Mauro Pesce Perché i concetti di “eresia” e “eretico” non sono concetti storiografici [Di prossima pubblicazione su Annali di Storia dell’Esegesi 31/1 (2014)] 1. Premessa Anticipo sinteticamente, per chiarezza, le affermazioni che cercherò di argomentare in queste pagine.1 Anzitutto, vorrei mostrare che il concetto di eresia e di eretico non è un concetto storiografico, ma uno strumento confessionale di condanna elaborato da un gruppo, da un’autorità o da un autore nei confronti di altri gruppi o persone. In quanto tale, il concetto di eresia non può essere usato da uno storico e deve scomparire dal linguaggio e dal concettualità storiografica della storia del cristianesimo e delle chiese, come del resto già in parte da tempo avviene. In secondo luogo, per i primi centocinquanta anni della storia del cristianesimo non esiste il concetto di eresia, inteso come gruppi o dottrine devianti rispetto a gruppi e dottrine definibili come ortodossi. In terzo luogo, il concetto di eresia, elaborato da autorità ecclesiastiche di diverso orientamento e localizzazione geografica nel corso della lunga storia del cristianesimo, varia nel tempo, non è sempre lo stesso. Le principali svolte storiche che mi sembrano significative per una mutazione concettuale avvennero, mi sembra, anzitutto nella seconda metà del II secolo, poi durante il periodo aureo della eresiologia cristiana delle chiese che si riconoscono nel concilio di Calcedonia; infine nel periodo medievale dei secoli XI-XIV. Il graduale porsi di alcune condizioni, dal tardo Cinquecento in poi, per il nascere di una storia del cristianesimo non confessionale costituisce un’altra svolta fondamentale. In quarto luogo, infine, vorrei mostrare che l’abbandono del concetto di eresia, come elemento concettuale importante, implica, accanto ad altri fattori, una riformulazione dello statuto epistemologico della disciplina della storia del cristianesimo, come disciplina che persegue la conoscenza storica e non la difesa o la spiegazione di una particolare confessione cristiana (o la difesa della religione cristiana rispetto ad altre religioni).2 2. All’inizio sta la pluralità Negli studi di storia del cristianesimo antico si è affermato sempre di più un mutamento di paradigma interpretativo, e spetta ai futuri storici di fare un’indagine che appuri l’esatto inizio di 1 Ringrazio Alberto Campani, Gianluca Potestà e Irena Backus per le osservazioni rivolte alla bozza di questo intervento. Ho cercato di tenerne conto nella redazione finale. In particolare, sono grato a Irena Backus, non solo per le sue molte osservazioni critiche, ma anche per i saggi che ha dedicato all’argomento nei quali si trova ampia bibliografia sul tema. Ovviamente è solo mia la responsabilità di quello che scrivo. Ringrazio anche Andrea Villani che ha avuto la gentilezza di verificare Göttingen alcune citazioni di cui non avevo a disposizione l’edizione definitiva. 2 Su tutta la questione cfr. Irena Backus – Aza Goudrian, “‘Semipelagianism’ The Origins of the Term and its Passage into the History of Heresy”, Journal of Ecclesiastical History, 63 (2012) 1-22; I. Backus, P. Büttgen and B. Pouderon (eds), L’Argument hérésiologique, l’Église ancienne et les Réformes, XVI–XVIIe siècles, Paris, 2012; I. Backus, “Leibniz et l’hérésie ancienne”, in Irena Backus, Philippe Büttgen et Bernard Pouderon (eds), L’Argument hérésiologique, l’Église ancienne et les Réformes, XVI-XVIIe siècles, Paris, Beauchesne (Théologie historique, 121), 2012, p. 69-93; Frédéric Nef, “Declarative vs. Procedural Rules for Religious Controversy: Leibniz’s Rational Approach to Heresy”, in Marcelo Dascal (dir.), Leibniz: What Kind of Rationalist?, Dordrecht, Springer, 2009, p. 383395. Vedi anche Jacques Le Brun, “La notion d’hérésie à la fin du 17e siècle: la controverse Leibniz-Bossuet”, in La jouissance et le trouble. Recherches sur la littérature chrétienne à l’âge classique, Genève, Droz, 2004, p. 137-160, O.Hagender, “Der Häresiebegriff bei den Juristen des 12. Und 13. Jahrhunderts”, in: W. Lourdaux – D.Verhelst (eds), The Concept of Heresy in the Middle Age (11th – 13th C.), Leuven, Leuven University Press, 1073, 42-103. 1 questo mutamento all’interno della nostra disciplina. Secondo questo schema interpretativo, il cristianesimo si presenta fin dall’inizio con una pluralità di gruppi con pratiche e idee religiose almeno in parte diverse. Fin dall’inizio, avremmo quindi una molteplicità di cristianesimi e non un cristianesimo unitario. Al vecchio paradigma secondo il quale il cristianesimo unitario degli inizi si sarebbe poi differenziato in una pluralità di gruppi, differenti fra loro, in modo tale che la pluralità dei cristianesimo nasce dal disgregarsi dell’unità originaria, è stato sostituito il paradigma secondo il quale all’inizio non esiste un cristianesimo unitario, ma una pluralità di gruppi cristiani differenti per pratiche e dottrine. A livello terminologico è perciò divenuto consueto parlare di “cristianesimi” al plurale. Un cristianesimo considerato maggioritario si sarebbe formato per reazione a questa pluralità, senza però riuscire mai a imporre una sola forma cristiana, in quanto la pluralità avrebbe comunque continuato ad esistere. In alcuni casi, le forme differenti di cristianesimo sarebbero rimaste marginali, mentre in altri casi la differenza sarebbe rimasta massiccia e numericamente molto consistente. Si pensi al coesistere nei medesimi periodi storici, sebbene in aree differenti, della chiesa latina e di quelle greche. L’antico schema dell’unità originaria poi diversificata in gruppi diversi e divergenti ha a suo favore il racconto degli Atti degli Apostoli, assunto da un lato come se fosse una rappresentazione storica vera e propria e soprattutto, dall’altro, semplificandolo essenzialmente mediante la rimozione di alcuni dati che contraddicono quello schema. Secondo questo racconto, il gruppo dei discepoli di Gesù riunito a Gerusalemme dopo la sua morte, costituito dagli Undici divenuti poi di nuovo Dodici, con i fratelli di Gesù e la madre (At 1,12-14), aggrega molti altri discepoli a Gerusalemme e poi diffonde il messaggio di Gesù in ogni parte della terra di Israele e del mediterraneo. Il gruppo originario è situato in un solo luogo, Gerusalemme, ed è costituto da persone che sono “tutte” “concordi” (Atti 1,4). In