocoppia,
sulla parete esterna della bomba, misura la temperatura del campione. Il portacampione
è direttamente collegato mediante un tubo capillare ad un trasduttore di pressione del
tipo a diaframma che registra continuamente la pressione.
Fig. 11 - Schema del calorimetro adiabatico ARC
Gli intervalli operativi sono 25 - 500 °C e 1 - 170 bar (al di sopra interviene una valvola
di sicurezza).
Come per tutte le altre tecniche termoanalitiche o calorimetriche i risultati delle prove
ARC si riferiscono a quel particolare campione o miscela. E' perciò importante che il
campione in esame sia veramente rappresentativo della situazione reale.
Nel programmare la prova è necessario considerare l'inerzia termica della bomba e la
sua influenza sui risultati. Il tipo di bomba deve essere scelto per simulare attentamente
le condizioni dell'impianto. Molto spesso si utilizza l'Hastelloy C per minimizzare gli
effetti catalitici, altre volte può essere opportuno aggiungere catalizzatori per simulare le
condizioni che si possono incontrare in pratica. Se sono richiesti dati di pressione e di
velocità di aumento di pressione è importante considerare anche il grado di riempimento
del portacampione.
Nel caso si debba valutare il comportamento termico di un campione da mantenere ad
elevata temperatura per lunghi periodi (nel caso di essiccamento, distillazione,
immagazzinamento, ecc.) è opportuno ricorrere a prove di invecchiamento in isoterma.
Ci sono due modi principali per utilizzare l'ARC. Nel primo caso, per abbreviare la
durata della prova, per mezzo dei riscaldatori si può portare il campione ad una
temperatura prestabilita. Quindi si effettua automaticamente la sequenza "heat", "wait" e
"search" fino a raggiungere una velocità di autoriscaldamento del campione superiore a
0,02 °C/min. Una volta rilevata l'esoterma, si ottengono automaticamente dati di t, T e
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P, in condizioni adiabatiche, finché la reazione non è finita e la velocità di
autoriscaldamento non è tornata sotto il valore limite prefissato (Fig. 12).
Nel secondo caso, l'ARC viene usato in isoterma mantenendo il campione ad una data
temperatura per un certo tempo. Se durante questa fase non si osservano effetti
esotermici, lo strumento passa automaticamente nel modo "normale".
Fig. 12 - Programma di riscaldamento del calorimetro adiabatico ARC
Nello strumento il campione, una volta iniziata la reazione esotermica, viene mantenuto
in condizioni adiabatiche: il forno si scalda con la stessa velocità del portacampione.
Parte del calore liberato dalla reazione va a riscaldare la bomba portacampione. I dati
sperimentali devono quindi essere corretti per tenere conto dell'inerzia termica della
bomba. L'aumento adiabatico della temperatura del campione ∆Tad e il calore di
reazione ∆H possono essere calcolati dal ∆T strumentale, ∆Tad,s con le seguenti
equazioni:
∆Tad = φ * ∆Tad,s
∆H = cp * ∆Tad
mentre la temperatura finale raggiungibile in condizioni adiabatiche, Tfin è calcolata
dalla:
Tfin = To + ∆Tad
dove To è la temperatura iniziale dell'effetto esotermico rilevata dallo strumento. Il
fattore φ, definito inerzia termica, è ricavabile dall'espressione seguente:
φ = 1 + Mb * cp,b/Mc * cp,c
dove Mb, Mc, cp,b e cp,c sono le masse e i calori specifici della bomba e del campione.
Da una singola prova ARC si ottengono i dati riportati nella Tabella 3.
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Tabella 3
Principali informazioni fornite da una prova ARC
•
•
•
•
•
•
•
temperatura di inizio e fine decomposizione
velocità di autoriscaldamento ad ogni temperatura
pressione ad ogni temperatura
aumento adiabatico di temperatura
velocità di aumento della pressione
tempo all'esplosione o tempo per raggiungere la massima velocità di reazione
parametri cinetici della decomposizione
Nelle Figg. 13-17 sono riportati alcuni dei grafici che si possono ottenere da una prova
ARC. I dati si riferiscono alla decomposizione del perossido di ditertbutile (DTBP).
