I SOFISTI La parola e la città La democrazia ateniese nell'età di Pericle, assieme alla nascita di una ricca classe borghese, spiega la nascita del fenomeno sociale di professionisti itineranti della cultura: essi offrono per la prima volta un'istruzione superiore, che oltrepassa il semplice apprendimento della scrittura e della poesia tradizionale. Tale istruzione attraversa tutti i campi del sapere (facendo spazio anche alla matematica e alle contemporanee indagini sulla natura), ma prevedibilmente fornisce i suoi risultati più originali nel campo dello studio dell'uomo e della società. Così facendo dedica una particolare attenzione alla «parola», lo strumento tramite cui l'uomo può rendersi presente ed efficace sulla scena cittadina. La denominazione «sofista» («esperto di sapienza») entrò gradualmente nell'uso come termine tecnico per denominare questi professionisti della cultura. I due più celebri sofisti, ciascuno pioniere nel suo campo, furono Gorgia e Protagora. Gorgia fu rinomato come inventore della prosa artistica. Dietro alle sue spumeggianti invenzioni verbali si trova una raffinata riflessione sul linguaggio, che non è considerato un'immagine della realtà ma piuttosto lo strumento per foggiare opinioni vere o false in tutti i numerosi casi in cui una conoscenza diretta è assente. Protagora si propone esplicitamente come formatore dei cittadini. La diversità delle opinioni nella scena della polis va spiegata osservando gli uomini e le loro differenze: tutte le opinioni sono a loro modo «vere». Ma in tale contrasto il sofista fornisce gli strumenti per dare forza al discorso «migliore» e più utile; ciò suppone la fiducia che nei confronti della virtù politica ci sia negli uomini una predisposizione naturale, la quale giustifica gli ordinamenti democratici in cui ognuno ha il diritto di esprimere il proprio punto di vista. Nel variegato panorama della sofistica, particolare è la posizione di Socrate. Egli, pur condividendo molti atteggiamenti e interessi con i suoi interlocutori, rifiuta tuttavia di presentarsi come insegnante, in base alla consapevolezza della povertà della «sapienza umana»: la massima saggezza consiste nella coscienza della propria ignoranza. Il dialogo non è quindi più uno strumento di confronto e di competizione, ma piuttosto la strada per ricercare una verità mancante. Se tale punto di partenza spiega il grande interesse di Socrate per i temi morali, giustifica anche la sua ostilità alla democrazia: in essa i meccanismi di persuasione non lasciano spazio alla ricerca onesta della verità. Fu questa avversione che giocò la parte maggiore nel processo che si concluse con la messa a morte di Socrate. Simile sorte toccò ad Antifonte, anche lui di sentimenti aristocratici. Egli fu autore di una riflessione sul rapporto tra «legge» e «natura», fondata sulla costatazione che ciò che in natura permane è solo la «materia» informe: analogamente, solo le caratteristiche «naturali», e non le prescrizioni convenzionali, hanno un carattere permanente e possono indirizzare l'uomo verso ciò che è vantaggioso. I sofisti ("i sapienti") erano dei maestri di virtù che si facevano pagare per i loro insegnamenti. Per questo motivo furono criticati aspramente da Platone e Aristotele; dobbiamo tuttavia rivalutare la figura del sofista in quanto essi guadagnavano da vivere vendendo il loro sapere (quasi come gli insegnanti moderni). Poiché i ceti aristocratici avevano già dei precettori, i ceti emergenti si rivolgono ai sofisti per il bisogno di cultura. Questa figura dunque nasce per un’esigenza dei cittadini della polis. La retorica è il punto centrale del loro insegnamento; oltre a ciò insegnano anche la morale, le leggi, i sistemi politici, educano quindi il giovane a diventare un bravo cittadino; ma per essere bravi cittadini oltre ad avere buona conoscenze bisogna anche essere convincenti quindi la retorica è messa alla base della sofistica. (McLuhan: “Il mezzo è il messaggio” = il modo con cui ci esprimiamo incide sul significato). [modifica] L'insegnamento La sofistica quindi non è una scuola filosofica; nessun sofista fa una scuola con un altro; è una tendenza caratterizzata da un’attegiamento comune. L’attenzione dunque si sposta dalla natura, dal cosmo al cittadino che vuole vivere una vita associata => Antropologia. Alcuni punti sull’insegnamento sofistico: La virtù: è innata o la acquisiamo? ("Self Made Man"). I sofisti dicono che la virtù si può insegnare quindi tutti possono diventare virtuosi => tutti i ceti emergenti aspirano ad ottenere virtù. Dunque i sofisti erano maestri di virtù Se la virtù dipende dal sapere => la cosa importante è il sapere e la sua divulgazione quindi bisogna pagare bene gli insegnanti. I sofisti quindi erano fastidiosi agli aristocratici poiché modificavano la situazione sociale. I sofisti sono visti come mediatori della conoscenza. Riconoscono l’importanza della cultura come paideia (istruzione) I sofisti sono attenti al metodo e alla tecnica poiché i ceti emergenti vivono grazie alla tecnica => la politica è tecnica I sofisti non sono degli scienziati poiché non limitano il campo del loro sapere; per loro la cosa importante è il metodo della comunicazione. Il loro insegnamento abbraccia molte tematiche: 1. La virtù è insegnabile? 