realtà, questo schema è smentito in ogni suo punto. Anzitutto, la concordia originaria è contraddetta dagli stessi Atti degli Apostoli per la divergenza forte tra ebrei ed ellenisti tra i seguaci di Gesù e per le opposizioni e difficoltà esistenti nei confronti di Paolo, come la storiografia dalla seconda metà del XVII secolo in poi ha messo in luce. Oggi a ciò si aggiungono le ipotesi relative alle fasi più antiche del vangelo di Tommaso che mostrano affinità con le tradizioni che si ritrovano nei vangeli giudeo-cristiani, cosicché qualcuno ipotizza una maggiore pluralità di gruppi nella stessa Gerusalemme del primo secolo.3 Ma l’idea stessa di un’origine da un solo luogo, che si vorrebbe fondare sui racconti degli Atti degli Apostoli è smentita dagli stessi vangeli canonici. Il Vangelo di Matteo, infatti, ha una visione degli eventi dopo la morte di Gesù che è in aperto contrasto con gli Atti. Gesù risuscitato appare agli Undici non soltanto a Gerusalemme, ma su un monte in Galilea. La divergenza tra i vangeli di Marco e Matteo e Luca, inoltre, con quello di Giovanni mette in luce tradizioni tramandate da gruppi che hanno sedi geografiche differenti e possiedono informazioni su Gesù, le sue azioni e il suo messaggio abbastanza discordanti. Gruppi di seguaci di Gesù in Galilea, in Giudea a Gerusalemme e altrove sembrano così essere nati già dai tempi della predicazione di Gesù ed essersi poi sviluppati più o meno autonomamente. In sostanza, il racconto degli Atti appare non come una visione generale della storia del primissimo cristianesimo, ma come un racconto proveniente da un ambiente geograficamente preciso e limitato, ma che va posto accanto a racconti provenienti da altri gruppi di seguaci di Gesù coevi e situati in altri luoghi. La lettura armonizzante dei testi cristiani primitivi avvenuta (si veda ad esempio Taziano) già alla metà del II secolo in alcuni ambienti (non tutti!) e che si rafforzerà poi con la costituzione della collezione canonica del Nuovo Testamento, porta ad oscurare la percezione della diversità dei testi, anche di quelli che diventeranno in seguito canonici. In realtà, la divergenza dei racconti delle 3 R.Cameron – M.P. Miller (eds), Redescribing Christian Origins, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2004; J.S.Kloppenborg; F. Bovon, “The Emergency of Christianity”, Annali di Storia dell’esegesi; A.Destro – M.Pesce, “Come è nato il cristianesimo”, Annali di Storia dell’Esegesi 21 (2004) 529-556. M.Pesce, “Come studiare la nascita del cristianesimo. Alcuni punti di vista”, in Dario Garriba e Sergio Tanzarella (a cura di), Giudei o cristiani? Quando nasce il cristianesimo?, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2005, 29-51. 2 origini di Matteo, Atti,4 Giovanni5 e Paolo6 è forte e ad essa va aggiunta quella che ci risulta dal vangelo di Tommaso, dall’Ascensione di Isaia,7 dai primi testi gnostici cristiani, dall’Apocrifo di Giovanni,8 dalla letteratura pseudo-clementina.9 Il paradigma della pluralità originaria, dei molti cristianesimi esistenti fin dalle origini, è spesso fatto risalire all’opera di W.Bauer.10 Ma non bisogna dimenticare che quest’opera ha tardato ad affermarsi e che oggi è rivalutata proprio perché il riconoscimento della pluralità dei cristianesimi originari è divenuto un patrimonio comune della ricerca sulle origini cristiane.11 3. Il sorgere del concetto di eresia Il concetto di eresia, inteso come un insieme di orientamenti religiosi e in particolare teologici che sono considerati devianti e condannabili dal punto di vista di comportamenti e dottrine giudicati ortodossi, sembra apparire verso la metà del II secolo. E’ diventato comune considerare definitivo il giudizio storiografico di A.Le Boulluec12 sul fatto che la parola hairesis solo verso la metà del secondo secolo e soprattutto in Giustino di Neapolis subisce una variazione fatale di significato e da libera scelta lecita e accettata comincia a significare una scelta condannabile, una corrente o un gruppo che aderisce a dottrine devianti contrarie all’ortodossia. Dopo Le Boulluec la riflessione e la ricerca sono però notevolmente avanzate, anche nello studio di Giustino.13 E’, infatti, abbastanza chiaro che l’apparire di un nuovo significato della parola hairesis si accompagna ad una definizione tendenzialmente nuova dello stesso concetto di “cristiano” e ad una separazione tra seguaci di Gesù ed ebrei. Per Giustino, i cristiani non solo tutti i seguaci di Gesù, ma solo quelli, numericamente maggioritari, che non sono ebrei. L’operazione di distinzione dei christianoi dai Giudei mira a impedire che i christianoi siano un sottogruppo dei Giudei. D’altra parte, Giustino vuole anche impedire che i christianoi si integrino senza identità distinta nell’impero e nella cultura ellenistico-romana. Questo ci sembra sia almeno uno dei motivi che lo spingono a denunciare tutti quei gruppi che sono certamente christianoi (cioè seguaci di Gesù appartenenti agli ethne dei gentili) ma si avvicinano troppo agli usi religiosi o alle tendenze filosofiche dei gentili: “vi è gente che si professa cristiana … ma professa gli insegnamenti che provengono dagli spiriti dell’errore” (35,2). “Tra di loro vi sono alcuni chiamati marcioniti, altri valentiniani, altri basilidiani, altri saturnaliani ...” (35,6).14 E’ molto importante che Giustino riconosca che questi che egli giudica devianti si considerino invece cristiani. La differenziazione tra cristiani veri e falsi tende a negare processualmente,15 con il tempo, l’attribuzione del nome di 4 Matteo sembra far iniziare la predicazione ai non ebrei da parte degli Undici a partire dalla Galilea (Mt 28, 16-20) e non dal Gerusalemme come negli Atti degli Apostoli 2,1-48. 5 Giovanni sembra testimoniare una diffusione di seguaci di Gesù da subito in Giudea. 6 Si veda la divergenza tra Gal 2 e Atti 15. 7 Ascensione di Isaia 3,19-31. 8 K.King, The Secret Revelation of John, Cambridge, Cambridge University Press, 2006. 9 F.S. Jones, “An Ancient Jewish Christian Rejoinder to Luke’s Acts of th Apostles: Pseudo-Clementine Recognitions 1.27-71”, Semeia 80 (1997) 223-245; Id., An Ancient Jewish Christian Source on the History of Christianity. PseudoClementine Recognitions 1.27-71, Atlanta Scholars Press, 1995. 