I. L`interpretazione nello Stato di diritto costituzionale

I.
L’interpretazione nello Stato di diritto costituzionale
SOMMARIO: 1. L’interpretazione nelle teorie giuridiche contemporanee. – 2. Interpretazione e stato di diritto costituzionale. – 3. Validità di disposizioni e validità
di norme. – 4. La “costituzionalizzazione” dell’ordinamento giuridico italiano. –
5. Neocostituzionalismo e “diritto come interpretazione”. – 6. La teoria del diritto
come pratica sociale argomentativa. – 7. L’“aria di famiglia” fra i vari giochi dell’interpretazione. – 8. L’interpretazione giuridica ha un carattere idiosincratico?
1. L’interpretazione nelle teorie giuridiche contemporanee
Prima di entrare nel merito del tema specifico oggetto della mia analisi, è opportuno premettere alcune considerazioni sul contesto di sfondo in
cui oggi, nella cultura giuridica dei paesi occidentali (ma con particolare
riferimento al nostro paese), viene a collocarsi la teoria dell’interpretazione giuridica, considerata come settore della teoria del diritto.
È importante precisare, però, onde evitare equivoci, che in questo paragrafo introduttivo intendo la nozione di “interpretazione” in un senso
molto più ampio rispetto a quello, ben più ristretto, che adotterò in questo
volume. Nel suo senso ampio per “interpretazione” può intendersi quel
complesso di attività intellettuali di giuristi e operatori, svolto su base
linguistica, attraverso le quali questi soggetti non solo producono norme
esplicite a partire da disposizioni normative (legislative, costituzionali,
eccetera) preesistenti, ma integrano anche il discorso del legislatore, ad
esempio colmando lacune attraverso l’introduzione di nuove norme (norme implicite); oppure risolvendo antinomie fra norme; oppure, ancora,
attribuendo alle disposizioni significati compiuti che prescindono dal loro
significato convenzionale di partenza, nel senso che non sono ottenuti attraverso un processo di arricchimento semantico di quello stesso significato convenzionale. In questo complesso di attività intellettuali includo,
inoltre, anche tutte le altre attività che in qualche modo possono servire a
raggiungere gli scopi dell’attribuzione di un significato ad una disposi-
2
CAPITOLO I
zione o della produzione di una nuova norma, o sono comunque collegate
con questi scopi: ad esempio, le attività di carattere preliminare all’interpretazione vera e propria (ad esempio, l’individuazione delle disposizioni
applicabili ad un dato caso, l’accertamento della loro “validità”, e così
via), e le attività di carattere argomentativo, che valgono eventualmente a
giustificare l’opzione semantica privilegiata 1.
Ebbene, la teoria dell’interpretazione occupa oggi un posto assolutamente cruciale nella teoria del diritto (e, più in generale, nella filosofia
del diritto 2) contemporanea. Intendiamoci, la teoria dell’interpretazione
ha sempre avuto un posto importante all’interno della teoria giuridica. Non
c’è manuale o trattato di teoria del diritto che non abbia dedicato alcune
pagine o un capitolo intero a questo tema. Se prendiamo le grandi teorie del
diritto del secolo scorso, notiamo, però, che l’interpretazione viene tutto
sommato considerata come un “argomento di settore”, sia pure di importanza decisiva. Se, ad esempio, guardiamo all’opera di Kelsen, ci accorgiamo che nella Dottrina pura del diritto 3 l’interpretazione giuridica è
discussa nell’ultimo capitolo, e dunque dopo che sono stati affrontati e
risolti, in via pregiudiziale, tutti i problemi che Kelsen considera di carattere fondamentale: i problemi, cioè, legati all’identificazione e all’attribuzione di validità alle norme giuridiche e poi all’inserimento di queste norme all’interno di un sistema che le ricomprenda. Per Kelsen, insomma,
l’interpretazione interviene su di un diritto di cui è già stata accertata, in
modo indipendente rispetto all’interpretazione, l’esistenza (alla luce della
categoria della validità).