2. La virtù dipende dal sapere? => è necessario educare la persona 3. Valore della tecnica => saper parlare efficacemente Per quanto riguarda le leggi e le norme: i sofisti poiché si spostavano di città in città si accorgono che ogni cultura ha diverse regole e leggi. Quindi: Ci sono regole uguali per tutti o no? (relativismo etico) Tutti propendono per il no. Relativismo culturale: (una cultura è superiore alle altre?) Non si crede più nella verità se oguno può averne una diversa. Il relativismo culturale porta quindi ad una critica delle tradizioni. La religione infatti vale solo se ci crediamo; non vale se ci viene imposta (questa è un’anticipazione dell’illuminismo). Relativismo etico: Viene meno dunque il concetto di bene e di male se tutto è relativo; vengono meno anche i criteri per poter scegliere: si deve cercare una verità comune. Ci sono due generazioni di sofisti: Grandi sofisti: Protagora, Gorgia, Prodico e Ippia Sofisti naturali: quelli che si interessano del rapporto natura-uomo Sofisti politici: Crizia, Callicle Eristi: portano all’esasperazione il metodo: Antifonte, Crizia, Menone I sofisti (Protagora, Gorgia, Ippia e altri) sostengono una concezione riassumibile così: 1. Non esiste alcuna verità, ma solo opinioni, variabili da individuo a individuo (l'uomo è la misura di tutte le cose, Protagora, fr. 1 [pantwn krematwn metron antropoV esti]) 2. Ognuno dunque ha la sua verità = la sua opinione (doxa) : è la prima, esplicita affermazione di un relativismo gnoseologico radicale. 3. Quindi, non essendoci verità assoluta, non c'è nemmeno bene assoluto, ma solo i tanti interessi egoistici dei singoli individui (relativismo e utilitarismo etico); 4. alcuni sofisti traggono le conseguenze di ciò: se non c'è verità e bene validi per tutti, che precedono e misurano l'individuo, si potrà imporre con ogni mezzo la propria "verità" e il proprio interesse agli altri; 5. e i sofisti erano appunto profumatamente pagati per insegnare ai giovani delle famiglie più ricche come persuadere la folla, piegandola al proprio progetto, senza alcun vincolo a verità e bene. 6. Anche in ambito politico il soggettivismo dei sofisti comporta un rigetto della oggettività (in questo caso della tradizione e vincoli comunitari della polis): si afferma un cosmopolitismo individualista e la convenzionalità delle leggi positive e delle tradizioni all'arbitraria scelta degli individui. Con l'affermarsi della democrazia e della partecipazione ad Atene, che nel corso del V° secolo a.C. era diventata una potenza anche militare oltre che commerciale, vennero ad assumere grande importanza le abilità politiche ed in particolare quelle oratorie. In tale contesto, la retorica, cioè l'arte di costruire ed esporre discorsi incisivi, persuasivi, coerenti e ben ordinati assunse grande importanza, e con essa crebbe l'interesse per la dialettica, cioè il dialogo vivo, il confronto e lo scontro di posizioni, nonchè l'arte di contendere e di confutare, ovvero l'eristica (che deriva appunto da eris, contesa). Fu allora che si cominciarono a vedere per Atene degli stranieri, anche se greci, che approfittando dell'occasione e della necessità, aprirono scuole a pagamento per insegnare l'arte di parlare, ed in particolare l'arte di parlare in pubblico ed ottenere i consensi dell'uditorio. le testimonianze concorrono tutte nella medesima direzione: questi maestri, detti sofisti, furono un prodotto di importazione. Venivano ad Atene da ogni parte della Grecia; solo in un secondo tempo vi fu un'ondata di sofisti ateniesi, ma la loro importanza nella storia del pensiero, con la sola eccezione di Isocrate (il quale, peraltro, prese anche risolutamente posizione contro i sofisti, pur mantenendo moltissime posizioni comuni agli stessi) e, forse, di Antifonte, fu modesta. I destinatari sociali delle scuole sofistiche non furono tanto i rampolli delle grandi famiglie aristocratiche, quanto i figli dei nuovi ricchi, dei mercanti e degli artigiani più prosperosi. Per stare in società c'era bisogno di cultura ed educazione, c'era bisogno di formarsi come uomini civili, più colti, anche per evitare figuracce. Sofisti, ovvero sapienti, vennero chiamati quei filosofi del V° e IV° secolo a.C. che cominciarono a dare lezioni di filosofia a pagamento, facendo della filosofia una professione. Con i sofisti la filosofia greca si apre definitivamente al grande pubblico, precedentemente era stata disciplina più che altro elitaria, chiusa ed esoterica, destinata in prevalenza dai maestri ai soli allievi. Fu così che per questa caratteristica non più disinteressata ma legata all'esercizio di una professione (e quindi esercitata sotto pagamento), sofista divenne termine spregiativo per indicare, oltre gli argomenti cavillosi e speciosi, anche un atteggiamento mercenario del sapiente stesso, il quale era spesso pagato per dimostrare razionalmente la tesi del committente, in spregio a qualsiasi idea di verità. "Il 'sofista' è appunto colui nel quale la sophìa, rinunciando a essere verità, è divenuta la capacità tecnica di persuadere conformemente a dei fini." (E. Severino, La filosofia antica). Sebbene non fosse riconducibile ad una scuola precisa ma solamente a un atteggiamento generale, la sofistica si può distinguere per i seguenti punti: 1. Il relativismo, per cui la conoscenza si riduce all'opinione e il bene all'utilità. La verità e i valori morali non sono più certezze, ma si ammette che verità e valori possano mutare a seconda dei luoghi e dei tempi; 2. Il concentrarsi maggiormente sui problemi dell'uomo, e un minore interesse per le questioni teoretiche legate alla ricerca del principio e della giustificazione del mondo; Questi primi due punti sono riconducibili in special modo a Protagora e Gorgia, mentre per la seconda fase del sofismo si possono distinguere altri due punti centrali: 3. L'eristica, ovvero l'abilità di sostenere e confutare contemporaneamente argomenti tra loro contraddittori; 4. La contrapposizione tra la natura e la legge, e il riconoscimento che in natura vige la legge del più forte; Dunque, centrale è il tema del relativismo, ovvero la consapevolezza che la realtà è filtrata e interpretata da ogni uomo in modo diverso. Nel sofismo l'argomento polemico dell'impossibilità della verità deriva dalla constatazione che ogni conoscenza è frutto di una contrapposizione tra tesi contrarie, e che tali tesi, ognuna sostenuta dalle diverse scuole di pensiero, impongono le proprie conclusioni sulle altre (come verità). Tali dissidi insanabili portano i sofisti a dichiarare l'impossibilità da parte della conoscenza umana di raggiungere la certezza e la verità universale (la verità è l'opinione). Col tempo tale atteggiamento divenne quasi una forma di estetismo della ragione, per cui la logica non era