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STORIOGRAFIA
I romani cominciarono a scrivere la loro storia oltre 5 sec. dopo la fondazione della loro città.
Prima, durante il VI sec. se ne erano occupati i greci, soprattutto quelli della Sicilia e dell'Italia Meridionale, sia
per contatto diretto, sia nel periodo in cui Roma si trovava inserita nell'orbita etrusca.
I greci si interessarono ai miti di fondazione e, nel V sec., Ellanico scriveva che Roma era stata fondata da Enea
e Ulisse, e questa, per quanto ci è dato sapere, è la prima volta in cui viene nominato Enea, destinato poi a
diventare il fondatore canonico della stirpe nel mito delle origini.
La Roma dei re interessa dunque i greci anche se solo per i miti di fondazione.
Finita la potenza etrusca le vicende di Roma furono quasi dimenticate dai greci fino ad un episodio clamoroso
che colpì fortemente il mondo italiota: l'incendio gallico della città avvenuto nel 390 a.C.
Di questo fatto parlarono nel IV sec. Teopompo, Aristotele, Eraclide Pontico per il quale una città greca, Roma,
era stata distrutta da un popolo proveniente dagli Iperborei.
Ma l'interesse crebbe solo dopo che i Romani ebbero vinto i Sanniti nel III sec.; in quelle circostanze Roma
aveva preso con la forza delle armi Neapolis, Taranto, alleata del re dell'Epiro Pirro, e si stava preparando al
primo scontro con la più grande potenza occidentale del Mediterraneo: Cartagine.
I greci a quel punto si posero nei confronti di Roma con un atteggiamento molto diverso; così Timeo di
Tauromenio (356-260 a.C. circa) e Licofrone, poeta tragico vissuto ad Alessandria intorno al 280 a.C. circa,
inserirono la città tra le potenze ellenistiche in modi diversi.
Licofrone interpretò la guerra con Pirro come una vendetta nei confronti dei greci da parte dei romani-troiani,
Timeo istituì un sincronismo tra le date di fondazione di Roma e Cartagine da lui poste nello stesso anno 814,
segno che egli si era accorto dell'importanza storica dello scontro tra le due potenze, l'una ormai affermata e
conosciuta dal mondo greco, l'altra che cominciava allora ad affacciarsi sulla scena politica mediterranea.
Nel corso del III sec. si consolidarono dunque alcuni temi fondamentali per una valutazione di Roma da parte
dei greci, temi che comprendevano ormai, oltre ad una conoscenza della questione delle origini e del periodo
monarchico, l'elemento essenziale del valore militare e del significato morale degli esempi, punto d'incontro tra
la mentalità greca e le esigenze della società romana.
In seguito alle guerre puniche, 50 anni dopo Timeo, Roma aveva allargato i propri domini alla Sicilia, alla
Spagna, all'Africa, alla Grecia e i greci cominciarono a vedere le cose in senso antiromano: Filino di Agrigento
scrisse una storia della I guerra punica, cui prese probabilmente parte, con spirito antiromano; Sosilo di Sparta e
Sileno di Calacte furono testimoni della II punica che descrissero stando negli accampamenti di Annibale. Di
queste opere tutto è perduto.
Nello stesso III sec. i tempi erano però maturi perché desse una sua versione dei fatti, della sua storia nazionale
e, verso la fine del sec., un importante esponente della sua aristocrazia Fabio Pittore, della famiglia patrizia dei
Fabii, presente in momenti cruciali dei primi secoli della repubblica, scrisse da uomo politico e in funzione della
classe alla quale apparteneva, divulgando il punto di vista di questa sullo sviluppo della storia romana; scelse di
scrivere in greco, quindi per un pubblico greco, o che comunque conosceva bene questa lingua, e trasferì a Roma
il modello storiografico già così ampiamente elaborato da quella cultura.
L'opera sua, gli Annali, riguardavano la storia di Roma dalle origini fino almeno alla battaglia del Trasimeno del
217, o addirittura fino alla fine della II punica. Di quest'opera rimangono solo pochissimi frammenti, ma il
contenuto è ricaduto nell'opera di Polibio che lo cita tra le sue fonti.
Fabio ebbe anche un altro merito, cioè avere sfruttato e valorizzato, accanto alla tradizione greca la tradizione
romana: quella gli aveva fornito il modello culturale, il gusto del racconto di cose strane o da portare ad esempio
per lo spirito dei lettori, cioè i politici; questa gli diede lo schema cronologico ordinato anno per anno, per cui
Annali, della sua opera, come di tutta la produzione annalistica successiva.
In che cosa consisteva la tradizione romana fino a quel momento?
In Roma l'esordio della storia va ricondotto nell'ambito delle funzioni sacerdotali, dato che ai Pontefici era
riservata la pratica delle lettere: essi, non solo si occupavano delle procedure giuridiche e del calendario, ma
avevano anche l'incarico di redigere la cronaca degli avvenimenti .
1-Procedure giuridiche = legislazione e processi;
2-Calendario = elenco dei giorni nei quali era lecito = fas e nei quali non era lecito = nefas per motivi
religiosi, trattare gli affari civili = dies fasti e nefasti, più i nomi dei supremi magistrati che indicavano l'anno.
La tradizione attribuiva a Romolo l'istituzione del primitivo Calendario riformato poi da Numa Pompilio con
mesi di 31, 29 e 28 giorni, secondo la struttura che esso ebbe sempre in età storica (variazione del mese lunare).
I Latini dunque usarono nel periodo delle origini, come in genere tutti i popoli antichi a questo livello di civiltà,
un calendario basato esclusivamente sui mesi lunari. Verso la fine dell'età regia, o all'inizio dell'età repubblicana
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fu introdotto un nuovo calendario luni-solare, costruito sul modello greco con l'aggiunta superstiziosa di un
giorno al totale dell'anno ordinario (da 354 a 355 giorni).
L'anno aveva quindi un inizio diverso: 1 marzo, secondo la tradizione romulea, 1 gennaio, secondo la tradizione
successiva. La data della entrata in carica dei consoli, dopo avere oscillato dall'uno all'altro mese della
primavera nei primi secoli della Repubblica, venne fissata al 15 marzo nel 222 a.C. e fu anticipata infine nel 153
a.C. al primo gennaio.
Da questo anno in poi, l'anno ufficiale venne a coincidere con l'anno naturale e, praticamente non si usò più a
Roma che un solo anno, col Capodanno al primo di gennaio.
In questo modo i Romani adottarono un solo sistema cronologico accolto dalla massima parte degli scrittori
latini e, in genere, del mondo romano, ma fu anche ordinariamente usato nella vita pratica. In base a tale sistema,
i singoli anni si distinguevano col nome dei due consoli in carica e il computo degli anni si faceva contando gli
anni dalla fondazione di Roma = ab urbe condita.
Grandissima importanza hanno dunque, per la ricostruzione della storia politica, costituzionale e sociale dei
primi due secoli della repubblica i cosiddetti Fasti dei magistrati superiori (consolari) e gli Annales.
Il modo di datazione aveva alla sua base quindi due diversi sistemi: 1- la lista dei magistrati eponimi annui
repubblicani (consoli, decemviri, tribuni militari con potestà consolare), la quale risaliva fino al principio della
repubblica, facendosi coincidere quest'ultima con l'anno della dedica del tempio di Giove Capitolino; 2- la lista
dei singoli re. Senza fermarci su quest'ultima, è importante vedere gli elenchi dei magistrati cioè i Fasti, e poi i
Fasti Capitolini redatti con materiale derivante dallo stesso archivio pontificale al tempo di Augusto.
I Fasti Consolari sono appunto arrivati a noi in due redazioni: l'una ricavata dalle fonti annalistiche,
principalmente da Diodoro (dal 480 al 302 a.C.), da Tito Livio, integrato dagli epitomatori e dalle Perioche, da
Dionigi di Alicarnasso (fino al 443 a.C.) e, in modo sporadico, da Polibio, Cicerone, Plinio, Cassio Dione; l'altra
dalle cosiddette fonti cronografiche che danno la serie fino al primo anno della repubblica e dai Fasti Capitolini
che, pur essendo una fonte cronografica, sono redatti in forma epigrafica.
Tutte queste liste si presentano identiche, sotto l'aspetto cronologico, dal 281/80 in poi; per il periodo precedente
si rilevano invece notevoli discrepanze tra i Fasti Capitolini e i fasti annalistici e, in questi, fra Diodoro e le altre
fonti.
La tradizione vuole che l'incendio gallico (a.390?) abbia distrutto il grande archivio pontificale, che pareva
risalire, se non alla fondazione della città, certo ai primi anni della repubblica; ma si deve trattare di una pia
menzogna per spiegare come non esistessero documenti sicuri sulle origini; in ogni caso la storiografia romana
quando volle ricostruire gli annales, lasciò tutti i fatti dei primi secoli come in una penombra, affidati al solo
racconto orale delle leggende, o alterati dai canti conviviali ed elogiativi di quelle poche famiglie patrizie, che
spesso costituivano per il loro potere e per il loro peso politico un vero stato nello stato.
Nel 30 a.C. un elenco completo dei magistrati eponimi (consoli, decemviri, tribuni militari con potestà
consolare), dei dittatori e dei censori, redatto in base a quanto ancora risultava dagli archivi dei pontefici, nonchè
in base alle opere di storici ed eruditi, fu inciso su una parete interna dell'arco di Augusto. Questo elenco
recuperato in gran parte dagli scavi nel Foro, fu disposto, per opera di Michelangelo, in una sala dei Musei
Capitolini, dove ancora oggi si trova.
I Fasti Capitolini contavano, dall'inizio della Repubblica fino al 300 a.C. compreso, 210 anni: 199 collegi di
consoli o di tribuni consolari, 2 anni di decemvirato (451-450 a.C.); 5 anni di anarchia (375-371 a.C.) e 4 anni
"dittatoriali" in cui, invece dei consoli, sarebbe stato al potere un dittatore (a. 333, 324, 309, 301).
La lista fu redatta basandosi sugli studi cronografici di Varrone e di T. Pomponio Attico di cui Ottaviano era
amico ed estimatore.Se questa lista fosse esatta il primo anno della Repubblica risalirebbe al 509; Valerio e
Orazio sarebbero stati consoli nel 449 (leges Valeriae et Horatiae de provocatione); Roma sarebbe stata
incendiata dai Galli nel 390.
Queste indicazioni hanno però un valore puramente convenzionale: esse sono sufficienti a delineare lo sviluppo
degli eventi nell'ambito limitato della storia romana arcaica, ma sarebbero del tutto inutilizzabili se si volesse
stabilire un rapporto cronologico tra fatti della storia romana e fatti della storia greca contemporanea.
Pol.1.6: Incendio Gallico:
19 anni dopo Egospotami = 405-19=386 a.C.
16 prima di Leuttra = 371+16=387 a.C.
stesso anno della pace di Antalcida=387 a.C.
stesso anno della battaglia di Elleporo=387 a.C.
Polibio
Fondazione
di Roma
751/50 a.C.
a.Ol. 7,2
Diodoro
751/50 a.C
a.Ol. 7,2
Livio
750 a.C
Varrone
754 a.C.
Fasti Capi.
752 a.C.
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Dedica tempio
Capitolino
508/7 a.C.
a.Ol. 68,1
507/6 a.C.
a.Ol.68,2
506 a.C.
510 a.C.
Invasione
gallica
387/86 a.C.
a.Ol. 98,2
387/6 a.C.
a.Ol.98,2
386 a.C.
390 a.C.
Inizio guerra
con Pirro
281/80 a.C.
a.Ol. 124,4
280 a.C.