Fig. 13 - Curva tempo-temperatura
Fig. 14 - Curva di autoriscaldamento
Fig. 15 - Curva pressione-temperatura
Fig. 16 - Velocità di aumento della pressione
Fig. 17 - Tempo per raggiungere la
velocità massima (TMR) di reazione
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1.6. La regola dei 100 °C
Se la natura del pericolo non è nota, è impossibile decidere a priori quale metodo di
prova sia il più appropriato. La situazione può risultare critica se il metodo scelto non
rileva il pericolo specifico. L’uso migliore di uno strumento può essere ottenuto
soprattutto se sono ben noti i suoi limiti (per quanto riguarda i dati sperimentali
ottenibili) nel contesto delle reali condizioni operative di un impianto. Questa
conoscenza permette di utilizzare procedure semplici quando sono adeguate, o più
sofisticate quando le condizioni operative sono critiche. In genere, i risultati delle
misure riflettono solo il comportamento del materiale nelle condizioni sperimentali
dello strumento utilizzato. Ogni altra interpretazione è solo una “estrapolazione”. Infatti,
le condizioni di un impianto reale sono sovente differenti da quelle che si tenta di
riprodurre sperimentalmente; di conseguenza può anche capitare che un pericolo
specifico non venga evidenziato (per esempio un effetto esotermico può venire
mascherato dall’evaporazione endotermica di un solvente, se la prova viene effettuata in
crogiolo aperto). Parametri che possono influenzare la determinazione della temperatura
di decomposizione sono:
•
•
•
•
quantità di campione (da cui dipende l’accumulo di calore);
inerzia termica del portacampione (che assorbe parte del calore liberato
dall’autoriscaldamento);
materiale del portacampione (che può catalizzare o inibire la reazione);
velocità di riscaldamento.
Solitamente una sostanza viene dapprima esaminata, mediante DSC, che richiede pochi
mg e brevi tempi di analisi. Si ricorre all'ARC quando sono necessarie ulteriori
informazioni; una prova ARC richiede però 3-5 g di campione e 8-24 ore. La durata
della prova (e quindi i relativi costi) impediscono di valutare la stabilità di tutte le
sostanze con questo calorimetro.
Spesso la decisione di eseguire una prova ARC è basata sui risultati di prove preliminari
DSC: si confronta la temperatura operativa del processo con quella di decomposizione
rivelata dalla DSC e se tale temperatura è di almeno 100 °C inferiore a quella del
processo si ritiene molto improbabile che la sostanza possa decomporsi nelle condizioni
operative, per cui è inutile ricorrere all'ARC. Questa regola, detta “dei 100 °C”, è ormai
ben consolidata presso l'industria chimica. Si è diffusa da esperienze di seconda mano
ma soprattutto a causa della necessità di avere un criterio decisionale molto semplice.
Affidarsi supinamente a questa regola può però essere molto pericoloso.
Un caso molto noto e ben descritto in letteratura riguarda la decomposizione esplosiva
della 3,5-dinitro-o-toluamide: la differenza tra la temperatura di decomposizione
determinata con la DTA/DSC e l'ARC è risultata di ben 130 °C.
3. La calorimetria di reazione
Fino agli anni ‘80 lo sforzo dei ricercatori era focalizzato più sulle proprietà delle
sostanze che sull'analisi dei processi: si determinavano le temperature di
decomposizione e si fissavano margini di sicurezza. La stabilità chimica di un composto
17
o di una miscela era considerata una proprietà da misurare e il calore di decomposizione
riceveva più attenzione della velocità di reazione e dell’influenza su questa dei diversi
parametri. Per valutare i pericoli di un processo chimico questo approccio è troppo
limitato: l'interazione dei reagenti deve essere studiata nelle condizioni industriali, per
esempio con l'impiego dei cosiddetti calorimetri di reazione.