più al servizio della verità ma al servizio della confutazione e della dimostrazioni di tesi ad hoc, attraverso l'uso della retorica come strumento tecnico codificato. Molti sofisti, infatti, soprattutto nella seconda fase del movimento, organizzavano regolarmente vere e proprie esibizioni pubbliche in cui davano sfoggio delle loro abilità retorica: lo spettacolo preferito erano le antinomie, ovvero la contemporanea dimostrazione di una tesi e del suo contrario (vedi eristica, punto 3). *** PROTAGORA (491-? a.C.) Protagora nacque ad Abdera ma conobbe la sua fortuna ad Atene, dove Pericle, suo estimatore, gli diede l'incarico di scrivere le leggi della colonia di Turi. Purtroppo il suo periodo aureo si interruppe ben presto, quando affermò che non poteva ammettere, secondo logica, l'esistenza degli dei, cosa che gli valse l'esilio in Sicilia. Morì naufragando durante la fuga. L'opera principale di Protagora si intitola Antilogie, ovvero "discorsi antitetici", dove ad ogni argomento corrisponde il suo contrario, in modo da dimostrare come la verità sia impossibile da raggiungere proprio nell'ambito della ragione stessa (la ragione ha in sé l'errore, per cui è impossibile dimostrare qualsiasi verità razionalmente). L'uomo è misura di tutte le cose. Non esiste altro criterio per stabilire la verità se non l'esperienza stessa che si pone di fronte in modo diverso a uomini diversi. Solo ciò che i sensi percepiscono è reale, ciò che non percepiscono non esiste. L'uomo è misura di tutte le cose, ovvero, ciò che viene percepito dall'uomo è il solo criterio per giudicare la realtà (e la verità). Da ciò deriva che non esiste una sola verità, perché lo stesso fenomeno percepito in un certo modo da un uomo, può essere percepito diversamente da un altro, in tal caso entrambi i giudizi costituiscono verità (ad esempio, se un uomo percepisce l'acqua di un fiume come calda, mentre allo stesso tempo e nello stesso luogo un altro uomo la percepisce fredda, entrambi gli uomini hanno ragione). Il compito del filosofo. Se ogni uomo raggiunge la verità con i propri mezzi (seguendo le proprie percezioni), compito del filosofo non è più la ricerca della verità assoluta, che non esiste, ma quella di aiutare le persone a migliorare l'esposizione delle proprie idee e i propri giudizi, così da predisporli verso un sapere più ampio. Compito del filosofo è quindi quello di elevare l'uomo a livelli di civiltà superiori, non tanto perché costituisca verità nei confronti di civiltà inferiori, ma in quanto l'elevarsi a civiltà superiore conviene in senso utilitarista. PROTAGORA "L'uomo è misura di tutte le cose". A partire dalla metà del V secolo a.c. diverse città della Grecia vengono attraversate da nuovi personaggi: i sofisti. Il termine "sofista" significa letteralmente "colui che fa professione del proprio sapere". Molti sono i professionisti che mettono in vendita il loro sapere (gli artigiani o i medici, per esempio), ma i sofisti sostenevano che il loro sapere fosse ben più importante rispetto a quello degli artigiani o dei medici, giacchè il loro è il sapere che consente di prendere parte con successo alla vita pubblica della città, quando si accede alle magistrature. Tutto que capacità di eccellere nella condotta pubblica e privata. In questo senso i sofisti si presentano come maestri di virtù. E' chiaro che questo sapere risulta importantissimo in contesti politici in cui le decisioni a.C. Era dunque un sapere indispensabile soprattutto nelle democrazie. Ma il fatto che i sofisti si facciano pagare molto, fa sì che i loro clienti siano soprattutto giovani di famiglie agiate (Platone non potrà tollerare che essi facciano del sapere una materia vendibile e li definisce sprezzantemente "cacciatori di giovani ricchi", scrivendo un dialogo – il Sofista – contro di loro: certo per Platone la vita era più facile, visto che era ricco di famiglia e non aveva bisogno di farsi pagare per insegnare). Tra i sofisti spicca la figura di Protagora: egli nacque ad Abdera, in Tracia, verso il 480 a.C., svolse la sua attività di insegnamento girovagando per le città, soggiornando più volte ad Atene. Nel 444 Pericle diede avvio alla fondazione della colonia panellenica di Turii, in Italia meridionale, e Protagora prese parte al progetto di legislazione della città. Nel 411 diede pubblica lettura ad Atene del suo scritto Sugli dei e fu accusato di empietà e dovette così lasciare la città. La tradizione vuole che Protagora sia morto in un naufragio. All'attività orale di insegnante Protagora affiancò l'insegnamento mediante lo scritto; egli non fu autore di un'unica opera, ma di parecchie: Discorsi demolitori, Le antilogie, Sull'essere e scrisse pure a riguardo dei saperi tecnici. Protagora è passato alla storia per la sua celebre affermazione: "l'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono". E' difficile comprendere fino in fondo che cosa intendesse Protagora con "uomo" (l’uomo singolo? Il genere umano?), ma è probabile che non si riferisse alla razza umana, bensì al singolo uomo. Con questa frase si sottolinea l'assoluta relatività della verità: si fa notare che ciascuno vede le cose alla sua maniera e in modo diverso rispetto agli altri; se io dico che una bevanda è dolce ed un altro dice che è amara, chi ha ragione dei due? Bisognerebbe avere un parametro che dice la verità, se è dolce o amara, il che è impossibile. Se io la sento dolce e un altro la sente amara, l'unica cosa da fare è chiedere il parere ad un terzo, ma non vi è mai un vero paragone con la cosa in questione. Per Protagora non si può trovare una verità assoluta: non si può stabilire se la bevanda è davvero dolce o se è amara: per me è amara, e per l'altro è dolce: o meglio, per chi la sente dolce è dolce, per chi la sente amara è amara: la verità è soggettiva. Non posso negare che sia amara a chi la sente amara solo perchè io la sento dolce: non c'è una verità generale, ognuno la vede a proprio modo. Non si possono cogliere le cose come realmente sono, ma solo come appaiono