280 a.C.
509 a.C.
390 a.C.
280 a.C.
Ma ormai le vecchie date sono state in uso per tanto tempo che non si potrebbero abbandonare senza creare
grosse disfunzioni: l'importante è tenere presente il loro carattere di convenzione.
Al di sopra delle varianti introdotte nelle liste degli annalisti o dei cronografi per motivi più o meno giustificati,
sta il fatto che il numero dei collegi degli eponimi è, in tutte le liste, identico o differisce al più di uno; è evidente
dunque che tutte le redazioni risalgono ad una lista di eponimi che esisteva già nel III sec. a.C., e cioè prima dei
più antichi annalisti. Di questa lista la critica moderna più autorevole si trova concorde nel riconoscere la
sostanziale genuinità.
Questa è la cosiddetta cronologia lunga accanto alla quale convivono una cronologia media e una cronologia
corta.
La cronologia media è rappresentata soprattutto da Livio il quale omette gli anni dittatoriali e alcuni dei collegi
consolari più antichi; secondo questa cronologia la fondazione della repubblica sarebbe avvenuta nel l'anno 506,
il consolato di Valerio e Orazio nel 443 e l'incendio gallico nel 386.
La cronologia corta rappresentata da un ignoto dotto di cui si servì Diodoro Siculo omette gli anni dittatoriali e
l'anarchia è ridotta ad un solo anno per cui la Repubblica avrebbe avuto inizio nel 502-501; il consolato di
Valerio e Orazio fu del 441; l'incendio gallico del 381.
Ricostruire la lista autentica è praticamente impossibile; tuttavia la cronologia corta è quella che più di tutte si
avvicina al vero. Infatti è impossibile credere che l'anarchia sia durata 5 anni; una crisi così prolungata avrebbe
provocato la distruzione della repubblica da parte dei suoi vicini.
Decisamente assurda è poi l'idea degli anni dittatoriali; sappiamo che il dittatore durava in carica 6 mesi, e i suoi
poteri gli derivavano dalla delega di uno dei due consoli; scaduto l'anno consolare, sarebbero anche cessati i
poteri del dittatore.
Infine la data dell'incendio gallico al 381 sembra confermata da un sincronismo con la storia greca: Dionisio I di
Siracusa, mentre era impegnato in operazioni militari nell'Italia meridionale, cioè tra il 382-380, ricevette
ambasciatori di quei Galli che qualche mese prima avevano incendiato Roma (Iust., 20.5.4, attraverso varie fonti
intermedie risale a una buona tradizione greca; vd. Pol., 1 .6).
Ma perchè queste falsificazioni? Mentre non possiamo spiegare perchè fu inventata la cronologia lunga, per
quanto riguarda la media possiamo supporre che le date del IV sec. siano state anticipate di qualche anno perchè
la maggioranza degli storici greci e latini era convinta che l'incendio gallico risalisse al 386 (fea essi anche
Polibio).
All'inizio del IV sec. Roma era sì la città più importante del Lazio ma, dal punto di vista delle maggiori poleis
italiote o siceliote, era un'entità trascurabile. La notizia importante per gli storici greci dell'epoca non era dunque
l'incendio di Roma come fatto in sè, perchè questa era una delle tante città saccheggiate dai Galli, ma l'ingresso
dei Galli in Italia; e questo deve essere stato l'evento di cui si parlava nelle fonti più antiche. Probabilmente la
maggioranza degli storici antichi supponeva che l'invasione della penisola e l'incendio di Roma risalissero allo
stesso anno; ma ciò è impossibile perchè i nuovi venuti dovettero impiegare parecchio tempo per attraversare la
Valle Padana e l'Etruria, ove assediarono ed espugnarono molte città, alcune delle quali si difesero molto
tenacemente. Almeno uno degli autori romani aveva un'idea chiara della situazione: Cornelio Nepote, infatti,
calcolava un intervallo di 6 anni tra l'arrivo dei Galli a Melpum=Mediolanum e il loro attacco a Roma.
In conclusione quindi, le indicazioni della cronologia lunga usate per tradizione a proposito della storia romana
arcaica, sono puramente convenzionali; volendo avvicinarsi alla realtà, si dovrebbero abbassare di circa 8 anni
tutte le date dall'inizio della repubblica ai primi decenni del IV sec., e di circa 4 anni le date dal 371 al 334. In
seguito il margine di errore diminuisce gradatamente, man mano che si sorpassano gli anni dittatoriali; e, dal 300
in poi la cronologia dei Fasti Capitolini e quella reale coincidono.
Abbiamo ancora da vedere la redazione degli annali: il Pontefice Massimo come esponente principale della
gerarchia sacerdotale, ogni anno registrava sotto il nome dei consoli i fatti più notevoli. All'esterno della sua
residenza, la regia, veniva esposta una tavola = tabula dealbata sulla quale erano riportati avvenimenti di varia
portata e significato.
Di questo possiamo renderci conto attraverso Catone il Censore che afferma di non voler scrivere storia al
modo delle tavole imbiancate dei pontefici, perchè queste contenevano notizie di scarso interesse per lo storico
vero, dal prezzo dei cereali alle eclissi.
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Ricopiando ogni anno il contenuto della tavola, il pontefice massimo formava gli Annales Maximi di cui ci dice
Cicerone ricordando il valore delle notizie in essi contenuti. Evidentemente gli Annales Maximi venivano
ampliati rispetto alle tavole imbiancate con materiale tratto anche dagli scrittori greci e in parte da notizie cui i
pontefici, essendo membri della classe dirigente, potevano accedere con facilità.
Nel 130 a.C. il Pontefice Massimo P. Mucio Scaevola interruppe la redazione della cronaca e fece pubblicare
tutti gli annales in 80 Volumi, con il Titolo di Annales Maximi in quanto appunto erano stati redatti dai
Pontefici Massimi. Di tali annales purtroppo non ci è pervenuto alcun frammento consistente, ma solo qualche
citazione. Essi però dovettero essere fonte copiosa di notizie per gli annalisti e per gli storici della repubblica e
del primo impero; è certo che contenevano un'ampia elaborazione dei dati tradizionali, come ad es. almeno due
versioni sulle origini di Roma. Erano dunque un'esposizione ampia della tradizione nazionale romana.
Sullo schema costituito dagli annales lavorarono uomini nutriti di lettere greche i quali ampliarono e
arricchirono queste scarne cronache servendosi anche delle tradizioni familiari e delle orazioni che in occasione
della morte di qualche loro membro, le gentes recitavano durante le esequie fissandovi i fatti salienti del casato
o del defunto e che venivano chiamate laudationes funebres; poi, sul marmo, venivano incisi gli elogia; inoltre
dei carmi conviviali.
Di questi ultimi abbiamo notizia da Cicerone il quale cita un brano di Catone dove si parlava dell'uso, ormai
decaduto al suo tempo, di cantare nei banchetti le imprese degli uomini degni di ricordo: il fatto che già Catone li
considerasse desueti, dimostra che una generazione prima, al tempo di Fabio Pittore, essi non potevano avere
avuto una utilizzazione così ampia come i romantici per primi sono stati indotti a credere; si deve poi aggiungere
che l'uso dei carmi conviviali non sarebbe certo rappresentativo di una tradizione popolare: essi erano tipici
infatti della società aristocratica romana.
L'altra componente di rilievo della documentazione indigena, cioè la tradizione che le grandi famiglie senatorie
conservavano della loro storia era il ricordo delle vicende dei clan familiari; le famiglie più importanti, che
potevano vantare antenati illustri, esponevano negli atri delle loro case le immagini di questi antenati: la società
aristocratica era fondata sulla continuità. Questa documentazione familiare, e la sua critica da parte degli
inizialmente pochi esponenti di famiglie non illustri che riuscirono a spezzare il monopolio politico
dell'aristocrazia (gli uomini nuovi, come Catone), costituisce uno dei filoni di rilievo dell'evoluzione della
storiografia romana.
Dunque la tradizione romana era caratterizzata soprattutto da una componente aristocratica e fortemente
politicizzata; senatori erano i pontefici che tenevano gli annali, senatorie erano le famiglie che avevano interesse
a conservare e raccontare la loro storia; aristocratica era, infine, anche la componente popolare della tradizione, i
carmi conviviali.
Con la sua decisione di scrivere storia, e di scriverla per scopi politici, Fabio Pittore, e ritorniamo a lui come
massimo esponente della I annalistica, ottenne un altro non trascurabile risultato: nel momento stesso in cui ne
iniziava la laicizzazione egli manteneva infatti l'attività storiografica nelle mani della classe dirigente; questa da
allora continuò a scrivere la propria storia.
Le esigenze propagandistiche della classe dirigente romana produssero parecchi travisamenti nella ricostruzione
delle vicende più antiche.
Gli annalisti utilizzarono queste varie informazioni seguendo criteri tipici degli scrittori antichi:
1- o facendo leva sull'orgoglio nazionale e gentilizio;
2- o tenendo presente la situazione politica del momento;
3- oppure ritenendo realtà quella che è soltanto verosimiglianza.
1- Es: di fatti narrati per orgoglio nazionale: Polibio 2,20, parlando delle guerre tra Roma e i Galli, attinge
quasi sicuramente dal più antico annalista Fabio Pittore, e non nasconde le sconfitte subite dai Romani,
giungendo a dire che: " Dalle lotte con i Galli i Romani derivarono due grandi vantaggi: dopo avere provato ad
essere battuti dai Galli, non potevano aspettarsi nè prevedere nulla di più terribile di quanto era loro accaduto:
contro Pirro in seguito a ciò poterono schierarsi come campioni invitti in battaglia mentre avendo spezzato
tempestivamente l'ardire dei Galli, potevano poi senz'altro impaccio combattere prima contro Pirro per il
possesso dell'Italia, poi contro i Cartaginesi per il possesso della Sicilia".
Ma la seconda annalistica non ammetterà più tali riconoscimenti, come il confessare di essere stati sconfitti,
ringraziando anche per il salutare effetto.
Appiano e la tradizione liviana, che hanno attinto a questa più tarda annalistica, testimoniano questa profonda
trasformazione dovuta a crescente orgoglio nazionale. In questo caso la testimonianza da preferire è quella di
Polibio.
Es. di orgoglio gentilizio: esso alimenta alcuni momenti della storia romana: in un periodo determinato della
storia più antica, nessun fatto avviene a Roma se non per opera dei Fabii (Fabio Pittore apparteneva a questa
famiglia); in un'altra sezione si distinguono specialmente i Valerii ( certo Valerio Anziate avrà sottolineato
specialmente le gesta dei membri della famiglia alla quale egli stesso apparteneva).
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2- Es. di situazione politica del momento: il giudizio sulla medesima persona può risultare opposto perchè
cambia il punto di vista propriamente storico. Velleio Patercolo che scrive sotto Tiberio, dice che L. Domizio
Aenobarbo, nonno di Nerone era vir eminentissimus, e suo figlio Gneo, padre di Nerone, clarissimus iuvenis.
Anche Seneca il Vecchio esprimeva giudizi sullo stesso tono.
Svetonio, che scrive invece nell'età di Traiano-Adriano, quando ormai la storiografia di ispirazione senatoria
aveva già espresso un giudizio negativo sui principi Giulio-Claudi, afferma che il nonno di Nerone era arrogans
e il padre detestabilis. Dopo Nerone dunque il dir male di lui e di tutti i suoi antenati era diventato un luogo
comune.
