Roma, 5-7 settembre 2000 pagina 1 LA PERSONA: CENTRO E MISURA DELLA SPERIMENTAZIONE CLINICA Angelo A. Bignamini "Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi?", dice il salmista (Sal 8,5) esprimendo tutto lo stupore dell'uomo di fronte alle opere meravigliose del creatore. Oggi questa domanda viene molto spesso rovesciata di significato ad indicare la subordinazione dell'uomo rispetto ad altri cosiddetti 'valori' o termini di misura. Questo avviene anche nella sperimentazione clinica, che dovrebbe invece costituire il luogo di incontro di tre momenti eminentemente 'umani': la medicina, la scienza (intesa come metodologia di ricerca), e l'etica. Nella ricerca clinica dovrebbero coesistere i principi fondamentali che guidano la medicina, la ricerca scientifica e la bioetica, coordinati ed armonizzati tra loro. Tali principi non sono necessariamente sempre compatibili tra loro: da qui sorge la necessità di un criterio che ne determini la gerarchia. La medicina, che non può in nessun caso essere separata dalla necessità dell'assistenza al soggetto malato, pone al suo centro il bisogno dell’essere umano che incontra nella malattia e nella morte il limite al proprio diritto "fondamentale e fontale" (cf. Giovanni Paolo II, Evangelium vitae 71-72), alla vita e alla salvaguardia della propria salute e integrità. La medicina non coincide con la ricerca scientifica che, in quanto tale, non è soggetta al riscontro del limite esistenziale umano. La ricerca scientifica ha come principio fondamentale l'estensione a tutti i campi di indagine, in questo caso alla medicina, del metodo scientifico. Questo, a sua volta, ha come principio l’osservazione della realtà per ciò che essa è, secondo criteri dettati dalla natura dell'oggetto della ricerca (nel nostro caso il soggetto malato, una persona umana sofferente) e non pre-definiti dall’osservatore. Dall'osservazione non pre-giudiziale del fenomeno in esame (un soggetto affetto dalla patologia oggetto di ricerca) si ricaveranno i meccanismi generali esplicativi. Requisito sostanziale di una corretta ricerca scientifica è quindi l'adeguatezza del metodo alla natura del soggetto, la superiorità dell'osservazione sulla discussione (si ricordi l'aforisma del premio Nobel Alexis Carrel: "molta osservazione e poca discussione conducono alla verità; poca osservazione e molta discussione conducono all'errore"),1 e il principio di verificabilità/falsificabilità delle conoscenze scientifiche (come ben indicato da Popper).2 L’etica ha come principio fondante la tutela dei diritti del soggetto - dove il termine soggetto include tutti i soggetti coinvolti - quindi determina procedure coerenti con la natura di quanti implicati nella sperimentazione. Nella realtà pratica della ricerca clinica, non tutti questi principi possono coesistere allo stesso tempo in una data circostanza. Si vengono quindi a creare situazioni di conflitto nelle quali diventa indispensabile definire un ordine gerarchico, così che vengano rispettati i principi maggiormente pertinenti al soggetto della sperimentazione. Nel momento attuale è proprio il problema di come definire l'ordine gerarchico che determina i maggiori contrasti. La questione nasce da una deriva antropologica, che può essere fatta risalire al positivismo attraverso la metodologia del riduzionismo scientifico assunta a filosofia, che ha prima esaurito il significato del 1 2 Alexis Carrel: Reflexions on life. Popper K. Conjectures and refutations: the growth of scientific knowledge. London: Routledge; 1963.; Popper K. Objective knowledge: an evolutionary approach. Oxford: Clarendon Press; 1972. Roma, 5-7 settembre 2000 pagina 2 termine "persona" in un fascio di funzioni psico-fisiologiche, e poi causato la relativizzazione del significato e del valore dell'essere umano. Come frequentemente evidenziato nei documenti della Chiesa cattolica e nei testi di altri credenti, si sono trasferiti valori di ordine secondo (“interesse” della scienza, “interesse” della società, "qualità" di vita) a livello dei valori di ordine primo (“bene” del soggetto, “diritto” della persona, "vita" tout court), così come si è sostituita una definizione generale (“individuo”, applicabile anche all'ameba) ad una specifica (“persona”, applicabile solo all'uomo e agli esseri soprannaturali). L'approccio razionale e non pregiudiziale alla realtà porta alla conclusione che la realtà contiene una propria verità, quindi il 'bene' e il 'vero', ineriscono alla realtà e non sono posti da chi la osserva.3 Nel momento in cui cade questo riferimento alla realtà (ontologia) si affermano sia il relativismo etico e morale nell'agire del ricercatore e del medico, sia le diverse bioetiche e filosofie morali, che hanno di riflesso un diverso rispetto per il soggetto della ricerca medica. La bioetica che considera come valore fondamentale la vita umana del soggetto rispetto a qualsiasi altro termine, viene arbitrariamente definita "cattolica", e ad essa si contrappongono le bioetiche sedicenti "laiche". In realtà la contrapposizione vera è tra la visione dell'individuo privata di un riferimento antropologico saldo ed una visione di persona fondata su salde basi antropologiche, e che osserva l’uomo e la sua natura senza pre-concetti, riconoscendo alla realtà una sua verità intrinseca. Allo stesso tempo, cioè nel momento in cui si separa la ricerca scientifica dalla natura del suo soggetto, si viola anche il metodo della ricerca scientifica stessa, sostituendo una metodologia ideologica - basata cioè sui giudizi a priori dell'osservatore derivanti da uno schema pre-concetto alla metodologia rigorosamente scientifica di affrontare la realtà, fondata cioè sull'osservazione del soggetto secondo la sua natura. Infatti le diverse bioetiche