all'uomo, ovvero come riesce a percepirle. Le cose per me sono come a me appaiono: sento dolce il miele e, dunque, per me il miele è dolce. Però si fa notare che non tutte le affermazioni sono uguali: esse si distinguono sul piano pratico, poichè se, nel caso della bibita, non posso stabilire se è dolce o amara, tuttavia posso affermare che il dolce è meglio dell'amaro. Ma Protagora non restringe il significato di misura alla sola dimensione dell'esperienza percettiva delle cose. L'esperienza personale di ciascun individuo è più ampia delle singole sensazioni; essa non riguarda soltanto l'istante in cui avviene la singola percezione, bensì l'intera vita dell'individuo. In questo quadro si comprende meglio la portata dell'altra celebre affermazione di Protagora: "riguardo agli dei, non ho la possibilità di accertare nè che sono, nè che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana". Di talune cose, dunque, come per esempio degli dei, non si ha esperienza personale diretta (com'era invece nel caso della bevanda). Di queste cose non si può dire che l'uomo sia misura. L'esperienza personale , d'altronde , differenzia gli individui tra loro , anche per le diverse situazioni ambientali , culturali e politiche nelle quali essi vivono . In questa prospettiva si inquadra in modo centrale la collocazione dell'individuo nella città . La città è interpretata da Protagora come complesso apparato educativo , il quale mira a garantire la conservazione della città stessa mediante la trasmissione dei valori che ne sono alla base. Non potendo più disporre degli dei come termine di differenziazione per caratterizzare l'uomo (infatti ha detto di non conoscere come gli dei siano ), Protagora individua questa differenziazione rispetto agli animali. Egli riconosce un'inferiorità dell'uomo rispetto alla specie animale per quanto riguarda le doti naturali, ma ravvisa nelle tecniche lo strumento che ha consentito all'uomo di capovolgere questa situazione svantaggiosa di partenza. Ma Protagora colloca al di sopra delle varie tecniche agricole e artigianali la tecnica politica, che è prerogativa di tutti i membri di una comunità. E' appunto la tecnica politica, ossia l'insieme di giustizia e di rispetto degli altri , che la città provvede a trasmettere, prima con l'insegnamento e poi con le leggi, a tutti i suoi membri a partire dall'infanzia. Ma se il veicolo fondamentale per la trasmissione dell'insegnamento etico/politico è la città, resta ancora spazio per l'insegnamento del sofista? Il fatto che individui diversi abbiano esperienze personali diverse non implica che essi debbano per forza sempre divergere nelle loro opinioni su certe cose. Protagora non assume una posizione solipsistica, non rinchiude ogni individuo in se stesso, in una sfera di incomunicabilità con gli altri. Egli ritiene invece che sussistano spazi di accordo possibile tra gli individui. Qui il sofista può innestare la sua opera, contribuendo all'azione educativa della città. Lo strumento principale con cui lavora il sofista è il linguaggio, che può avere efficacia persuasiva facendo appello alle esperienze personali dei singoli e contrapponendo non vero e falso, ma utile e dannoso sia per il singolo sia per la comunità. Protagora afferma che "intorno ad ogni oggetto ci sono due ragionamenti contrapposti". Questa contrapposizione non sta a significare che uno di essi sia vero e l'altro falso, in quanto ogni discorso non è che la formulazione dell'esperienza personale di ciascuno, la quale (per il relativismo assoluto) è sempre vera. Ma sul piano dei valori, che sono alla base di una città, i due discorsi non si equivalgono: in ultima istanza è la comunità che decide su quanto è giusto e su quanto è dannoso. Il sofista insegna ad usare il linguaggio in modo conforme ed utile alle esigenze della città, per esempio nell'assumere decisioni collettive, dove può anche essere importante "render più forte l'argomento più debole". In questa prospettiva, Protagora innesta la sua opera di specialista, analoga a quella del medico o dell'artigiano, e procede alla distinzione di vari tipi di discorsi, studiando le loro proprietà, i generi dei nomi, i tempi verbali... Il linguaggio cessa di essere uno strumento usato inconsapevolmente e diventa esso stesso oggetto di indagine e d'insegnamento: il celebre motto dei sofisti diventa "la parola può tutto". Proprio sulla nozione di relatività era incentrata la più famosa delle tesi di Protagora, trasmessaci da Platone nel "Teeteto" (dialogo dedicato a cosa significhi conoscere) : "l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono" l’impiego del termine "sono" e "non sono", sembra inquadrarsi in un contesto vivamente eleatico, anche se viene prospettato chiaramente il criterio per distinguere l’essere da non essere: è l’uomo il metro di misura, sicchè Protagora propone un criterio di conoscenza puramente soggettivo. Sarà vero ciò che a me appare tale; viceversa, per lui sarà vero ciò che a lui appare tale, e così via. La conoscenza, in questo panorama, si riduce al sensismo: cosicchè il miele appare dolce a chi è sano, ma amaro agli ammalati. Tuttavia, in questo groviglio di verità ciascuna diversa dalle altre e ciascuna non meno valida delle altre, Protagora elabora un criterio per stabilire quale opinione (quella del sano che sente dolce il miele, o quella del malato che lo sente amaro?) sia migliore: tale criterio è incentrato sull’utilità e si risolve, per tornare all’esempio del miele, nell’interrogativo se sia migliore l’opinione di chi è malato o di chi è sano. Naturalmente, si risponderà che è migliore l’opinione del sano, anche se, ad onor del vero, sul piano gnoseologico tutte le opinioni sono equivalenti: le sensazioni si traducono in conoscenza, cosicchè la mia opinione, la tua, la sua e così via sono tutte vere, poiché l’uomo è misura di tutte le cose. Contro questa posizione protagorea si schiererà Platone che, nel Teeteto, smonterà l’argomentazione protagorea facendo notare che, se tutto è vero (come asserisce Protagora), allora è anche vero che esistono tesi false; e dato che, appunto, tutto è vero, è anche vero che ciò che dice Protagora è falso. FRAMMENTI Fr. 80 B 4 DK (Eusebio, Praeparatio evangelica, XIV 3, 7; Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 51) 1 Protagora, divenuto seguace di Democrito, si acquistò fama di ateo; si dice infatti che abbia cominciato il libro Degli dèi con questa introduzione: 2 Riguardo agli dèi, non so né che sono, né che non sono, né di che natura sono. 3 Riguardo agli dèi, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana. Fr. 80 A 5 DK (Platone, Protagora, 317 b, 317 c, 318 a, 318 e, 319 a, 348 e) [La scena nel 431 a.C. circa; parla Protagora] Io dunque ho preso la via del tutto opposta [a quella di sofisti camuffati da poeti, iniziati, ginnasti, musici, ecc.] e convengo d’esser sofista, e di educare gli uomini [...]