A. DIOTTI - S. DOSSI - F. SIGNORACCI
LECTIO
LETTERATURA
ANTOLOGIA
AUTORI LATINI
VOLUME UNICO
© 2009 by
Società Editrice Internazionale
© 2009 by
Società Editrice Internazionale
Roberto Alonge
Insegna Storia del teatro rinascimentale presso
il DAMS dell’Università di Torino.
Specialista di Ibsen e Pirandello, su cui ha scritto
diversi libri, ha pubblicato anche volumi
su Goldoni, Alfieri, D’Annunzio, il teatro
dell’Ottocento, la regia del Novecento.
Ha diretto, insieme con G. Davico Bonino,
i quattro volumi della Storia del teatro moderno e
contemporaneo, Torino, Einaudi, 2000-2003.
È inoltre autore di un pamphlet intitolato
Asini calzati e vestiti. Lo sfascio della scuola e
dell’università dal ’68 a oggi, Torino, UTET, 2005.
© 2009 SEI - Torino
© 2009 by
Società Editrice Internazionale
1
La riscopert
risc
erta
a
di un patrimonio
p trimonio
antic
antico
La cultura classica (intesa in senso ampio,
greca e latina) gioca un ruolo fondamentale nella grande svolta della civiltà rinascimentale, che si sviluppa in Italia fra
Quattro e Cinquecento. Pochi sono però
gli intellettuali che leggono la lingua greca,
e dunque, in pratica, si deve parlare di una
permanenza della cultura latina, che ha comunque assimilato preliminarmente il nucleo vitale della civiltà greca. Si tratta di un
imponente processo di riscoperta del patrimonio antico, ad opera dei cosiddetti
umanisti, che percorrono le biblioteche
dei conventi religiosi (in cui quel patrimonio è stato per così dire conservato e sepolto al tempo stesso, nel corso del Medioevo). I testi antichi (e, ovviamente anche quelli teatrali) sono ripubblicati – anche alla luce dei nuovi metodi della filologia – e fatti circolare. Le Accademie e le
Università sono i primi centri di rielaborazione di questo enorme tesoro. Abbiamo documenti che mostrano come sin
dal primo trentennio del Quattrocento la
drammaturgia latina venga acquisita dentro i programmi dei maestri di grammatica
Roma oltre Roma
e di retorica. Soprattutto Terenzio (che, a
differenza di Plauto, evita licenze sessuali
e frizzi impertinenti, aprendo a situazioni
di grande compostezza morale) viene fortemente valorizzato, proprio per la sua
possibilità di contribuire a un discorso
pedagogicamente orientato. Studenti e
docenti non solo analizzano, ma mettono
anche in scena tragedie e commedie, inizialmente persino in lingua latina (ma presto in volgarizzamenti italiani). Celebre resta l’Accademia di Pomponio Leto, attiva
a Roma, che cura l’allestimento di commedie di Plauto e Terenzio e delle tragedie
di Seneca.
2
© 2009 SEI - Torino
© 2009 by
L’invenzione
del tea
teatro
tro
Le Accademie costituiscono però la punta
avanzata di un movimento ampio e consistente, rappresentato dalle corti principesche diffuse nell’Italia centro-settentrionale (dalla Ferrara degli Este alla Mantova dei Gonzaga, dalla Urbino dei Montefeltro alla Roma dei Papi). È dentro queste corti che si determina quella che è stata
chiamata – con una bella espressione metaforica – l’invenzione del teatro. Da intendersi nel senso etimologico, inventio come
ritrovamento, appunto, della smarrita tradizione teatrale classica. Una funzione decisiva è svolta, in questo senso, dalla corte
di Ferrara dove, a partire dal carnevale del
1486, con il volgarizzamento dei Menaechmi di Plauto, si avvia la pratica di veri e
Società Editrice Internazionale
propri festival di teatro comico latino, legati
alla ricorrenza periodica festiva del carnevale. Anche altre opportunità festive non
periodiche, che si hanno nel corso dell’anno
(matrimoni e nascite di potenti, passaggio
in città di sovrani, alti ecclesiastici, ecc.),
sono occasione di spettacoli classici, prevalentemente comici.
Il palazzo
palazzo e la città
Va notato un particolare spesso trascurato, che è invece della massima importanza: il teatro allestito nel Palazzo del Principe (per usare un’altra immagine riassuntivamente felice), per un pubblico di élite,
cioè di invitati dal Principe stesso, non
soppianta subito il teatro religioso delle sacre rappresentazioni medievali, che continuano a svolgersi nelle piazze delle città.
C’è come una sorta di doppio binario: la
Fig. 1 Teatro romano di
Merida con un ricco
frontescena ornato di
statue, I secolo a.C.
Fig. 2 Sostrata calma il
marito Cremete adirato con
il figlio. Codice Vaticano
Latino 3868, Terenzio,
Heautontimorúmenos.