Per determinare il calore di reazione è necessario condurre la sintesi in esame. E'
opportuno ricordare che i moderni processi spesso richiedono l'esatto mantenimento
delle condizioni di reazione (temperatura, velocità di dosaggio, pressioni, tempi,
rapporti tra i reattivi, ecc). E’ pure prescritto il successivo trattamento delle miscele di
reazione; spesso sono necessarie altre operazioni tipo agitazione, distillazione,
ebollizione a ricadere, ecc. Come risultato delle misure non è richiesta solo l'entalpia
della reazione, ma talvolta si devono considerare altri importanti parametri
ingegneristici, soprattutto se le loro variazioni possono influenzare l'interpretazione
delle misure, per esempio le variazioni del coefficiente di trasferimento del calore attraverso le pareti del reattore. Dalla simulazione di un processo si ottengono i dati relativi
al calore sviluppato dal sistema in qualunque istante, al calore di reazione, al calore
specifico e al coefficiente di trasferimento del calore. Dalla loro correlazione con la
velocità di reazione è possibile eseguire studi cinetici accurati. Si ottiene inoltre un altro
dato di estrema importanza per la valutazione della sicurezza: il ∆T adiabatico. In
definitiva, simulando esattamente il processo industriale e le possibili anomalie ed errori
operativi, si ottiene un quadro completo del comportamento del sistema al variare dei
parametri considerati critici a seconda dei vari casi e le informazioni necessarie per
l’ottimizzazione e lo scale-up.
Le caratteristiche fondamentali di un calorimetro di reazione adatto per sviluppo
processi dovrebbero includere la possibilità di operare in condizioni isoterme e di
temperatura programmata, di aggiungere tutti insieme o in sequenza diversi reattivi, di
variare l’agitazione e il tipo di agitatore, di controllare la pressione, il pH e le condizioni
di riflusso, ecc.
Il calorimetro utilizzato dalla Stazione sperimentale per i Combustibili, è un reattore in
vetro da due litri, incamiciato, con un sistema di trasferimento di calore molto rapido.
Un controllore in cascata aggiusta la temperatura per assicurare condizioni
rigorosamente isoterme (Fig. 18).
Fig. 18 - Schema del calorimetro
di reazione
18
Il sistema è completamente computerizzato. La differenza di temperatura tra il fluido in
camicia e la miscela di reazione ∆T = Tj-Tr è proporzionale al flusso di calore (Qflow)
a meno della costante UA, calcolata per mezzo di una calibrazione (U è il coefficiente di
trasferimento di calore e A è l'area effettiva di scambio). Lo strumento è in grado di
tener conto di una serie di altri contributi necessari per un corretto calcolo del calore di
reazione. Quando la reazione è condotta al di sotto del punto di ebollizione della massa,
il bilancio totale è rappresentato dalla seguente equazione:
Qr = Qflow + Qacc + Qdos + Qloss - Qcalib
dove
Qr
è la velocità di liberazione del calore;
Qflow è il flusso di calore attraverso le pareti del reattore;
Qacc è il calore accumulato dalla massa di reazione e dagli inserti
(termocoppie, agitatore, frangiflutti, ecc.) a causa del loro calore
specifico;
Qdos è il contributo legato al dosaggio dei reattivi;
Qloss è il flusso di calore perso attraverso il coperchio del reattore;
Qcalib è il calore fornito dalla calibrazione
Integrando la curva del flusso di calore in funzione del tempo si ricava l’entalpia di
reazione.
Nella Tabella 4 sono riassunte le informazioni ottenibili dal calorimetro di reazione e
nella Tabella 5 sono elencate le sue principali applicazioni.
Tabella 4
Informazioni ottenibili dal calorimetro di reazione
Proprietà fisiche:
•
•
•
•
calore specifico
tensione di vapore
calore di miscelazione
calore di soluzione
Dati termici:
•
•
•
•
•
temperatura di reazione
calore di reazione
diagrammi temperatura-tempo
diagrammi flusso termico-tempo
comportamento adiabatico
Dati cinetici:
•
•
•
velocità di reazione
costanti cinetiche
energia di attivazione
Dati di scambio termico:
•
•
trasferimento di calore (coefficiente specifico e totale)
capacità di raffreddamento necessaria
19
Tabella 5
Principali applicazioni del calorimetro di reazione
•
•
•
•
Ricerche per la sicurezza chimica
Ottimizzazione di processi
Progettazione di impianti e scale-up
Dati cinetici di reazioni
•
•
•
Proprietà fisiche di composti chimici
Ricerche su sintesi
Piccole produzioni
Gli esempi che seguono serviranno a rendere più chiara l’utilità dei calorimetri di
reazione.