. E sí che da molt’anni sto nell’arte; perché ne ho parecchi addosso! né v’è alcuno tra voi, al quale non potrei, quanto a età, essere padre [...]. Ragazzo mio, se tu frequenterai la mia scuola, già il primo giorno che verrai potrai tornartene a casa migliore; e il giorno dopo lo stesso; e cosí ogni giorno potrai progredire verso il meglio [...]. Gli altri rovinano i giovani; sfuggiti questi alle scienze speciali, li riconducono loro malgrado e li ricacciano nelle scienze speciali, insegnando loro e calcolo e astronomia e geometria e musica (e qui dette un’occhiata a Ippia); mentre chi vien da me, non altro studierà se non quello per cui viene. Materia di questo studio è un retto discernimento tanto nelle cose domestiche – quale sia il miglior modo di amministrare la propria casa – quanto nelle politiche – in che modo si divenga abilissimi al governo, sia con l’opera, sia con la parola [...]. [Socrate e Protagora] Se ho ben capito, mi sembra che tu alluda alla scienza politica, e che tu t’impegni a rendere gli uomini bravi cittadini. – Questa è appunto, o Socrate, la professione che professo [...]. [Socrate] – E sei tanto sicuro di te stesso, che mentre gli altri esercitano questo insegnamento di nascosto, tu ti sei fatto banditore di te stesso apertamente davanti a tutti i Greci chiamandoti sofista, e ti sei esibito maestro di cultura e di virtú, pretendendo, tu per primo, di farti pagare per questo. Frr. 80 B 6a (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 51) e 6b (Aristotele, Retorica, B 24, 1402a 23) DK 1 Intorno ad ogni oggetto ci sono due ragionamenti contrapposti. 2 Render piú forte l’argomento piú debole. Fr. 80 B 1 DK (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 60) 1 Alcuni compresero anche Protagora di Abdera nella schiera di quei filosofi che aboliscono una norma di giudizio, per il fatto che afferma che tutte le parvenze e opinioni son vere, e che la verità è tale relativamente a qualcosa, per ciò che tutto quel che appare è opinato da uno, esiste nell’atto stesso come relativo a lui. Appunto egli comincia i suoi Discorsi sovvertitori proclamando: 2 Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono. Frr. 80 A 4 (Eusebio, Chronica; Apuleio, Florida, 18) e 80 A 8 (Platone, Menone, 91 d, e) DK 1 Euripide è ritenuto famoso e anche Protagora sofista, i cui libri furon arsi dagli Ateniesi per pubblico decreto. 2 Di quel Protagora, che fu sofista di straordinaria cultura e oratore insigne tra i primi inventori dell’arte retorica, coetaneo del "fisico" Democrito suo concittadino (da cui egli attinse il suo sapere), si dice che avesse pattuito col suo discepolo Evatlo un compenso esagerato, ma ad una condizione arrischiata etc. 3 [Socrate ad Anito] – Io so d’un uomo, Protagora, che ha guadagnato lui solo piú danari con questa scienza [la sofistica], che non Fidia, le cui belle opere son cosí celebri, e dieci altri scultori insieme [...]. Ma intanto, di Protagora, nessuno in tutta quanta la Grecia s’è accorto che guastava i discepoli e li rimandava peggiori di come li aveva ricevuti: e questo, per piú di quarant’anni! Perché credo sia morto quasi a settanta, e abbia esercitato l’arte per quaranta. E in tutto questo tempo fino ad oggi la sua celebrità non è mai venuta meno. INDIETRO *** GORGIA (485-377 a.C. circa) Gorgia nacque a Lentini, in Sicilia. Si procurò fama di grande oratore, capace con la sua dialettica di rovesciare il senso comune e battere qualsiasi avversario. Questa grande capacità oratoria gli permise di accumulare una ingente fortuna economica, tra l'altro sperperata prima della sua morte, e di avere un grande seguito di allievi. Morì all'età venerabile di 108 anni a Larissa, in Tessaglia. Gorgia era in grado di confutare qualsiasi tesi a richiesta, spesso nemmeno lui si curava troppo di credere in ciò che sosteneva, ma questo non era importante visto che, da buon sofista, predicava una verità diversa per ogni diversa situazione. Scopo della sua filosofia, non la ricerca del vero assoluto, ma la scelta delle parole più utili che gli garantissero di prevalere nello scontro dialettico. Gorgia diede prova di grande perizia dialettica sul tema parmenideo dell'essere e del non-essere, dimostrando che: 1. Nulla esiste; 2. Se anche qualcosa esistesse, non potrebbe essere comprensibile all'uomo; 3. Se anche qualcosa fosse comprensibile, sarebbe incomunicabile. 1. Che nulla esiste è dimostrabile nel fatto che se esistesse qualcosa sarebbe o l'essere o il nonessere, oppure entrambi. Escludendo il non-essere, che non è, si passa all'analisi dell'essere. Esso sarebbe infinito o generato. Se fosse infinito allora non è in alcun luogo preciso e quindi non esiste. Se fosse generato allora lo sarebbe dal non-essere, e non potrebbe, o dall'essere. Ma l'essere lo è già e non può generare. Quindi nulla è. 2. La seconda tesi è dimostrabile in questo modo: se non possiamo dire che le cose pensate esistono, non potremmo neanche dire che si può pensare l'essere, e se l'essere non è pensabile allora non è nemmeno comprensibile. 