Il discorso non cambia se prendiamo in considerazione l’opera di un
altro grande teorico del diritto del secolo scorso, Alf Ross. Anche in Diritto e giustizia 4 il capitolo sull’interpretazione è soltanto il quarto, e tro1
Su questo senso “ampio”, o “lato”, o “larghissimo” di interpretazione giuridica, cfr.,
fra gli altri, E. Diciotti, Verità e certezza nell’interpretazione della legge, Giappichelli,
Torino, 1999, pp. 57-59; P. Chiassoni, Tecnica dell’interpretazione giuridica, Il Mulino,
Bologna, 2007, pp. 50, 60-63; M. Barberis, Il diritto come discorso e come comportamento. Trenta lezioni di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 1990, p. 255.
2
Per la distinzione fra “filosofia del diritto” e “teoria del diritto” rinvio al mio Il positivismo giuridico: metodi, teorie e giudizi di valore, Giappichelli, Torino, 2004, pp. 37-39.
3
H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Franz Deuticke, Wien, 1960; trad. it. La dottrina pura
del diritto, Einaudi, Torino, 1975, cap. VIII. A proposito del ruolo giocato dall’interpretazione nella teoria del diritto di Kelsen, Prieto Sanchís nota, correttamente a mio avviso, che
la teoria di Kelsen è una «teoria del diritto senza interpretazione» (L. Prieto Sanchís, La teoria del diritto nei “principia juris” di Luigi Ferrajoli, in P. Di Lucia (a cura di), Assiomatica
del diritto. Filosofia e critica del diritto in Luigi Ferrajoli, Led, Milano, 2011, p. 190).
4
A. Ross, On Law and Justice, Steven & Sons, London, 1958; trad. it. Diritto e giustizia, Einaudi, Torino, 1990 (Ia ed. 1965), cap. IV.
L’INTERPRETAZIONE NELLO STATO DI DIRITTO COSTITUZIONALE
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va posto dopo che, nei capitoli precedenti, l’autore ha affrontato il problema dell’esistenza normativa del diritto (esistenza che per lui non può
che essere una “esistenza empirica”).
Oggi, invece, un buon numero di testi che si pongono l’ambizioso obiettivo di presentare una concezione generale, una visione di insieme del
diritto, pongono l’interpretazione, o l’argomentazione (per il momento non
mi interessa fare questa distinzione) come idea centrale, vero e proprio
fulcro attorno al quale far ruotare la trattazione 5.
La centralità della teoria dell’interpretazione può essere declinata in
due modi: si può dire cioè, alternativamente, o che la nozione di interpretazione è un elemento necessario e pregiudiziale per render conto delle
altre nozioni giuridiche fondamentali; oppure che è proprio l’interpretazione ad incarnare l’idea stessa di diritto positivo (nel senso che il diritto
stesso è, nel suo nucleo di significato primario e centrale, una pratica interpretativa).
Resta il fatto che l’interpretazione, in questi studi, non è più una delle
– sia pur necessarie – parti di una teoria del diritto che si è già sviluppata
prendendo in esame altre nozioni, considerate come pregiudiziali, ma costituisce al contrario un elemento logicamente prioritario rispetto agli altri. Si badi bene, non è una questione di carattere quantitativo; come ben
dicono Viola e Zaccaria 6, quello che accade non è tanto che il capitolo
dell’interpretazione diventa più corposo, quanto che la teoria dell’interpretazione assume una importanza decisiva per la descrizione del diritto
stesso 7. Lo studio dell’interpretazione, in altri termini, entra in campo
proprio quando si tratta di affrontare la questione dell’esistenza del diritto
e della sua validità.
Anche a prescindere da queste letture più radicali della centralità dell’interpretazione, oggi, molto più frequentemente che in passato, il tema è
oggetto di studi approfonditi, anche a partire da tradizioni giusfilosofiche
molto diverse tra di loro 8.
5
Si vedano, a titolo di mero esempio, R. Dworkin, Law’s Empire, Fontana Press,
London, 1986; A. Aarnio, The Rational as Reasonable. A Treatise on Legal Justification,
Reidel, Dordrecht, 1987; M. Atienza, El derecho como argomentación, Ariel, Barcelona,
2006.
6
F. Viola-G. Zaccaria, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del
diritto, Laterza, Bari-Roma, 1999, p. V.
7
Cfr., per questo tipo di considerazione, D. Canale, Forme del limite nell’interpretazione giudiziale, Cedam, Padova, 2003.