3.1. Esempi di applicazione della calorimetria di reazione
3.1.1. Nitrazione di un nitroderivato
E' noto che l'introduzione di un secondo nitro gruppo in un nitrobenzene sostituito
avviene lentamente; la procedura solitamente adottata consiste nell'alimentare un
eccesso della miscela solfonitrica in una soluzione del substrato a 80 °C (Fig. 19). Prove
DSC indicano che a elevata temperatura (190 °C) può avvenire una violenta
decomposizione ritardata (Fig. 20).
Fig. 19 - Schema della reazione di nitrazione di un nitroderivato
Fig. 20 - Prova DSC sulla massa di reazione
20
La Fig. 21a riporta la curva della velocità di generazione del calore ottenuta eseguendo
nel calorimetro la reazione nelle condizioni prescritte. L'alimentazione è stata interrotta
dopo che era stata aggiunta una quantità equimolecolare della miscela nitrante. La
reazione è stata quindi lasciata completare isotermicamente a 80 °C. Il calore di
reazione risulta pari a 270 kJ/kg. Da questa singola prova possiamo prevedere che cosa
può succedere in caso di arresto dell'agitazione o di perdita della capacità di
raffreddamento nel momento più pericoloso (quando i reagenti sono presenti in quantità
equimolecolare):
•
•
la velocità massima di generazione del calore è pari a 12 W/kg, che corrisponde ad
una velocità di autoriscaldamento, in condizioni adiabatiche, di circa 25 °C/h. La
temperatura di decomposizione della massa di reazione si raggiunge in circa un'ora;
il calore generato durante la fase di maturazione della reazione è pari a 180 kJ/kg che
corrisponde ad un aumento adiabatico di temperatura di 110 °C. Pertanto la
temperatura finale può raggiungere i 190 °C, al di sopra cioè della temperatura di
decomposizione.
La Fig. 21b riporta i risultati di una prova in condizioni analoghe ma a 100 °C. Il calore
generato durante la fase di maturazione è pari a 80 kJ/kg che corrisponde ad un aumento
adiabatico di 40 °C. Al massimo si raggiunge così una temperatura finale di 140 °C. A
questa temperatura la massa di reazione è stabile per ore per cui è possibile
intraprendere in tempo le necessarie misure preventive.
Fig. 21a,b - Velocità di generazione del calore in funzione della temperatura di reazione
E' interessante osservare che in casi come questi l'attenzione è spesso focalizzata
sull'alta pericolosità della reazione di decomposizione per cui si è tentati di abbassare
ulteriormente la temperatura operativa per consentire un più ampio margine di
21
sicurezza. Questo esempio mostra invece che è necessario fare l'opposto per migliorare
la sicurezza del processo.
3.1.2. Epossidazione di alcheni con peracidi
La reazione studiata è una epossidazione del tipo seguente (reazione di Prileschajew):
H+
R-COOH + H2O2 → R-COOOH
O
/\
R-COOOH + R'-CH=CH-R'' → RCOOH + R'-CH-CH-R''
In Fig. 22 sono riportate le curve ARC della velocità di autoriscaldamento e
dell'aumento di pressione in funzione della temperatura della miscela contenente tutti i
reattivi nei rapporti ottimizzati nel lavoro preliminare di laboratorio. Dopo il primo
effetto esotermico (la reazione desiderata di epossidazione), a 150 °C inizia un secondo
effetto esotermico (polimerizzazione dell'epossido); a 280 °C si osserva un terzo effetto
esotermico attribuibile alla decomposizione del polimero precedentemente formatosi.
Durante la reazione di epossidazione (in fase liquida con cicloesano come solvente) la
curva della pressione mostra solo un aumento della tensione di vapore; durante la
polimerizzazione la pressione rimane per lo più costante mentre aumenta
considerevolmente durante la decomposizione.
Fig. 22 - Calorimetria adiabatica della miscela di reazione
I dati della Tab. 5 indicano chiaramente che, in condizioni adiabatiche, il calore liberato
dalla reazione desiderata di epossidazione è in grado di far aumentare la temperatura
fino a quella di inizio della polimerizzazione. A sua volta, il calore di polimerizzazione
può far iniziare la decomposizione.