Fig. 3 Il procedimento
della sacra
rappresentazione si può
affiancare alla iconografia
delle passiones tanto
del Cristo quanto dei santi,
organizzate per quadri
successivi (quasi come
scene): Ambrogio
Lorenzetti, Quattro scene
della vita di san Nicola,
1327-1332.
3
© 2009 SEI - Torino
Il teatro
© 2009 by
Società Editrice Internazionale
Fig. 4 Cesare
Cesariano,
sovrapposizione
degli ordini del
teatro secondo il
modello
vitruviano, 1521.
Fig. 5 Andrea
Palladio, interno
del Teatro
Olimpico di
Vicenza, 15801585.
Fig. 6 Vincenzo
Scamozzo, interno
del Teatro
Olimpico di
Sabbioneta, 1588.
4
cultura in volgare, la cosiddetta cultura romanza, che coinvolge gli strati popolari; e
la cultura classicista, che ha il suo ambito
di risonanza nella chiusa cerchia delle corti
e dei loro abitanti privilegiati. Ci vorranno
decenni perché la tradizione religiosa medievale scompaia anche dall’orizzonte dell’intera comunità cittadina. Abbiamo qui
una caratteristica fondamentale della permanenza della cultura latina, che resta segno e contrassegno di un’aristocrazia intellettuale, di una superiorità culturale. È
come se il possesso (e l’esibizione) della civiltà latina funzionasse quale status symbol:
al popolo le sacre rappresentazioni religiose della tradizione medievale, ai circoli
cortigiani il teatro di Plauto e Terenzio.
Dove, paradossalmente, la modernità è la
divisa di chi ha riscoperto e assimilato
l’antico.
Roma oltre Roma
Il luogo tea
teatrale
trale
Il senso di questa differenza di classe, di
questa volontà a posizionarsi in maniera
gerarchica emerge bene da una contraddizione curiosa che si realizza fra intellettuali e corti aristocratiche. Gli umanisti non ripropongono solo gli autori
teatrali classici, ma fanno conoscere e pubblicano anche i libri sull’arte per edificare
i teatri. Il De Architectura dell’ingegnere e
architetto latino Vitruvio (che descrive il
modello ideale dell’edificio teatrale, ispirandosi ovviamente al teatro greco) è un
trattato intensamente edito a partire dal
Quattrocento, sia in lingua originale sia
in traduzione italiana, ed è fittamente
commentato, ma, per quanto facciano,
gli intellettuali italiani non riescono a
convincere i Prìncipi della necessità di
costruire edifici teatrali. Sorgono infatti
© 2009 SEI - Torino
© 2009 by
Società Editrice Internazionale
5
solo dalla fine del Cinquecento i due
teatri che ancora oggi ammiriamo come
frutto della riflessione teorica del Rinascimento in ambito architettonico: il Teatro Olimpico di Vicenza, progettato da
Andrea Palladio poco prima della sua
morte, iniziato nel 1580 e inaugurato
nel 1585, e il Teatro Olimpico di Sabbioneta (vicino a Mantova), costruito
nel 1588 da Vincenzo Scamozzi, lo
stesso che ha portato a termine l’Olimpico di Vicenza. Insomma, gli umanisti
riscoprono il valore fondante del teatro,
cemento della comunità (in verità più in
Grecia che a Roma), e chiedono pertanto
la creazione di teatri stabili cittadini, in
grado di accogliere e ricomporre la società degli uomini liberi. Ma i Prìncipi –
che pure accettano e promuovono i modelli teatrali della classicità – rifiutano
© 2009 SEI - Torino
6
l’idea di un teatro come legame dell’intera comunità e imprimono un forte accento di classe alla pratica del teatro, preferendo fare spettacoli all’interno dei cortili o dei saloni del Palazzo del Potere. Il
Prìncipe respinge cioè l’edificio teatrale e
continua a conservare gelosamente la
prassi del luogo teatrale, cioè di uno spazio
destinato solo occasionalmente all’esibizione rappresentativa, ristretta a 5001000 invitati. Il teatro moderno nasce
nel cuore del Rinascimento italiano, ma
nasce con questo marchio, di spettacolo
riservato a un pubblico ristretto. Anche
quando, nel corso dei secoli, tra Sei e Ottocento, ci saranno edifici teatrali, si tratterà comunque sempre di edifici costruiti
per accogliere 1000-2000 persone, non i
15 000 spettatori di certi teatri dell’antichità classica.
Il teatro
© 2009 by
Società Editrice Internazionale
7
8
Fig. 7 Pittore Fiorentino,
decorazione di spalliera
nota come «Tavola
prospettica di Urbino»,
seconda metà
del secolo XV.