8
Si veda, ad esempio, da una parte il lavoro, ormai classico, di N. MacCormick, legato ad un giuspositivismo di ispirazione analitica (Legal Reasoning and Legal Theory, Clarendon Press, Oxford, 1978; trad. it. Ragionamento giuridico e teoria del diritto, Giappichel-
4
CAPITOLO I
2. Interpretazione e stato di diritto costituzionale
Quali sono le cause che hanno determinato questo diverso ruolo giocato dall’interpretazione nelle teorie giuridiche contemporanee? Dare una
risposta completa e articolata fuoriesce completamente dagli obiettivi di
questa indagine. In linea generale possiamo dire, seguendo una schematizzazione particolarmente appropriata proposta da Prieto Sanchís 9, che il
pendolo della cultura giuridica occidentale tende oggi a oscillare in direzione della grande tradizione giusfilosofica del pensiero dialettico o problematico, e ad allontanarsi, invece, da quella del pensiero razionalistico
o sistematico. La prima tradizione vede nel diritto, più che un universo
normativo, un insieme di argomenti idonei ad orientare il ragionamento
(dei giuristi, degli operatori, e così via), non ritenendo possibile ricostruire l’ordine giuridico come un sistema razionale, unitario, completo e coerente. La seconda tradizione vede il diritto come un ordine razionale dotato di una logica interna, o quantomeno come un oggetto di analisi suscettibile di una conoscenza e di una ricostruzione razionale.
Senza nemmeno voler tentare, come ho detto, di fornire una risposta
di carattere generale alla questione posta sopra, una risposta parziale può
però essere data con riferimento alle cause più recenti, quelle che spiegano l’odierna fortuna della nozione di interpretazione: le cause che riguardano il contesto culturale e istituzionale in cui oggi si collocano le organizzazioni giuridiche dei paesi occidentali. Proverò adesso ad elencare
quelle che mi sembrano le principali, facendo particolare riferimento alla
nostra organizzazione giuridica.
In realtà queste cause ruotano tutte attorno al fatto che le organizzazioni giuridiche occidentali si sono già da tempo dotate di un livello ulteriore di norme, le norme costituzionali, posto al di sopra del livello di cui
fanno parte le leggi; è per questo motivo che tali organizzazioni vengono
chiamate stati di diritto costituzionali.
Non è certo questa la sede per soffermarsi sulle caratteristiche degli
stati di diritto costituzionali e sulle loro differenze con gli stati di diritto
ottocenteschi; mi interessa soltanto ricavare dalla presenza delle costituzioni (e in particolare di una costituzione scritta e rigida come la nostra)
li, Torino, 2001); dall’altra gli importanti studi, ispirati alla filosofia classica, di Cavalla e
della sua scuola, nei quali il discorso interpretativo si inserisce nel più generale quadro del
discorso retorico (cfr. F. Cavalla, Retorica, processo, verità. Principi di filosofia forense,
Franco Angeli, Milano, 2007). In ambito ermeneutico, oltre al lavoro già citato di F. Viola
e G. Zaccaria, si può anche vedere il recente lavoro di V. Omaggio-C. Terlizzi, Ermeneutica e interpretazione giuridica, Giappichelli, Torino, 2010.
9
L. Prieto Sanchís, La teoria del diritto, cit., p. 181.
L’INTERPRETAZIONE NELLO STATO DI DIRITTO COSTITUZIONALE
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alcune implicazioni che ne mettano in luce la connessione con la notevole
fortuna della nozione di interpretazione nella teoria del diritto contemporanea.
Svilupperò queste implicazioni guardando in via particolare alla nostra
esperienza giuridica. Ebbene, la presenza di una costituzione scritta e rigida favorisce la centralità dell’interpretazione in tre modi diversi.
3. Validità di disposizioni e validità di norme
In un primo modo, la centralità dell’interpretazione può essere spiegata facendo riferimento alle conseguenze che la presenza stessa di una costituzione come la nostra determina sulla “validità delle disposizioni” e
sulla “validità delle norme giuridiche”.
Non a caso ho qui posto una differenza fra la “validità” come predicato di disposizioni e la “validità” come predicato di norme. Questa distinzione implica l’accettazione di alcune tesi teoriche che è bene esplicitare,
sia pure brevemente.