3- Es. di verisimiglianza: le invenzioni e amplificazioni degli storici latini in onore di Roma e dei nobili casati,
sono di solito verosimili e razionali, ma ciò non significa che siano vere. L'episodio dei Fabii al Cremera (305
uomini in guerra privata a difesa dello stato e dei loro possedimenti contro Veio) ne è un esempio.
Tutti gli storici antichi non si occuparono di come il loro popolo viveva in pace; l'interesse era rivolto ai
momenti cruciali, ai grandi mutamenti; questi potevano essere: migrazioni, colonizzazioni, commerci, ma di
fatto, data la configurazione del mondo antico, la politica estera, anche se esplicata con ambascerie, trattati, patti,
confederazioni, finiva quasi sempre per fallire e terminare in guerre offensive o difensive.
Oltre alla storia delle guerre vi è tuttavia la storia degli altri popoli; l'aspetto etnografico finì per affiancarsi
all'aspetto bellico.
Dopo Q. Fabio Pittore, L. Cincio Alimento, esponente invece dalla nobiltà plebea, ne seguì l'esempio; fu
pretore nel 210 e fatto prigioniero da Annibale durante la II punica; Gaio Acilio fu senatore e interprete presso la
curia in occasione dell'ambasceria dei filosofi greci a Roma nel 155; Aulo Postumio Albino, console nel 151 e
ambasciatore in Grecia nel cruciale anno 146, l'anno della distruzione di Corinto, scrissero tutti annali in cui si
dava ampio spazio al periodo delle origini e della monarchia; evidentemente utilizzarono il materiale greco, poi
trattarono rapidamente i primi secoli della repubblica, per ampliare nuovamente la narrazione man mano che si
avvicinavano all'età contemporanea.
Il periodo centrale era il più povero di documentazione: le tradizioni nazionali, la registrazione schematica degli
avvenimenti sia in ambito pontificale sia familiare, non potevano bastare a riempire un vuoto documentario; esso
sarà poi riempito dalla II annalistica di cui parleremo dopo.
Fu nel corso del III sec., con la conquista della Magna Grecia, che operarono a Roma autori come Livio
Andronico che introdusse le grandi opere della letteratura greca adattandole alla cultura romana, e Nevio che,
con la stesura del poema sulla seconda guerra punica, alla fine del III sec. rappresentò una tendenza
antiaristocratica che gli costò la prigione.
Il passaggio dalla storiografia in greco a quella in latino avvenne ad opera di Catone il Censore il primo ad
adottare la sua lingua per un'opera di storia.
Alla produzione in lingua greca Marco Porcio Catone volle opporre una storia romana di spirito e di lingua.
Era di origine italica, nato da una famiglia agiata di proprietari di Tusculum che riuscì a raggiungere le più alte
cariche politiche: nel 195 fu console e nel 184 censore.
Avversario degli Scipioni e delle correnti filoelleniche che essi patrocinavano, Catone concepì l'attività letteraria
in funzione delle sue posizioni politiche. Per questo egli compì il passo di scrivere in latino e,
contemporaneamente, di rompere almeno in parte lo schema storiografico dell'annalistica in greco allora
dominante. Compose le sue Origines riguardo alle "origini" delle città italiche e all'etnografia di Liguri,
Etruschi, Galli e Veneti rivendicando l'importanza della componente italica nelle vicende dello stato romano.
Passava poi alla storia degli avvenimenti recenti, mentre per il passato ricordava solo i fatti di maggior
importanza; esaltava la stirpe italica in lotta contro Cartaginesi e Greci. La polemica con i suoi avversari politici
e culturali era evidente nella sua scelta di non nominare i protagonisti delle vicende narrate: questi, fin troppo
propagandati nella letteratura senatoria, non contavano di fronte al popolo romano nel suo complesso, e alle sue
virtù; un'altra risposta dell'uomo nuovo all'orgoglio dell'oligarchia dominante.
Tuttavia Catone era un uomo complesso; la sua attività politica come le sue vicende personali non furono sempre
coerenti con il personaggio: nemico del lusso degli aristocratici, egli trovò modo di arricchirsi, tentando poi di
nasconderlo; nemico politico della civiltà greca, egli ne fu in realtà profondamente influenzato. Di questa opera
rimangono però soltanto 143 frammenti pervenutici in via indiretta. Resta di lui invece l'opera De Agricultura,
he è un quadro della situazione agricola dei suoi tempi. Catone non ebbe continuatori in lingua latina.
Sia la prima annalistica in lingua greca sia l'annalistica di transizione (II annalistica) di età graccana (di fatto
antigraccana), e sia infine l'annalistica di età sillana (III annalistica), furono tutti prodotti tipici della cultura
aristocratica. Anche se non erano sempre i nobili a scrivere storia, tuttavia chi scriveva agiva nell'interesse e per
conto del committente e patrono di cui era cliente.
All'età graccana, II sec. a.C., apartengono Cassio Haemina, L. Calpurnio Pisone Frugi, C. Sempronio
Tuditano e altri che scrissero tutti in latino. Di loro ci restano pochi o pochissimi frammenti da cui si può notare
la sobrietà nello stile che li avvicina ai più antichi annalisti e la tendenza a distinguere, nel complesso dei dati
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raccolti, quelli storici da quelli leggendari. Era caratteristica di questa annalistica occuparsi anche di diritto
pontificale o pubblico. Pur scrivendo nell'età dei Gracchi, quando questi denunciarono i sistemi oligarchici e
presentarono i problemi sociali prima non considerati, la storiografia contemporanea si trovò concorde con la
nobilitas nel biasimo per la loro rivoluzione fallita. Contro di loro si pose Lucio Calpurnio Pisone Frugi,
console nell'anno 133, l'anno del tribunato di Tiberio Gracco e suo avversario politico; di lui era nota la probità
morale che gli valse appunto l'appellativo di Frugi, cioè "galantuomo". Con lui si preparava una ulteriore fase
della storiografia annalistica, che sarà influenzata dagli accesi contrasti esplosi nella classe dirigente per effetto
del programma graccano. Gaio Sempronio Tuditano fu esperto uomo politico e valente condottiero; nella sua
opera tenne presente gli istituti giuridici e in particolare il diritto costituzionale romano.
Fuori dallo schema della annalistica scrisse una monografia sul Bellum punicum Lucio Celio Antipatro. Era
questo il primo esempio latino di un trattato storico che affrontava un breve, limitato periodo: la guerra
annibalica. Ormai lontana di un sec. fu scelta come oggetto di studio con uno scopo: Antipatro, come denuncia il
suo nome, era di origine orientale e la guerra punica gli serviva per mostrare le origini dell'imperialismo romano
che portò Roma a conquistare tutto il bacino del Mediterraneo.
Anche le Res Gestae di Sempronio Asellione si staccavano dalla traccia annalistica; gli avvenimenti narrati
erano quasi tutti contemporanei alla vita dello scrittore che, educato all'ombra di Scipione Emiliano, scrivendo la
sua storia fra il 134-91 a.C., volle dimostrare quale perdita fosse stata l'immatura morte dell'Emiliano, e quali
rivoluzioni lo stato dovette di conseguenza subire.
L'età sillana, che vide in pericolo l'esistenza stessa di Roma per opera degli Italici, ebbe storie di notevole rilievo
fra le quali emergono gli annales di Q. Claudio Quadrigario e di Valerio Anziate; sono pure da ricordare C.
Licinio Macro, tribuno della plebe nel 73 e Q. Elio Tuberone, contemporaneo di Cicerone che scrisse delle
historiae dalle origini all'età sua. Si tratta della cosiddetta III annalistica Gli annales di Quadrigario e di Anziate
prendevano le mosse dalla fondazione della città fino alla morte di Silla Dei loro scritti ci è pervenuto
pochissimo. E' opinione diffusa che essi ebbero la tendenza a sacrificare la verità storica all' orgoglio nazionale
e gentilizio. Ma, se il giudizio si adatta a Valerio Anziate, non vale invece per gli altri. Claudio Quadrigario,
Valerio Anziate e Elio Tuberone si ispirarono ai tradizionali canoni nobiliari e rappresentarono l'ideologia
ottimate, pur nella distinzione fra i grandi gruppi gentilizi; Licinio Macro, mentre cercò le notizie nelle più
antiche documentazioni, dice infatti di avere consultato i libri lintei, conformemente alla tradizione della sua
gente, si ispirò, nella ricostruzione storiografica, all'ideologia popolare.
Mentre ancora l'annalistica era la produzione caratteristica della storiografia romana, il 22 Giugno del 168 a.C.
il console L. Emilio Paolo vinceva la battaglia di Pidna. La lega achea denunciava allora coloro che si erano
rifiutati di appoggiare le armi romane: tra questi c'era Polibio, destinato così all'esilio, ma al tempo stesso ad
avere la prima rivelazione della grandezza di Roma e della disfatta della Grecia.
Pressochè contemporaneo di Catone, Polibio poneva il problema dell’imperialismo romano, divenuto centrale
nella prima metà del II sec. a seguito della rapida espansione successiva alla vittoria su Cartagine; in quegli anni
Roma conquistò, in tre successive campagne la Macedonia e la Grecia, condusse una guerra vittoriosa contro il
re di Siria Antioco III, combattè in Spagna e di nuovo in Africa, dove, nel 146 distrusse Cartagine.
Alla fine di questo processo di espansione la città si trovò a controllare direttamente alcuni nuovi territori ridotti
a provincia, la Macedonia, la Grecia, l’Africa e, poco dopo, l’ex regno di Pergamo (= prov. D'Asia), e a
dominare su tutto il Mediterraneo.
Polibio fu direttamente coinvolto in queste vicende. Nato a Megalopoli in Acaia, poco prima del 200, figlio di
Licorta uno dei capi della lega Achea , ricopriva la carica di capo della cavalleria nel 170/169, quando Lucio
Emilio Paolo, legato agli Scipioni, andò a combattere il re di Macedonia Perseo, vincendo a Pidna nel 168.
Gli stati greci in questa complessa guerra suscitarono il sospetto dei romani col loro atteggiamento, e per questo i
vincitori trasferirono in Italia un migliaio di ostaggi, fra i quali Polibio.
Lo scrittore fu introdotto nella famiglia degli Scipioni dove divenne amico dell’allora diciottenne Emiliano,
destinato a diventare uno dei protagonisti della politica romana nei decenni seguenti.. Uomini di cultura e al
centro della vita politica, gli Scipioni furono per Polibio una opportunità preziosa; ebbe la possibilità di
intraprendere viaggi in Italia, Spagna e Africa, di attraversare la Gallia Narbonense e le Alpi, di visitare la Gallia
Cisalpina e di arrivare fino all’Oceano. Con un viaggio ad Alessandria potè conoscere la vita dell'Egitto; seguì
Scipione all'assedio di Numanzia. Quando, vinta la resistenza di Catone, nel 150 gli fu permesso di tornare in
Grecia, ne ripartì quasi subito; vi ritornò ancora nel 146 quando la distruzione di Corinto compiuta dai romani,
pose il problema della pacificazione: lo scrittore ebbe in questa un ruolo importante, che gli fu riconosciuto in
Acaia con l'erezione di statue. Vissuto fino al 120 circa, morì ultraottantenne, dopo avere visto anche la fase
della vita politica romana, dominata dai contrasti sociali prodottisi per l'attività dei Gracchi.
Polibio ebbe come problema fondamentale la creazione dell'impero, che aveva toccato profondamente la sua vita
e aveva mutato il corso della storia nazionale ellenica. A seguito di questi avvenimenti, egli scrisse,
nell'introduzione del I libro, che non è più possibile scrivere la storia dei singoli stati, poichè con essa non si
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colgono i nessi che legano ormai tutti i fatti storici: la formazione dell'impero romano va vista in una prospettiva
di storia mondiale.