10 Si veda la recente traduzione francese: Walter Bauer, Orthodoxie et hérésie aux débuts du Christianisme, Paris, Cerf, 2009 con l'introduzione di Alain Le Boulluec. Su Bauer, vedi F. W. Gingrich, W. Schneemelcher, E. Fascher in NTS 9 (1962/63) 1-38. 11 P.Lampe, “Induction as Historiographical Tool: Methodological and Conceptual Reflections on Locally and Regionally Focused Studies”, Annali di Storia dell’Esegesi 30, 2013, 9-20. 12 La notion d’héresie dans la littérature grecque. IIe-IIIe siècles. Tome I: de Justin à Ironée. Tome II: Clèment d’Alexandrie et Origène, Paris, Études Augustiniennes, 1985. Si veda l’apprezzamento che ne fa ad esempio D.Boyarin, Borderlines. The Partition of Judaeo-Christianity, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2004, 3-4.65. 13 Boyarin, Borderlines, 37-73; R. Lyman, “Hellenism and Heresy. 2002 NAPS Presidential Address”, “Journal of Early Christian Studies” 11/2, 2003, 209-222. 14 M.Pesce, Da Gesù al cristianesimo, Brescia, Morcelliana, 2011, 202-205. 15 Sul concetto di definizione processuale cfr. G.Baumann, The Multicultural Riddle. Rethinking National, Ethnic, and Religious Identities, New York, Routledge, 1999, 138-139. 3 cristiani agli eretici. Ancora più importante è, però, che per Giustino i devianti non siano deformazioni di un’unità originaria. Lo schema dell’unità originaria che si degenera successivamente in pluralità è ancora estraneo al suo pensiero, come lo era a quello di Paolo. Ma su questo punto sono necessarie due osservazioni dirimenti dal punto di vista storico. La prima riguarda i meccanismi che permettono di individuare l’ortodossia. Anzitutto, quale autorità può definire ortodossa una dottrina e considerare eretica quella ad essa contraria? L’autorità di un singolo pensatore, come ad esempio Giustino, non può certo pretendere di andare aldilà della propria persona o al massimo del ristretto gruppo di allievi che aderiscono fedelmente al suo pensiero. Diverso è il caso di un’istituzione. Per definizione un’istituzione riveste autorità rispetto agli individui che vi aderiscono fino al momento in cui questi individui la ritengono valida. In secondo luogo, i meccanismi di giustificazione attraverso i quali una persona o un’istituzione possono tentare di legittimare la propria autorità sono di diversa natura. Si può fare ricorso ad una legittimazione soprannaturale, e questo avviene soprattutto nel caso di Paolo,16 oppure ad una giustificazione di tipo tradizionale. Nel primo caso, una rivelazione diretta di Dio giustificherebbe la pretesa di basarsi su una verità inoppugnabile perché di origine divina, Nel secondo caso, la legittimazione è ottenuta mediante la pretesa di rappresentare fedelmente ciò che l’autorità originaria ha trasmesso attraverso fasi successive di trasmissione fedele. Mi sembra che questi due criteri di legittimazione siano stati usati nel primo cristianesimo ambedue e sempre in un modo difficilmente separabile. Per giunta, nessuno di questi due criteri ha mai fatto a meno di un terzo criterio, quello del consenso di un gruppo che recepisce l’autorità, la riconosce e vi si riconosce. I primi due principi, tuttavia, hanno una logica radicalmente diversa fra loro e in qualche misura inconciliabile. Legittimare la propria autorità sulla base di una rivelazione divina diretta significa non avere bisogno di alcuna conferma esterna o tradizionale. Significa che il principio di continuità con dottrine precedenti non conferisce autorità: una dottrina è ortodossa in quanto ricevuta per rivelazione diretta, non mediata, da Dio. La dottrina ortodossa che si legittima su un’autorità che si fonda invece su una catena tradizionale precedente ha assoluto bisogno di dimostrare la propria continuità con le precedenti dottrine ortodosse che costituiscono la catena di trasmissione tradizionale. La definizione di ortodossia e di eresia non valica i confini del gruppo all’interno del quale si forma. Altri gruppi avranno altri contenuti di ortodossia e di eresia. Ciò che ortodosso per un gruppo di cristiani non lo è quindi per un altro. Le chiese protestanti, ad esempio, che sono eretiche dal punto di vista cattolico, elaboreranno al loro interno concetti di eresia per condannare coloro i quali, dal loro punto di vista, sono devianti.17 Ma, una volta riconosciuto che il meccanismo di opposizione eresia-ortodossia si manifesta all’interno di un gruppo o chiesa (o perché una parte del gruppo definisce deviante un’altra parte dello stesso gruppo o nel senso che una parte minoritaria del gruppo si separa dal resto perché non riesce a far prevalere sulla maggioranza la propria visione delle cose ritenuta “ortodossa”), diventa abbastanza interessante riconoscere che i motivi per i quali alcuni ritengono opportuno condannare come eretici singoli personaggi o singoli gruppi possono essere molto diversi a seconda dei casi. Sembra evidente che non sia mai sorta la preoccupazione di definire eretico qualcuno con il quale non si avesse un concreto rapporto. La creazione del binomio eresia-ortodossia sembra perciò necessariamente connessa all’esistenza di una coesistenza tra gruppi diversi, ma in relazione reciproca. Certo, a volte chi dichiara eretica la parte avversa deve essere in una posizione di potere per farlo, oppure in una situazione di maggioranza numerica rispetto a una minoranza. Ma ciò non è necessario sempre, perché dichiarare altri devianti è un atto compiuto spesso anche da minoranze o da gruppi non dotati di una particolare forza sociale. La seconda osservazione riguarda i contenuti dell’ortodossia. Una tendenza degli storici del cristianesimo antico è – come abbiamo accennato, quella di presupporre una continuità tra i 16 Gal 1,1.11-12. I. Backus, P. Büttgen and B. Pouderon (eds), L’Argument hérésiologique. Questo concetto è sviluppato soprattutto a p. 15-17, ma in generale anche in tutta l’Introduction, di Backus et Büttgen (13-20). 