1 VERITÀ E VALORI: ASSOLUTI O RELATIVI? Relativismo, Voce

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VERITÀ E VALORI: ASSOLUTI O RELATIVI?
Relativismo, Voce Enciclopedia Garzanti di filosofia
Se il relativismo teme la verità. Rinunciando alla ricerca del fondamento, la filosofia
diventa un optional morale di Claudio Magris
Su Nietzsche “Troppo libero”di Bruno Gravagnuolo
Contro Nietzsche. L' accusa del Papa al filosofo nichilista di Franco Volpi
L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani di U. Galimberti
RELATIVISMO, termine con cui si può qualificar ogni concezione filosofica che non
ammetta verità assolute nel campo della conoscenza o principi immutabili in sede morale.
La prima espressione del relativismo, divenuta poi canonica, fu quella di Protagora che,
indicando nell'uomo la misura di ciò che è e di ciò che non è, intendeva probabilmente
confutare l'assoluta verità dell'essere parmenideo, contrapponendole l'opinione (dòxa),
mutevole e contingente. Tale relativismo fu esteso da Protagora (e poi in genere da
sofisti) anche all'etica: non esistono valori assoluti e cose buone o cattive di per sé, cioè
indipendentemente dalle circostanze, dalle esigenza e dagli scopi soggettivi. La generale
relatività d tutti i giudizi fu la tesi principale degli scettici
Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti 1981, pag. 782
SE IL RELATIVISMO TEME LA VERITÀ. RINUNCIANDO ALLA RICERCA DEL
FONDAMENTO, LA FILOSOFIA DIVENTA UN OPTIONAL MORALE di Claudio
Magris
Uno spettro si aggira per l'Europa. Non è, come scriveva Marx nel 1848, il comunismo,
che ormai solo qualche imbroglione tenta di estrarre dal ripostiglio del passato e agita
come uno spauracchio per i bambini. Oggi i fantasmi che saltano fuori dalle tenebre,
come nel tunnel dell'orrore dei luna park, per spaventare i visitatori e gratificarli col
brivido dello spavento, sono i nemici del relativismo, tutti coloro che hanno la
sfrontatezza di usare ancora la parola «verità». Relativismo, parola malleabile e adattabile
a piacere come un chewing gum, appare il sinonimo di libertà, tolleranza, civiltà; un
distintivo che ogni benpensante deve portare all'occhiello, a scanso di equivoci.
Nel coro retorico e mediatico, il relativismo - al pari dei concetti a esso contigui o
opposti, quali tolleranza e verità - viene spesso radicalmente svisato nel suo significato
più alto e profondo. Il relativismo, correttamente inteso, non è la negazione della verità e
men che meno del significato e della necessità della sua ricerca. Esso è un indispensabile
sale, non una pietanza; è un correttivo irrinunciabile nella ricerca della verità, che
impedisce di credersene possessori definitivi, pervenuti a una piena e indiscutibile
conoscenza della verità e autorizzati a imporla agli altri. Questo relativismo - rivolto a
tutti i dogmatismi, a tutte le parole d'ordine e a tutte le opinioni dominanti del momento,
soprattutto alle proprie convinzioni - è la base della tolleranza e della libertà.
Ma c'è un altro relativismo che oggi detta legge come un dogma pacchiano, rinunciando a
priori a cercare - certo a tentoni, perché nell'esistenza umana non è possibile altrimenti una qualsiasi verità; rinunciando ad affermare qualsiasi valore, ponendo tutte le scelte
morali sullo stesso piano, come in un menu in cui ognuno sceglie secondo i suoi gusti e le
reazioni delle sue papille gustative. Chi si rifiuta di considerare l'etica come un
supermarket è bollato, con intolleranza, quale retrogrado e reazionario. Tale relativismo è
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l'opposto di quel dubbio critico rivendicato, nella «Lettura» del 5 febbraio da Giulio
Giorello quale elemento costitutivo della libertà e della ricerca.
È giusto e doveroso invece contestare il relativismo quale optional universale applicato
alle scelte morali. Non occorre pensare a Benedetto XVI, bersaglio obbligato nel
baraccone di tiro a segno del Circo mediatico. Sono alcuni filosofi del tutto estranei alla
Chiesa e ad ogni Chiesa ad aver smascherato questo falso, pappagallesco e intollerante
relativismo, vero lupo camuffato da agnello; ad esempio (ma non è certo il solo) Tito
Perlini, figura di rilievo della sinistra minoritaria e critica italiana, una delle teste pensanti
della nostra cultura che hanno capito più a fondo le trasformazioni epocali degli ultimi
decenni. Ogni pensiero, religioso o no, che pretenda di essersi impossessato della verità
come ci si impossessa di un oggetto o della formula di un esperimento è una retorica
menzognera che facilmente degenera in dogmatismo persecutorio, come l'Inquisizione e
tutti i fondamentalismi d'ogni genere. Ma ogni filosofia che rinuncia a essere ricerca della
verità e del significato della vita si riduce a un mero protocollo di un bilancio societario,
magari - in nome del rifiuto della verità - truffaldinamente falsificato.