Dichiarò di scrivere una storia pragmatica, rivolta alla conoscenza della politica e della guerra, e polemizzò
con quanti attribuivano agli dei le cause delle vicende umane. Il suo racconto volle essere universale e quindi
abbracciare tutti i popoli della terra. Ma, tentando un'impresa del genere dopo Eforo, non scrisse storia greca,
bensì una storia multietnica dei popoli che erano venuti in relazione o in conflitto con Roma.
Polibio si oppose alla concezione della storia come opus oratorium, dichiarò di rifiutare la storia drammatica,
per ricercare le cause di ogni fatto storico, allo scopo di stabilire la verità, in modo che se ne potesse trarre un
insegnamento; sono questi i motivi di una parte della storiografia greca, cui si aggiunge un altro elemento, la
presenza della fortuna: questa presiedette al successo di Roma, ma il suo ruolo rimane ambiguo; il suo intervento
è richiesto a spiegare ciò che é inspiegabile, ma non per questo irrazionale. Per questa valutazione Polibio
disponeva dell'esperienza culturale dei greci. Questi avevano elaborato un'ampia discussione sull'imperialismo e
sulla sua legittimità, in relazione alla osservazione della nascita, crescita e decadenza degli imperi che si era
svolta sotto i loro occhi, dall'impero persiano, alla successione delle egemonie in Grecia, all'impero di
Alessandro Magno. Il pensiero filosofico, a partire da Platone e Aristotele, aveva discusso sulla forma migliore
di stato, quella che, perfetta, potesse evitare la decadenza; il problema per i greci era, dunque, soprattutto
costituzionale e morale: la giustificazione della supremazia di uno stato dipendeva dalla bontà dei suoi
ordinamenti.
Applicando questi principi alla realtà romana e alla situazione che aveva personalmente conosciuto, Polibio potè
dare la risposta: l'impero romano , il più vasto fra quelli fino ad allora esistiti, sorto nel giro di pochissimo
tempo, traeva la sua forza dalla sua costituzione mista, la stessa valorizzata da Aristotele e dalla sua scuola; essa
si fondava sull'equilibrio delle tre fondamentali forme di governo, la monarchia, l'aristocratizia e la democrazia.
In Roma l'elemento monarchico era rappresentato dai consoli, quello aristocratico dal senato, quello democratico
dalle assemblee popolari.
Tuttavia nello stesso lib. VI in cui descrisse il governo romano, Polibio introdusse un'altra considerazione di
carattere generale, collegata alla teoria costituzionale dei greci: ogni tipo di governo inevitabilmente decadeva,
secondo una vicenda ciclica, una volta raggiunto il momento di maggior perfezione. Il maggior equilibrio della
costituzione mista ne assicurava il migliore e più lungo funzionamento, rispetto alle altre costituzioni , ma la
prevalenza in essa di uno degli elementi ne procava inevitabilmente la disgregazione.
Per Polibio, nella vicenda degli stati, simile a quella dell'uomo, il momento di maggiore splendore (cui segue,
come nell'essere vivente, la decadenza) coincideva con la prevalenza dell'elemento aristocratico, cioè, in pratica,
con il governo del senato. Per questo nello scontro tra Roma e Cartagine la prima aveva un vantaggio
fondamentale: il senato romano era il vero organo di governo, mentre in Cartagine, anch'essa retta da una
costituzione mista, era divenuta ormai predominante l'assemblea popolare.
L'opera è in 40 libri: i primi due contengono un'introduzione e riassumono gli avvenimenti compresi tra il 265,
inizio della prima guerra punica, fino al 220. Gli altri 38 libri raccontano i fatti compresi tra il 221 e il 146,
dall'inizio della II guerra punica alla caduta di Cartagine e di Corinto.
Dal lib.7 la narrazione segue un criterio annalistico e riferisce gli avvenimenti accaduti nel giro di un solo anno
nelle diverse parti del mondo.
Tre libri 6, 12 e 34 hanno un contenuto specifico:
6 - istituzioni di Roma;
12 - criteri seguiti nella composizione dell'opera;
34 - descrizione dei paesi vinti da Roma in tutto il bacino del Mediterraneo;
40 - questo libro contiene un riepilogo generale.
Ci sono giunti completi soltanto i primi 5 libri; larghi estratti dal 6 al 18; degli altri solo frammenti.
Polibio dichiara di voler narrare come nel breve volgere di 53 anni, dal 219 al 167 a.C., Roma sia riuscita ad
unificare tutti i popoli del Mediterraneo sotto il proprio dominio, e ammira la nuova potenza, sebbene rimpianga
l'antica libertà greca.
Vede e comprende su quale base poggi la gloria di Roma. Egli vuole convincere i contemporanei greci che
Roma merita di essere la signora del mondo.
Mentre l'annalistica era legata allo schema che sarà poi quello di Livio, di incominciare ab urbe condita, le
Historiae, trattavano un avvenimento o una serie di avvenimenti vicini o addirittura contemporanei. Si dedicò a
questo genere Lucio Cornelio Sisenna le cui historiae raccontavano le movimentate vicende della guerra
marsica e giungevano fino alla morte di Silla.
Con il primo consolato di Pompeo 70 a.C., il clima culturale venne a mutare. L'aristocrazia avvertì l'impossibilità
di tenere da sola la responsabilità della repubblica e aprì le porte anche a gente nuova: esempio tipico di homo
novus fu Cicerone. Ma questi, come gli rimproverava Cornelio Nepote, non scrisse mai di storia; per noi però
resta fonte essenziale per gli anni cruciali dell'ultimo periodo della repubblica.
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M. Tullio Cicerone nato ad Arpino nel 106 a.C. da una famiglia di notabili municipali, fu un personaggio
complesso vissuto in un momento difficile; la sua lunga milizia politica e la sua produzione letteraria presentano
aspetti sconcertanti. Incoraggiato da alcuni esponenti dell'oligarchia senatoria intraprese la carriera forense e,
attraverso questa, si dedicò alla politica.
Le sue orazioni accompagnano lo svolgersi degli avvenimenti da Silla al II triumvirato e, insieme con
l'epistolario, sono documento fondamentale per questo periodo. Le opere filosofiche (De officiis, De natura
deorum ecc...) e quelle di contenuto politico (De republica e De legibus) interessano per avere un quadro della
concezione politica ciceroniana. Le teorie di governo ciceroniane, benchè mutuate largamente da fonti greche,
tenevano certo conto della realtà politica romana, ed ebbero notevole influenza nel dare al principato, tramite
l'immagine del governo del migliore fra i senatori (che era nella tradizione repubblicana), quella che sarebbe
stata la base ideologica e propagandistica di esso.
Compose opere nell'ambito della storia pompeiana, Marco Terenzio Varrone, non propriamente storico ma
erudito e filologo, ricercatore degli antichi usi e costumi, delle leggende e della religione, della lingua e delle
scienze, della letteratura e delle arti. Varrone sostenne la causa di Pompeo combattendo con lui contro gli Iberi, i
pirati e Cesare, dal quale fu poi nominato bibliotecario.
Scrisse le Antiquitates, enciclopedia storica delle istituzioni e dei costumi romani; il De gente populi romani
riguardante la preistoria della stirpe da cui è disceso il popolo romano,e ancora il De vita populi romani, storia
del costume, che informava sulle istituzioni giuridiche, economiche, sociali, religiose degli antichi romani, con
nozioni sulla edilizia, vitto, abbigliamento, milizia, spettacoli, moneta e sepolture.
Della sua opera quasi tutto è perduto; si conservano soltanto i 3 libri De re rustica e una parte del De lingua
latina. Di tutte le altre opere solo pochi frammenti e, a volte, solo il titolo.
Fra gli storici di parte pompeiana è poi da ricordare Cornelio Nepote di cui ci è giunta, solo in parte, una sola
opera il De viris illustribus: vasta raccolta biografica che comprendeva diverse sezioni: condottieri, re, giuristi,
letterati, storici; è rimasta integra solo la raccolta delle vite dei condottieri stranieri: 19 personaggi greci, uno
persiano e 2 cartaginesi. Sono presenti Milziade, Amilcare e Annibale. Esistono poi 2 vite di storici latini:
Catone il Censore e T. Pomponio Attico.
Quest'ultimo ebbe come specialità le indagini genealogiche e cronologiche: scrisse un Liber annalis dove era
ricostruita tutta la cronologia di Roma dalla fondazione della città fino ai suoi tempi. Questa è la cronologia che
la tradizione ha accolto.
Fra gli storici pompeiani bisogna ricordare anche Posidonio di Apamea di Siria, il quale visse a Rodi, dove
insegnò la filosofia stoica secondo le linee del suo maestro Panezio, di cui fu scolaro anche Cicerone. Compì
viaggi in Gallia, Spagna, Italia settentrionale, Egitto e altre regioni africane. Scrisse una monografia su Pompeo e
delle storie perdute che andavano dal 146 a.C., anno in cui si era fermato Polibio, fino alla dittatura di Silla, 86
a.C. Delle sue digressioni geografiche ed etniche sui costumi dei popoli fecero tesoro Cesare, Livio e Tacito per
i Galli e per i Germani. Posidonio si dichiara favorevole al governo del senato, l'unico capace di operare
nell'interesse generale. Per questo la situazione dell'impero si era mantenuta buona fino alla conquista di
Cartagine, quando all'esercizio della virtus disinteressata si sostituì l'avidità, tipica dei cavalieri, finanzieri e
appaltatori dei tributi provinciali. Le contese sociali fomentate da questi e dai Gracchi assumono dunque, per lo
storico Posidonio, una connotazione estremamente negativa: è la condanna morale di un movimento politico
d'opposizione all'aristograzia senatoria, che ritorna nel pensiero storico e filosofico greco influenzato dal contatto
con questa. Il giudizio di Posidonio sulla funzione e legittimità del dominio romano dipende dunque dalla sua
visione etico-politica. Pur ammettendo che i Romani usavano una politica di perfidia e di crudeltà, riconosceva
che senza di loro non vi sarebbe stata pace nel mondo; il dominio romano era poi legittimato dall'adesione dei
sudditi che poteva ottenersi soltanto con un governo equo.
Gli anni successivi a Mario e Silla furono dominati ancora dalle guerre civili e dalla lotta per la supremazia fra
Cesare e Pompeo e videro accentuarsi la crisi dello stato repubblicano e dei suoi valori.
Nell'ambito di una produzione letteraria assai varia emersero alcune forti personalità, interpreti e protagonisti di
quella crisi. Alla letteratura memorialistica si può ricondurre in primo luogo Cesare.
G. Giulio Cesare, conquistatore della Gallia, ha lasciato il racconto di queste sue imprese nel De bello gallico
in 7 libri che comprendono i 7 anni di guerra dal 58-52 a.C. Vi si narrano le campagna contro gli Elvezi,
Ariovisto, i Belgi e le popolazioni atlantiche; il primo contatto con i Germani e le due spedizioni in Britannia; la
vittoria sugli Eburoni e, da ultimo, su Vercingetorige capo degli Arverni che si era posto alla testa di una
sollevazione generale. Assediato ad Alesia il capo gallico fu vinto. Queste imprese sono narrate in III persona
sotto forma di diario o commentario derivato dagli appunti che Cesare scriveva per preparare il resoconto da
presentare come proconsole al senato.
In essi è presente uno studio etnografico accurato.
Un generale di Cesare Aulo Irzio aggiunse poi un VIII libro per completare la narrazione degli ultimi due anni
51-50 a.C. in cui si conclusero le campagne galliche e si prepararono i prodromi della guerra civile.