22
Tabella 5
Dati ARC
1. epossidazione
2. polimerizzazione
3. decomposizione
To, °C
∆H, kJ/kg
∆Tad, °C
40
150
280
560
310
584
243
134
279
La reazione è stata condotta introducendo l'H2O2 nel reattore calorimetrico contenente
l'alchene liquido, il solvente e l'acido. La Fig. 23 riporta i dati della prova nelle
condizioni ottimizzate in laboratorio (temperatura: 50 °C; solvente cicloesano; acido
acetico; H2O2: 2,85 g/min; agitatore: 200 rpm).
Fig. 23 - Dati calorimetrici della reazione di epossidazione a 50 °C
Il ∆H di reazione è pari a 565 kJ/kg di miscela. Da questo dato e dal valore misurato del
calore specifico (2300 J/kg K), si può stimare un aumento adiabatico di temperatura di
245 °C. Dalla curva della conversione termica risulta che alla fine dell'aggiunta
dell'acqua ossigenata (durata 1 ora) si ottiene solo il 31 % di conversione. L'accumulo di
materiale di partenza non reagito comporta un considerevole pericolo potenziale.
Durante il periodo di maturazione (∆H = 387 kJ/kg) l'eventuale aumento adiabatico di
temperatura è di circa 169 °C. Pertanto, un guasto dell'agitatore o del sistema di
raffreddamento possono provocare un'esplosione termica (dati ARC).
E' stata quindi programmata una serie di prove calorimetriche:
•
•
prove a temperature di reazione più alte
prove con differenti solventi (cicloesano, metil cicloesano)
a. Effetto della temperatura
Condizioni sperimentali:
•
•
•
•
•
temperatura:
solvente:
acido:
velocità di aggiunta dell'H2O2:
velocità agitatore:
50, 70 and 80 °C
cicloesano
acido acetico
2,85 g/min
200 rpm
23
I risultati sono riassunti nella Tabella 6.
Tabella 6
Risultati delle prove calorimetriche
T, °C
50
70
80 *
∆Htot,
∆Ttot,
∆Hdos,
∆Tdos,
∆Hacc,
kJ/kg
°C
J/kg
°C
kJ/kg
565
547
570
245
249
247
177
258
394
76
112
171
387
316
176
∆Tacc,
°C
169
137
76
* a ricadere
b. Effetto del solvente
Condizioni sperimentali:
•
•
•
•
solvente:
(c) cicloesano (80 °C a ricadere)
(d) metilcicloesano (80 °C)
(e) metilcicloesano (90 °C a ricadere)
acido: acido acetico
velocità di aggiunta dell'H2O2: 2,85 g/min
velocità agitatore:
200 rpm
I risultati sono presentati nella Tabella 7.
Tabella 7
Influenza del solvente
c*
d
e*
∆Htot,
∆Ttot,
∆Hdos,,
∆Tdos,
∆Hacc,
∆Tacc,
kJ/kg
°C
kJ/kg
°C
kJ/kg
°C
570
578
573
247
251
249
394
396
470
171
172
204
176
182
103
76
79
45
* a ricadere
L'utilizzo di un solvente più alto bollente (metilcicloesano) permette di ridurre
l'accumulo di acqua ossigenata a livelli non pericolosi (al di sotto del 18%).
24
4. Realizzazione delle misure di sicurezza
Nell’industria della chimica fine, la maggior parte delle reazioni viene condotta in modo
discontinuo. Poiché non esiste uno stato stazionario le condizioni dinamiche del
processo diventano molto importanti per la sicurezza. Durante lo scale-up possono
variare le caratteristiche geometriche del reattore, le modalità operative, la qualità dei
reagenti e la natura dei materiali di costruzione. L’influenza di questi parametri sulla
sicurezza deve essere valutata prima che il processo venga condotto su grande scala.