Non possiamo vivere senza distinguere tra ciò che - almeno per noi - è relativo e ciò che
- almeno per noi - è un assoluto. Pratiche religiose, morali sessuali, consuetudini del più
vario genere, tradizioni anche profondamente sentite e radicate sono relative e relativi
sono i doveri e i divieti che esse proclamano. Uccidere un bambino o schiavizzarlo in un
lavoro bestiale, mandare gli ebrei ad Auschwitz non sono scelte relative, giustificabili o
no a seconda del contesto sociale e culturale, ma sono - o almeno dobbiamo considerarli un male assoluto. Probabilmente per la natura, per la forza di gravità e il moto degli astri,
i Lager e i Gulag non contano più dell'estinzione dei dinosauri, ma per noi sì.
La crescente mescolanza di culture, costumi, religioni e civiltà, con i loro valori diversi,
devono indurci a fare il massimo sforzo possibile per mettere in discussione noi stessi e i
nostri valori, pronti ad abbandonarli se altri si rivelano più credibili; pronti a considerare
relativo ciò che eravamo abituati a considerare e a sentire come immutabile, proprio
perché, come è stato detto, ci saranno sempre purtroppo eschimesi pronti a rimproverare i
neri del Congo di andare in giro poco vestiti. Ma - afferma Todorov, altro pensatore
illuminista che non ha nulla da spartire con le Chiese - dobbiamo stabilire alcuni,
pochissimi, valori non più discutibili, ad esempio l'uguaglianza di diritti e la pari dignità
di ogni persona indipendentemente dalla sua identità politica, etnica, religiosa, sessuale.
Questo valore, ad esempio, per noi non è «relativo», lo viviamo come una verità
esistenziale e morale. Poco importa se alcuni lo ritengono dato da un Dio su un monte o
elaborato dalla coscienza umana come i due postulati fondamentali dell'etica di Kant, non
meno universali dei dieci comandamenti.
Senza questa consapevolezza, il relativismo si degrada a indifferenza e ad arbitrio che, col
pretesto di rispettare ogni opinione, può autorizzare la più atroce barbarie: io penso che
non sia lecito sterminare gli ebrei, linciare i neri, mettere in manicomio i dissidenti
politici o decapitare gli omosessuali, tu pensi invece di sì, ognuno ha diritto alla propria
opinione e siamo tutti persone rispettabili. E invece va detto che chi pensa sia lecito
trafficare con gli organi strappati a bambini o eliminare i disabili non è una persona
rispettabile; è un porco o, nella migliore delle ipotesi, un imbecille condizionato da coatti
pregiudizi sociali o razziali.
Ogni vero liberale crede, criticamente e senza presunzione, in un criterio di verità. In un
incisivo articolo sul «Sole 24 Ore» del 15 gennaio Massimo Teodori, polemizzando
giustamente contro tante prepotenze clericali, si richiama in generale al relativismo. Ma
quando cita, con un profondo consenso che condivido pienamente, il divieto - vigente in
Gran Bretagna - della clonazione umana considerata «eticamente inaccettabile», egli
proclama un valore che non considera relativo come tanti altri.
Naturalmente è difficile individuare i valori da giudicare non più negoziabili, ma è in
questo cammino e in questa ricerca che si gioca la più alta avventura della coscienza
umana. Il relativista, per il quale tutto è interscambiabile, è invece - scrive Perlini intollerante verso ogni ricerca di verità, in cui vede un pericolo per la propria piatta
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sicurezza, che egli si convince sia l'esercizio della ragione, così come scambia
l'indifferenza etica per democrazia. Un liberale a 24 carati quale Dario Antiseri ha
sottolineato come l'autentica fede, proprio perché afferma di credere nella verità e non di
sapere cosa sia la verità, si offre al dialogo senza la pretesa di possedere la chiave
dell'assoluto. La fede, peraltro, a differenza di tante ideologie aiuta a non innalzare ad
assoluto qualsiasi realtà umana, storica, sociale, politica, religiosa, ecclesiastica; può
essere una difesa contro ogni idolatria e dunque contro ogni totalitarismo, che si presenta
sempre come un falso assoluto che esige cieca obbedienza. I fondamentalismi di ogni
genere - soprattutto, ma non soltanto quelli religiosi - hanno perseguitato anche
sanguinosamente questa libertà e questa verità. Il buon relativismo impedisce che la
ricerca della verità si snaturi in tirannide spirituale e materiale. L'autentico illuminismo,
fondamento della nostra civiltà inviso ai fondamentalisti clericali e anticlericali, è quello
espresso da un genio della laicità quale Lessing, quando scriveva di non pretendere di
possedere la verità, che spetta solo a Dio, e rivendicava per l'uomo la ricerca della verità che non la raggiunge mai definitivamente ma è pur sempre ricerca di verità.