identificano rigorosamente il proprio soggetto in un “interesse” o in un “valore”, anziché in una "natura". La bioetica personalista ontologicamente fondata identifica invece il soggetto attraverso la natura della persona, e i diritti "fontali" del soggetto come una delle espressioni del suo “bene”. Secondo la bioetica personalista, di conseguenza, il criterio della ricerca clinica è il “bene” di tutti i soggetti della ricerca (osservatori e osservati con pari dignità), che si manifesta nel rispetto dei loro diritti, primo fra tutti il diritto alla promozione della vita e alla integrità e salvaguardia della salute, al rispetto dei criteri morali e religiosi di chiunque coinvolto nella ricerca. In questo contesto la persona rimane l’elemento centrale della ricerca clinica, il rispetto della natura della persona rimane la misura della validità della ricerca, la possibilità del “bene” della persona fonda il criterio di valore. Buona parte di questi principi risultano presenti nel documento fondamentale che indirizza l’etica della ricerca clinica, la Dichiarazione di Helsinki, che per questa ragione viene attualmente posta in discussione. Tuttavia, le recenti ricerche (più biologiche che strettamente mediche: genoma, clonazione, fecondazione assistita e, con particolare enfasi nelle ultime settimane, l'impiego delle cellule staminali da embrione umano "per il bene dei malati") vedono prevalere l’etica socio-biologista, utilitarista, o al più principialista. In tutte queste bioetiche si osservano alcuni fattori comuni. In primo luogo, manca il riferimento preciso alla "persona" e si parla di "individuo". In secondo luogo, viene esaltato o il principio di autonomia del soggetto (con l'ovvio corollario che chi non è in grado di difendere adeguatamente la propria autonomia, cioè i soggetti più deboli, passa da soggetto a oggetto di sperimentazione). In tutte si riscontra la mancanza di un rapporto 3 cfr Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor (6 agosto 1993). Roma, 5-7 settembre 2000 pagina 3 gerarchico definito su basi qualitative - quindi indipendenti da un decisore o valutatore esterno - tra principi o interessi contrastanti. Tuttavia l'attacco più grave alla salvaguardia dei diritti del soggetto di sperimentazione si viene a porre ancora più a monte, e sta nella definizione di essere umano (ovvero di persona umana), cioè nel suo statuto ontologico. Proprio pochi giorni fa abbiamo ascoltato un ministro della Repubblica Italiana - sulla scia del documento Donaldson del governo britannico - porre la questione della sperimentazione sulle cellule staminali embrionali in termini utilitaristici: meglio "usare" gli embrioni congelati per qualcosa di "utile ai malati" che lasciarli morire. A sua volta, questa affermazione nasce dal considerare l'embrione umano come non-persona, giustificato sempre in questi ultimi giorni dal prof. Ian Wilmut, ma sulla scia di un pensiero biologico diffuso, che fino alla formazione del sistema nervoso centrale (sesta-ottava settimana) non si può parlare di essere umano, per cui l'embrione umano sarebbe qualcosa di non-umano. Quindi, se non si tratta di essere umano, cade la necessità di rispetto dei suoi diritti; al più sono da rispettare gli stessi diritti che si applicano all'embrione di topo o di pollo, ai quali viene correttamente riconosciuta l'appartenenza alla specie topo e pollo. Ora, questa affermazione è chiaramente di tipo quantitativo, utile al più a distinguere l'embrione umano dall'adulto umano, ma non ciò che è umano dal nonumano. Infatti, le funzioni di integrazione e coordinamento dell'organismo, svolte nell'adulto dal sistema nervoso centrale, si ritrovano nell'embrione umano, già a partire dalla prima divisione cellulare, tramite flussi di mediatori chimici tra cellule e tramite gradienti di ioni all'interno delle singole cellule.4 Per affrontare adeguatamente questi problemi, sempre più critici nel prossimo futuro con lo sviluppo delle nuove tecniche mediche che dovranno essere necessariamente sperimentate, la bioetica ha bisogno di un ulteriore sforzo della metafisica, per dare una definizione di natura dell'uomo e di persona in maniera sempre più adeguata ed accessibile agli sperimentatori in campo biomedico. Perché ciò sia applicabile all'ambito scientifico sperimentale, tuttavia, la ricerca metafisica non potrà fare a meno di tenere conto delle peculiarità del metodo della ricerca scientifica, così come la bioetica ha dovuto sviluppare la specifica branca della bio-etica. Infatti abbiamo già splendide, concise e puntuali definizioni di uomo e di persona, prima fra tutte quella classica di Tommaso5 che riprende Boezio6 "persona est rationalis naturae individua substantia". Ma tali definizioni derivano da un ambito antropologico oggi ormai disgregato, e tramite un percorso che, se pure a torto, viene considerato estraneo al percorso scientifico contemporaneo. Per ristabilire il primato della persona nella ricerca scientifica in generale e in quella biologico-clinica in particolare bisogna essere in grado di giustificare un approccio bioetico personalista sotto il profilo culturale ed antropologico, e di coniugarlo con il vero metodo scientifico non ideologico, così da permetterci ancora di dire con il salmista: "Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio" (Sal 139 [138], 14). Angelo A. Bignamini Docente di Buona Pratica Clinica, Istituto di Bioetica, U.C.S.C., Roma 4 5 6 cfr la documentazione completa sull'argomento elencata nel sito: http://www.eldondelavida.cl S. Tommaso d'Aquino. Summa theologiae, I, q 29 a 1, ad 1. Boezio. Liber de persona et duabus naturis contra Euthychen et Nestorium ad Ioannem Diaconum Ecclesiae Romanae, cap. 3. Roma, 5-7 settembre 2000 [email protected] pagina 4