Fig. 8 Baldassarre Peruzzi,
Prospettiva teatrale,
disegno a penna, post
1514.
L’Euro
’Europa e il teatro
teatro
nel Cinquecento
C’è dunque una forbice che si determina e che vale però non solo all’interno dell’Italia, ma si estende anche al
rapporto fra l’Italia e il resto dell’Europa.
Mentre cioè in Italia si consuma una
sorta di rottura, uno strappo drastico rispetto alla tradizione teatrale medievale
(abbiamo già detto: nelle piazze italiane
il popolo spettatore continua ad assistere a spettacoli religiosi, all’interno dei
palazzi del Principe un pubblico elitario
e signorile si dedica alla fruizione di spettacoli laici, costruiti sui principi della
teatralità classica), negli altri grandi paesi
europei (Inghilterra, Spagna, ma anche
Roma oltre Roma
Germania) la storia teatrale va in un’altra direzione: prosegue – se così possiamo dire – la tradizione del teatro medievale. Naturalmente si impone comunque una mentalità moderna, e i
contenuti religiosi del teatro perdono
terreno rispetto ai nuovi contenuti laici
della spettacolarità cinque-secentesca,
ma l’impianto generale non muta. Shakespeare tratta di conflitti di potere, di
eventi della recente storia inglese, di vicende d’amore, ma organizza i suoi intrecci ignorando assolutamente le unità
di tempo e di luogo che si rifanno alla
Poetica di Aristotele e ai suoi commentatori cinquecenteschi. Continua cioè
tranquillamente a utilizzare la libertà
spazio-temporale che caratterizza il teatro sacro medievale. E la stessa mescolanza dei generi, cioè la contaminazione
fra tragico e comico, che accompagna lo
spettacolo religioso medievale, si ritrova
puntualmente in Shakespeare. Nelle sue
tragedie (ad esempio nell’Amleto, nell’Otello, nel Macbeth, per non citare che
tre celeberrime) non mancano scene e situazioni di gusto francamente comicobuffonesco e persino allusioni sessuali
spesso volgari.
© 2009 SEI - Torino
© 2009 by
Gli u
umanisti
manisti e gli
spettac
spett
acoli
li cla
classici
ssici
Naturalmente questo non significa che
non ci siano delle élites di intellettuali al
corrente delle elaborazioni classicistiche
italiane. In Spagna, a Salamanca, gli statuti
del 1538 prevedono che nei collegi di
grammatica ci siano recite annuali di commedie di Plauto e Terenzio; e recite di
commedie terenziane a Cambridge sono
documentate nel 1510-1511 e nel 15161517, a conferma dell’intreccio virtuoso
fra spettacolo classico e pedagogia umanistica. Si tratta, però, di realtà intellettuali
minoritarie. Il teatro – in Spagna e in Inghilterra – è un fenomeno che resta saldamente di massa, per un pubblico popolarborghese e i drammaturghi non guardano
agli uomini di teatro della classicità, anche
se spesso li conoscono. Shakespeare è in
grado di leggere il latino, ma segue i gusti
più semplici del suo pubblico e adatta,
semmai, a quello le suggestioni della cultura classica. Piace il tragico Seneca (piuttosto dei tragici greci), perché l’orrido e il
macabro delle tragedie senecane piacciono
molto agli spettatori popolari dell’Inghilterra del tempo. E, comunque, è un Seneca
opportunamente adattato: le efferatezze
sanguinolente sono soltanto raccontate in
Seneca, mentre invece sono esibite, mostrate, sui teatri inglesi. D’altra parte la sete
di divertimento fa parte della vita di una
metropoli viva e dinamica, ansiosa e tutta
protesa nei traffici e nell’arricchimento,
come è la Londra di fine Cinquecento. All’inizio del Seicento la capitale può già
contare quasi 200 000 abitanti ed è stato
calcolato che un 10% (se non un 15%)
della popolazione frequenta i teatri una
volta alla settimana. Siamo cioè di fronte
a un mercato di 20 000/30 000 persone.
Non è provocatorio dire che il ruolo del
teatro è, a quell’epoca, simile a quello della
televisione oggi. E chi scriveva per il teatro
aveva giustappunto l’atteggiamento di chi
oggi scrive per la televisione: produzione
commerciale, che viene commissionata, che
viene elaborata in tempi accelerati (per
questo, spesso, a più mani, per fare più in
© 2009 SEI - Torino
Società Editrice Internazionale
fretta), e di cui l’autore per primo si disinteressa, una volta che ne ha tratto il guadagno pattuito. Shakespeare si preoccupa
di stampare i suoi poemetti poetici, che riflettono peraltro l’influsso della cultura
classica (Venere e Adone, Lo stupro di Lucrezia), ma abbandona i copioni teatrali al
loro destino.
Fig. 9 Rappresentazione di
una scena tratta dal Falstaff
di Shakespeare, incisione
del XVII secolo.