Certo, anche l'affermazione di una verità può essere strumento della volontà di potenza,
come Nietzsche ha visto genialmente, e ciò accade quando si presume di «avere» la verità
come presumono i fondamentalismi di ogni genere, trionfalmente bigotti o trionfalmente
atei, aggressivamente e pateticamente impari alla vita. Non si può essere fanatici della
verità, che può essere talora crudele e devastante; talvolta può essere umanamente
doveroso tacerla o smussarla a chi può esserne dolorosamente ferito, ma ciò ha a che
vedere con l'amore o almeno col rispetto degli altri e non con la sicumera relativista per la
quale non esistono il vero e il falso. È giusto rimproverare ad esempio alla Chiesa
cattolica tanti no da essa pronunciati, come dice il libro di Sergio e Beda Romano, ma in
certi casi, insegna Camus, è con un no, con una posizione «contro» qualcosa che
cominciano la libertà e la dignità. Troppe brave persone sono convinte, come ho sentito
dire una volta a una signora al caffè, che Einstein sostenesse che tutto è relativo...
Claudio Magris “Il Corriere della Sera”, 23 febbraio 2012
http://www.corriere.it/cultura/12_febbraio_23/magris-relativismo-teme-verita_c996db80-5e0711e1-ab06-25238cfc8ce3.shtml
SU NIETZSCHE «TROPPO LIBERO» di Bruno Gravagnuolo
Ratzinger ai sacerdoti. Ieri in un'omelia ha lanciato un atto d'accusa contro il filosofo
tedesco, la sua «superbia distruttiva» e la sua «presunzione che finiscono nella violenza».
Lo avrà letto sul serio?
Tutta colpa di Nietzsche. E non solo la crisi delle vocazioni, il rifiuto dell'obbedienza, e
della parola di Dio. Ma anche l'omologazione delle coscienze, figlia della «superficialità
di tutto ciò che di solito si impone all'uomo di oggi». E tutta colpa di Nietzsche pure «la
superbia distruttiva e la presunzione, che disgregano ogni comunità e finiscono nella
violenza». Insomma, atto d'accusa globale contro il filosofo tedesco, quello pronunciato
ieri da Papa Ratzinger, in occasione della «messa crismale», durante la quale si
benedicono gli olii santi prima della Pasqua Un'accusa esplosa in un'omelia dedicata ai
sacerdoti delle Diocesi di Roma riuniti in San Pietro. E con toni e accenti davvero
inconsueti in un Pontefice. Almeno dai tempi in cui, nel Sillabo, Pio IX condannava
liberalismo e ideologie democratiche e socialiste, come fonte dei mali assoluti di quel
tempo.
In realtà mai in passato un Papa si era scagliato con tanta foga contro un solo filosofo,
fatto responsabile di tutte le nequizie dell’umanità contemporanea. Come se il filosofo
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dell’Eterno Ritorno fosse lui stesso, e in prima persona, una sorta di incarnazione del
diavolo, e della superbia tentatrice e luciferina che ne caratterizza l’ombra distruttiva
all’opera.
Quindi, valore paradigmatico per il Papa delle idee nietzscheane in ordine al fondamento
del «male». E inserite in quanto tali in un ragionamento etico e teologico ben preciso. Che
mette al centro due colpe ben precise del filosofo: l’aver «dileggiato l’umiltà e
l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi». E
l’aver «messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo». Di qui appunto il
rifiuto dell’Autorità e la violenza distruttiva connesse alla presunzione di un «volere
autonomo», svincolato dalla fede. E di qui il mito dell’«autorealizzazione», che rifiuta la
vera «verità del nostro essere», ovvero «la retta umiltà che si sottomette a Dio». Certo
ammette il Papa –con riferimento alla critica nietzscheana dello zelo virtuoso - esistono
anche «caricature di una sottomissione e di una umiltà sbagliata». Ma il rischio più grave
per il Pontefice teologo restano la ribellione e la presunzione.
Nonché il rifiuto dei «sacrifici»che ci rendono amici di Cristo e che a Lui consacrano la
nostra esistenza. Una esistenza che è davvero consacrata, aggiunge il Papa, proprio
quando essa è rescissa da «connessioni mondane», come nel sacerdozio obbediente. Che
ben per questo può poi diventare «disponibile per gli altri».
Toni demonizzanti, lo abbiamo detto, ma che rivelano altresì molte cose. In primo ruolo il
rifiuto da parte di questo Papa di riconoscere dignità autonoma al valore della libera
coscienza e della libera indagine a partire dalla «soggettività», moderna o premoderna.