17 4 contenuti dottrinali della chiesa che essi considerano ortodossa, ad esempio la chiesa che si riconosce nel concilio di Nicea, e le dottrine precedenti. Ma, come è noto, le cose non stanno così. Spesso verifichiamo che gli autori che si considerano ortodossi, difendono non di rado dottrine che i successivi autori considerati ortodossi non professano. L’ortodossia di Giustino, ad esempio, non coincide con quella di Ireneo e con quella di Nicea. La sua concezione di divinità di Gesù e quella di millenarismo non possono essere considerate ortodosse secondo la teologia della chiesa successiva che si riconosce nei grandi concili del IV e V secolo. In sostanza i contenuti dell’ortodossia mutano. Ciò ha conseguenze fatali sulla storia del cristianesimo perché spesso gli storici che si sentono in dovere di difendere ciò che le loro chiese considerano ortodosso, cercano instancabilmente di dimostrare che le dottrine delle loro chiese stanno in continuità con le dottrine antiche e che vi è una sostanziale armonia tra le autorità ortodosse nei lunghi secoli della storia delle chiese. 4. Come interpretare storicamente la diversità dei gruppi cristiani Ritorniamo al punto di partenza: secondo lo schema antico dell’unità primitiva della chiesa delle origini, le eresie sarebbero le responsabili della diversificazione successiva. Questo schema è stato talmente radicato nella storia del cristianesimo che lo troviamo ovunque ripetuto. Si prenda ad esempio la definizione di Alfonso de Liguori nella sua “Istoria delle eresie con la loro confutazione”, del 1772 (che cito da un’edizione di Bassano del 1838): “Eresie uscite dal suo [della chiesa] medesimo seno per mezzo di uomini malvagi, che mossi dalla superbia, o dall’ambizione, o dalla libertà dei sensi, impresero a lacerare le viscere della loro stessa madre”.18 La diversità è lacerazione di un’unità preesistente. Questo schema presuppone una struttura istituzionale che non corrisponde alle origini: presuppone cioè La chiesa come fonte e origine. Si rivela cioè non come schema storico, ma come concetto dogmatico e per di più concetto dogmatico cattolico. Esiste una chiesa originaria fondata da Gesù e dotata di determinate caratteristiche essenziali, che si perpetua nei secoli da cui si distaccano le eresie per errori creati da singoli e seguiti poi da gruppi più o meno numerosi. È evidente che una volta riconosciuta la necessità di rovesciare il paradigma e di porre la diversità come dato originario, si porrà anche la necessità di una classificazione della diversità. Se il concetto di eresia non è applicabile ai primi 150 anni di storia cristiana, la ricostruzione storiografica non può adoperarlo perché non esistono eretici in questo primo periodo della storia cristiana. Sarebbe un anacronismo. L’anacronismo consiste, come è noto, nel considerare esistenti in un certo periodo realtà storiche che sono proprie solo di epoche successive. Ma la ricostruzione storiografica non potrà usare il concetto di eretico/eresia anche per il periodo successivo, quando sarà introdotto da alcuni autori, autorità o istituzioni che si considerano ortodossi, perché non si tratta di un concetto storiografico, bensì di strumenti per isolare e marginalizzare dottrine che quel determinato autore o quella determinata istituzione o autorità ecclesiastica non condivide. Lo storico non può adottare il concetto di questi autori o autorità per definire le caratteristiche storico-religiose dei gruppi che studia. Non può, ad esempio, assumere il punto di vista e gli intenti di Giustino, per classificare il cristianesimo della meta del II secolo. Dovrà egli stesso costruire concetti storiografici adatti. Sarà quindi costretto ad elaborare un concetto storiografico di “cristianesimo”, il quale dovrà includere tutti i gruppi e tutte le correnti dottrinali e tutte le pratiche religiose che si autodefiniscono “seguaci di Gesù”. Ciò vale anche per le categorie elaborate ad esempio dal vangelo di Giuda, all’incirca coevo. Le sue condanne dei gruppi cristiani che si avvalgono dei vangeli “canonici”19 non possono essere assunte come criteri storiografici. 18 19 Alfonso de Liguori, Istoria delle eresie con la loro confutazione, Bassano, 1838, 3. Vangelo di Giuda 37,24-39,2. 5 In sostanza, il concetto di eresia è un concetto e una terminologia che deve essere radicalmente eliminato dalla terminologia e dal sistema concettuale dello storico del cristianesimo antico. Correlativamente deve mutare anche il concetto di cristianesimo che non può più essere dipendente dall’idea di cristianesimo di una determinata chiesa o istituzione della chiesa antica, ma deve essere applicato a qualsiasi gruppo si richiami a Gesù, qualunque siano le sue pratiche, le sue dottrine e i suoi confini di appartenenza. Si tratta di una molteplicità di cristianesimi diversi, non di un solo cristianesimo ortodosso, che si differenzierebbe da gruppi di persone definite eterodossi o eretici. Lo storico, del resto, deve anche domandarsi come i gruppi (che alcuni definivano “eretici”) definivano se stessi e come definivano e qualificavano il gruppo o i gruppi dai quali erano condannati come eretici. Un punto fondamentale della questione metodologica è che, di fronte ad un gruppo che definisce eretico un altro gruppo, la storia deve tener conto non solo della valutazione del gruppo che condanna, ma anche della percezione di sé del gruppo condannato. Lo storico si trova di fronte a due serie di sistemi concettuali contrapposti e non può adottare i concetti che uno dei due gruppi ha usato per definire e condannare il gruppo avverso. Deve mettersi dal punto di vista di ambedue. Altrimenti diventerebbe espressione di un gruppo contro l’altro. Queste considerazioni che ci spingono a cancellare dalla terminologia e dalla concettualità della storiografia il concetto di eresia valgono anche per il medioevo. Per questo periodo non possiamo che sottoscrivere quanto scrive Grado Giovanni Merlo in Eretici del Medioevo. Temi e paradossi di storia e di storiografia: “le eresie e gli eretici esistono in quanto la cultura chiericale e i vertici ecclesiastici tali li individuano, definiscono e avversano (fino a reprimerli in modo cruento), in funzione della difesa di un ordinamento religioso che al tempo stesso pretendeva di essere un ordinamento civile e politico. […] Eresie ed eretici del medioevo non hanno alcuna oggettività, che derivi da una soggettività eterodossa: sono nomi, etichette applicate dagli uomini di chiesa a idee, comportamenti e individui, in determinati contesti spazio-temporali in cui quegli uomini di Chiesa vedevano minacciata la propria egemonia culturale e il proprio dominio sui fedeli, ovvero sulle popolazioni, definendo perciò quella minaccia come violazione del (doveroso) conformismo religioso, che essi consideravano la condizione nell’al di qua per