La scelta su quali misure di sicurezza utilizzare dipende da una attenta valutazione del
processo nel suo insieme, in quanto non esiste una procedura normalizzata; inoltre,
bisogna tenere conto dei molti parametri del processo. Una lista preliminare delle cose
da fare potrebbe essere la seguente:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
una attenta ricerca bibliografica, ricordando che non sempre sono riportati tutti gli
incidenti o i risultati insoliti;
elencare le reazioni possibili e quelle collaterali;
considerare se la sostituzione di una o più sostanze pericolose può portare agli stessi
risultati;
elencare le caratteristiche di tutti i reagenti, intermedi e prodotti in termini di
infiammabilità, reattività, tossicità;
considerare la quantità/energia coinvolta e quanto violenta può essere la reazione;
considerare la valutazione termochimica;
determinare la quantità e la velocità di liberazione del calore e di eventuali gas;
determinare la stabilità nello stoccaggio delle sostanze rispetto alle basse/alte
temperature, calore, luce, acqua, metalli, ecc.;
verificare l'effetto di catalizzatori, inibitori, contaminanti (es. ferro) sulle reazioni;
accertare se l'aria e l'acqua influenzano la reazione;
verificare se un ordine di aggiunta errato può influenzare la reazione;
accertare se nella reazione sono coinvolte sostanze incompatibili;
stabilire se la reazione deve essere effettuata in luogo isolato, dietro barricate, ecc.;
valutare cosa può succedere in caso di interruzione di energia elettrica, guasto nel
sistema di riscaldamento o raffreddamento, guasto dell'agitatore, ingresso accidentale
di aria, di acqua o del fluido refrigerante;
....................
Nelle Tabelle 8 e 9 sono riportati i principali libri e riviste che trattano le reazioni
fuggitive, oltre agli aspetti generali di sicurezza.
Tabella 8
Elenco dei principali libri che trattano le reazioni fuggitive
•
•
•
•
•
D.R. Stull: Fundamental of Fire and Explosions. AIChE, New York, 1976
F.P. Less: Loss Prevention in the Process Industries. Vol. 1 e 2. Butterworth, Londra, 1980
T. Yoshida: Handbook of Hazardous Reactions of Chemicals. Tokyo Fire Dept., Tokyo, 1980
L. Bretherick: Hazards in the Chemical Laboratory. Royal Society of Chemistry. 3a Ed., Londra,
1981
W.E. Baker, P.A. Cox, P.S. Westine, J.J. Kulesz, R.A. Strehlow: Explosion Hazards and
Evaluation. Elsevier Scientific Publ., Amsterdam, 1982
25
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
P. Cardillo: Stabilità termica e reattività: Incidenti da monomeri. Stazione sperimentale per i
Combustibili, San Donato Mil., 1985
T. Yoshida: Safety of Reactive Chemicals. Elsevier, Amsterdam, 1987
N.I. Sax, R.J. Lewis: Dangerous Properties of Industrial Materials. 7a Ed., Van NostrandReinhold, New York, 1987
P.A. Carson, C.J. Minford: The Safe Handling of Chemicals in Industry. Longman Scientific, New
York, 1988
P. Cardillo: Incidenti in ambiente chimico: discussione di 100 casi. CINEAS/Politecnico di Milano,
1988
T.A. Kletz: Learning from Accidents in Industry. Butterworths, Londra, 1988
L.A. Medard: Accidental Explosions. Vol. 1 e 2. Ellis Horwood, Chichester, 1989
T.A. Kletz: Critical Aspects of Safety and Loss Prevention. Butterworths, Londra, 1990
L. Bretherick: Handbook of Reactive Chemical Hazards. Butterworth, Londra, 4a Ed., 1990
A. Benuzzi, J.M. Zaldivar: Safety of Chemical Batch Reactors and Storage Tanks. Kluwer
Academic Publishers, Dordrecht, 1991
Center for Chemical Process Safety of the American Institute of Chemical Engineers: Guidelines for
Engineering Design for Process Safety. AIChE, New York, 1992
J. Barton, R. Rogers: Chemical Reaction Hazards. The Institution of Chemical Engineers, Rugby,
1993
Th. Grewer: Thermal Hazards of Chemical Reactions. Elsevier Science, Amsterdam, 1994
Center for Chemical Process Safety of the American Institute of Chemical Engineers: Guidelines for
Chemical Reactivity Evaluation and Application to Process Design. AIChE, New York, 1995
P. Cardillo: Incidenti in ambiente chimico – Guida allo studio e alla valutazione delle reazioni
fuggitive. Stazione sperimentale per i Combustibili, San Donato Mil., 1998
Tabella 9
Elenco delle principali riviste
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Antincendio, Organo del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco
Chemical Hazards in Industry, Royal Society of Chemistry
Combustion and Flame, The Combustion Institute