9
Fig. 10 Shakespeare,
La bisbetica domata,
regia di F. Enriquez,
Produzione Compagnia
dei Quattro, 1962-1963,
scene e costumi
di E. Luzzati,
foto E. Bisazza.
10
Il teatro
© 2009 by
Società Editrice Internazionale
Figg. 12, 13 Molière, L’avaro,
regia di M. Missiroli, produzione Plexus T,
interprete di Arpagone è Ugo Tognazzi, foto E. Bono.
Fa eccezione la Francia di Corneille, Racine, Molière, che subisce fortemente – anche per ragioni di maggiore vicinanza geografica – l’influsso del classicismo italiano.
Non per nulla il Seicento francese, secolo
aureo, corrisponde in qualche modo al
Cinquecento italiano, egualmente secolo
d’oro dell’espressività artistica.
Per l’Italia e per la Francia il patrimonio
classico (e latino in particolare) resta essenziale. Soprattutto la commedia risulta
impensabile senza l’apporto del teatro
di Plauto e Terenzio. Piace maggiormente
Plauto, per la vivacità della sua lingua, per
i frizzi dei suoi dialoghi, per le scoperte allusività sessuali dei suoi personaggi. Di
lui vengono riprese le figure del servus callidus, dell’adulescens sottomesso all’autorità del padre, del vecchio genitore avaro
e restio a concedere mano libera al figlio.
Questa tipologia comica trapassa spontaneamente, sin dal primo Cinquecento,
nelle commedie di Ariosto, nella Calandria del Bibbiena, in quelle di Machiavelli, ma prosegue per tutto il Cinquecento e arriva al Seicento, anche in molte
commedie di Molière, e poi oltre, fino al
Settecento. L’Aulularia di Plauto è ripresa
12
13
11
Fig. 11 Plauto, Aulularia, Peppino de Filippo
interpreta Euclione, regia G. Pacuvio, produzione
Compagnia di Prosa Italiana, 1956, foto Taraborrelli.
in maniera consapevole proprio dell’Avaro
di Molière. La Casina è per metà tradotta
nella Clizia di Machiavelli. I Menaechmi
(che Plauto costruisce sull’invenzione di
due gemelli presi in iscambio) fondano un
prototipo lungamente riecheggiato (dalla
citata Calandria fino a I due gemelli veneziani di Goldoni).
Roma oltre Roma
© 2009 SEI - Torino
© 2009 by
Reinventare
Reinventare
i classici
classici
S’intende che il teatro rinascimentale non
si limita a recuperare Plauto (e Terenzio),
ma opera piuttosto una sintesi nuova e
originale, inserendo la tradizione boccacciana sull’innesto latino. Il Decameron di
Boccaccio presenta infatti una società più
aperta, in cui la beffa e la licenza sessuale
sono portate avanti in prima persona anche
dalla donna e non solo dal maschio, come
nella chiusa società patriarcale romana. Significativamente i Menaechmi di Plauto diventano la Calandria di Bibbiena, così intitolata dal personaggio di Messer Calandro, vecchio beffato e cornificato, che rimanda ovviamente al personaggio boccacciano di Calandrino, prototipo dello
stupido. Al Bibbiena basta una trovata
semplicissima per creare un’atmosfera diversa, più trasgressiva, più licenziosa: mentre in Plauto i due gemelli presi in scambio
sono entrambi maschi, in Bibbiena sono
uno maschio e l’altro femmina (che va in
giro però vestito da uomo). Accade dunque che la moglie di Calandro si porti a
letto il gemello femmina, credendo trattarsi
del gemello maschio, che è il suo amante
consueto, e questo determina ovviamente
contraccolpi assai arditi e divertenti. Ma ci
sono anche altri esempi di come la cultura
rinascimentale pieghi diversamente gli
spunti originari di Plauto. Nei Menaechmi
si dice che un gemello è da lunghi anni alla
ricerca del gemello perduto, ma tutto si
esaurisce in questo accento di intenso sentimento fraterno. In Bibbiena ritorna il
motivo della ricerca accanita ma, trattandosi di coppia eterosessuale, il motivo si carica di significati più vasti, rinviando al
mito di Androgine, di cui parla Platone nel
Simposio. C’è un essere originariamente bisessuale, che viene mutilato, diviso, dalla
divinità, per punirlo del suo tentativo di
dare la scalata al cielo, di assaltare la stessa
divinità. Di qui la ricerca che ognuna delle
due metà conduce dell’altra, dell’anima gemella. L’amore non ha come fine la procreazione, ma piuttosto la riconquista dell’unità perduta. Di qui, ancora, una sottile
© 2009 SEI - Torino
Società Editrice Internazionale
trama esoterica che si riversa nella cultura
rinascimentale e che – dagli Asolani del
Bembo al Cortegiano del Castiglione al filosofo Leone Ebreo – allude costantemente alla esaltazione neoplatonica dell’Androgine, letto come immagine numinosa (da numen, divina) della coincidentia oppositorum. Che è quanto ritroviamo appunto nella Calandria, dove i due gemelli
non sono guidati da nessun fantasma incestuoso, nemmeno inconscio, ma solo
dal desiderio di ricostituire la condizione
primigenia dell’essere unitario bisessuale.