conseguire la salvezza eterna nell’al di là”.20 Da questa ampia definizione di Merlo, risulta una serie di elementi su cui dobbiamo soffermarci anche se in modo molto rapido. Anzitutto, ciò che emerge in comune con l’età antica del cristianesimo è che il concetto di eresia e di eretico non è un concetto storiografico, ma una definizione che un gruppo di seguaci di Gesù opera a proposito di altri gruppi di seguaci di Gesù giudicandoli non conformi a ciò che esso ritiene ortodosso. L’eresia esiste quindi solo nella mente chi la definisce tale, ma non corrisponde alla realtà storico-religiosa dei gruppi definiti eretici. Ma dalla definizione di Merlo emergono anche le differenze tra l’età antica del cristianesimo e quella medievale (limitandoci ai secoli XI-XIV ai quali Merlo si riferisce). La dimensione politica della chiesa medievale e il fatto che i gruppi che essa combatte si allontanano dalla prassi e dalla dottrina di quella chiesa perché intendono ispirarsi alle origini del cristianesimo, origini, a loro parere tradite dalla chiesa medievale. Soprattutto, nei primi secoli cristiani non esiste una chiesa istituzionale da tutti riconosciuta come accadde nei secoli XI-XIV dell’occidente latino. Il concetto di eresia usato dagli eresiologi della chiesa antica e quello usato dalle autorità ecclesiastiche medievali non è lo stesso, cambia, come cambia la fisionomia dei cristianesimi delle diverse epoche. Abbiamo così verificato almeno due fenomeni storici diversi: anzitutto, quello delle origini del cristianesimo in cui una molteplicità di gruppi ed interpretazioni venne ad un certo punto bollata con il nome di eresia da parte di autori, istituzioni e autorità; in secondo luogo, quello per cui gruppi e dottrine nascono per un desiderio di rinnovamento, per far rivivere o vivere una presunta 20 Brescia, Morcelliana, 2011, 5-6. 6 purezza originaria del cristianesimo in situazioni di presunta degenerazione delle chiese. A questi due fenomeni storici diversi corrispondono concetti diversi di eresia. All’affermazione che il concetto di eresia va bandito dall’apparato concettuale e terminologico di una storia del cristianesimo che non voglia essere ancillare a una teologia particolare, si obietta a volte che al concetto di eresia lo storico non potrebbe e non dovrebbe rinunciare in quanto in certi periodi storici non gli eretici ma la stigmatizzazione di eresia realmente esistette con conseguenze storiche massicce e reali. Ora, che nella storia del cristianesimo questa stigmatizzazione (con le sue conseguenze storiche, civili e sociali) ci fu realmente è certo. Rinunciare ad usare storiograficamente il concetto di eresia non significa, però, negare che la definizione di “eretico” (pur essendo una costruzione concettuale arbitraria e da rifiutare) abbia avuto delle conseguenze storiche reali. Gli eretici, proprio perché definiti tali, furono realmente perseguitati, dovettero realmente subire condizioni di vita non di rado orribili, furono realmente privati di diritti elementari nella vita civile e sociale. Di questo bisogna fare storia certamente. Ma il negare validità storiografica al concetto di eresia, a mio parere, rende ancora più doverosa la ricostruzione delle persecuzioni che i presunti ortodossi fecero ai danni dei presunti eretici e delle conseguenze storiche complessive della stigmatizzazione di eresia. La quale stigmatizzazione sarà certamente centrale per comprendere il funzionamento di un sistema religioso, politico e sociale che di quella stigmatizzazione fece uso o per comprendere quali gruppi, e in che misura, assunsero determinati atteggiamenti teorici e pratici verso i gruppi che consideravano devianti. Vada sé che una storia del cristianesimo, che fin dall’inizio si propone di studiare tutte le diverse correnti senza differenziarle fra loro in base ai criteri che un solo gruppo considera ortodossi, sarà per principio attenta a ricostruire la fisionomia e le vicende di ciascun gruppo senza privilegiarne alcuno. Lungi dal compromettere la storia dei gruppi che furono considerati “eretici”, questa storiografia cercherà invece di comprenderli a fondo meglio. 5. La critica al concetto di eresia a partire dal XVI secolo Nell’età della Riforma e della Controriforma, il concetto di eresia diventa talmente fondamentale nelle chiese da costituire forse l’orizzonte teologico principale o almeno uno di quelli principali. Per la chiesa di Roma la lotta contro l’eresia diventerà centrale per secoli. Mi sembra essenziale rendersi conto che questa assoluta centralità del concetto di eresia porta ad una rifondazione della disciplina della storia della chiesa che diventa strumento di lotta teologica. Alle Centuriae di Magdeburgo di Vlacic, Matteo Flaccio Illirico del 1558/74 si opporrà la storia cattolica della chiesa, gli Annales di Baronio del 1588/1605. La storia della chiesa diventa così strumento di difesa delle tesi teologiche protestanti o cattoliche, ancilla theologiae, per definizione. Aveva certamente ragione H.Jedin quando scriveva a proposito della storiografia controversistica cattolica, che “la vera chiesa di Cristo, riconoscibile da determinati contrassegni o note, fu opposta alla falsa; doveva però venir dimostrata come tale anche storicamente; l’apostolicità della sua dottrina, la continuità del suo magistero e la veneranda antichità delle sue istituzioni dovevano venir provate sulla base di fonti genuine. Per questo la teologia controversistica assunse fin da principio una tinta storico-tradizionalista. Si cercarono e si trovarono nei padri della chiesa e nelle antiche liturgie le testimonianze in favore del sacrificio della messa e della presenza reale, del primato papale e dell’autorità dei concili….”.21 Archeologia cristiane e storia della letteratura ecclesiastica sono altrettanti strumenti, per Jedin, di questo progetto 21 H.Jedin, Introduzione alla storia della Chiesa, Brescia, Morcelliana, 1973, 3-4. I. Backus e Ph. Büttgen notano che anche i protestanti adottarono un simile sistema: “Tous les auteurs, catholiques ou protestants, doivent néanmoins établir deux filiations pour démontrer que leur Église est bien le propriétaire légitime de l’Écriture. Ils doivent d’une part établir la filiation entre leur Église et la ‘vraie’ Église au sens historique; d’autre part, ils doivent faire remonter les origines de l’adversaire à une doctrine condamnée comme hérétique dans l’Antiquité chrétienne” (“L’argument hérésiologique à l’époque des Réformes”, in: Irena Backus, Philippe Büttgen et Bernard Pouderon (eds), L’Argument hérésiologique,16. Cfr. anche P. Petitmengin, “Les Haeretici nostri temporis confrontés aux hérésies de l’Antiquité”, ivi, 177-198. 