La prima tesi teorica è quella che distingue fra le disposizioni giuridiche, viste come enunciati facenti parte del discorso del legislatore, e le
norme, viste come significati attribuiti, in sede di interpretazione, a questi
enunciati. Si tratta di una tesi che, originariamente avanzata nell’ambito
della nostra teoria analitica del diritto 10, ha conosciuto nel corso di questi
decenni una notevole diffusione, anche in ambiti teorici diversi rispetto a
quelli originari. Qui per “enunciato” deve intendersi l’unità minimale della comunicazione linguistica, una sequenza di parole “sintatticamente ben
formata”, cui è possibile attribuire uno o più significati 11. Da ciò segue
che le disposizioni sono gli enunciati del diritto visto come “linguaggiooggetto”, gli enunciati prodotti da un organo che ha la competenza per
farlo.
Da questo punto di vista, l’interpretazione può essere caratterizzata come quell’attività che produce norme (che cosa implichi “produrre norme”
attraverso l’interpretazione lo vedremo dopo), attribuendo significati alle
disposizioni.
10
Il primo filosofo del diritto a formulare questa tesi in termini rigorosi sul piano della
filosofia del linguaggio è stato Giovanni Tarello. Una formulazione particolarmente chiara e persuasiva di questa tesi la si può trovare in G. Tarello, L’interpretazione della legge,
Giuffrè, Milano, 1980, pp. 9-10.
11
Cfr. G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, Il Mulino, Bologna, 1974, p. 143 ss.
6
CAPITOLO I
La seconda tesi teorica che è presupposta dalla distinzione fra “validità delle disposizioni” e “validità delle norme” è quella che individua nella
“esistenza” la categoria generale all’interno della quale inserire le varie
predicazioni (“efficacia”, “validità”, “applicabilità”) che possono essere
attribuite alle disposizioni e alle norme 12. È proprio all’interno della categoria della esistenza che possiamo inserire la predicazione della validità. In linea generale, la validità è una caratteristica di disposizioni e di
norme che determina la loro appartenenza ad un ordinamento giuridico e
che dipende dalla conformità della produzione del singolo enunciato o
della singola norma alle norme, formali e sostanziali, che ne disciplinano
la creazione e ne circoscrivono il contenuto 13.
Sulla base di questi presupposti, possiamo adesso chiarire la distinzione
fra validità di una disposizione e validità di una norma. La prima riguarda
la dimensione formale della validità, e consiste nella conformità del modo
di produzione della disposizione in questione allo schema predisposto dalle
norme gerarchicamente superiori (ad esempio, la conformità del modo di
produzione della disposizione legislativa rispetto allo schema predisposto
dalle norme costituzionali che disciplinano la materia in questione). In questo senso la validità formale è una proprietà di disposizioni 14, perché, per
questo tipo di accertamento relativo alla correttezza della modalità di produzione, non rileva per nulla il contenuto delle disposizioni stesse. Se, invece, parliamo di “validità di una norma” allora facciamo riferimento alla
dimensione materiale della validità: una norma è materialmente valida
quando non è incompatibile con le norme di grado superiore che ne predeterminano il possibile contenuto (si pensi, ad esempio, al possibile contrasto fra il contenuto di una norma di legge ed un principio costituzionale) 15.
Si tratta di un tipo di validità che chiaramente riguarda norme, e non disposizioni, perché coinvolge l’accertamento non solo del contenuto della norma la cui validità è in discussione, ma anche del contenuto della norma superiore che funge da parametro per stabilire la validità della norma inferiore. È importante precisare, a questo proposito, che questi processi di accertamento consistono essenzialmente in attività interpretative 16.
12
Riprendo, per tutte queste distinzioni connesse con le nozioni di “esistenza” e di
“validità” di disposizioni e di norme, l’illuminante analisi di G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello stato costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2010, pp.
20-40.
13
Per questa definizione cfr. R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Giuffrè, Milano, 1980, p. 129.
14
Così G. Pino, Diritti e interpretazione, cit., p. 25.
15
Cfr. ancora R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., p. 130.