3. La terza tesi è spiegabile tenendo presente che l'uomo comunica solo attraverso i sensi, più precisamente trasmette l'idea di un oggetto con la parola. Ma la parola non può trasmettere l'oggetto stesso, essendo la parola solamente un simbolo. Ciò che non è espresso non può essere realtà. La difesa di Elena. Altro argomento che diede fama a Gorgia fu la difesa di Elena, ritenuta colpevole di aver scatenato la guerra di Troia. Ne L'encomio di Elena, Gorgia sostiene che essa fu convinta a tradire il marito Menelao dalle affabulazioni verbali di Paride: ella non aveva quindi proprie colpe specifiche che ne danneggiassero la virtù. In sostanza, Gorgia riconosceva alla parola il potere di ipnotizzare l'interlocutore fino a fargli perdere la ragione. La difesa di Elena può considerarsi, storicamente, un omaggio alla parola come edificatrice di verità, omaggio che non poteva non provenire da un sofista doc quale era Gorgia. IL PENSIERO Anche Gorgia si colloca (come Protagora) nel contesto della Sofistica: anche per lui il problema del linguaggio è centrale. Gorgia nacque a Lentini (nei pressi di Siracusa) verso il 480 a.C., viaggiò parecchio per le città greche - un po’ come il collega Protagora- ottenendo gran successo col suo insegnamento. La sua fama portò la sua città ad inviarlo in più occasioni come ambasciatore presso altre città (ad Atene, per esempio, dove lasciò a bocca aperta gli Ateniesi per la sua eloquenza). Morì in età molto avanzata (verso il 380, in Tessaglia), dove soggiornava presso il tiranno Giasone di Fere. Come Protagora, anche Gorgia scrisse molto e i suoi scritti erano per lo più orientati verso l'orazione, come il discorso Olimpico, proferito ad Olimpia per invitare i Greci a superare le loro discordie e affrontare uniti i barbari e l'Epitafio, finalizzato ad onorare gli Ateniesi caduti in guerra. Tra i suoi scritti va poi ricordato quello Sul non essere o Sulla natura, il cui titolo capovolge intenzionalmente quello dell'opera di Melisso; molto interessanti risultano anche essere L'encomio di Elena e La difesa di Palamede. Nel Non essere o Sulla natura troviamo le tre tesi fondamentali delle filosofia di Gorgia: 1) l'essere non è; 2) se anche fosse, non sarebbe conoscibile; 3) se anche fosse conoscibile, tale conoscenza non sarebbe comunicabile. Quindi per Gorgia, a differenza di Protagora, tutto è falso. Egli arriva a trarre queste conclusioni esaminando profondamente la filosofia ed in particolare quella eleatica: come gli eleatici, anche Gorgia si serve del ragionamento per assurdo: se l'essere ci fosse, sostiene Gorgia, non dovrebbe avere caratteristiche contraddittorie, come invece gli hanno attribuito gli eleatici. Gorgia ha notato che ci sono troppi contrasti tra i filosofi per quel che riguarda la questione dell'essere, cosicché egli addiviene alla conclusione che l'essere è troppo contraddittorio per esistere. Egli conclude che "l'essere non è" partendo dalle dimostrazioni che l'essere non è nè uno nè molti, nè generato nè ingenerato: sono affermazioni davvero contraddittorie. Ma la conseguenza più interessante e radicale che egli trae è probabilmente quella secondo cui non è possibile comunicare tramite il linguaggio ciò che è. Il linguaggio non ha nulla a che fare con la verità, non è possibile dire ad altri come realmente stiano le cose. Supponiamo che l'essere ci sia; prendiamo un quaderno blu: io voglio comunicare ad un altro il colore del quaderno e quindi gli dico "è blu "; ma non è che nella testa dell'altro c'è lo stesso colore, magari è un blu più tendente al verde; fatto sta che non potrà mai avere in mente la stessa cosa che ho io: l'essere, oltre a non esistere, non è pensabile e non è dicibile. Queste tre tesi di Gorgia sono l'anticipazione di quello che sarà il "nichilismo". Gorgia sosteneva che nulla è, se anche fosse non sarebbe conoscibile, se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. La verità, dunque, resta per Gorgia inaccessibile: ne consegue che tutto è falso, e non "tutto è vero", come invece credeva Protagora. Tutte le proposizioni possono, ad avviso di Gorgia, essere ribaltate attraverso l’arma del (la parola), equiparato dal pensatore di Lentini ad una forza irresistibile alla pari del destino dei tragici o della divinità: la parola può tutto. Anche con Gorgia Platone, a cui stava particolarmente a cuore la possibilità di distinguere il vero dal falso, compie un’operazione simile a quella operata nei confronti di Protagora: se tutto è falso, cosa ci vieta di pensare che anche ciò che dice Gorgia lo sia? Ci si è spesso interrogati se Gorgia fosse un nichilista ante litteram o se, piuttosto, volesse esercitarsi con argomentazioni dialettiche al limite del pensabile. E’ tuttavia certo che l’obiettivo polemico del suo argomentare fosse l’eleatismo: egli si serve, nelle sue argomentazioni, della dimostrazione per assurdo; in altri termini, per dimostrare la verità di A, assume per assurdo che sia vero il contrario (non-A) e, a partire da tale assunzione, si mettono in luce tutte le contraddizioni che ne derivano, a tal punto che si è costretti a riconoscere la falsità di tale assunto (non-A) e ad ammettere la veridicità della tesi di partenza ad essa opposta (A). Le tre proposizioni poc’anzi elencate con cui nega la possibilità della conoscenza non è un caso che ci vengano riportate da uno scettico, Sesto Empirico, nell’opera Contro i dogmatici. Stando a quanto da lui riportato, Gorgia avrebbe sostenuto che se le cose pensate non sono esistenti, allora le cose esistenti non sono pensate: in altri termini, il pensiero non avrebbe un contenuto proprio (poiché ciò che è pensato non esiste) e, per converso, se ne ricaverebbe che ciò che esiste non è pensato. Alla base di quest’argomentazione sta una relazione che Gorgia pone: se A è in relazione con B, allora anche B è in relazione con A; se viceversa A non è in relazione con B, allora anche B non è in relazione con A. Dunque, dato che penso cose che non esistono (dragoni o uomini volanti), allora ciò significa che il pensato non è in relazione con l’essere e, per converso, che l’essere non è in relazione col