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Dopo la guerra giusta venne, con il passaggio del Rubicone, la guerra di una fazione politica contro l'altra, di una
parte del popolo contro l'altro.
Cesare sapeva che la guerra condotta nel 49-48 per terra e per mare contro Pompeo e il senato non trovava tutti
concordi. In questa seconda opera non sono presenti gli elementi interessanti della prima, e lo scopo dell'opera è
quello di scagionare Cesare dalla colpa di essere stato la causa della guerra fratricida.
Rimangono senza volto gli autori o l'autore del De bello Alexandrino fino al 47, De bello Africano fino alla
battaglia di Tapso del 46, De bello Hispaniensi fino alla battaglia di Munda del 45.
Fra i meriti di Cesare ci fu quello di aver reso di pubblico dominio i verbali delle sedute del Senato. La mossa
rispondeva a un preciso dettame politico: far conoscere la posizione che i singoli senatori prendevano in
determinate delibere, evitando così che si trincerassero dietro la segretezza d'ufficio. Gli acta diurna sono
quindi la pubblicizzazione di ciò che fino ad allora il ceto senatorio aveva trattato con somma riservatezza.
Infranto il muro del silenzio, la gestione della cosa pubblica veniva a conoscenza di tutti.
Fra gli scrittori cesariani si leva sugli altri uno storico che fece della polemica anti-aristocratica la sua bandiera:
Gaio Sallustio Crispo. Nato ad Amiternum nella Sabina nell'86 a.C., tribuno della plebe nel difficile 52, l'anno
dell'uccisione di Clodio e del consolato eccezionale di Pompeo, fu espulso dal senato, pare per indegnità morale,
nel 50. Tornò alla ribalta dopo la vittoria di Cesare, al quale fu sempre legato e da lui fu nominato al delicato
incarico di governatore della provincia d'Africa Nova, formata dall'ex regno di Numidia. Morto Cesare nel 44, si
ritirò a vita privata per dedicarsi alla storiografia. A lui sono attribuite un'Invectiva in Ciceronem e due
Epistulae ad Caesarem. Scrisse due monografie: il De coniuratione Catilinae e il De bello Iugurthino. La
prima narra gli avvenimenti del 63, l'anno del consolato di Cicerone e del colpo di stato tentato da Catilina. Qui è
interessante il proemio in cui si delinea una storia del genere umano. La seconda affronta il tema della guerra
condotta dal popolo romano, fra il 111 e il 105, contro Giugurta. Si trattava però di un pretesto per smascherare
un'altra guerra, quella interna del popolo che si opponeva alla prepotenza della nobiltà senatoria, quella stessa
che aveva combattuto i Gracchi e che ora si era fatta delle imprese militari un monopolio a beneficio dei suoi
appaltatori, avidi di nuovi guadagni. Giugurta con il denaro si era comprato il voto dei senatori e aveva eliminato
dal regno di Numidia i legittimi eredi.
La lotta civile combattuta in Roma fu guidata dal tribuno Memmio, la lotta militare da Mario. Il punto centrale
della sua meditazione storica è la valutazione della storia romana secondo la linea della mitizzazione del passato
e della critica del presente. Il passato fu un periodo felice perchè la classe dirigente romana aveva agito
nell'interesse comune esercitando la virtus. In seguito la concordia tra i cittadini fu sostituita dalla avidità dei
singoli , dalla lotta delle fazioni. Nella sua valutazione di ordine morale è coinvolta anche la parte popolare: così
è criticato Mario, l'homo novus, mentre l'aristocratico Metello è presentato come un uomo di notevoli pregi
personali.
La distruzione di Cartagine del 146 pose fine al metus hostilis che dava coesione e forza all'azione
dell'aristocrazia romana; allora si scatenarono le lotte per il potere, e la ricchezza e la potenza furono tenute in
maggior conto del desiderio di acquistarsi gloria al servizio dello stato.
Purtroppo non ci è pervenuta la voluminosa opera delle Historiae che trattava il periodo 78-67 a.C., dalla morte
di Silla alla guerra piratica. Di essa abbiamo soltanto pochi frammenti dai quali però possiamo cogliere tutta la
passione politica di Sallustio il quale, di parte cesariana, dava un fosco quadro della società pompeiana alla quale
era profondamente avverso.
Storico di grande interesse riguardo agli stessi problemi storiografici di Sallustio, Asinio Pollione scrisse
un'opera, per noi perduta, di Storie riguardanti le lotte civili tra Cesare e Pompeo. A lui si deve la fondazione
della prima Biblioteca pubblica in Roma. Fu in polemica con Cicerone e con Livio accusato di patavinitas,
sostanzialmente di provincialismo.
Con Pollione si chiude la vita della repubblica ormai morente e si entra nella complessa fase di passaggio al
principato, cioè alla fase del dominio di uno solo. Inizialmente fu la storiografia senatoria che reagì in modo
assai critico; ma essa non fu l'unica voce; reali esigenze di un superamento del dramma delle guerre civili e
l'incoraggiamento dato agli intellettuali sensibili a una tematica diversa da quella senatoria diedero al periodo
della nascita del principato una pluralità di voci.
Augusto nel proprio testamento volle immortalare nel marmo le sue imprese: qui mise in luce la sua eccezionale
personalità, le innumerevoli benemerenze acquistate presso il popolo romano e gli onori che durante il suo
lungo dominio gli furono attribuiti.
I 35 capitoli delle Res Gestae svolgono i motivi essenziali di un'esistenza spesa per raggiungere e consolidare il
potere sugli uomini. Figlio di un dio, Augusto si presenta come un essere particolare, capace di compiere tutto
ciò che ai suoi predecessori non era riuscito. Assistito da una prodigiosa fortuna, non c'è impresa che non abbia
condotto a buon fine e non c'è guerra che non abbia vinto.
Con le Res Gestae Augusto provvide alla sua autocelebrazione e ben fece perchè il maggior storico di Roma,
che visse nella sua età Tito Livio, non era certo favorevole al Cesarismo.
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Venuto a Roma da Padova dove era nato nel 59 a.C., Livio si dedicò agli studi retorici e filosofici. Fu un
interprete fedele delle contraddizioni dell'epoca: legato alla visione tradizionale di Roma, fu l'ultimo annalista.
Aveva certamente più simpatia per i tempi andati che per la società contemporanea. Scrisse quindi in 142 libri la
storia di Roma dal 754, fondazione della città, al 9 d.C., anno della morte di Druso; purtroppo è perduta la parte
contemporanea giuntaci solo attraverso riassunti che prestissimo cominciarono a circolare dell'opera imponente,
a uso soprattutto delle scuole. Premessa all'intera opera è una prefazione che contiene il programma
storiografico di Livio.
La responsabilità della presente corruzione, che abilmente Sallustio aveva attribuito alla degenerazione della
nobilitas e del Senato, Livio, seguendo l'indirizzo pompeiano, la imputa invece alla demagogia e al dispotismo
di un Cesare o di un Antonio.
Livio, scrittore nazionalista, concorda con gli ideali dei poeti del circolo di Mecenate: Virgilio, Orazio,
Properzio; tutti questi vogliono fare di Roma la più grande città, la metropoli dell'universo.
Dei 142 libri sono superstiti: i primi 10 e quelli dal 21-45 raggruppati per decadi.
1 decade: narrazione delle leggendarie origini di Roma e sistemazione dell'oscuro periodo monarchico e altorepubblicano; va dal 754 alla fine delle guerre sannitiche 293.
2 decade: è perduta ; è nota solo attraverso riassunti ed epitomi.
3 decade: è la più famosa e narra le vicende della II guerra punica.
4 decade: racconta i fatti compresi tra la II guerra punica e la morte di Filippo di Macedonia (a.179 a.C.).
5 decade: è incompleta e lacunosa; restano solo 5 libri 41-45; comprende gli eventi fino alla cattura del re
Perseo ad opera di L. Emilio Paolo (Battaglia di Pidna a. 168 a.C.).
Le altre 6 decadi ci sono note a mezzo di epitomi, perioche, o riassunti compilati da abbreviatori e più tardi
storici di Roma come Floro, Eutropio, Rufio Festo, Giulio Ossequente, Orosio.
Livio utilizzò come proprie fonti gli annalisti precedenti (soprattutto quelli della II annalistica di età graccana),
ricorrendo al metodo di mettere a confronto le varie versioni dove queste fossero discordanti, e talvolta
intervenendo con un tentativo di critica personale.
Per la parte delle guerre puniche e orientali, Polibio costituì la base del racconto per la riconosciuta superiorità
dello storico greco come fonte per il periodo.
L'ampio disegno dello storico patavino non poteva che piacere ad Augusto: la monumentale glorificazione del
passato di Roma, l'intonazione moralistica ben si adattava all'ideologia restauratrice del principato.
Ma in questa interpretazione Livio è ancora legato alla visione repubblicana, per quanto è possibile decidere in
assenza della narrazione degli avvenimenti dell'ultimo secolo. Ammiratore di Cicerone e Pompeo, critico nei
confronti di Cesare, estimatore di Bruto e Cassio, egli espresse nell'introduzione dell'opera la preoccupazione per
la decadenza dei costumi fino ai suoi giorni.
Livio non era un senatore, nè il suo essere "pompeiano" (come lo definì Augusto stesso) poteva dispiacere
all'imperatore, se ciò significava adesione all'ideale repubblicano e rifiuto della monarchia, che parte della
pubblicistica identificava con Cesare: il quale, sotto questo profilo, fu per il nipote una eredità imbarazzante.
Di tutta la letteratura annalistica di Roma nulla si è salvato; ha superato il naufragio solo quest'opera, che
racchiude in sè tutte le caratteristiche dell'annalistica precedente.
Con il tempo di Augusto si conclude il ciclo della annalistica in senso repubblicano.
L'Impero vede un rifiorire di storiografia di lingua greca che testimonia le reazioni del mondo greco al nuovo
fatto politico: la cultura greca, che aveva trovato un modus vivendi con i vincitori e ne aveva giustificato la
vittoria, si preparava ora ad assumere una funzione fondamentale nella costruzione di una nuova ideologia
politica che ancora per poco avrebbe visto l'Italia come il centro dell'impero.
Appartengono al periodo giulio-claudio Diodoro Siculo, Strabone, e Dionigi di Alicarnasso.
Diodoro Siculo scrisse una storia universale Bibliotheca che ripeteva la storia di Polibio e, sebbene cominciasse
dalle più lontane origini, non giungeva oltre il 59 a.C., anno del I Triumvirato, in 40 libri di cui ci sono rimasti
i libri 1-5 e 11-20. In essa si raccontava parallelamente di storia greca e di storia romana.
Diodoro in Roma aveva a lungo studiato, ricercando diligentemente documenti, libri, ispezionando archivi, e la
sua opera era il frutto di una fatica trentennale. Anche per lui Eforo era il modello; ma le linee troppo vaste gli
impedirono di approfondire convenientemente i problemi della grandezza di Roma, che egli non concepì affatto
come centro della sua storia, ma come punto di arrivo di una narrazione che prendeva l'avvio dalla sua isola
natale. Diodoro è siciliano e alla sua isola ha dedicato tutto il V° libro continuando la traccia di Timeo che pure
era siciliano.
La cultura greca riprese anche gli interessi etnografici profondamente radicati in essa.
In età augustea Strabone, nato ad Amasea in Asia Minore da una famiglia legata a Mitridate e poi passata ai
romani scrisse un'opera geografica e un'opera storica, la seconda perduta che doveva partire dal 146 a.C., dove
si era fermato Polibio, per giungere fino al 27 a.C. Per fortuna nei libri geografici ci sono digressioni storiche
che ci aiutano a scoprire quale dovesse essere il tono dell'opera storica.
