Perché i concetti di “eresia” e “eretico” non sono concetti storiografici

Mauro Pesce
Perché i concetti di “eresia” e “eretico”
non sono concetti storiografici
[Di prossima pubblicazione su Annali di Storia dell’Esegesi 31/1 (2014)]
1. Premessa
Anticipo sinteticamente, per chiarezza, le affermazioni che cercherò di argomentare in
queste pagine.1 Anzitutto, vorrei mostrare che il concetto di eresia e di eretico non è un concetto
storiografico, ma uno strumento confessionale di condanna elaborato da un gruppo, da un’autorità o
da un autore nei confronti di altri gruppi o persone. In quanto tale, il concetto di eresia non può
essere usato da uno storico e deve scomparire dal linguaggio e dal concettualità storiografica della
storia del cristianesimo e delle chiese, come del resto già in parte da tempo avviene. In secondo
luogo, per i primi centocinquanta anni della storia del cristianesimo non esiste il concetto di eresia,
inteso come gruppi o dottrine devianti rispetto a gruppi e dottrine definibili come ortodossi. In terzo
luogo, il concetto di eresia, elaborato da autorità ecclesiastiche di diverso orientamento e
localizzazione geografica nel corso della lunga storia del cristianesimo, varia nel tempo, non è
sempre lo stesso. Le principali svolte storiche che mi sembrano significative per una mutazione
concettuale avvennero, mi sembra, anzitutto nella seconda metà del II secolo, poi durante il periodo
aureo della eresiologia cristiana delle chiese che si riconoscono nel concilio di Calcedonia; infine
nel periodo medievale dei secoli XI-XIV. Il graduale porsi di alcune condizioni, dal tardo
Cinquecento in poi, per il nascere di una storia del cristianesimo non confessionale costituisce
un’altra svolta fondamentale. In quarto luogo, infine, vorrei mostrare che l’abbandono del concetto
di eresia, come elemento concettuale importante, implica, accanto ad altri fattori, una
riformulazione dello statuto epistemologico della disciplina della storia del cristianesimo, come
disciplina che persegue la conoscenza storica e non la difesa o la spiegazione di una particolare
confessione cristiana (o la difesa della religione cristiana rispetto ad altre religioni).2
2. All’inizio sta la pluralità
Negli studi di storia del cristianesimo antico si è affermato sempre di più un mutamento di
paradigma interpretativo, e spetta ai futuri storici di fare un’indagine che appuri l’esatto inizio di
1
Ringrazio Alberto Campani, Gianluca Potestà e Irena Backus per le osservazioni rivolte alla bozza di questo
intervento. Ho cercato di tenerne conto nella redazione finale. In particolare, sono grato a Irena Backus, non solo per le
sue molte osservazioni critiche, ma anche per i saggi che ha dedicato all’argomento nei quali si trova ampia bibliografia
sul tema. Ovviamente è solo mia la responsabilità di quello che scrivo. Ringrazio anche Andrea Villani che ha avuto la
gentilezza di verificare Göttingen alcune citazioni di cui non avevo a disposizione l’edizione definitiva.
2
Su tutta la questione cfr. Irena Backus – Aza Goudrian, “‘Semipelagianism’ The Origins of the Term and its Passage
into the History of Heresy”, Journal of Ecclesiastical History, 63 (2012) 1-22; I. Backus, P. Büttgen and B. Pouderon
(eds), L’Argument hérésiologique, l’Église ancienne et les Réformes, XVI–XVIIe siècles, Paris, 2012; I. Backus,
“Leibniz et l’hérésie ancienne”, in Irena Backus, Philippe Büttgen et Bernard Pouderon (eds), L’Argument
hérésiologique, l’Église ancienne et les Réformes, XVI-XVIIe siècles, Paris, Beauchesne (Théologie historique, 121),
2012, p. 69-93; Frédéric Nef, “Declarative vs. Procedural Rules for Religious Controversy: Leibniz’s Rational
Approach to Heresy”, in Marcelo Dascal (dir.), Leibniz: What Kind of Rationalist?, Dordrecht, Springer, 2009, p. 383395. Vedi anche Jacques Le Brun, “La notion d’hérésie à la fin du 17e siècle: la controverse Leibniz-Bossuet”, in La
jouissance et le trouble. Recherches sur la littérature chrétienne à l’âge classique, Genève, Droz, 2004, p. 137-160,
O.Hagender, “Der Häresiebegriff bei den Juristen des 12. Und 13. Jahrhunderts”, in: W. Lourdaux – D.Verhelst (eds),
The Concept of Heresy in the Middle Age (11th – 13th C.), Leuven, Leuven University Press, 1073, 42-103.