Un atteggiamento in flagrante contraddizione sia con l’etica «rischiosa»di Agostino, che
prescriveva la ricerca del vero in interiore homine. Sia con quella kantiana, basata
sull’autonomia della «ragione pratica», e coincidente con il «regno dei fini», senza
necessariamente vederselo prescritto dalle norme positive racchiuse nella fede rivelata.
Non parliamo poi del «libero esame luterano» e della «giustificazione individuale per
fede e non per le opere». Dimensioni che questo Pontefice evidentemente respinge, e che
stante il suo rifiuto programmatico del «dialogo», non riesce a includere nemmeno dentro
il semplice ascolto «interconfessionale». Paradossalmente, è proprio il principio della
libertà interiore – seme germogliato dal cristianesimo stesso e secolarizzatosi nella
modernità – ciò che questo Papa rifiuta. A meno che esso non sia inserito dentro il
«crisma »dell’Autocritas e delle Chiavi di Pietro - dalla Chiesa detenute. Tutto il resto è
relativismo, presunzione. E infine violenza distruttiva. Come tali frutto dell’indebita
autonomia della ragione, che lasciata a sé è male. È il Male. E Nietzsche? Senza dubbio
nella sua radicalità libertaria si presta a meraviglia all’intemerata papale.
Salvo che la sua «recezione» da parte di Ratzinger è banale e orecchiata. Non è fondata
sui testi, e corrisponde piattamente alle interpretazioni più logore dei fascismi e del
marxismo- stalinismo. Le prime persuase di trovare nel filosofo un anticipatore della
volontà di potenza etnica e imperiale (il Nietzsche riscritto dalla sorella reazionaria e
«nordificato» dai nazisti). Le seconde convinte di aver scoperto nel filosofo il volto della
«borghesia irrazionalista»nell’epoca dell’«Imperialismo fase suprema del capitalismo».
Interpretazione questa avallata oggi da Ernst Nolte, che vede nel Superuomo la rivolta del
borghese tedesco minacciato di annientamento da parte socialista e comunista. Il vero
Nietzsche? Fragile, problematico, a modo suo disperato. E in certo senso cristiano, come
scrisse con acume Karl Jaspers, capace di scoprire in lui una radicalità etica volta a
liberare l’uomo dalle illusioni che lo rendono ipocrita e violento, magari con la scusa di
fedi e ideologie.
Nietzsche perciò dai mille volti ma teso alla gioia del conoscere (Gaia Scienza). Alla
«pienezza del dare» e al grande stile estetico che fa del mondo un giardino. E Nietzsche
che scrive: «Dove si dice “ama il prossimo”tuo c’è sempre qualcuno che è escluso da
quell’amore, un lontano. Ecco, io amo quel lontano». Già, tra Nietzsche e Cristo ci sono
forse più cose in comune che questo Papa non immagini. A leggerlo sul serio.
Bruno Gravagnuolo in “L’Unità”del 10-04-2009
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CONTRO NIETZSCHE L' accusa del Papa al filosofo nichilista di Franco Volpi
Povero Nietzsche! È stato l' unico filosofo a cui è toccato il singolare privilegio di essere
considerato responsabile niente meno che di una guerra mondiale. Durante il conflitto del
1914-1918 in una libreria di Piccadilly erano esposti in vetrina i diciotto volumi delle sue
opere complete in inglese, con una scritta a lettere cubitali: “The EuroNietzschean-War:
Leggete il diavolo per poterlo combattere meglio!”. Poi venne il nazionalsocialismo,e
alcune sue dottrine- il superuomo nel senso della selezione biologica, la volontà di
potenza, l'antropologia dell'animale da preda e della bestia bionda - furono considerate
alla stregua di una fonte di ispirazione dell'ideologia razzista e del totalitarismo. Più tardi,
dato che egli diagnostica alcune esperienze negative del Novecento come la «morte di
Dio», la decadenza dei valori tradizionali o l' avvento del nichilismo, si è prodotto un
singolare transfert: si è scambiato il suo pensiero per la causa della crisi che esso in realtà
voleva solo analizzare e superare. Nietzsche è diventato allora il distruttore della ragione,
il maestro dell'irrazionale, il teorizzatore del nichilismo e del relativismo. Tutti questi
stereotipi hanno fortemente condizionato la sua immagine e la sua fortuna. E per questo
egli ha suscitato entusiasmi e attirato anatemi, ha ispirato movimenti di avanguardia,
mode culturali e stili di pensiero, ma anche provocato reazioni e rifiuti altrettanto risoluti.
Ovviamente anche da parte cattolica. Durante la solenne messa del giovedì santo, nella
basilica di San Pietro, Benedetto XVI ha richiamato la figura del filosofo tedesco
stigmatizzandone il pensiero. Nietzsche, ha detto Papa Ratzinger, «ha dileggiato l' umiltà
e l' obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi.
Ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell' uomo. Orbene esistono
caricature di un' umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata che non vogliamo
imitare». Agli occhi del pontefice, Nietzsche rappresenta la «superbia distruttiva e la
presunzione che disgregano ogni comunità e finiscono nella violenza». Benché autorevoli
interpreti- padre Paul Valadier, per esempio, o il teologo Eugen Biser - abbiano cercato di
mostrare il contrario, non c' è dubbio che tra alcune dottrine nicciane e altrettanti
insegnamenti fondamentali del cristianesimo ci sia una profonda incompatibilità. Non
stupisce perciò che il Papa consideri Nietzsche un cattivo maestro, e che riconduca alla
sua filosofia alcuni mali del mondo contemporaneo. Negli ultimi anni egli non si è
stancato di denunciare il pericolo del relativismo e del nichilismo, fomentato da
Nietzsche. Adesso, nel criticare l' ideale di umanità predominante nel mondo attuale,
basato sul valore dell' autoaffermazione individuale, egoistica e libertaria, ricorda la
responsabilità di Nietzsche: «Egli ha dileggiato l' umiltà e l' obbedienza come virtù
servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi, e ha messo al loro posto la
fierezza e la libertà assoluta dell' uomo». Ora, al di là del fatto che l' opera di Nietzsche è
un autentico puzzle, un subisso di frammenti e aforismi la cui combinazione in una
dottrina d' insieme è tutt'altro che assodata, sarebbe un peccato non approfondire gli
spunti che vengono da queste critiche con qualche domanda. Ed è meglio prendere
Nietzsche non per le risposte che dà, ma per le domande che pone. Primo: dopo che la
storia ci ha insegnato che spesso il possesso della Verità produce fanatismo, e che un
individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e
il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non
producono forse anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi
anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell'
altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza? C'è del bello anche nel relativismo
e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo. Quanto poi alla concezione dell' uomo
aristocratica e libertaria, anche qui sarebbe un peccato limitarsi alla superficie dei singoli
aforismi di Nietzsche. Ebbene, da tragico osservatore del vuoto spirituale in cui versa il
mondo moderno, Nietzsche non vuole essere un «predicatore di morte». Non intende
adagiarsi nella negazione dei valori. Al contrario, vuole superare il nichilismo: vuole far
sì che esso si compia in modo da «averlo dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé». A tal fine
auspica un contro-movimento da cui nascano nuovi valori,e lo individua nella creatività
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dionisiaca dell' arte. La sua critica della mentalità e della morale «del gregge», la sua
difesa di quello che potremmo definire un «diritto all' eccellenza», è un tentativo di
superare la sterilità della semplice proibizione, dell'abnegazione e della rinuncia, che
mortificano la vita. Nietzsche vuole che la vita si realizzi in tutte le sue potenzialità. E
consiglia perciò un atteggiamento «creativo» che dia alla vita tutta la sua pienezza,
analogo a quello dell' artista che imprime alla sua opera una forma bella. In tal senso la
sua nuova morale è una sorta di «estetica dell' esistenza» il cui imperativo raccomanda:
«Diventa quello che sei!». E anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale.
Uno dei problemi della Chiesa attuale è che la produzione della felicità le è sfuggita di
mano. Ma non è colpa di Nietzsche se la forza dei Vangeli svanisce e la condizione dell'
uomo occidentale è sempre più paganizzata.
Franco Volpi in “Repubblica”, 10-04-2009
L’OSPITE INQUIETANTE. IL NICHILISMO E I GIOVANI DI U. GALIMBERTI,
Il nichilismo e la svalutazione di tutti i valori
Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al "perché?". Che cosa significa nichilismo?
che i valori supremi perdono ogni valore. F. NIETZSCHE, fr. 9 (35), in Frammenti
postumi1
Il disincanto del mondo
Da Gorgia - per il quale "nulla è; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; se anche fosse
conoscibile, non sarebbe comunicabile"2 - a Heidegger - per il quale "che ne è dell'essere?
Dell'essere ne è nulla! E se proprio qui si rivelasse l'essenza del nichilismo finora rimasta
nascosta?"3 -, per l'intero arco della storia della filosofia, l'ospite inquietante ha fatto
sentire la sua presenza, ma solo oggi, solo nel nostro tempo, questa presenza è divenuta
clima della terra, spaesamento di tutti i paesaggi che gli uomini nella loro storia hanno di
volta in volta faticosamente costruito per abitare la terra. Ma perché proprio oggi? Perché,
scrive Franco Volpi:
Oggi i riferimenti tradizionali — i miti, gli dèi, le trascendenze, i valori — sono stati erosi
dal disincanto del mondo. La razionalizzazione scientifico-tecnica ha prodotto
l'indecidibilità delle scelte ultime sul piano della sola ragione. Nel mondo governato dalla
scienza e dalla tecnica l'efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella dei freni di
bicicletta montati su un jumbo. Sotto la calotta d'acciaio del nichilismo non v'è più virtù o
morale possibile4.