16
G. Pino, Diritti e interpretazione, cit., p. 28.
L’INTERPRETAZIONE NELLO STATO DI DIRITTO COSTITUZIONALE
7
Siamo così tornati al discorso sul primo modo in cui può essere spiegata la centralità dell’interpretazione negli stati di diritto costituzionali. Nelle concezioni giuspositivistiche tradizionali, che non tengono conto in modo adeguato degli elementi di grande novità introdotti nei nostri ordinamenti dalla presenza delle costituzioni, la nozione di validità di una norma viene ricondotta alle sue caratteristiche formali. Il caso paradigmatico
di una teoria formale di questo tipo è rappresentato dalla posizione espressa
da Kelsen 17. Oggi, invece, molti teorici del diritto sostengono, a mio avviso a ragione, che una nozione meramente formale di validità non è in
grado di spiegare come le disposizioni legislative aquistino una esistenza
normativa nel contesto degli stati di diritto costituzionali; e la ragione è
che le disposizioni legislative, in tale tipo di contesto istituzionale, non
sono sottoposte soltanto a vincoli di tipo formale, ma anche a vincoli di
tipo sostanziale (legati alla presenza dei principi costituzionali). Proprio a
causa della presenza di questi vincoli di carattere sostanziale, le disposizioni di cui sopra passano attraverso il filtro costituito da un test ulteriore
rispetto a quello che consiste nella verifica della correttezza formale dell’atto produttivo che le pone in essere: si tratta, per l’esattezza, del test che
consiste nell’accertamento della conformità del contenuto di significato
delle disposizioni stesse rispetto a quello dei principi costituzionali. Questo “accertamento sulla conformità” presuppone l’interpretazione del contenuto di significato delle disposizioni legislative in questione, ma anche
del contenuto di significato dei principi costituzionali; il confronto che si
instaura, pertanto, è un confronto fra norme.
Questo è quello che accade, ad esempio, quando la nostra Corte costituzionale, investita di una questione di costituzionalità relativa ad una disposizione legislativa, si preoccupa di accertare la conformità o meno del
contenuto di questa disposizione rispetto al contenuto di uno o più principi costituzionali che sono rilevanti per la materia del contendere.
Come ho detto sopra, l’interpretazione gioca un ruolo assolutamente decisivo nel processo di controllo della validità materiale di una legge. Infatti, è attraverso l’interpretazione (sia delle disposizioni di cui è in questione la legittimità, sia dei principi costituzionali coinvolti nella decisione) che è possibile accertare se quella disposizione debba o meno essere
annullata (e dunque privata della sua esistenza giuridica).
Proprio per questa ragione Ferrajoli 18 si preoccupa di distinguere, in
una visione dinamica del processo di accertamento della validità che ne
17
H. Kelsen, Reine Rechtslehre, cit., pp. 16-17, 216-227.
L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Bari-Roma,
1989, pp. 97, 348-349, 476, 916.
18
8
CAPITOLO I
coinvolge entrambe le dimensioni, quella formale e quella materiale, due
fasi diverse del processo con cui le disposizioni acquistano validità: la fase del vigore, che è quella in cui la disposizione, in quanto posta da un
atto normativo formalmente ineccepibile, raggiunge un primo stadio di
esistenza; e la fase della validità in senso pieno, che è quella in cui il contenuto della disposizione in vigore viene considerato conforme al contenuto dei principi costituzionali rilevanti per la sua validità: e ciò può avvenite, o in via esplicita, perché la norma supera positivamente il giudizio di
legittimità costituzionale; ovvero per via implicita, perché la norma, in un
dato momento “x”, non è stata ancora sottoposta a tale giudizio (e la si ritiene implicitamente valida). È appena il caso di notare che questi giudizi
sono interamente basati sull’esito di processi interpretativi.
È importante, adesso, tirare le somme di questo ragionamento, per ricavarne alcune implicazioni in merito alla centralità dei processi di interpretazione negli stati di diritto costituzionali. Orbene, se è vero che in
queste organizzazioni giuridiche la “esistenza in quanto validità” di una
norma dipende anche dalla sua conformità materiale rispetto alle norme
di grado superiore, e che l’accertamento di questa conformità dipende da
attività di tipo interpretativo, allora è altrettanto vero che queste ultime attività intervengono direttamente a determinare l’esistenza stessa delle norme. L’interpretazione, dunque, non potrà più essere considerata un elemento ulteriore di una teoria del diritto, un elemento di cui si deve necessariamente tener conto, ma che si aggiunge soltanto dopo che sia stata compiuta l’analisi dei meccanismi che determinano l’esistenza stessa delle norme. L’interpretazione, al contrario, entra direttamente, e in modo decisivo,
nei meccanismi che producono l’esistenza delle norme.