Fire and Materials, Wiley Heyden Ltd
Fire Prevention, National Fire Protection Association
Journal of Hazardous Materials, Elsevier
Laboratory Hazards Bulletin, Royal Society of Chemistry
La Rivista dei Combustibili, Stazione sperimentale per i Combustibili
Loss Prevention Bulletin, The Institution of Chemical Engineers
Loss Prevention in the Process Industries, Butterworth
Process Safety Progress, American Institute of Chemical Engineers
4.1. Effetto di contaminanti
La presenza di impurezze può influenzare drasticamente la velocità di reazione o
l'intervallo di temperatura a cui inizia una decomposizione. E' ovviamente impossibile
valutare ogni possibile impurezza o combinazione di impurezze. Tuttavia, alcune
semplici precauzioni possono aiutare a ridurre questo particolare pericolo:
•
il processo dovrebbe essere esaminato usando materiali provenienti dall'impianto e
non i reagenti di laboratorio;
26
•
•
•
•
•
•
•
•
nell'eseguire le prove di decomposizione, dovrebbe essere presente il materiale con
cui è costruito il reattore/impianto;
la chimica del processo dovrebbe fornire informazioni sul ruolo delle impurezze
(reazioni autocatalitiche, ecc.);
la letteratura può spesso fornire una guida adatta sull'effetto delle impurezze.
nel caso di reagenti facilmente idrolizzabili (PCl3, POCl3, ecc.) l'ingresso di acqua di
raffreddamento può causare un serio pericolo; è quindi necessario valutare gli effetti
di altri mezzi di raffreddamento o riscaldamento specialmente se ci si può aspettare
la corrosione del reattore o del condensatore;
i reagenti dovrebbero essere analizzati per assicurarsi della loro identità e purezza. Se
vengono usati catalizzatori dovrebbe essere determinata la loro attività. Se è noto che
le impurezze presenti possono influenzare la temperatura di decomposizione,
dovrebbero essere effettuate prove di stabilità termica ad hoc.
frequentemente si impiegano le stesse apparecchiature per reazioni diverse, quindi si
dovrebbe valutare l'effetto dei residui di altre lavorazioni. Non è desiderabile dal
punto di vista della sicurezza realizzare diverse reazioni con la stessa
apparecchiatura, ma spesso si tratta di una scelta economica. Una pratica eccellente
consiste nel disconnettere le linee che alimentano reattivi estranei alla reazione
desiderata. I contenitori delle sostanze che non interessano per la reazione in corso
devono essere rimossi dall'area di produzione;
l'effetto della variazione dei rapporti normali tra i reagenti dovrebbe essere noto;
aggiungere i reagenti in una sequenza sbagliata può portare all'esplosione;
particolare cura va posta nella scelta dei materiali delle apparecchiature per evitare
eventuali azioni catalitiche o la corrosione che possono promuovere reazioni
collaterali indesiderate.
4.2. Modifica delle condizioni di processo
Le scelte delle misure di sicurezza più idonee dipendono anche dal tipo di processo,
cioè se si tratta di una reazione condotta in modo continuo o discontinuo:
a) reattori continui
•
•
•
•
per una data velocità di produzione si utilizzano quantità minori di materie prime. I
pericoli diminuiscono proporzionalmente se sono coinvolti materiali tossici o
infiammabili;
gli intermedi pericolosi si consumano man mano che si formano;
sono più facilmente applicabili sistemi automatici di controllo dato che non ci sono
variazioni nelle condizioni di processo (eccetto che nell'avviamento e nella fermata
dell'impianto). Si riducono inoltre le possibilità di errori da parte degli operatori;
le apparecchiature di processo non sono sottoposte a fluttuazioni di temperatura e
pressione.
b) reattori discontinui
•
se sono coinvolte operazioni pericolose le diverse unità possono essere isolate dalle
altre. La propagazione di una esplosione può essere minimizzata suddividendo il
processo in unità parallele più piccole e separate;
27
•
quando la purezza del prodotto è significativa ai fini della sicurezza, i processi
discontinui consentono un controllo analitico più attento della qualità del prodotto.
L'operazione più semplice in un reattore a tino consiste nel caricare i reagenti tutti
insieme, iniziare la reazione e aspettare che si completi. In questo caso tutta l'energia
potenziale è contenuta all'inizio nel reattore e se la reazione dovesse sfuggire al
controllo le possibilità di arrestarla sarebbero molto basse. Tuttavia le condizioni
operative possono essere modificate per ridurre la quantità di energia in molti modi.