Il paradigma tecnico-scientifico, infatti, non si propone alcun fine da realizzare, ma solo
dei risultati da raggiungere come esiti delle sue procedure. Questa abolizione dei fini
destituisce, fin dalle sue fondamenta, ogni possibile ricerca di senso per quel tipo d'uomo,
l'occidentale, cresciuto nella "cultura del senso" secondo la quale la vita è vivibile solo se
inscritta in un orizzonte di senso.
A questo tipo di domanda la tecnica non risponde, perché la categoria del senso non
appartiene alle sue competenze. Ma siccome oggi la tecnica è diventata la forma del mondo, l'ultimo orizzonte al di là di tutti gli orizzonti, le domande intorno al senso vagano
affannose e senza risposta in una terra ormai abbandonata dal suo cielo che ospita l'evento
umano come qualsiasi altro evento. …
La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di
salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. E siccome il suo
funzionamento diventa planetario, finiscono sullo sfondo, incerti nei loro contorni corrosi
dal nichilismo, i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma
anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia di cui si era nutrita l'età pre6
tecnologica, e che ora, nell'età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o
rifondati dalle radici… .
Nata con i Greci per emancipare l'uomo dall'oscurantismo delle credenze infondate, la
ragione si era imposta sulle favole dei miti, sull'approssimazione delle opinioni diffuse,
sull'infondatezza delle fedi, sul nichilismo degli scettici. In seguito, perfezionandosi, si è
contratta nella razionalità tecnico-scientifica che non promuove altro senso se non il
proprio potenziamento afinalizzato. E così, in un orizzonte desertificato dove ogni fine ha
la consistenza di un ingannevole miraggio, mancano la direzione, il senso, lo scopo.
Il futuro come promessa
Quali sono le ricadute del nichilismo soprattutto sulla condizione giovanile? A rispondere
sono un filosofo e psicoanalista argentino, Miguel Benasayag, che vive da molti anni a
Parigi, e un professore di psichiatria infantile e dell'adolescenza, Gérard Schmit, che
insegna all'Università di Reims5.
I due studiosi hanno posto sotto osservazione i servizi di consulenza psicologica e
psichiatrica diffusi in Francia e si sono accorti che a frequentarli, per la gran parte, sono
persone le cui sofferenze non hanno una vera e propria origine psicologica, ma riflettono
la tristezza diffusa che caratterizza la nostra società contemporanea, percorsa da un
sentimento permanente di insicurezza e di precarietà.
Quali "tecnici della sofferenza" si sono sentiti impreparati ad affrontare problemi che non
fossero di natura psicopatologica. E invece di adagiarsi tranquillamente sui farmaci a loro
disposizione per curare il disordine molecolare e così stabilizzare la crisi, si sono messi a
studiare e a pensare il senso che si nasconde nel cuore del sintomo, quando la crisi non è
tanto del singolo quanto il riflesso nel singolo della crisi della società, che, senza
preavviso, fa il suo ingresso nei centri di consulenza psicologica e psichiatrica, lasciando
gli operatori disarmati.
In che cosa consiste questa crisi? In un cambiamento di segno del futuro: dal futuropromessa al futuro-minaccia. E siccome la psiche è sana quando è aperta al futuro (a
differenza della psiche depressa tutta raccolta nel passato, e della psiche maniacale tutta
concentrata sul presente), quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è solo per
offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza, inquietudine, allora, come dice
Heidegger, "il terribile è già accaduto", perché le iniziative si spengono, le speranze
appaiono vuote, la demotivazione cresce, l'energia vitale implode.
Per i due studiosi tutto ciò è cominciato con la "morte di Dio" annunciata da Nietzsche
che ha segnato la fine dell'ottimismo teologico che visualizzava il passato come male, il
presente come redenzione, il futuro come salvezza. La morte di Dio non ha lasciato solo
orfani, ma anche eredi. La scienza, l'utopia e la rivoluzione hanno proseguito, in forma
laicizzata, questa visione ottimistica della storia, dove la triade colpa, redenzione,
salvezza trovava la sua riformulazione in quell'omologa prospettiva dove il passato
appare come male, la scienza o la rivoluzione come redenzione, il progresso (scientifico o
sociologico) come salvezza.
Il positivismo di fine Ottocento, infatti, era animato da una sorta di messianesimo
scientifico, che assicurava un domani luminoso e felice grazie ai progressi della scienza.