4. La “costituzionalizzazione” dell’ordinamento giuridico italiano
In un secondo modo, la peculiare centralità dell’interpretazione negli
stati di diritto costituzionali non dipende più, questa volta, dalla mera presenza della Costituzione, ma dal fatto che si sia attivato e sia stato portato
a compimento quel processo culturale cui viene dato il nome di “costituzionalizzazione”. Con questo termine ci si riferisce a «un processo di trasformazione di un ordinamento al termine del quale esso risulta totalmente “impregnato” dalle norme costituzionali» 19. Si tratta di un processo
19
La definizione è di R. Guastini (La “costituzionalizzazione” dell’ordinamento italiano, in “Ragion Pratica”, 11, 1990, p. 185), al quale dobbiamo l’analisi più acuta e penetrante di questo fenomeno.
L’INTERPRETAZIONE NELLO STATO DI DIRITTO COSTITUZIONALE
9
culturale storicamente contingente, nel senso che non si attiva necessariamente a seguito della emanazione di una costituzione dotata di determinate caratteristiche (una costituzione rigida, protetta o garantita contro
la legislazione ordinaria, all’interno della quale è assicurato un controllo
sulla conformità delle leggi alla costituzione stessa); sta di fatto che nel
nostro paese questo processo si è realizzato, in un arco di tempo che va
dagli inizi degli anni ’60 (anche a seguito della entrata in funzione della
Corte costituzionale (1956)), ai nostri giorni, e adesso si presenta come
un insieme di idee e di atteggiamenti assolutamente dominanti. Tale processo, con specifico riferimento alla nostra cultura giuridica, è consistito
nella progressiva scoperta della costituzione da parte della cultura giuridica, sia nel senso che tutta la costituzione viene percepita come giuridicamente vincolante, che nel senso che tutti gli operatori giuridici sono chiamati a contribuire alla sua realizzazione 20.
È chiaro che, in un contesto del genere, aumenta il peso e l’importanza
dell’interpretazione, e proprio perché si allarga a dismisura il settore dell’interpretazione costituzionale, quella forma di interpretazione che si rivolge alle disposizioni costituzionali; e aumenta di pari passo il ruolo e
l’importanza della teoria dell’interpretazione all’interno della teoria del
diritto. Infatti, in un contesto del genere: i) i principi costituzionali si applicano anche ai rapporti fra privati; ii) la Costituzione è oggetto di interpretazione diretta da parte dei giudici ordinari 21; iii) la Costituzione è oggetto di sovra-interpretazione o di interpretazione estensiva, nel senso
che si ritiene che da essa possa essere tratta una serie innumerevole di
norme implicite (norme che non sono direttamente ricavate mediante interpretazione da una specifica disposizione o combinazione di disposizioni 22) 23. L’interpretazione costituzionale, pertanto, è una sorta di “macchina costantemente in funzione” nel nostro ordinamento: essa, infatti, si
attiva non soltanto nei casi in cui mancano le disposizioni di legge applicabili, ma anche in tutti quei casi (i “casi difficili”) in cui ad una disposizione possono essere attribuiti più significati; in questi casi l’atteggiamento dominante di dottrina e giurisprudenza è quello di accordare la
20
G. Pino, Diritti e interpretazione, cit., p. 121.
Nel famoso “caso Englaro” la Cassazione civile (sez. I, sentenza 16-10-2007, n.
21748) considera direttamente applicabile, nel caso in questione, il principio del consenso
informato, principio implicito che la Cassazione stessa ricava da una lettura congiunta degli
artt. 2, 13 e 32 della Costituzione.
22
R. Guastini, Dalle fonti alle norme, Giappichelli, Torino, 1990, p. 31.
23
Su queste tre caratteristiche della costituzionalizzazione cfr. ancora G. Pino, Diritti
e interpretazione, cit., pp. 122-124.
21
10
CAPITOLO I
preferenza, fra tutti i significati possibili, a quello che si “armonizza meglio” con i principi costituzionali (previamente interpretati, ovviamente) rilevanti per il caso in questione.