pensato. Ammettendo, infatti, per assurdo l’esistenza delle cose pensate, ne conseguirebbe che l’uomo che vola o il carro che procede sul mare (tutti oggetti del mio pensiero) dovrebbero esistere, ma l’esperienza confuta ciò. Se poi dico che il pensiero rispecchia l’esistente, non si spiega perché nel pensiero trovino cittadinanza anche l’uomo che vola o il carro che procede sul mare. Il terzo argomento addotto da Gorgia poggia sull’analogia con l’esperienza: giacchè i sensi non interferiscono tra loro né si smentiscono a vicenda, si può essere spinti a credere che ciò valga anche per il pensato, cosicchè le cose che né vedo né sento né tocco, ciononostante il pensiero mi attesta che esistono. Ma in questo modo mi troverei costretto, ancora una volta, ad ammettere l’esistenza dell’uomo che vola e del carro che procede sul mare. Con Gorgia, quindi, viene per la prima volta messa in discussione la possibilità di conoscere alcunché. Sembra essere una filosofia negativa e pessimista, ma in realtà non è così: il ragionamento conduttore è in sostanza che in assenza dell'essere l'uomo è onnipotente, non ha limitazioni. Spieghiamoci meglio: se l'essere esiste, l'uomo trova lì un limite alle sue azioni; ma se l'essere non c'è (non è conoscibile) l'uomo non ha limiti. E' su questo presupposto che si basa l'onnipotenza della retorica di Gorgia: se l'essere è ed è conoscibile non si può far conoscere alla gente ciò che si vuole (perchè ci si deve attenere all'essere), ma se non c'è l'essere non si hanno limiti e si può convincere la gente di ogni cosa: chi può dire che una cosa sia falsa se non c'è un qualcosa a cui attenersi (l'essere)? La verità per Gorgia non conta niente perchè non esiste: ciò che conta è la capacità di argomentare. Gorgia era fratello di un medico e diceva che pur non sapendo nulla di medicina, riusciva più lui del fratello a convincere i pazienti ad assumere i farmaci. Il linguaggio è totalmente distaccato dalla verità: esso non consiste nell'enunciazione di conoscenze , bensì nella persuasione (nell'encomio di Elena Gorgia prende le difese di Elena, colei per la quale aveva avuto inizio la guerra di Troia: il discorso è in realtà un puro sfoggio di virtuosità oratorie; Gorgia, con l'arte persuasoria, dimostra le cose più assurde). Per Gorgia la persuasione è indipendente dal valore di verità di ciò che viene detto, dal momento che la parola pronunciata esercita la sua influenza sull'apparato emotivo degli ascoltatori, non sulle loro eventuali capacità intellettive. La potenza della parola è equiparata da Gorgia alla potenza dei farmaci e degli incantesimi magici. Come detto, Gorgia diceva di essere più capace a far prendere le medicine ai pazienti di quanto non lo fosse il fratello medico: questo risultato può essere ottenuto sulla base di due presupposti . Il primo consiste nel rendersi conto della particolare condizione psicologica in cui si trovano di volta in volta i propri ascoltatori e di valutare il momento opportuno (in Greco ) per parlare e dire determinate cose. Il secondo presupposto consiste nella capacità di usare diversi tipi di discorso appropriati alle circostanze. Il nucleo dell'insegnamento di Gorgia è proprio dato dallo studio delle differenti forme del discorso e della molteplicità delle figure stilistiche da usare. Per ottenere gli effetti persuasivi desiderati. Gorgia elabora anche un'interessante teoria a riguardo dell'arte (fortemente positiva); prima di lui nessuno se ne era occupato: perchè? L'età presofistica era un'età dove la filosofia era prettamente cosmologica: si cercava cioè di spiegare da dove fosse saltato fuori il mondo; con i sofisti la filosofia assume istanze a carattere antropologico: l'oggetto della ricerca diventa l'uomo e tutto ciò che lo riguarda. In seguito, anche Platone elaborerà una teoria sull'arte (fortemente negativa: per lui è meglio attenersi al vero e non lasciarsi trasportare dall'arte che stimola passioni e non è copia di ciò che è veramente) e pure Aristotele (la sua è una visione più positiva); Gorgia parte dal presupposto che noi non possiamo conoscere l'essere: se l'essere esistesse, l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta; ma dato che non esiste, da una parte non ho limiti e dall'altra l'arte diventa una mia creazione. Dato che non c'è un vero mondo (l'essere non c'è) , l'artista è un creatore di mondi: per Gorgia il buon artista è quello che riesce ad ingannare gli spettatori, e il buon spettatore è quello che si lascia ingannare dall'artista: tutto questo perchè l'essere non c'è. Una domanda che ci si è sempre posti analizzando Gorgia e tutti i sofisti, è se essi fossero politicamente conservatori o rivoluzionari. Politicamente Gorgia ha idee tipicamente conservatrici: alla domanda "che cos'è la virtù?", egli rispondeva nel più tradizionale dei modi: "i giovani devono fare questo, i vecchi quello, le donne quell'altro....". Come mai un tipo innovativo come Gorgia seguiva la tradizione? Egli segue la tradizione perchè se non si ha un criterio per stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (dato che l'essere non c'è), la cosa migliore da fare è seguire la tradizione, ciò che ci è stato tramandato dagli avi. Nonostante questo, i sofisti (ed in particolare Gorgia) rimangono rivoluzionari perchè seguono la tradizione solo perchè fa loro comodo. Nell'ambito sofistico emersero poi due diverse interpretazioni convenzione - natura): esistono due tipi particolari tipi di leggi, quella decretata dalla natura e quella decretata dall'uomo. Facciamo un esempio: per legge della natura, il più forte tende ad avere la meglio sul più debole; ma per la legge artificiale creata dall'uomo, questo non può accadere perchè si è tutti uguali ed è la legge stessa che protegge il più debole dal più forte. Ma quale è quella giusta, quella naturale o quella convenzionale? I sofisti rispondono in maniera differenziata gli uni dagli altri. Dal canto suo, Platone stesso affronta questo problema nel primo libro della Repubblica, in cui un sofista afferma che