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La Geografia straboniana provincia per provincia, confrontando lo stato contemporaneo con quello precedente
all'occupazione dei Romani, dava una visione del mondo allora conosciuto. Lo scopo era quello di fornire ai ceti
dirigenti romani uno strumento di governo dell'impero. Egli non può tacere la sua ammirazione per l'attività
organizzativa dei dominatori.
La sua indagine si rivolge a tutte le regioni bagnate dal Mediterraneo e implicitamente ammette che Roma,
potenza egemonica del Mediterraneo, aveva anche assunto la missione di civilizzare l'Occidente e di
riorganizzare l'Oriente.
Dionigi di Alicarnasso, in età augustea, portò a compimento il processo della storiografia greca di accettazione
dell'impero romano: egli chiuse un'epoca, anticipando al tempo stesso una serie di temi che diverranno maturi
solo molto più tardi, nella rinnovata problematica dell'età imperiale.Venuto a Roma nel 30 a.C., dopo la battaglia
di Azio, Dionigi cominciò a scrivere una Archeologia romana in 20 libri (di cui restano interi i primi 10 libri e
una parte dell'11°) che, come dice il titolo, riprendeva il tema della storia arcaica; il lavoro fu pubblicato nel 7
a.C. Gli sono stati rimproverati errori, eccesso di retorica ecc..., ma a suo sfavore gioca la superiore
ricostruzione di Livio, pressochè contemporanea.
Anche Dionigi svolse la sua particolare teoria sull'imperialismo romano: per lui Roma era una città greca, ma i
romani avevano prevalso sugli altri greci perche erano i migliori. Inoltre la superiorità di Roma era determinata
dal fatto che essa, nel suo impero, aveva eliminato ogni considerazione di carattere etnico, chiamando a
partecipare al governo anche i vinti.
La sua non è l'ottica di età augustea che privilegiava l'elemento italico nella lotta contro l'orientalizzante Antonio,
ma anticipava un'epoca che avrà come tema centrale l'assimilazione al governo dei ceti provinciali e, al tempo
stesso, con la sua adesione senza riserve alla superiorità dei romani e all'eternità del loro impero, chiudeva il
lungo travaglio della storiografia greca d'età repubblicana, nato con la conquista.
Il primo degli storici cortigiani fu G. Velleio Patercolo il quale scrisse 2 libri di Historiae dalla distruzione di
Cartagine (146 a.C.) al 30 d.C. E' storia militare e vi appare molto minuziosa la narrazione degli avvenimenti
recenti; è trattato con particolare cura il principato di Tiberio perchè lui stesso aveva partecipato a molte imprese
militari di quel tempo. Patercolo dimostra un'adesione incondizionata all'impero dando l'occasione per critiche
aspre, pur sostenendo che suo compito è quello di dire la verità. Egli rappresenta le nuove classi della
burocrazia e dell'esercito che si sentono protagoniste e la loro accettazione della nuova situazione è libera da
implicazioni di carattere ideologico.
Valerio Massimo, proconsole d'Asia nel 27 d.C., scrisse Factorum et dictorum memorabilium libri IX che
sono una raccolta di aneddoti, ricavati dai più celebri racconti storici di scrittori greci e latini, che si riferiscono
ad esempi romani e ad esempi stranieri. Il repertorio ebbe ben presto fortuna nelle scuole per la facile
maneggiabilità; inoltre per il comodo sfoggio di erudizione e per il tono moraleggiante, nel tardo impero, IV-V
sec. d.C., fu ampiamente riassunto.
Plinio il Vecchio (23-4 –79 d.C.) ha lasciato una Naturalis Historia che offre un vasto panorama di tutta la
scienza del suo tempo. Morì nel 79 durante l'erudizione del Vesuvio.
Seneca, filosofo e precettore di Nerone, scrisse molte opere di contenuto filosofico e l'Apocolochyntosis Divi
Claudi, ironico testo sull'impero di Claudio e sulla sua morte.
In Palestina elementi semiti fortemente ellenizzati che tentavano di portare a conoscenza dei Gentili le cose
della loro gente e della loro religione, vennero necessariamente a discorrere delle cose di Roma. Uno storico che
fece conoscenza personale con i nuovi dominatori del mondo fu Flavio Giuseppe.
Nato da famiglia sacerdotale, acquistò la cittadinanza romana da Vespasiano, e assistette alla caduta di
Gerusalemme e ai fatti d'arme narrati poi nella Guerra giudaica. Scrisse anche le Antichità giudaiche in
parallelo con l'opera di Dionigi.
Il problema del mantenimento di valori nazionali fu centrale in Fl. Giuseppe, testimone della repressione ebraica
del 70 e portato a Roma da Tito.
I ceti elevati giudaici nei confronti di Roma tentavano una spiegazione e insieme una giustificazione della
necessità di collaborare con il vincitore, pur mantenendo la propria ineliminabile individualità.
Tutta la letteratura giudaica del tempo è a carattere anti-romano. Non poche questioni nascevano da interferenze
fra la religione di stato romana e i riti mosaici: intransigenti gli Ebrei coglievano questi pretesti per irrigidirsi
sempre più nelle loro posizioni antimperialistiche e continuavano la sorda opposizione del mondo orientale in
generale, del semita in particolare, contro il nuovo stato egemonico.
P. Cornelio Tacito, visse cautamente durante gli anni in cui fu imperatore Domiziano e, soltanto con Nerva e
Traiano tornò alla ribalta, giungendo alla carica di consul suffectus nel 97 o 98 d.C. e al proconsolato d'Asia nel
112-13.
Negli anni di silenzio aveva meditato su quanto ci fosse di marcio in quell'Impero; sul come la Britannia, che
Cesare si era illuso di avere vinto, risultasse ancora una terra da scoprire, e soltanto il suocero Agricola potesse
vantare una simile impresa; sul come i Germani rappresentassero un popolo giovane e non corrotto, tale da
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costituire un pericolo per Roma; sul come Domiziano che egli aveva avuto modo di sperimentare direttamente,
fosse un mostro coronato.
Prima di arrivare alle grandi composizioni storiche Tacito affrontava in due minori monografie alcuni aspetti
della storia di Roma. Appena Domiziano si spense nel 97, scrisse il De vita Iulii Agricolae. Per comprendere la
genesi di questa operetta, bisogna tenere presente che Tacito, ricoprendo pubblici uffici, aveva viaggiato molto, e
meditato il suo pensiero. Lo aveva sedotto Sallustio che, a fosche tinte, aveva fatto il punto sulla corruzione
repubblicana; e, come Sallustio, anche Tacito si volle preparare a impegni più grandi con lavori monografici.
Moventi personali lo spingevano a pubblicare un poco noto episodio dei tempi di Domiziano: lo scandalo della
improvvisa morte di Agricola. Questi è visto e dipinto come eroe, con tutte le virtù e nessun vizio; per merito suo
la Britannia fu conquistata, mentre altri prima di lui non c'erano riusciti. Non è certo storico imparziale Tacito in
questo caso, sia perchè Agricola era suo suocero, sia perchè lui stesso aveva forti risentimenti nei confronti
dell'imperatore. Tuttavia è qui espressa l'idea della opposizione sterile dei repubblicani al regime, morti
inutilmente, mentre è possibile , afferma Tacito, servire lo stato anche sotto un principe pessimo. La
giustificazione di Agricola, di Tacito stesso, e forse anche del successore di Nerva, Traiano, è abbastanza
scoperta: tutti avevano fatto carriera sotto il tiranno.
Scritta dopo l'Agricola, la Germania, il cui titolo vero è De origine, situ, moribus Germanorum, appare come
una monografia etnografica.
I Germani da lungo tempo erano i temibili nemici che da settentrione incombevano su Roma. Tacito, vissuto a
lungo nella Gallia Belgica, dopo avere avuto modo di raccogliere numerose informazioni, riferisce intorno ai
caratteri, condizioni, usi e costumi di quei popoli in maniera ampia, giovandosi di personali conoscenze e di
notizie di altri scrittori. C'era uno scopo politico: consigliare trattative di pace coi popoli germanici; ma c'era
anche critica dei costumi romani.
Il Dialogus de oratoribus portava ad indagare le cause della decadenza dell'eloquenza strettamente connesse
al problema della libertas che è condizione necessaria del dibattito: quando c'è uno solo a decidere, ed è il più
saggio, non c'è più bisogno di dibattito.
Seguendo il modello sallustiano, Tacito giungeva negli anni tra il 110 e il 115 circa, dopo le due monografie, ad
una più vasta opera, le Historiae con cui affrontava il racconto delle vicende dei suoi tempi. Erano in totale
14 libri che narravano i fatti dal 69 al 96. Ci sono pervenuti soltanto i primi 4 e parte del 5° che riferiscono gli
avvenimenti del 69-70. La sua posizione ufficiale gli procurava informazioni dirette; l'essere vissuto a contatto e
perfino legato da parentela con l'ambiente senatorio, e l'essere fautore della libertà in opposizione a Domiziano,
costituivano un'indelebile esperienza politica. Qui si traccia la storia del progressivo deterioramento
nell'esercizio del potere assoluto, e della parallela decadenza dell'aristocrazia e del senato
La recente persecuzione domizianea determinava in Tacito una condanna in tronco della dinastia Flavia, che
pure con Vespasiano e più ancora con Tito aveva raggiunto positivi risultati in fatto di politica estera e interna.
Ma narrare la storia dei Flavi non era possibile se non si spiegava perchè si era giunti a quel punto, se non si
indicavano gli intrighi dinastici con cui si era affermata e imposta la casa Giulio-Claudia. Bisognava dunque
rifarsi Ab excessu divi Augusti e scrivere la storia di Roma dalle origini dell'impero, anno per anno, e cioè gli
Annales. Questi erano in 16 libri, dei quali ci sono pervenuti i primi 4, parte del 5° e del 6°, e poi dall'11 fino
alla prima parte del 16°, quindi la narrazione degli anni 14-37 (Tiberio) e 47-66 (Claudio e Nerone). Tacito
cita solo di rado le sue fonti: Plinio il Vecchio, Cluvio Rufo, Fabio Rustico, i discorsi di Tiberio, i commentarii
di Agrippina, gli acta diurna e i protocolli del senato, mentre si prefigge sempre una coscienziosa esposizione
dei fatti. I caratteri dei suoi personaggi hanno poca virtù, molta viltà, decadenza morale, tirannide. Dato
l'argomento e l'intento Tacito attese che il suo tiranno Domiziano morisse e fosse seguito dall'onesto Nerva e
dall'ottimo principe Traiano; e, quando fu sicuro che più non correva alcun rischio, allora finalmente scrisse e
narrò tutto il suo passato terrore.
Quasi coevo di Tacito, il biografo dei Cesari della dinastia Giulio-Claudia e Flavia fu Gaio Svetonio Traquillo,
appartenente all'ordine equestre. Percorse la carriera delle procuratele, raggiungendo successivamente le alte
cariche di capo dell'ufficio-studi, delle biblioteche, della corrispondenza dell'imperatore Adriano ( magister
memoriae); ma, caduto in disgrazia perchè accusato di eccessiva familiarità con l'imperatrice, fu allontanato da
corte. Svetonio scrisse allora due opere biografiche: De viris illustribus e De vita duodecim Caesarum. La
prima raccoglieva biografie letterarie divise per attività: poeti, oratori, storici, filosofi, grammatici e retori ed è in
gran parte perduta tranne il libro di grammatici e retori. La seconda comprendeva invece i profili dei primi 12
Cesari da Cesare a Domiziano. L'opera fu composta tra il 119-121, dopo che Svetonio ebbe modo di compiere
ricerche su inediti materiali storici.