Consideriamo per semplicità un sistema costituito da due reagenti; le possibili
alternative sono:
1. caricare tutto il primo reattivo nel reattore ma aggiungere continuamente il secondo
in condizioni tali che reagisca immediatamente (senza accumuli pericolosi);
2. caricare contemporaneamente i due reattivi in condizioni tali che reagiscano
immediatamente;
3. caricare il primo reattivo e quindi aggiungere il secondo a porzioni aspettando che
ciascuna aliquota reagisca. In questo caso, soprattutto all'inizio, il procedere della
reazione può essere attentamente seguito misurando la temperatura del reattore. E'
molto importante aspettare, prima di scaricare il prodotto, che la reazione sia
terminata. Molti incidenti sono stati provocati dall'aver disatteso questo fatto.
I metodi sopra descritti riducono la quantità di energia potenziale disponibile nel
reattore. Poiché la velocità di reazione è funzione della concentrazione dei reagenti
riducendo la concentrazione di questi si modera la reazione. Riducendo la quantità dei
materiali o diluendo il componente reattivo si riesce a impedire che le temperature e/o
pressioni risultanti superino i limiti di progetto.
Un modo molto attraente per ridurre i pericoli potenziali è quello di evitare di caricare i
reattivi tutti insieme, aggiungendo uno o più reattivi in un tempo più o meno lungo.
Purtroppo la chimica della reazione non sempre permette questo. Il vantaggio principale
dell'operazione semi-batch è che l'alimentazione del reagente può essere interrotta in
caso di anomalo aumento di temperatura e/o di pressione. Questo minimizza l'energia
immagazzinata. In teoria, operando in questo modo si può virtualmente eliminare il
rischio di una reazione fuggitiva. In pratica la situazione è più complessa e richiede una
analisi dettagliata. Quando la reazione non inizia o l'agitatore si guasta può però
verificarsi un accumulo. Il problema dell'accumulo del componente non ancora reagito
deve essere valutato molto attentamente a causa dell'alta probabilità di una reazione
fuggitiva. Inoltre, alcune reazioni specifiche possiedono caratteristiche che possono
influenzare la quantità di accumulo, per es. pH, concentrazione del catalizzatore,
passaggio di stato, ecc.
4.3. Agitazione
Una buona agitazione è fondamentale già nella fase di progettazione di un reattore.
Successivamente è necessario assicurarsi che:
•
l'agitatore sia sempre immerso nella massa di reazione;
28
•
•
l'agitazione sia sufficiente per impedire la formazione di punti caldi, di
sedimentazioni o la cattiva distribuzione dei reagenti;
ci sia un mezzo alternativo di agitazione in caso di arresti o guasti.
4.4. Limitazione dei danni
Sappiamo che l'energia totale di reazione può essere molto alta e che più la reazione
procede più energia si accumula nel reattore. A causa di ciò è desiderabile arrestare la
reazione quanto prima possibile, ma è chiaramente indispensabile rilevare l'inizio della
perdita di controllo. Questo può essere ottenuto sorvegliando la temperatura e la
pressione. Il controllo della temperatura è un fattore chiave. Una volta scelte le
condizioni del processo sono necessari:
•
•
•
•
•
numerose misure della temperatura della massa di reazione;
controlli indipendenti della temperatura della massa e blocchi per le alte temperature;
numerose misure della temperatura del mezzo riscaldante;
controlli della temperatura del mezzo riscaldante e blocchi per le alte temperature;
sistemi di pronto intervento per attivare il raffreddamento di emergenza e bloccare
l'alimentazione e il riscaldamento.
Le misure d'emergenza più comuni sono:
1.
2.
3.
4.
raffreddamento con ghiaccio tenuto a disposizione;
scarico del contenuto del reattore in altro reattore contenente diluenti freddi;
introduzione di quantità molto grandi di diluente freddo;
arresto o rallentamento della reazione con abbondante diluizione, attraverso
l'aggiunta di una sostanza appropriata;
5. scelta di un solvente con idoneo sistema di sfogo d'emergenza della pressione.
29
30