la legge artificiale è un'ingiustizia perpetrata dai più deboli ai danni dei più forti, giacchè essi cercano di limitare coloro che sono più forti e che per diritto naturale hanno diritto a prevalere introducendo le leggi artificiali. I Sofisti (dalla parola sophistés, che vuol dire "colui che fa professione di sapienza") sono attivi nel mondo greco tra la metà e la fine del 5° sec. a.C. Essi sono portatori di una profonda rivoluzione culturale poiché concentrano sull'uomo i loro interessi: essi non accettano più la sacralità delle tradizioni e sciolgono così il legame tra l'uomo e il cosmo, che tutta la riflessione filosofica precedente aveva avuto cura di mantenere. Con loro si ha anche una svolta importante nella concezione dell'educazione: non basta più conoscere Omero, Esiodo, Solone, né avere pratica di una singola attività. Occorre rendere l'uomo, per mezzo di una formazione culturale nuova, capace di dominare i suoi simili con l'intelligenza, con una superiore abilità: ecco dunque il ricorso a tecniche retoriche ed eristiche (ragionamenti sottili e speciosi), come i sofismi, per persuadere o dimostrare qualunque cosa. Si tratta ormai di far passare il discorso più debole a quello più forte, cioè far passare l'opinione meno utile e dannosa ad opinione più utile e sana. Infatti che cos'è una legge? Per i Sofisti è l'opinione della polis, cioè l'opinione condivisa dalla maggioranza che si può far passare da peggiore a migliore, guidandola e plasmandola a seconda delle circostanze. In altri termini, il potere politico è di chi sa conquistarselo nell'assemblea con l'abilità personale, la bravura oratoria, l'intuizione nelle scelte politiche. I Sofisti propongono quindi loro stessi come i maestri adatti a formare una nuova classe politica in possesso di tali capacità. Essi erano naturalmente spregiudicati e chiedevano un pagamento per le loro prestazioni. Ciò fa sì che il loro insegnamento sia rifiutato da parte della vecchia aristocrazia (che disprezzavano il loro modo di fare) e d'altra parte non sia accessibile alle persone non ricche. Essi infatti sono i maestri dei nuovi ricchi di Atene, di quella classe di artigiani e commercianti che sta sempre più formando il nucleo politico portante della città. Tuttavia, per misurarsi con le questioni-chiave della loro epoca (che cos'è la virtù e se sia possibile insegnarla, che cosa siano giustizia e diritto, quale sia il fondamento delle leggi che reggono lo Stato ecc.), i Sofisti dovettero anche affrontare i problemi che la tradizione filosofica aveva già posti e, primo fra tutti, quello della verità e della conoscenza, nel momento in cui si volevano trovare delle regole valide per comprendere la nuova e complessa realtà sociale ed orientarvisi praticamente. E' chiaro, da quanto accennato, che le tesi dei Sofisti misero in crisi la polis ed i suoi fondamenti etici e politici. Il dibattito che ne seguì ci è stato tramandato come il problema del rapporto tra la natura e la legge, tra la physis e il nomos. Nei poemi omerici la legge aveva origine divina e carattere orale; l'autorità del re era politica e religiosa insieme. Le ordinanze regali, tramandate da padre in figlio, costituiscono nel corso delle generazioni il corpo di un diritto sacro. A partire dal 7° sec. a.C. si ha una prima, fondamentale innovazione: le leggi vengono scritte e rese pubbliche. I grandi legislatori (ad es. Solone ad Atene nel 594 a.C.) raccolgono il diritto, tramandato oralmente, in codici scritti: nasce così il nomos, la legge scritta. Col diritto scritto, la legge si installa nella polis e ne diviene l'anima stessa. Nel nomos si esprimono la volontà ed il potere della polis, e subentra il vincolo comune della obbedienza alla legge. Nei Sofisti invece il nomos, come la verità in Protagora, perde ogni garanzia di validità universale. In Protagora stesso la questione del fondamento delle leggi era risolta in rapporto alla polis. Era la polis stessa a fornire il criterio di demarcazione tra il giusto e l'ingiusto: "Quali cose a ogni città sembrino giuste e belle, queste sono tali per essa, fintanto che tali le creda". In Protagora la convenzionalità del nomos non impedisce che, solo nell'ordine della legge, si realizzi una possibilità di convivenza specificamente umana. Ma la visione di Protagora non apparirà più sostenibile quando arriverà al potere un'altra classe politica, più rozza ed ignorante, che segnerà l'allontanamento dalla polis dello stesso Protagora. Con la nuova generazione di Sofisti, attiva a partire dalla seconda metà del 5° sec. a.C., vi sarà la contrapposizione esplicita fra natura e legge. Ne abbiamo un ricordo in alcune opere platoniche, come la Repubblica e il Gorgia. Platone fa pronunciare ad un certo Trasimaco (retore del 5° sec.) una lezione di crudo realismo politico. La giustizia - fa dire Trasimaco - non è altro che l'utile del più forte. La legge insomma legalizza la sopraffazione. Ma non basta: Platone fa dire ad un altro intervenuto, l'aristocratico Crizia, che non solo la legge ma anche la religione è una creazione completamente umana e mera funzione del potere. Leggi e divinità non sono altro che gli strumenti inventati dal legislatore per costruire l'inganno capace di ridurre ad ordine, attraverso la punizione e la paura, una natura umana, priva, in sé stessa, di ogni moralità e socialità. Non meno radicale il punto di vista di Callicle, figura centrale del Gorgia. Per Callicle, le leggi, le convenzioni, i valori morali sono invenzioni dei deboli - la maggioranza - per impedire ai pochi, ai forti, di realizzare la superiorità che li caratterizza per natura. Infatti la natura mostra, in ogni sua manifestazione, che i migliori prevalgono ed i peggiori soccombono. Ma i migliori sono coloro che si mostrano capaci di soddisfare passioni e desideri, di aderire alla natura e di vivere secondo le sue leggi, spezzando le catene imposte dalle convinzioni. Se la natura deve comandare, in questo comando è però iscritta la superiorità di alcuni, non è l'eguaglianza di tutti.