7 apologetico e controversistico. Ma non mi sembra totalmente adeguato il giudizio di Jedin quando egli attribuisce il formarsi di una “storia ecclesiastica come scienza” solo alla “pubblicazione di larghi gruppi di fonti”, fatto che “condusse irresistibilmente alla elaborazione di un metodo storicocritico e quindi alla storia ecclesiastica come scienza”.22 Infatti, senza una critica del concetto di eresia e degli altri concetti essenziali alla apologetica delle chiese non può nascere una comprensione storica adeguata. Ed è in alcuni ambienti intellettuali europei dei secoli XVI-XVIII che si elabora quella critica che permetterà la nascita di una storia ecclesiastica come scienza, la quale non ha solo bisogno di edizioni di fonti e di metodi analisi storico-critici, ma anche di concetti storiografici svincolati dall’apologetica e dalla condanna. Bisogna anche tenere conto dell’orizzonte concettuale e della finalità all’interno della quale si iscrive la storia del cristianesimo. Si può affermare che una storia del cristianesimo nasce in modo pieno come disciplina storica solo quando sostituisce il proprio sistema concettuale con quello di discipline diverse dalla teologia, la quale per definizione è solo confessionale. E’, infatti, a partire dalla fine del XVI secolo che il concetto di eresia viene sottoposto a critica radicale da parte di alcuni che poco alla volta diventeranno gli ispiratori di una rinnovata concezione della storia del cristianesimo che lentamente perviene a non essere più primariamente strumento di lotta religiosa, ma primariamente strumento di conoscenza storica. Scriveva ad esempio Sébastien Castellion nel suo De haereticis. An sint persequendi del 1554: Gli Ebrei e i Turchi non condannino i Cristiani, e allo stesso modo i Cristiani non disprezzino i Turchi o gli Ebrei, ma piuttosto li istruiscano e li persuadano per mezzo della vera religione. E, egualmente, tra Cristiani, non condanniamoci l’un l’altro ma, se siamo più istruiti, dobbiamo essere anche migliori e maggiormente disposti alla misericordia. Infatti questo è certo, che quanto meglio si conosce la verità, tanto meno si è propensi a condannare gli altri, come si vede chiaramente in Cristo e negli apostoli. In verità chi condanna gli altri con facilità, proprio per questo motivo dimostra di essere totalmente ignorante, poiché non sa tollerare il prossimo; infatti sapere è sapere come agire, e chi non sa agire con clemenza non può conoscere la clemenza […].23 L’affermazione centrale di Castellion: “si può lasciare che ognuno rimanga della sua opinione, in attesa che il signore riveli la verità”24 è correlativa ad un’altra fondamentale osservazione per la quale tutta una serie di questioni teologiche sono sostanzialmente marginali, mentre rimane centrale solo la credenza nell’esistenza di Dio giudice delle trasgressioni nell’al di là e l’obbedienza alla legge di Cristo che consiste nell’amore del prossimo. Nel Trattato teologico-politico di Spinoza la diversità di opinioni religiose non viene classificata grazie al concetto di eresia, ma in base al fatto che gli uomini, seguendo la propria coscienza e la propria intelligenza necessariamente pervengono ad opinioni differenti: quanto più si cerca di togliere agli uomini la libertà di parola, tanto più decisamente essi reagiscono a tali tentativi […] proprio coloro che la buona educazione, l’integrità dei costumi e l’esercizio della virtù hanno resi più liberi. Gli uomini sono per lo più così fatti, che nulla tollerano con maggiore impazienza quanto il vedere tacciate di criminose le opinioni che credono vere, e che sia imputato loro a delitto ciò che accende in essi la pietà verso Dio e verso gli uomini. […] Quanti scismi nella chiesa derivarono per lo più da questo, che i magistrati vollero dirimere con le leggi le controversie dei dottori.25 In sostanza, la varietà delle opinioni nasce necessariamente dalla coscienza e dall’intelligenza, non è frutto di malvagità, né di influsso demoniaco. Ma ci si trova ancora, alla fine del XVII secolo, di fronte a un sistema religioso che non solo adopera il concetto di eresia, ma anche ha il potere di 22 Jedin, Introduzione alla storia della Chiesa, 95. S.Castellion, La persecuzione degli eretici, Torino, La Rosa, 17, 18. 24 Ivi, 24. 25 Trattato teologico-politico Introduzione di E. Giancotti Boscherini. Traduzione e commenti di A. Droetto e E. Giancotti Boscherini, Torino, Einaudi, 1984, 486. 23 8 servirsi di strumenti politici per condannarla. E’ in questo clima che si sviluppa sia l’esigenza di una ricerca storica sul cristianesimo che si sottragga ai condizionamenti confessionali, sia l’esigenza di una teoria che spieghi diversamente le origini della pluralità di opinioni religiose, sia l’esigenza di ordinamenti politici che garantiscano la libertà di opinione religiosa. La posizione di Castellione e quella di Spinoza sono però certamente minoritarie. In sostanza, il primato della coscienza come origine delle opinioni religiose, l’eliminazione del concetto di eresia e la sua riduzione a quello di diversità lecita di opinioni, il rimando al futuro escatologico della soluzione sulla verità teologica nel cristianesimo, l’eliminazione di una punizione per avere sostenuto idee religiose particolari, punizione comminata in base alla legge civile da parte dell’autorità politica, l’elaborazione di un concetto di cristianesimo in cui l’aspetto dottrinale non è centrale per la definizione della sua essenza (e quindi è in grado di permettere la coesistenza dei vari gruppi e il loro mutuo riconoscimento), la rivendicazione della figura di Gesù e del primissimo cristianesimo come diversi dal cristianesimo successivo sono tutte concezioni che vanno sempre più prendendo piede per sottrarsi alla contrapposizione e alla lotta dottrinale e politica fra le chiese. La presa di coscienza che tutti pretendono di possedere una verità assoluta e non la riconoscono negli altri porta alla necessità di un’uscita dalla prospettiva teologica nella