14
Fig. 14 Frontespizio
di un volume che raccoglie
le commedie del Bibbiena,
edito nel 1806.
Figg. 18, 16 Bibbiena,
Calandria, regia
di G. De Lullo, produzione
Compagnia De Lullo-FalkValli-Albani, 1965-1966,
foto di Giacomelli,
per concessione
del Centro Studi TST.
15
16
Il teatro
© 2009 by
Società Editrice Internazionale
Figg. 17-19 Dal Codicetto Bottacin
del Museo Civico di Padova,
miniature a tempera, illustrazioni del
teatro di Ruzante: contadina, signora
con servetta, contadina e cacciatore.
Figg. 20-23 Illustrazioni tratte
da un’edizione francese delle opere
teatrali di Corneille (1870),
con acqueforti di V. Foulquier dalla
Cinna (figg. 20-21) e dall’Orazio
(figg. 22-23).
17
18
Ruzante:
tra invenzione
tradizione
e tradizione
La lezione del nuovo teatro rinascimentale
è dunque questa: tradizione e innovazione,
senza rotture e rovesciamenti. La drammaturgia di Plauto e Terenzio permane
centrale, anche se, ovviamente, ci sono cadenze nuove, accenti diversi, che integrano
e modificano parzialmente il sostrato originario. La conferma di questo assunto ci
viene dalla produzione teatrale di Angelo
Beolco detto Ruzante, che è il massimo autore di teatro del Cinquecento italiano, e
che pure fonda la propria originalità su
una scelta di violenta contrapposizione
alla cultura classicista: i suoi personaggi
sono contadini che parlano in dialetto pavano (Pava è il nome di Padova in dia-
Roma oltre Roma
19
letto); i suoi capolavori (Parlamento e Bilora) sono atti unici, estranei alla tradizione
classicista dell’opera in cinque atti. Ebbene, anche Ruzante, arrivato al termine
della sua stagione creativa, cede al fascino
dell’antico. Due delle ultime sue commedie, Piovana (1532) e Vaccaria (1533), non
sono nient’altro che parziali traduzioni in
dialetto rispettivamente del Rudens e dell’Asinaria di Plauto. Nel prologo della Piovana è detto, con molto gusto, che la commedia «l’è fata de legname vegio», ma proprio per questo risulterà ben fatta, perché
«el vegio è pí seguro», come accade alla
moneta vecchia che è meglio della nuova,
e al vino vecchio che è meglio del nuovo,
«e in conclusion, pur che el vegio non sapia da granzo [di rancido], l’è megio tegnirse a elo», è meglio tenersi ad esso.
© 2009 SEI - Torino
© 2009 by
20
La tragedia
l St
e lo
Stato
Accanto alla commedia, anche la tragedia
non è comprensibile senza l’apporto determinante del patrimonio latino. Le
classi dirigenti italiane del primo Cinquecento sono molto laiche, edonistiche,
amano il piacere e apprezzano dunque
l’impianto giocoso delle commedie, mentre risultano invece più estranee e indifferenti alle tragedie, che quindi sono rappresentate raramente nelle corti principesche. Ma il lavoro di intensa rielaborazione letteraria dei modelli antichi, effettuato dagli intellettuali italiani, si trasmette in eredità alla cultura francese, che
mostra un diverso senso dello Stato, e
che non disprezza pertanto di interrogarsi sul significato politico, che è sempre
alla base della riflessione tragica. Corneille e Racine riprendono motivi e situazioni della cultura latina e della romanità. A differenza di quella greca, la civiltà latina è per forza di cose imperiale,
più giuridico-organizzativa e un po’ meno
artistico-creativa. Là dove c’è uno Stato
moderno, forte, centralizzato (come in
Francia o nell’Impero asburgico), diventa
fondamentale l’utilizzo dell’impianto
ideologico desunto dal mondo romano.
Corneille ricorre ampiamente (in molte
sue tragedie, dai titoli rivelatori: Cinna,
Orazio, La morte di Pompeo, Nicomede, Sertorio), Racine un po’ meno (Britannicus,
© 2009 SEI - Torino
Società Editrice Internazionale
21
22
23
Bérénice, Mitridate) all’immaginario romano per mettere a fuoco il conflitto fra
dovere e passione, fra pubblico e privato, fra
la volontà del personaggio che rappresenta l’istituzione e le spinte sentimentali
del singolo individuo.