Sul versante sociologico Marx evidenziava le contraddizioni del capitalismo in vista di
una radicale trasformazione del mondo, mentre sul versante psicologico Freud ipotizzava
un prosciugamento delle forze inconsce non controllate dall'Io, perché "dov'era l'Es deve
subentrare l'Io. Questa è l'opera della civiltà".
L'Occidente - una volta abbandonato il pessimismo degli antichi Greci che, come ci
ricorda Nietzsche, "sono stati gli unici ad avere la forza di guardare in faccia il dolore" si è consegnato senza riserve all'ottimismo della tradizione giudaico-cristiana che, sia
nella versione religiosa sia nelle forme laicizzate della scienza, dell'utopia e della
rivoluzione, ha guardato l'avvenire sorretta dalla convinzione che la storia dell'umanità è
inevitabilmente una storia di progresso e quindi di salvezza.
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I1 futuro come minaccia
Oggi questa visione ottimistica è crollata. Dio è davvero morto e i suoi eredi (scienza,
utopia e rivoluzione) hanno mancato la promessa. Inquinamenti di ogni tipo,
disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie, esplosioni di
violenza, forme di intolleranza, radicamento di egoismi, pratica abituale della guerra
hanno fatto precipitare il futuro dall'estrema positività della tradizione giudaico-cristiana
all'estrema negatività di un tempo affidato a una casualità senza direzione e orientamento.
E questo perché, se è vero che la tecno-scienza progredisce nella conoscenza del reale,
contemporaneamente ci getta in una forma di ignoranza molto diversa, ma forse più
temibile, che è poi quella che ci rende incapaci di far fronte alla nostra infelicità e ai
problemi che ci inquietano e che paurosamente ruotano intorno all’assenza di senso. …
Oltre il nichilismo
La vita come sperimentazione
È possibile oltrepassare il nichilismo e soprattutto la ricaduta sui giovani della sua
atmosfera che fa ripiegare ogni senso su se stesso, che spegne ogni iniziativa, che
cancella ogni prospettiva, che inoltra in quella notte buia e così poco rassicurante dove il
futuro si fa incerto e ogni slancio vitale implode? O dobbiamo dire quello che Nietzsche
diceva di sé, quando si definiva:
Il primo perfetto nichilista d'Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il
nichilismo stesso - che lo ha dentro di sé, sotto di sé, fuori di sé.6
Eppure, anche se non più protetto dalla verità, dalla fede, dall'ideologia, perché queste
figure sono state investite da quello che Nietzsche chiama "il vento del disgelo", forse è
possibile un oltrepassamento del nichilismo, se è vero, come scrive Franco Volpi, che:
Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni, ha anche dissolto i dogmatismi e
fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del
pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a
vista tra gli scogli del mare della precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione
da una cultura all'altra, nella negoziazione tra un gruppo di interessi e un altro.
Dopo la caduta della trascendenza e l'entrata nel mondo moderno della tecnica e delle
masse, dopo la corruzione del regno della legittimità e il passaggio a quello della
convenzione, la sola condotta raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi
troppo, il solo atteggiamento non ingenuo è la rinuncia a una sovradeterminazione
ideologica e morale dei nostri comportamenti. La nostra è una filosofia di Penelope che
disfa (analyei) incessantemente la sua tela perché non sa se Ulisse ritornerà.7
Questa "filosofia di Penelope", come la definisce Volpi, assomiglia a quella che da tempo
vado chiamando "etica del viandante", che i giovani, affrancati dall'illusione di una meta
da raggiungere, già hanno fatto propria quando si abbandonano alla corrente della vita,
non più da spettatori, ma da naviganti e, in qualche caso, come l'Ulisse dantesco, da
naufraghi. Nietzsche, che del nomadismo è forse il miglior interprete, scrive:
Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se
nel mio piacere è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: "la costa scomparve ecco anche la mia ultima catena è caduta - il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù
lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! coraggio! vecchio cuore!".8
L'appello al cuore dice che i giovani sono già oltre i territori giurisdizionali in cui finora
abbiamo fissato le nostre dimore, ma questa ulteriorità dice cose più profonde di quanto
non lasci pensare. Cancellata ogni meta e quindi ogni visualizzazione del mondo a partire
da un senso ultimo, i giovani non stanno al gioco delle stabilità o delle definitività, e
perciò liberano il mondo come assoluta e continua novità, perché non c'è evento già
inscritto in una trama di sensatezza che ne pregiudichi l'immotivato accadere.
L'andare che salva se stesso, cancellando la meta, inaugura infatti una visione del mondo
radicalmente diversa da quella dischiusa dalla prospettiva della meta che cancella
8
l'andare. Nel primo caso si aderisce al mondo come a un'offerta di accadimenti, dove si
può prendere provvisoria dimora finché l'accadimento lo concede; nel secondo caso si
aderisce al senso anticipato che cancella tutti gli accadimenti i quali, non percepiti,
passano accanto agli uomini senza lasciar traccia, puro spreco della ricchezza del mondo.