5. Neocostituzionalismo e “diritto come interpretazione”
In un terzo modo, la peculiare centralità dell’interpretazione negli stati
di diritto costituzionali si trasforma in qualcosa di ancora più rilevante,
dal punto di vista teorico, rispetto ai due modi precedenti: voglio dire che
in questo caso l’interpretazione entra ancora più in profondità nel cuore
della teoria del diritto. Essa non è più valorizzata soltanto per la pervasività e l’importanza della sua funzione all’interno dei meccanismi di funzionamento di queste organizzazioni giuridiche. Con un salto qualitativo degno di nota, essa diventa, per alcune teorie del diritto, la caratteristica fondamentale del diritto stesso, il dato che viene selezionato come prioritario
per render conto, in termini complessivi, dell’esperienza giuridica (in un
certo senso, per queste teorie, “il diritto è interpretazione”).
Questa collocazione dell’interpretazione come oggetto privilegiato di
indagine per la teoria del diritto chiama in causa quella costellazione di
concezioni che si suole etichettare con il termine “neocostituzionalismo” 24,
perché è all’interno di questo gruppo di concezioni che tali posizioni tendono a diffondersi.
Non è qui possibile, nello spazio di questa monografia, entrare nel merito delle variegate concezioni neocostituzionaliste, se non per dire che esse
sostengono tesi molto diverse tra loro, che è molto difficile ricondurre alla coerenza e omogeneità che dovrebbe essere patrimonio di una singola
tradizione di ricerca. In realtà è molto più facile definire il neocostituzionalismo “in negativo” (cosa che ho fatto in un mio lavoro precedente 25),
come gruppo di posizioni che cerca di mettere in questione l’impianto teorico del giuspositivismo tradizionale (visto nella successione diacronica
di posizioni che vanno da Kelsen ad Hart), attraverso una serie di osserva24
Gli studi dedicati a questo gruppo di concezioni sono in costante aumento. Qui mi
limito a ricordare il libro di Susanna Pozzolo (Neocostituzionalismo e positivismo giuridico,
Giappichelli, Torino, 2001), che sembra abbia avuto avuto il merito di coniare il termine,
e la bella analogia curata da Tecla Mazzarese (Neocostituzionalismo e tutela (sovra)nazionale dei diritti fondamentali, Giappichelli, Torino, 2002). Cfr. anche il saggio di A. Schiavello, Neocostituzionalismo o neocostituzionalismi?, in “Diritto & questioni pubbliche”,
3, 2003, pp. 37-49.
25
V. Villa, Il positivismo giuridico: metodi, teorie e giudizi di valore. Lezioni di filosofia
del diritto, Giappichelli, Torino, 2004, cap. VIII.
L’INTERPRETAZIONE NELLO STATO DI DIRITTO COSTITUZIONALE
11
zioni critiche che ne toccano perlomeno quattro supposti “difetti”: i) la nozione puramente formale di validità giuridica; ii) la mancata distinzione
fra regole e principi; iii) la tesi della assenza di una connessione necessaria fra diritto e morale; iv) la tesi della presunta neutralità dell’accostamento metodologico del giurista al diritto positivo.
Rilevo molto brevemente che, nei limiti in cui tali critiche possano rilevarsi fondate (e in gran parte lo sono), esse toccano, è vero, alcuni punti
rilevanti della teoria e della metodologia ascrivibili al giuspositivismo,
ma non ne mettono in questione il nocciolo concettuale fondamentale, gli
elementi sulla base dei quali è possibile fornirne una definizione concettuale 26. Da questa definizione, sulla quale non posso qui soffermarmi, risulta come vi sia una opposizione concettuale mutuamente esclusiva fra
giuspositivismo e giusnaturalismo, tale per cui non è concepibile una tradizione di ricerca giusfilosofica che si presenti come un tertium genus, come una tradizione alternativa ulteriore rispetto alle prime due. Le concezioni neocostituzionaliste, quindi, possono essere considerate, in relazione al loro impianto concettuale, come appartenenti o alla tradizione di ricerca del giuspositivismo, ovvero a quella del giusnaturalismo.