Il teatro
© 2009 by
Società Editrice Internazionale
24
Fig. 24 P.A. Novelli,
Gl’innamorati di C. Goldoni,
incisione dall’edizione
Pasquali, Venezia, 1761.
Fig. 25 C. Goldoni,
Le avventure
della villeggiatura,
regia di M. Castri, 19951996, produzione
del T.S. dell’Umbria e Teatro
Metastasio, foto di T. Le Pera.
Il tragic
tragico
o borghese
Nell’area dominata dall’egemonia culturale italo-francese, per tre lunghi secoli –
dal Cinque a tutto il Settecento – si
svolge dunque un processo unitario, bilanciato sulle due grandi strutture della
tradizione, la commedia e la tragedia, che
conservano le loro peculiarità originarie.
La tragedia porta in scena personaggi di
alto livello (sovrani nobili condottieri
ecc.) e il finale funebre contrassegna uno
scontro conflittuale fra il protagonista e il
resto del mondo. La commedia porta in
scena personaggi socialmente di livello
medio-basso e il finale lieto conclude una
conflittualità che generalmente contrappone padri e figli, vecchi e giovani, intorno alla conquista di una donna, con
vittoria finale del giovane. Naturalmente
tre secoli non passano invano e in Europa
sono secoli che pesano, che accompagnano la crescita progressiva della borghesia la quale, arrivata all’ultimo, non
può riconoscersi nel vestito troppo stretto dei
personaggi della commedia, ma non può
nemmeno riconoscersi nel vestito troppo
largo dei personaggi della tragedia. In alcuni voci della Enciclopedia (grandioso
strumento che, a metà Settecento, sta a
fondamento della cultura della civiltà borghese) si riconosce chiaramente che non
25
Roma oltre Roma
© 2009 SEI - Torino
© 2009 by
Società Editrice Internazionale
è possibile «mettere in scena il tragico borghese o, che è la stessa cosa, soggetti non
eroici». Si ammette, insomma, onestamente che tragedia e borghesia sono concetti antitetici, inconciliabili. Nell’attesa
però che nasca la nuova forma del
dramma (o dramma borghese, come anche
si dice) gli autori borghesi del Settecento
continuano a sottotitolare le loro opere
come commedie, anche se spesso i toni e
gli accenti sono davvero più da dramma
borghese che da commedia (si pensi ai capolavori goldoniani della Trilogia della villeggiatura, dei Rusteghi, de La casa nova, in
cui affiorano gli accenti drammatici delle
problematiche economiche di una borghesia asfittica, che ha perso slancio dinamico e capacità produttiva).
26
Fig. 26 Interno del Teatro
la Fenice, Venezia, progetto
di Antonino Selva, 1792.
Una linea spezzata
spezza
Va però osservato con attenzione che il
problema della permanenza della cultura
latina, oltre il termine naturale del tardo
antico, più ancora che questione di contenuti (tematiche, personaggi, ecc. che sopravvivono nel Cinque-Settecento), è
una questione di metodo, di attitudine concettuale, che noi facciamo tuttavia fatica
a comprendere, perché siamo ormai tutti
figli del Romanticismo. Il grande lascito
che la civiltà latina affida in eredità all’epoca moderna è infatti il concetto di
tradizione, che viene però violentemente
smantellato e abbattuto all’inizio dell’Ottocento dalla rivoluzione romantica,
la quale ha esaltato in modo fortissimo,
persino eccessivo, il valore dell’individualità, dell’originalità. Dal Romanticismo in poi ciò che conta è l’Io, irriducibile nel suo opporsi a ogni legame, a
ogni dipendenza. Il valore, il merito, la
qualità stanno solo nell’assoluta, totale,
radicale novità. Ben diversamente nella
cultura classica. Per la quale il valore, il
merito, la qualità stanno invece – tutt’al
contrario – nella capacità di collocarsi entro una linea di continuità, nella disponibilità a porsi come anello di una catena
lunga. L’anello è solido, ma perché si innesta in una catena solidissima.
© 2009 SEI - Torino
27
La Fedra di Racine
Racine scrive con la Fedra il suo capolavoro, ma Racine non ha nessun bisogno
di inventarsi il soggetto. È uno dei pochissimi artisti in grado di leggere anche
il greco, oltre che il latino (preziose le sue
annotazioni a testi di Euripide). La sua
Fedra è e vuole essere, prima di tutto, una
sfida all’Ippolito di Euripide e alla Fedra di
Seneca.
28
Il teatro
Fig 27 Manzoni, Adelchi,
regia di V. Gassman,
produzione del Teatro
Popolare italiano, 19591960.
Fig. 28 Racine, Fedra, regia
di L. Ronconi, produzione
TST, 1983-1984
(Annamaria Guarnieri,
Paola Cannoni), foto
Norberth, per concessione
del Centro Studi TST.