Non attraversate dall'evento nel suo accadere immotivato, le generazioni che hanno
preceduto la gioventù di oggi hanno riprodotto il modello dell'uomo della stabilità, difeso
e chiuso nelle spesse mura della Società della torre di cui parla Goethe, mentre i giovani
d'oggi, al pari del viandante che accade insieme all'evento, recalcitrano a ogni schema di
progressione e significazione, per dire sì al mondo, e non a una rappresentazione
tranquillizzante del mondo. Impossibilitati a dominare il tempo inscrivendolo in una
rappresentazione di senso, i giovani d'oggi, dopo aver rinunciato alla meta, sanno
guardare in faccia l'indecifrabilità del destino, rifiutando quei cascami irradiati da un
destino risolto in benevola provvidenza.
Non si legga quindi l'etica del viandante come anarchica erranza. Il nomadismo è la
delusione dei forti che rifiuta il gioco fittizio delle illusioni evocate come sfondo
protettivo. È la capacità di disertare le prospettive escatologiche per abitare il mondo
nella casualità della sua innocenza, non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso,
dove è l'accadimento stesso, l'accadimento non inscritto nelle prospettive del senso finale,
della meta o del progetto, a porgere il suo senso provvisorio e perituro.
Se noi adulti siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, quando il
radicamento non ha altra profondità che non sia quella della vecchia abitudine, allora
l'etica del viandante può offrire ai giovani un modello di cultura che educa perché non
immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le loro costruzioni, perché l'apertura che chiede sfiora l'abisso, dove non c'è nulla di
rassicurante, ma dove è anche scongiurata la monotonia della ripetizione che i giovani
aborrono, che è poi quell'andare e riandare sulla stessa strada, senza che una meta si
profili davvero all'orizzonte.
Gli anni che stiamo vivendo hanno visto lo sfaldarsi di un dominio, e insieme hanno
accennato a quel processo migratorio che confonderà i confini dei territori su cui si
orientava la nostra geografia. Usi e costumi si contaminano e, se "etica" vuol dire
"costume", è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine per lasciar spazio a un'etica che, dissolvendo recinti e certezze,
va configurandosi come etica del viandante che non si appella al diritto ma all'esperienza
e all'ideazione.
A differenza dell'uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e
nella legge, il viandante, infatti, non può vivere senza elaborare la diversità dell'esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant
indicava nel "cielo stellato" e nella "legge morale",9 che per ogni viandante hanno sempre
costituito gli estremi dell'arco in cui si esprime la sua vita in tensione. Senza meta e senza
punti di partenza e di arrivo, che non siano punti occasionali, il viandante con la sua etica
può essere il punto di riferimento dei giovani d'oggi, se appena la storia accelera i
processi di recente avviati, che sono nel segno della de-territorializzazione.
Fine dell'uomo come l'abbiamo conosciuto sotto la tutela della fede, o della verità, o della
certezza scientifica, che finora hanno fatto da argine alla sua intrinseca debolezza, e
nascita di un uomo sempre meno garantito e perciò costretto a cercare valori che
trascendono quelle che per noi erano salde garanzie. Il prossimo, sempre meno specchio
di me e sempre più "altro", obbligherà tutti a fare i conti con la differenza, come un
giorno, ormai lontano nel tempo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la
proprietà.
U. Galimberti, “L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani”, Feltrinelli, 2007. Estratti pag.1728, 141-146
1
Il problema del nichilismo costituisce uno dei motivi più rilevanti (e attuali) della riflessione di
9
Nietzsche. Nell’accezione più caratterizzante Nietzsche adopera il termine per indicare la specifica
situazione dell'uomo moderno e contemporaneo, che, non credendo più nei valori "supremi" di
Dio, della verità, del bene ecc., né in un senso o in uno scopo metafisico delle cose, finisce per
avvertire lo sgomento del vuoto e per non credere più in nulla.
2
GORGIA, Del non essere o della natura, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza,
Bari 1983, fr. B 3, p. 917.
3
M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 207.
4
F. VOLPI, Il nichilismo, Laterza, Bari 2004, pp. 175-176.
5
I M. BENASAYAG, G. SCHMIT, L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004.
6
1 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, Adelphi, Milano 1971, fr. 11 (411),
§ 3, p. 393.
7
3 F. VOLPI, Il nichilismo, Laterza, Bari 2004, p. 178.
8
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., Parte III: "I sette sigilli (ovvero: il
canto 'sì e amen')", p. 281.
9
I. KANT, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1955, p. 199: "Due cose riempiono l'anima di
ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Queste due cose io
non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell'oscurità, o
fossero nel trascendente, fuori dal mio orizzonte. Io le vedo davanti a me e le connetto
immediatamente con la coscienza della mia esistenza".
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