valutazione delle religioni, ma una storia del cristianesimo non confessionale tarderà ad affermarsi. Irena Backus ha scritto contributi importanti per la storia del concetto di eresia in età moderna soprattutto per l’ambito protestante. Dai suoi lavori emerge che il concetto di eresia tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento viene sempre di più attenuato. Ma non eliminato. Si tratta di comprendere meglio se l’autorità ecclesiastica che ha condannato un’eresia ne avesse veramente il diritto e la sua decisione sia realmente corretta. Si tratta soprattutto di difendere la tolleranza religiosa a livello politico per una libera convivenza civile tra i gruppi religiosi, ma non di eliminare il concetto di eresia. Backus ha ragione nel sottolineare l’importanza di Christian Thomasius, con il suo Problema juridicum an haeresis sit crimen del 1697. Tra gli allievi di Thomasius, si diffonde l’opinione “que l’hérésie n’est pas un crime punissable mais qu’il s’agit plutôt d’une opinion considérée comme erronée par les autorités ecclésiastiques pour des raisons souvent arbitraires”.26 Particolarmente significativa, in questo senso, è l’opinione di Leibniz, il quale non elimina il concetto di eresia, pur attenuandolo. Scrive Backus: il adhère implicitement aux critères usuels de définition de l’hérésie, postulant que pour être considérée comme hérétique, une doctrine doit avoir été condamnée officiellement par un concile reconnu comme officiel et général. Certes, toute hérésie constitue pour Leibniz une erreur du dogme nuisible à l’unité de l’Église. Toutefois, l’essentiel est de déterminer les critères d’une telle erreur. Or pour Leibniz, ces critères sont avant tout historiques, ce qui ne contredit en rien le principe de la confusion conceptuelle dont témoigne toute opinion hérétique. Ainsi Leibniz se demande chaque fois : qui a condamné des dogmes erronés semblables par le passé? S’agit-il d’un hérésiologue généralement respecté tel Épiphane, ou bien s’agit-il d’un synode? Dans ce dernier cas, avons-nous affaire à un synode général ou bien à un synode à portée restreinte ? Et enfin, s’agitil d’un synode orthodoxe ou hétérodoxe? Cette vision historique de l’hérésie qui repose sur sa notion de l’imperfection de la créature ou du “mal métaphysique” de celle-ci distingue Leibniz de la vision tolérante d’un Thomasius ou d’un Bayle, mais aussi de la conception d’un Abraham Calov qui pensait qu’aussi bien les catholiques que les réformés étaient des hérétiques sans aucun droit au salut, étant donné qu’ils ne partageaient pas toutes les opinions des luthériens”.27 Il sintomo della mutazione epistemologica della storia del cristianesimo e delle chiese si manifesta ad esempio nell’opera di Johann Lorenz Mosheim Institutiones historiae ecclesiasticae antiquioris del 1737: Come, nelle repubbliche civili, esplodono a volte guerre e insurrezioni, così anche nella repubblica cristiana sono spesso nate delle forti ribellioni per quanto riguarda le dottrine e riti. I capi e gli autori di queste sedizioni sono chiamati eretici. E le opinioni per le quali si sono separati dagli altri cristiani sono chiamate eresie. La storia di queste ribellioni o eresie dovrebbe essere integrale e precisa. Quest’opera, se portata a 26 27 Backus, “Leibniz et l’hérésie ancienne”, p. 81. Ivi, 93-94. 9 termine in modo intelligente e con imparzialità, ripaga la fatica. Ma è ardua e difficile. I capi di questi partiti, infatti, sono stati trattati molto ingiustamente e le loro dottrine non sono state presentate in modo corretto. E non e facile arrivare alla verità in tante tenebre, perché la maggior parte degli scritti di quelli che sono chiamati eretici sono ora perduti. Coloro che si avvicinano, perciò, a questa parte della storia della chiesa dovrebbero escludere ogni aspetto di condanna dal nome di eretico e, usandolo, dovrebbero considerarlo nel suo senso più generale per indicare coloro che furono occasione di divisioni e di contese fra i cristiani, sia per colpa propria o per colpa degli altri. 28 Il concetto di eresia comincia ad essere posto in discussione perché lo si priva di qualsiasi connotazione teologica negativa. Ma permane l’idea che gli eretici abbiano, a torto o a ragione, provocato divisioni all’interno del cristianesimo. Permane cioè l’idea di un’unità originaria che, come abbiamo detto all’inizio, non corrisponde alla realtà storica dei primi secoli cristiani, secondo la storiografia recente. Ma la svolta più importante in quest’opera sta nell’affermare che i gruppi cosiddetti eretici vanno studiati in modo esauriente e preciso e con “imparzialità”. In passato, invece, sono stati trattati “molto ingiustamente” e le loro dottrine non sono state “rappresentate in modo corretto”.29 Si comincia a mettere in dubbio che le divisioni nella chiesa siano state davvero causate dagli eretici. Il concetto si eresia, pur non criticato radicalmente, tende a stemperarsi. In ambito cattolico, invece, Alfonso de Liguori (ma è solo uno dei molti esempi), nella sua prefazione alla Istoria delle eresie, loda l’autorità politica per la repressione delle eresie: “sarà di eterna memoria l’ammirabil zelo, con cui si è sempre segnalato in aver continua cura, che si conservasse illibata la nostra sagrosanta Religione in tutto il Regno, e specialmente in questa capitale… Di ciò è una prova troppo manifesta la somma premura avuta da V.E. in far proibire con rigorosissime pene l’introduzione dei libri infetti di errori contra la Fede, e nel far castigare i Trasgressori di tali sante Leggi con introdurre e vendere in questa Città tali pestiferi libri”.30 6. Conclusione Una storia ecclesiastica e una storia del cristianesimo libera dal concetto di eresia è forse in grado di leggere con occhi nuovi il celebre passo della lettera di Paolo ai Corinzi,”: “oportet haereses esse” (1 Cor 11, 18-19): “sento dire che vi sono dei contrasti (o divisioni) fra voi e in parte vi credo, infatti è necessario che vi siano delle divergenze (aireseis) fra di voi affinché possano essere manifestati quelli che sono in grado di valutare (dokimoi)”. Questo passo va letto con occhi liberi da anacronismi. In realtà, non tratta di divisioni dottrinali. Il contesto è quello di conflitti durante riunioni di tipo rituale, derivate da differenze sociali tra più e meno abbienti. Il primo termine usato