© 2009 by
Società Editrice Internazionale
29
30
La stessa cosa vale anche per l’opera tragica del nostro Vittorio Alfieri, quasi tutta
imbevuta di personaggi del teatro classico
(di provenienza sia greca che romana),
che scrive la sua Mirra proprio tenendo
presente la Fedra di Racine, di cui arriva
a riprendere qualche battuta, con scoperta evidenza. Dice Fedra alla propria
nutrice: «Io morivo questa mattina degna
di essere pianta; / ho seguito i tuoi consigli, io muoio disonorata». E Mirra parimenti alla propria nutrice: «Quand’io...
tel... chiesi, ... / darmi... allora, ... Euricléa,
dovevi il ferro... / io moriva... innocente;
... empia... ora... muojo...». Sembra quasi un plagio, ma, invece, è unicamente
la spia della serena accettazione della catena della tradizione. Alfieri si sente un
grande tragico perché si inserisce (e si
sente inserito) nella catena dei grandi tragici che l’hanno preceduto. Appropriarsi
di qualche verso di Racine è solo un
modo di certificare la propria appartenenza a quella catena. Ma la continuità
non impedisce la sfida. Il piacere narcisistico dello scrittore è di misurare e di
confrontarsi con dei modelli considerati
eccellenti. Il contenuto della Mirra si
configura infatti come una variante più
trasgressiva del mito di Fedra (non
l’amore semi-incestuoso di una matrigna
per il figliastro, ma l’amore pienamente
incestuoso della giovane principessa Mirra
per il proprio padre Ciniro, re di Cipro,
attinto a un episodio delle Metamorfosi di
Ovidio). Tutta la produzione teatrale
greco-latina e quella classicista italo-francese fra Cinque e Settecento rielaborano
continuamente vicende del patrimonio
originario della cultura antica, ma nessuno ha osato, in duemila anni di storia
del teatro, mettere in scena la vicenda di
Mirra, considerata giustamente troppo
scabrosa. È come se Alfieri si proponesse
– sorta di giocatore di poker – di rilanciare
la posta in gioco, assumendo una situazione più trasgressiva (l’incesto figlia-padre è più grave, ovviamente, dell’incesto
matrigna-figliastro). La scommessa da
vincere consiste nel dimostrare che si
può scegliere anche un argomento moralmente pericoloso, riuscendo egualmente
a creare un testo moralmente accettabile. Il
teatro ha la caratteristica di presupporre
un pubblico in carne e ossa, anzi, una
moltitudine di persone; la poesia si rivolge invece a un lettore isolato. Ciò che
avviene in pubblico è sempre più coinvolgente, potenzialmente più scandaloso,
di ciò che avviene nell’interiorità di un
La Mirra di Alfieri
Roma oltre Roma
© 2009 SEI - Torino
© 2009 by
individuo. Ovidio si può permettere di
raccontare di una figlia che, con uno stratagemma, va a letto con il padre, con reciproco piacere (sebbene il padre non
sappia che sia sua figlia, avvenendo gli incontri nel buio più assoluto della notte).
La stessa vicenda, portata sulle scene, susciterebbe reazioni di disgusto. La sfida di
Alfieri risulta vincente proprio nella misura in cui riesce a quadrare il cerchio,
con una serie di abili accorgimenti. Il
nostro tragico rifiuta prima di tutto la
soddisfazione della pulsione incestuosa
immaginata da Ovidio, con qualche evidente compiacimento morboso di
troppo da parte del poeta latino. La Mirra
di Alfieri muore senza essere riuscita a
strappare nemmeno un bacio al proprio
padre. Ma soprattutto questa Mirra si
presenta come una paradossale figura di
vergine dell’incesto (come è stata definita da
un brillante critico teatrale francese dell’Ottocento, Jules Janin), perché per cinque atti il personaggio non confessa mai
la sua passione tremenda. Per cinque atti
Mirra parla e parla (da sola, con la nutrice, con il fidanzato, con i genitori),
parla e piange, ma nessuno (e tanto meno
lo spettatore) riesce a capire il motivo
della sua sofferenza, tanto più inesplicabile perché tutto avviene alla vigilia delle
nozze con un giovane principe scelto da
lei (e non già dai genitori). Solo all’ultima
scena dell’ultimo atto Mirra si apre a una
mezza confessione con il padre, ma, subito dopo, con prontezza fulminea,
strappa il pugnale al padre e si suicida,
punendosi dunque del proprio selvaggio
amore.
