Trovare attinenze tra la mostra in oggetto ed il Cammino di Santiago può apparire a prima vista arduo, per via del fatto che nessuna opera esposta fa riferimento al pellegrinaggio jacopeo, alla sua storia e alla sua simbologia. Dal momento che tutte le strade portano a Roma, e prima ancora a Santiago, una possibilità di collegare due espressioni dello spirito così diverse, ci deve pur essere, e provo a percorrerla insieme a voi. Molte delle opere qui esposte rappresentano momenti del combattimento che per secoli è stato l’emblema della cultura spagnola, la tauromachia, meglio conosciuta come corrida. Nel combattimento tra l’uomo e il toro lo spettacolo disegnato su uno sgargiante sfondo policromatico, assume i contorni di un rito sacro. Il toreador guarda in faccia la morte, la domina attraverso la padronanza di sé che si rileva nella maestria, nella hardia, in una sorta di danza che va oltre la fatale posta in gioco che tale combattimento presuppone, e che presuppone di per sé una realtà senza tempo. Analogamente il rituale sacrificio del toro rappresenta l’andare oltre la morte, e sta a simboleggiare al tempo stesso la fertilità e la resurrezione. La corrida spagnola proviene da uno dei grandi miti primordiali, quali i riti mitraici, le danze cretesi e la tauromachia. Picasso scrisse che il tracciato dei percorsi compiuti nel corso della sua vita avrebbe disegnato la forma di un minotauro, l’essere mostruoso nato dal connubio innaturale tra l’uomo e il toro, caro alla mitologia greca, che diede origine alla tauromachia. Picasso esplicita in questo modo il senso del cammino della vita ponendone al centro la figura che rappresenta in modo archetipico il demone metafisico che dà origine al combattimento spirituale che ogni uomo è chiamato ad affrontare se vuole vincere i limiti che la sua presenza pone in modo tangibile alla propria libertà e alla propria realizzazione. Il minotauro nel mito greco è la punizione inflitta da Poseidone a Minosse, colpevole di non aver sacrificato alla dea lo splendido toro bianco da lei ricevuto in dono, e di esserselo tenuto per sé offrendo alla dea un toro di minor valore, analogamente a quanto farà Caino nel racconto biblico. La creatura mostruosa e quasi invincibile esige sacrifici umani e rappresenta una presenza angosciante. Minosse la rinchiude nel labirinto, ossia in un groviglio di strade e di stanze, nelle quali quasi inevitabilmente ci si perde. Per i greci rappresentati da Teseo non bastava raggiungere il minotauro e ucciderlo: bisognava anche poter ritornare indietro, e qui il filo di Arianna, ovvero l’aiuto provvidenziale dell’amore di una donna e della razionalità fanno giungere a compimento l’opera da parte dell’eroe ateniese. Va in scena in questo mito la lotta tra l’ingegno, l’intelletto umano ed il caos. A distanza di secoli questo antico simbolo lo ritroviamo nuovamente in molte chiese e cattedrali, questa volta con una sostanziale differenza: il tragitto è unicursale, ovvero il cammino lungo e contorto porta inesorabilmente al centro, rappresentato questa volta dal Cristo o dalla Gerusalemme celeste, posti simbolicamente al termine del cammino dell’esistenza umana. Il percorso arzigogolato e faticoso delle braccia del labirinto rappresenta la tentazione e la caduta nel peccato, che ritarda l’uscita da quella sorta di prigione, dalla lacrimarum valle, e rende faticoso il proseguire verso la meta. La vittoria viene conseguita non più dall’eroe che da solo sconfigge il proprio nemico, ma da colui che sa vincere se stesso, sostenuto dalla fede in quanto innestato in Cristo, meta di questo itinerario, superando tutte le innumerevoli prove alle quali viene sottoposto. La differenza tra il labirinto della classicità e quello cristiano rappresenta una sorta di rivoluzione copernicana: la salvezza non deriva più dalla distruzione del male supremo operando il bene, ma dall’andare verso il Bene supremo sconfiggendo il male, resistendo alle sue tentazioni e alle sue astuzie. L’elemento che muove l’agire umano è ora la speranza di veder la luce, e non più l’orrore delle tenebre, in un cammino che porta dalla selva oscura al riveder le stelle, di dantesca memoria. Il labirinto è un cammino, e quindi in un contesto sacro e religioso, assume la forma di un pellegrinaggio. Il torero è una sorta di pellegrino che nel muovere con sapienza i propri passi sulla terra polverosa dell’arena affronta la morte del corpo e dell’anima e la vince per mezzo della pratica delle virtù, in una sorta di preghiera che invoca e prefigura la resurrezione. Le corride si svolgono di norma nei pueblos e nelle città spagnole di norma nel giorno del santo protettore, e in questo senso intendono ribadire il desiderio di rigenerazione e di volontà di proseguire e di spezzare al tempo stesso con rinnovata fede ed entusiasmo il cammino ciclico dell’esistenza da parte di una comunità coesa che affida al torero il ruolo di portavoce di questo intento. Il toro, il peccato, è recluso in un’arena, come prima lo era nel simbolo del labirinto. Non a caso quindi il labirinto è diventato uno dei simboli con il quale è stato identificato il Cammino di Santiago, in quanto ne raffigura in una semplice immagine simbolica, il senso e il contenuto. Veniva anche chiamato la via di Gerusalemme, in quanto sostituiva il pellegrinaggio in Terrasanta per quanti non potevano intraprenderlo per via dei pericoli che si sarebbero corsi o a causa della impossibilità fisica di mettersi in viaggio. Lo ritroviamo rappresentato ripetutamente, soprattutto nel tratto terminale del Cammino di Santiago, in Galizia quasi a sottolineare che l’impresa condotta dal pellegrino è prossima alla sua realizzazione. Il cammino di Santiago è la strada, o meglio un fascio infinito di strade, che ha condotto per secoli i nostri antenati da ogni angolo della Cristianità fino alla cattedrale di Santiago di Compostella, nella quale è custodito il corpo di san Giacomo, primo tra gli apostoli ad aver ricevuto la palma del martirio a Gerusalemme, per volontà di Erode Agrippa. Videre Jacobum, incontrare fisicamente san Giacomo, era per l’innumerevole sequela di pellegrini che si sono recati nei secoli a Santiago la certezza di rivedere la luce in Cristo, grazie alla protezione fraterna di colui che del Redentore è stato amico fedele e testimone in modo totale e appassionato, come rivelato dal nomignolo stesso che Gesù stesso aveva attribuito a lui e a suo fratello, Giovanni Evangelista, di Boanerges, ovvero figli del tuono.