La vita degli imperatori è esposta per genealogie: nascita, fatti anteriori al principato, fatti successivi alla
elezione. Seguono i vizi e le virtù, il principe e l'uomo privato. Le fonti principali sono, oltre agli archivi
imperiali, i carteggi degli imperatori, i materiali storici ufficiali, gli scritti d'occasione, i libelli satirici e
scandalistici. La sua tecnica rimarrà di modello a tutta la posteriore Historia Augusta.
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In età traianea visse il maggior biografo greco, Plutarco di Cheronea che non fu storico ma retore, che rimase
tutta la vita nella sua città natale dove insegnava appunto retorica. Le Vite parallele appartengono alla maturità
dell'autore che riprende lo schema della biografia peripatetica per mettere in mostra gli esempi della passata
grandezza. Il confronto tra le coppie di personaggi l'uno greco e l'altro romano attesta l'intima somiglianza dei
due mondi. Sono 22 coppie di vite più alcune vite isolate: Arato, Artaserse, Galba e Otone. Molto giovarono alla
formazione delle vite la valorizzazione del passato e la consuetudine del biografo con la casta sacerdotale greca
e con gli ambienti imperiali traianei e adrianei, conservatori e tradizionalisti l'una e gli altri. Tuttavia al fondo
delle sue motivazioni sta il desiderio di far apprezzare la validità e la vitalità del mondo greco, che ben può
reggere il confronto con Roma ed esserle anche superiore.
Nella sua opera ritorna il desiderio di affermare la propria autonomia contro l'imperialismo egemone, una difesa
contro l'assorbimento totale dei propri valori.
Dopo Plutarco la letteratura pagana in lingua greca si orientò sempre più verso il genere encomiastico che
piaceva tanto alle orecchie, abituate all'adulazione, degli imperatori.
Dione Crisostomo o Dione di Prusa fu un retore sofista coinvolto a Roma nella politica di repressione di
Domiziano che, in età traianea, al nuovo principe indirizzò i discorsi Sulla Monarchia nei quali l'ideale etico
del re come il migliore tra i migliori offre un chiaro supporto ideologico al principio della monarchia illuminata
che sembrò realizzarsi subito dopo con gli Antonini. L'adesione delle classi elevate in oriente e la loro
partecipazione al potere poggiava su solide premesse filosofiche connesse all'evoluzione del pensiero greco
dell'età ellenistica.
Un Encomio a Roma come città, impero e idea di stato pronunciò Elio Aristide, il quale, dopo avere
confrontato Roma con le maggiori potenze del passato, volle tessere le lodi di questa nazione che meritatamente
era diventata l'egemonica. In esso ormai l'impero è un fatto unitario, al cui mantenimento e alla cui prosperità
tutti i migliori devono partecipare. Questa orazione venne pronunciata intorno alla metà del secolo degli
Antonini.
Fra gli storici latini del II sec. troviamo Lucio Anneo Floro, amico personale dell'imperatore Adriano, il quale
scrisse un sommario storico noto come Epitome Liviana, che va dalle leggendarie guerre sostenute da Romolo
fino alla consacrazione della pace augustea. Le vicende storiche sono qui ricondotte tutte al canone del ciclo
vitale: il popolo romano dall'infanzia, passato attraverso l'adolescenza e la giovinezza è ormai giunto alla
vecchiaia; ma, sotto Traiano, terminato il ciclo naturale, avrebbe ripreso il ciclo vitale ricominciando una nuova
vita.
Sono qui da ricordare alcuni autori che non sono veri storici.
Aulo Gellio fu, nel II sec., antiquario ed erudito. Scrisse le Noctes Atticae in 20 libri interamente pervenutici,
riportando, spesso testualmente, passi e frammenti di opere di scrittori precedenti o contemporanei e fra questi i
giuristi.
Pompeo Festo ridusse in Epitome una vasta trattazione lessicale fatta, in età augustea, dal grammatico e
antiquario M. Verrio Flacco col titolo di De verborum Significatu. L'opera originale non ci è pervenuta, ma
l'epitome sì, per metà (lett. M-V). Essa costituisce una fonte preziosissima per la ricostruzione storica del più
antico diritto, essendo un lessico di termini ed espressioni arcaiche relative alla vita pubblica e privata.
Plinio il Giovane, governatore della Bitinia nell'età di Traiano, autore di 10 libri di Epistulae è la nostra fonte
per il primo provvedimento ufficiale preso dall'impero nei confronti dei Cristiani. Inoltre fu autore di un
Panegirico a Traiano che servì da modello per i successivi panegirici di imperatori scritti, soprattutto in
ambiente retorico gallico, nel corso di tutto il IV sec.
Gaio con le sue Institutiones ha lasciato numerosi excursus storici, con i quali fornisce notizie su istituti arcaici
che, nel suo tempo, erano ormai tramontati. Tali notizie sono preziose per la ricostruzione delle forme giuridiche
più antiche (es: l'adoptio, la mancipatio, la manumissio ecc...).
Tra gli scrittori in greco degli anni tra II e III sec. è da ricordare Appiano che scrisse una storia romana
suddivisa in libri o gruppi di libri (guerra iberica, annibalica, libica, macedonica, siriaca, mitridatica,
illirica, civile, egiziana). Nato da una ricca famiglia greca di Alessandria, divenne procurator Augusti sotto
Antonino Pio dopo avere acquisito la cittadinanza romana. La sua fu più storia delle guerre, degli avvenimenti
militari, dei fatti reali e notevoli, piuttosto che storia di idee e problemi connessi con le vicende di Roma. Non
rispetta l'ordine cronologico in quanto le guerre sono una di seguito all'altra senza tenere conto dei rapporti tra
alcune di queste. Come greco ha perso ormai gli ideali di autonomia e di indipendenza culturale dei Greci; ha
davanti agli occhi l'annalistica romana, la storiografia ufficiale dell'impero e non si propone altro tema se non
quello di giustificare sempre l'operato di Roma. Appiano vive al tempo degli Antonini e il termine d'arrivo della
storia romana è per lui la monarchia illuminata post-traianea. La sua opera è la nostra fonte principale dai
Gracchi ad Augusto.
Arriano, nato a Nicomedia di Bitinia intorno al 95 da famiglia ormai entrata nella cittadinanza romana, ebbe una
storia personale molto complessa. Pienamente inserito nelle tendenze ellenizzanti del principato di Adriano ,
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ebbe il consolato intorno al 129 e, nel 131-137, il governo della Cappadocia, allora esposta alla minaccia delle
invasioni alane, che Arriano respinse.
A questi anni risalgono le opere che mostrano l'impegno politico e militare del loro autore, il lavoro di geografia
sul Periplo del Ponto Eusino, la Tattica e i Fatti alanici, di cui ci è giunto solo un ampio frammento:
l'integrazione fra il greco al servizio dell'impero e l'uomo di cultura appare raggiunta compiutamente. La carriera
di Arriano finì però improvvisamente, forse con la morte di Adriano. Di questo secondo periodo della sua vita
sono: la Storia Bitinica, l'Anabasi di Alessandro, i Parthica, indicano forse un ritorno a temi anti-romani
particolarmente significativi nel momento in cui Lucio Vero compiva le sue spedizioni orientali; il giudizio su
Alessandro, come il più grande e insuperato condottiero, non poteva non suonare critico alle orecchie romane
ormai esercitate a un simile parallelismo.
Nel III sec. la storiografia greca è rappresentata da Cassio Dione ed Erodiano.
Cassio Dione nato in Bitinia intorno alla metà del II sec., figlio di un governatore romano, entrato egli stesso
nella carriera politica sotto Commodo e Pertinace, fu console una prima volta nel 222 circa e ancora nel 229.
Dione era dunque un esponente dell'aristocrazia greca ormai romanizzata e compose una voluminosa storia
romana dalle origini fino al 229 d.C. in 80 libri di cui restano i libri 36-60 (a.68 a.C.- 47 d.C.), in parte 79-80
e un riassunto dei libri 36-80. Per ricostruire i libri perduti ci serviamo degli ampi estratti di Xifilino e
Zonara, storici bizantini dei sec. XI-XII i quali da lui (e anche da Appiano e Plutarco) copiarono quasi alla
lettera solo riassumendo qua e là.
L'imperialismo è ora pienamente giustificato dalla ragion di stato: le guerre di Roma sono state sempre dettate
dalla necessità di difendere la sua integrità, e questa, che era stata una connotazione negativa presso la
storiografia greca, diviene ora un fatto del tutto positivo. Dione non è un greco, ma un cittadino di origine greca
dell'impero romano, un politico romano; il regime di governo preferito da Dione è la monarchia illuminata,
fondata sul consenso e la partecipazione dei migliori di tutte le province, la migliore garanzia di stabilità. La
democrazia, la partecipazione delle masse al governo, è inattuabile e pericolosa. Vi è, nelle sue idee, una
polemica contro la dinastia severiana che andava verso l'assolutismo, così come nella difesa dell'imperialismo
romano è contenuta la preoccupazione per i sintomi di crisi militare resi evidenti dalle incursioni della II metà
del II sec.
In pieno III sec., in un impero ormai in difficoltà evidenti, Erodiano, greco forse d'Asia Minore, di famiglia
abbiente ma non senatoria (forse libertina), scrisse Storie dalla morte di Marco Aurelio cioè da Commodo a
Gordiano III (180-238 d.C.), forse negli anni di Filippo l'Arabo. E' preso dal problema delle invasioni che
generavano tensione sociale fra esercito, contadini, ceti urbani, messi in luce dalla crisi militare e dal
drammatico principato di Massimino il Trace. Il suo ideale di governo è l'impero guidato da una aristocrazia che
consente la supremazia dei migliori.
L'opera è un'importante raccolta di materiale visto secondo queste idee che erano condivise nel circolo culturale
dell'imperatrice siriaca Giulia Domna, moglie di Settimio Severo e madre di Caracalla.
Quasi a lui contemporaneo l'ateniese Dexippo trattò il problema delle invasioni in pieno III sec. scrivendo gli
Scitica; di questa opera abbiamo solo frammenti, ma sappiamo che fu ampiamente utilizzata dagli storici
bizantini.
Nell'età di Costantino si manifestarono i primi tentativi della storiografia cristiana.
Fra gli scrittori cristiani dell'età costantiniana va ricordato Cecilio Firmiano Lattanzio, maestro di Crispo, figlio
di Costantino, il quale scrisse il De mortibus persecutorum presentando i casi di imperatori che, essendo stati
persecutori dei cristiani, finirono tutti di morte violenta. Il discorso però è limitato a quei soli casi che potevano
suffragare la sua tesi, senza tenere conto di altri che, pur non avendo condotto nessuna persecuzione, finirono
ugualmente male i loro giorni. L'opera fu scritta nel momento della esaltazione della vittoria contro pagani.
Nel IV sec. sparì poco a poco il greco dell'Occidente, mentre rifiorì nella nuova capitale dell'impero: Bisanzio.
Qui vissero, studiarono e scrissero presso la corte di Costantinopoli gli storici successivi.
Non furono inclini alla romanità gli scrittori cristiani in lingua greca che guardarono con poca simpatia
all'impero d'Occidente e alla potenza del Vescovo di Roma.