Società Editrice Internazionale
stra; / un’altra volta sarà Roma o Pisa, /
cosa da smascellarsi per le risa». Vuol
dire che la stessa scenografia – rappresentante uno spicchio di città astratta,
non realistica – potrà servire in altre occasioni come fondale di commedie ambientate a Roma o a Pisa. Non è altro che
una citazione del prologo dei Meaechmi
plautini: «Questa città è Epidamno, almeno finché si rappresenterà questa
commedia; / quando se ne dovrà rappresentare un’altra, diventerà un’altra
città».
31
32
Un gioc
gioco
o di rimandi
Ci siamo soffermati sul caso Alfieri-Racine, ma gli esempi che testimoniano di
questa pratica sono infiniti. Nel prologo
della Mandragola di Machiavelli viene
presentato al pubblico “l’apparato”, cioè
il fondo scenografico che rappresenta la
città di Firenze, dove è ambientata la
commedia: «Vedete l’apparato, / qual
ora vi si dimostra: / questa è Firenze vo-
© 2009 SEI - Torino
Il teatro
Figg. 29-30 Alfieri, Mirra,
incisioni da un testo del
1870 illustrato da G. Gonin.
Fig. 31 Costruzione
di modelli scenici tratti
da N. Sabbatini, Pratique
pour fabriquer scenes
et machines de théâtre,
Parigi, 1942.
Fig. 32 Machiavelli,
Mandragola, regia
di M. Missiroli, Produzione
TST, 1983-1984, foto
Buscarini, per concessione
del Centro Studi TST.
© 2009 by
Fig. 33 Molière,
Misantropo,
regia di G. Lavia,
1999-2000,
produzione
del TST, foto
Le Pera, per
concessione del
Centro Studi TST.
Società Editrice Internazionale
33
Un orizzonte
perduto
Le immagini
tratte
da spettacoli
teatrali
provengono
dall’archivio
del Centro
Studi del Teatro
Stabile di
Torino. L’Editore
ringrazia
per la sua
collaborazione
la dottoressa
Anna Peyron.
Naturalmente può apprezzare questo
gioco di rimandi, di citazioni indirette,
solo uno spettatore (e un lettore) raffinato,
che conosca bene l’intero orizzonte culturale (il ventaglio Ovidio/Racine/Alfieri o
quello Plauto/Machiavelli, nei due esempi
avanzati) e che sappia cogliere il senso del
rinvio, dell’allusione. Ma questo è il significato profondo della permanenza della cultura latina, che è cioè, da un lato, soddisfatta collocazione all’interno di una tradizione alta, sentita come elitaria e, dall’altro lato, compiaciuto gusto a mostrare
la propria originalità in un confronto continuo e serrato con la tradizione stessa. Per
tutto questo, in verità, non sembra esserci
possibilità di sopravvivenza dentro la cornice del mondo contemporaneo del Novecento e tanto più in quello attuale del
Duemila. Certo, non mancano talune testimonianze in controtendenza (ad esempio la diseguale ma suggestiva Fedra che
D’Annunzio compone nel 1909, in fic-
cante emulazione con la nobile tradizione
Euripide/Seneca/Racine), ma sono fenomeni residuali, assolutamente minoritari.
Peggio ancora quando il grande compositore russo Stravinskij crea nel 1927 l’operaoratorio Œdipus rex e chiede a Cocteau, in
quella occasione, di stendere il libretto in
versi latini. È la pura testimonianza di un
modello linguistico-culturale percepito (ed
esibito) proprio come cristallizzato, freddo,
morto, perduto per sempre. D’altra parte è
indubbio che siamo ormai dentro una cultura di massa (e non più una cultura di élite),
in cui prevale la semplificazione, la banalità, la divulgazione; in cui tutto è gridato,
esasperato dai mezzi di comunicazione,
dai media, dai giornali, dalle televisioni (e
oggi soprattutto da Internet). Si è perso irrimediabilmente il senso del testo, dello scavo
nel testo, del gioco a variare il modello testuale. Si è perso addirittura il senso della proprietà intellettuale del testo. Internet è una
sorta di grande supermercato di prodotti
culturali e artistici, in cui chiunque entra e
si appropria di ciò che vuole, grazie alla nefasta trinità del copia/taglia/incolla.
Bibliografia essenziale
M. Baratto, La commedia del Cinquecento (aspetti e problemi), Vicenza, Neri Pozza, 1977.
R. Alonge, La riscoperta rinascimentale del teatro, in AA. VV., Storia del teatro moderno e
contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2000, vol. I,
pp. 5-118.
R. Alonge-R. Tessari, Manuale di storia del teatro, Torino, UTET Libreria, 2001.
R. Alonge, Mirra l’incestuosa. Ovidio Alfieri Ristori Ronconi, Roma, Carocci, 2005.
R. Alonge, Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese, Milano, Garzanti, 2004.
G. Paduano, Shakespeare e l’alienazione dell’io. Quattro letture, Roma, Editori Riuniti, 2007.
Roma oltre Roma
© 2009 SEI - Torino