6. La teoria del diritto come pratica sociale argomentativa
Il punto che mi preme sottolineare in questa sede, tuttavia, non è quello della qualificazione metateorica delle concezioni neocostituzionaliste,
ma piuttosto il fatto che è all’interno di queste concezioni (ma non solo di
queste) che la tesi “il diritto è interpretazione” ha conosciuto una particolare fortuna. È il caso, ad esempio, della concezione di Dworkin, dove il
diritto è considerato come una pratica sociale di carattere argomentativo 27, una pratica all’interno della quale è proprio attraverso attività di carettere argomentativo (di cui l’interpretazione è una parte) che i membri
“laici” di un ordinamento giuridico (ma anche i giudici e i teorici del diritto) colgono il senso di ciò che le proposizioni giuridiche richiedono o
permettono in relazione ai loro comportamenti. La formulazione di Dworkin è piuttosto confusa, per la principale ragione che non è chiaro se con
la locuzione “proposizioni giuridiche” Dworkin intenda riferirsi a enunciati normativi facenti parte del linguaggio-oggetto (il linguaggio del le26
Per questa definizione concettuale di “giuspositivismo” rinvio di nuovo al mio Il
positivismo giuridico, cit., cap. II.
27
R. Dworkin, Law’s Empire, cit., pp. VII, 13.
12
CAPITOLO I
gislatore, ad esempio), ovvero a segmenti del linguaggio usato dai giuristi
e dai giudici nell’interpretare il linguaggio del legislatore.
Anche a prescindere dal riferimento a Dworkin, tuttavia, il punto che
voglio mettere in evidenza è che l’odierna svolta a favore di concezioni
giuridiche “orientate verso la pratica” 28 non è riconducibile soltanto a studiosi di ispirazione neocostituzionalista, ma rappresenta un “cambiamento di paradigma” che coinvolge studiosi di orientamenti teorici diversi 29.
Il paradigma della “teoria del diritto come pratica sociale interpretativa”, reinterpretato in chiave giusfilosofica analitica, rappresenta uno dei
presupposti teorici di sfondo della teoria pragmaticamente orientata dell’interpretazione giuridica che presento in queste pagine. La teoria del diritto practice oriented esprime una forte e netta presa di distanza dalle concezioni oggettualistiche del diritto, dominanti fino agli anni ’60 del secolo
scorso 30. In accordo con queste ultime le regole giuridiche rappresentano
dei dati oggettivi (normativi o fattuali che siano) che si offrono alla descrizione dei giuristi e dei teorici, e che preesistono rispetto alle varie attività
(di interpretazione, di uso sociale, di applicazione giudiziale) che poi a
tali dati faranno riferimento.
Molto diversamente stanno le cose secondo l’approccio che guarda al
diritto come pratica sociale: secondo la versione che offre di questa teoria
la filosofia del diritto analitica, versione che a mio avviso può senz’altro
riconnettersi al lavoro pionieristico di Hart, le regole giuridiche (per gli
scopi di questa analisi possiamo considerare i termini “regole” e “norme”
come sinonimi) esistono, in senso proprio, solo in quanto sono inserite in
una pratica sociale normativa, in quanto, cioè, vengono interpretate, usate,
applicate, menzionate, considerate come base per critiche, giustificazioni,
eccetera, da parte dei membri di una comunità di rule followers, quei
membri che adottano il punto di vista interno 31.
28
Brian Bix parla in proposito, in termini generali, di turn to practice-based theories
(B. Bix, Questions in Legal Interpretation, in Law and Interpretation. Essays in Legal
Philosophy, ed. by A. Marmor, Clarendon Press, Oxford, 1995, p. 137).
29
Faccio queste considerazioni nel mio La svolta verso la teoria del diritto come pratica sociale nella filosofia giuridica analitica, in R. Frega-R. Brigati (a cura di), La svolta pratica in filosofia, I, Grammatiche e teorie della pratica, in “Discipline filosofiche”, XIV, I, 2004, pp.183-200.
30
Sulla opposizione fra concezioni oggettualistiche del diritto e concezioni del diritto
come pratica sociale (reinterpretate, queste ultime, come uno degli esiti teorici dell’adozione di una prospettiva epistemologica costruttivistica in ambito giuridico), si veda il
mio Costruttivismo e teorie del diritto, Giappichelli, Torino, 1999.
31
Qui l’ovvio riferimento è alla ormai classica analisi hartiana avente come oggetto
l’internal point of view (H.L.A. Hart, The Concept of Law, 2nd ed. with a Postscript (1st ed.
1961), Clarendon Press, Oxford, 1994; trad. it. Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 2002,
pp. 67-70, 105-108).