Così Eusebio di Cesarea, personaggio di primo piano nelle vicende politico-religiose della prima metà del IV
sec. (fu vescovo di Cesarea dal 313 alla morte avvenuta nel 340) che scrisse un Chronicon cioè una cronologia
dai Caldei (popolazione dell'XI sec a. abitante la zona tra la Babilonia e il Golfo persico) ai Romani e una Storia
Ecclesiastica una delle nuove forme letterarie cristiane, insieme con la biografia dei santi.
La Cronaca comprende nella forma attuale una parte relativa a sincronismi delle vicende dei vari popoli da
Cristo in poi, vescovo per vescovo, fino al 323. Questa fu una storia molto fortunata tradotta in siriaco e armeno.
Tradotta in latino da S. Gerolamo con aggiunte fino all'impero di Teodosio (379) , fu poi riassunta e continuata
da autori minori. E' curioso che in questa, come in altre cronache cristiane successive, si siano largamente
utilizzati i breviari pagani. Il perchè è evidente: i breviari pagani non avevano alcun intendimento polemico,
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erano asettici, quindi l'assimilazione da parte cristiana era facilitata e non portava la necessità di produrre una
versione cristiana della storia pagana.
La Storia Ecclesiastica che comprende la vicenda della chiesa cristiana dalla sua fondazione (Cristo) alla
vittoria del cristianesimo nell'impero è un genere libero dalle regole della storiografia pagana e dalla sua
impostazione retorica; essa è fondata sulla pubblicazione dei documenti, a differenza della storia pagana che
anzi indulgeva alla falsificazione e fabbricazione letteraria. Nata per rendere evidente l'importanza della chiesa
nel nuovo mondo cristiano , essa dava ampio spazio ai concili e alle dispute dottrinali, difendendo attraverso
l'esame dei testi il concetto di ortodossia. Il genere ebbe larga fortuna in oriente dove altre storie di questo tipo
furono composte all'inizio del V sec.
Un altro tentativo di Eusebio ebbe minore fortuna: la Vita di Costantino che doveva essere un modo per
trasformare la biografia imperiale in un genere assimilabile all'agiografia, ma difficilmente un imperatore poteva
essere presentato secondo i canoni utilizzati per i santi.
La celebrazione imperiale si rifugiò nel tardo impero nella ripresa della panegiristica sull'esempio pliniano.
Nello stesso periodo la biografia dei santi ebbe un definitivo modello con Atanasio, altro grande vescovo, poco
più giovane di Eusebio, che divenne il campione dell'ortodossia antiariana fin dal Concilio di Nicea del 325. La
sua vita di S. Antonio è certamente un classico: influenzata dalla biografia ellenistica che aveva proposto il
modello dell'uomo "divino" (es: Apollonio di Tiana).
Le cronache cristiane come il Cronografo del 354 comprendevano liste di papi, di feste e altri dati importanti
per le comunità cristiane e rispondevano, in primo luogo, ad esigenze interne delle diverse comunità.
L'equilibrio raggiunto nel III sec. rende più evidenti gli elementi di debolezza del periodo successivo dalla fine
del III-IV-Vsec. dominati dal problema esterno delle invasioni barbariche e delle tensioni sociali e politiche:
sono presenti anche i temi della fine dell'unità di obiettivi e di interessi fra classi agiate e potere centrale che
deve ora essere, ed è, potere militare e fortemente centralizzato, il conflitto fra chi sostiene questo potere e chi
se ne sente progressivamente minacciato; inoltre, tra gli altri, si inserisce il cristianesimo come problema
politico oltre che religioso; la lotta degli imperatori militari per la creazione di una teocrazia terrena, e la
soluzione finale dettata dal cristianesimo, del tutto diversa. Ancora va messa in evidenza la spaccatura tra oriente
e occidente e l'emarginazione di Roma come centro dell'impero. Tutti questi sono elementi presenti nel nuovo
quadro che emerge dal lungo travaglio delle enormi difficoltà del III sec. e tutti variamente riflessi nella
complessa vicenda storiografica e culturale che prepara la fine del mondo antico.
La tradizione letteraria operò in modo decisivo nel delimitare entro canoni storiografici precisi le sfere di
intervento di intellettuali pagani e cristiani: la storia nella sua accezione più elevata, continuò ad essere
monopolizzata dai pagani, mentre i cristiani crearono una loro storia e una loro cronologia che rispondesse alle
esigenze di dare spazio alle vicende bibliche; inoltre diedero vita ad un tipo di biografia, quella dei santi, che
non poteva assumere come modello quella profana e rimase quindi indipendente. La polemica fra pagani e
cristiani non fu quindi quasi mai diretta e non influenzò se non marginalmente le tradizionali forme
storiografiche: i cristiani non crearono una storiografia alternativa, ma, quando scrissero storia, subirono
l'influenza del modello pagano, assumendone talvolta elementi stilistici.
Di fronte al pericolo interno ed esterno, il recupero della storia e dei costumi che avevano presieduto alla
grandezza di Roma divengono determinanti per la storiografia latina. Il paganesimo romano è profondamente
conservatore, e questo gli garantisce anche spazio politico e continuità nel mondo nuovo dei barbari.
Elemento in parte nuovo di questo clima sono i numerosi compendi di storia romana che vennero pubblicati nel
corso del IV sec.; i breviari erano dettati principalmente da esigenze pratiche: offrire a una classe dirigente di
estrazione nuova, spesso ignara di storia romana, una traccia essenziale e rapida dei principali fatti
Non incontrarono opposizione negli ambienti cristiani perchè la narrazione era fondamentalmente neutra e, dopo
tutto, gli imperatori ai quali erano dedicati erano cristiani.
La storiografia latina del IV sec. ha lasciato invece un grande storico in Ammiano Marcellino. Siro latinizzato,
fu continuatore di Tacito nei suoi "Rerum Gestarum libri XXXI" dal 96 al 378 d.C. E' la più grande personalità
di storico del secolo, dotato di una larga esperienza militare, pagano fino al midollo e non interessato alla corte
imperiale permeata di arianesimo. Rimangono dell'opera gli ultimi 18 libri dal 352 (Costante-Costanzo) al 378
anno della morte di Valente. Ammiano fu l'unico che uscì dalla schiera degli annalisti, biografi, cronografi
contemporanei e tentò una storia universale dell'Oriente e dell'Occidente. Egli non voleva scrivere nulla che non
fosse documentato e dimostrato. Ufficiale agli ordini di Giuliano l'Apostata ne fece il suo idolo paragonandolo
ad Alessandro Magno; ma non negò valore al cristianesimo e non ravvisò in esso un pericolo per lo stato.
Altri scrittori, appartenenti tutti al ceto senatorio e comunque interessati a che l'impero non fosse controllato dai
vescovi e dai concili, ma restasse nelle mani dei proprietari terrieri e di coloro che rappresentavano la
continuazione della classe dirigente romana, composero l'Historia Augusta.
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Questa, a continuazione delle biografie di Svetonio, accentuò il carattere di cronaca scandalistica, soffermandosi
su particolari piccanti e dando colorite pennellate romanzesche.
Questi scrittori composero le biografie degli imperatori da Adriano a Carino e Numeriano, cioè dal 117 al 284
d.C. Gli storici, anche se si sa che è falso, sono considerati 6: Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Volcacio
Gallicano, Elio Lampridio, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco. Si pensa che le prime vite fossero composte
sotto Diocleziano, altre sotto Costantino, tutte raccolte o sotto Giuliano l'Apostata o addirittura sotto Teodosio.
In questa opera sia gli imperatori che gli usurpatori sono trattati allo stesso modo; i dati storici appaiono talvolta
falsi o deliberatamente falsati perché interessava il racconto romanzesco.
Di minor rilievo sono gli epitomatori che, per ragioni pratiche, ridussero a compendio le biografie dei grandi
uomini e dei Cesari, o in genere la storia di Roma intesa nel senso di Livio.
Sesto Aurelio Vittore fu l'autore dei Caesares; altre due opere anonime l'Origo gentis Romanae e il De viris
illustribus urbis Romae furono premesse ai Caesares. Così composta di tre parti quest'opera assunse il titolo di
Historia tripertita. In essa si voleva celebrare, nei suoi personaggi più illustri la storia di Roma dalle sue remote
origini fino al 360 (Giuliano).
Nella tradizione di Livio si trovano Eutropio, Rufio Festo, Giulio Ossequente.
Eutropio, vissuto nell'età di Valente (consors imperii del fratello Valentiniano dal 364 al 375, data della morte
di quest'ultimo; fu sconfitto nella battaglia di Adrianopoli del 378 che lui stesso, Valente, aveva provocato) di
cui fu segretario, prese parte con Giuliano alla spedizione contro i Persiani e scrisse, per desiderio di Valente, un
Breviarium che è un compendio di storia romana. Inizia con Romolo e giunge fino alla morte di Gioviano
(364d.C.). E' epitome liviana per il periodo repubblicano, sotto l'influsso di Svetonio e dei suoi continuatori per
l'imperiale; è opera per niente originale, ma chiara, ordinata, sintetica, doti che la rendono apprezzata nelle
scuole per il duplice valore sia di forma chiara e comprensibile, atta ai principianti, sia di contenuto per il
riepilogo, denso e succinto di nomi e di fatti.
Ancora Breviarium si intitola l'opera di Rufio Festo, che scrisse anch'egli per ordine dell'imperatore Valente
(364-378), all'insegna della estrema brevità. In quest'opera manca uno stretto ordinamento storico e cronologico
per cui si susseguono nella narrazione avvenimenti sporadici, concernenti di solito le relazioni con l'Oriente e la
guerra con i Persiani, rese d'attualità al tempo di Valente.
Diverso l'intendimento con cui Giulio Ossequente utilizzò Livio nel Liber prodigiorum, che raccoglie tutta una
serie di miracoli avvenuti in Roma tra il 249 (I g. punica) e il 12 a.C.
Di S. Gerolamo abbiamo detto che scrisse il Chronicon o Storia Ecclesiastica derivato da quello di Eusebio di
Cesarea in cui la storia ebraica si intreccia con quella greca e romana; esso comprende circa 24 secoli di storia
fino alla morte dell'imperatore Valente (378). Le notizie raccolte in forma schematica, sono presentate anno per
anno.
Paolo Orosio scrisse Historiarum adversos paganos libri VII, di poco valore critico, ma pur sempre storia.
Uomo del Medio Evo è già Cassiodoro che, nato intorno al 485, fu ministro di Teodorico e scrisse due opere
storiche: Chronica e Historia Gothorum.
Fra i greci Zosimo scrisse una Storia contemporanea che, partendo da Augusto, trattava dell'impero di Arcadio
(377-408) e di Teodosio II (401-450), suo figlio che gli succedette nel 408 e durante il cui impero fu redatto il
Codex Theodosianus. E' pagano e vede nel cristianesimo il più grave flagello che abbia colpito l'impero
romano; quindi Giuliano vi è l'imperatore più ammirato.
Sul terminare dell'età arcaica e già immerso nel mondo bizantino è Procopio, grande storico che seguì Belisario
in Persia, in Africa e in Italia e narrò le Storie delle guerre contro i Vandali e i Goti, traendo da Erodoto gli
spunti etnografici e da Tucidide le considerazioni politiche e la tecnica dei discorsi inseriti. Visse nell'età di
Giustiniano (482-565) ma non amava l'imperatore e rivelò i retroscena di corte in un libro scandalistico
l'Historia arcana in cui è particolarmente colpita l'imperatrice Teodora per le sue dissolutezze. Durante il regno
di Giustiniano venne raccolto il sapere giuridico di tutto il periodo precedente nei Digesta e nelle Institutiones;
fu emanato un primo e poi un secondo definitivo Codex Iuris Civilis Justiniani e una raccolta di Novellae.
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