da Paolo per definire questi conflitti è schismata, il secondo aireseis. La differenza di opinioni e di gruppi sembra un fatto necessario “è necessario che vi siano aireseis”. Nessuno di questi due termini significava allora ciò che ha significato nei secoli successivi dopo che la teologia elaborò i concetti di eresia e di scisma. Per Paolo, i conflitti di cui parla non sono un fenomeno veramente controllabile. Esiste. Ma anche se si volesse concedere alla parola hairesis una sfumatura di carattere dottrinale, la soluzione della diversità, che è un fatto che Paolo giudica negativo, avverrà a suo parere senza un intervento repressivo: ad un certo punto, la verità si manifesterà. Questo manifestarsi ha due aspetti: avverrà in futuro (futuro escatologico o ravvicinato, è difficile qui da dirimere) e avverrà manifestando chi sono i dokimoi. Il verbo dokimazô in Paolo ha una sfumatura per la quale si tratta di un giudizio di valutazione che avviene mediante rivelazione 28 Che cito dalla traduzione americana del 1838 in mio possesso: Institutes of Ecclesiastical History, New Haven 1832, 18. 29 Vedi anche G. Arnold, Unpartaiische Kirchen- und Ketzerhistorie. Vom Anfaang des Neuen Testament biz auf das Jahr Christi 1688, Franckfurt am Mayn, Thomas Fritschen, 1729. Arnold “claimed that often the so-called heretics, and not the established church, represented the authentic Christian faith and spirituality, while the established church in his view was tainted by hierarchical offices and dogmatism. He used his heresiological historiography as a polemical tool to criticize all objectifications of Christianity that, in past history, tried to congeal the truth in offices and dogmas of pure teaching” (P.Lampe, “Induction as Historiographical Tool, 15). 30 Alfonso de Liguori, Istoria delle eresie con la loro confutazione, iv-v. 10 soprannaturale. Il dokimazein è un giudizio che i profeti esercitano (vedi 1 Tess 5,21) ed è un atto simile al diakrinein o al sugkrinein profetico di cui parla Paolo in 1 Cor 2,15 e 14,28. È così che i profeti possono capire se quello che dicono gli altri profeti è giusto: I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. Se uno di quelli che sono seduti riceve una rivelazione, il primo taccia: tutti infatti potete profetare, uno alla volta, perché tutti possano imparare ed essere esortati. Ma le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti, perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace (1 Cor 14,29-33). E’ così che Paolo ritiene che i profeti debbano prima o poi riconoscere in base a rivelazione diretta di Dio che quello che egli dice è vero: Forse la parola di Dio è partita da voi? O è giunta soltanto a voi? Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto scrivo è comando del Signore; se qualcuno non lo riconosce, neppure lui è riconosciuto (1 Cor 14,36-38). Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo (Fil 3.15). Certo Paolo vorrebbe che esistesse unità e che non ci fossero le divisioni che si manifestano a Corinto tra gruppi diversi che si ispirano a diversi predicatori: Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti. Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!”. Cristo è stato forse diviso? (1 Cor 1,10-13). Certo Paolo ritiene che esista un solo vangelo: Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. In realtà, però, non ce n'è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema! L'abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema! (Gal 1,6-9) Ma in realtà nonostante il disappunto di Paolo, diversità sul contenuto del messaggio esistevano, e come! E se egli ha il coraggio di chiamare i suoi avversari apostoli di Satana, che probabilmente altri non erano che inviati di Giacomo, non osiamo pensare cosa questi altri seguaci di Gesù pensassero di lui. Quando andiamo a cercare i criteri a cui Paolo si appella per dirimere le questioni relative alla diversità del messaggio, vediamo che egli si richiama a criteri diversi e difficilmente conciliabili. Fa appello a una rivelazione diretta di Dio senza alcuna mediazione o convalida umana: Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre (Gal 1,1); Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo (Gal 1,11-12). Oppure afferma che tutti gli apostoli predicano la stessa cosa, come nel caso della risurrezione di cui parla in 1 Cor 15,11. Oppure si richiama al criterio di una tradizione autorevole ricevuta da altri (1 Cor 11,23;15,3). Inutile cercare una riduzione a unità di questi criteri in un momento di forte creatività e incertezza teologica come quella dei primi decenni. Sembra però nettamente prevalere l’appello a una rivelazione soprannaturale diretta che costituisce la fonte dell’autorità e della legittimazione. Paolo è, perciò, pienamente consapevole che le rivelazioni non sono chiare e che 11 hanno bisogno di discernimento, discernimento tuttavia che non può essere che operato tra profeti cioè tra persone che giudicano in base a rivelazione soprannaturale diretta, discutendo fra loro per pervenire ad un accordo. Tutta la vicenda di Paolo testimonia l’esistenza di una pluralità di persone che si ritengono legittimate ad esercitare un’autorità e che manifestano, perciò, opinioni e pratiche differenti. Esigenza di escludere la verità dell’altro perché la propria è derivata da una fonte di autorità soprannaturale, pluralità di autorità indipendenti proprio perchè derivate da una fonte soprannaturale, esigenza di una unità nonostante la diversità sembrano tre caratteristiche contraddittorie ed ineliminabili dal dna del cristianesimo delle origini che si perpetuerà in tutte le età successive fino ad oggi. Lo storico del cristianesimo deve elaborare un sistema concettuale per comprendere questa dinamica tra ineliminabile pluralità e ineliminabile esigenza di verità, in sostanza un insieme di categorie storiografiche che rinunci per sempre al concetto di eresia. Ma per far questo dovrà meditare a quale statuto epistemologico fare appello. A quello della storia delle religioni? A quello dell’antropologia culturale? Oppure, sulla strada della École des Hautes Études en Sciences Sociales fondata negli anni Settanta, ad una scienza storica aperta ad ambedue? Oppure semplicemente ad un metodo storico che abbandoni la funzione ancillare rispetto alle teologie o ad una religione? 12