1
questo mutamento all’interno della nostra disciplina. Secondo questo schema interpretativo, il
cristianesimo si presenta fin dall’inizio con una pluralità di gruppi con pratiche e idee religiose
almeno in parte diverse. Fin dall’inizio, avremmo quindi una molteplicità di cristianesimi e non un
cristianesimo unitario. Al vecchio paradigma secondo il quale il cristianesimo unitario degli inizi si
sarebbe poi differenziato in una pluralità di gruppi, differenti fra loro, in modo tale che la pluralità
dei cristianesimo nasce dal disgregarsi dell’unità originaria, è stato sostituito il paradigma secondo
il quale all’inizio non esiste un cristianesimo unitario, ma una pluralità di gruppi cristiani differenti
per pratiche e dottrine. A livello terminologico è perciò divenuto consueto parlare di “cristianesimi”
al plurale. Un cristianesimo considerato maggioritario si sarebbe formato per reazione a questa
pluralità, senza però riuscire mai a imporre una sola forma cristiana, in quanto la pluralità avrebbe
comunque continuato ad esistere. In alcuni casi, le forme differenti di cristianesimo sarebbero
rimaste marginali, mentre in altri casi la differenza sarebbe rimasta massiccia e numericamente
molto consistente. Si pensi al coesistere nei medesimi periodi storici, sebbene in aree differenti,
della chiesa latina e di quelle greche.
L’antico schema dell’unità originaria poi diversificata in gruppi diversi e divergenti ha a suo
favore il racconto degli Atti degli Apostoli, assunto da un lato come se fosse una rappresentazione
storica vera e propria e soprattutto, dall’altro, semplificandolo essenzialmente mediante la
rimozione di alcuni dati che contraddicono quello schema. Secondo questo racconto, il gruppo dei
discepoli di Gesù riunito a Gerusalemme dopo la sua morte, costituito dagli Undici divenuti poi di
nuovo Dodici, con i fratelli di Gesù e la madre (At 1,12-14), aggrega molti altri discepoli a
Gerusalemme e poi diffonde il messaggio di Gesù in ogni parte della terra di Israele e del
mediterraneo. Il gruppo originario è situato in un solo luogo, Gerusalemme, ed è costituto da
persone che sono “tutte” “concordi” (Atti 1,4). In realtà, questo schema è smentito in ogni suo
punto. Anzitutto, la concordia originaria è contraddetta dagli stessi Atti degli Apostoli per la
divergenza forte tra ebrei ed ellenisti tra i seguaci di Gesù e per le opposizioni e difficoltà esistenti
nei confronti di Paolo, come la storiografia dalla seconda metà del XVII secolo in poi ha messo in
luce. Oggi a ciò si aggiungono le ipotesi relative alle fasi più antiche del vangelo di Tommaso che
mostrano affinità con le tradizioni che si ritrovano nei vangeli giudeo-cristiani, cosicché qualcuno
ipotizza una maggiore pluralità di gruppi nella stessa Gerusalemme del primo secolo.3 Ma l’idea
stessa di un’origine da un solo luogo, che si vorrebbe fondare sui racconti degli Atti degli Apostoli
è smentita dagli stessi vangeli canonici. Il Vangelo di Matteo, infatti, ha una visione degli eventi
dopo la morte di Gesù che è in aperto contrasto con gli Atti. Gesù risuscitato appare agli Undici non
soltanto a Gerusalemme, ma su un monte in Galilea. La divergenza tra i vangeli di Marco e Matteo
e Luca, inoltre, con quello di Giovanni mette in luce tradizioni tramandate da gruppi che hanno sedi
geografiche differenti e possiedono informazioni su Gesù, le sue azioni e il suo messaggio
abbastanza discordanti. Gruppi di seguaci di Gesù in Galilea, in Giudea a Gerusalemme e altrove
sembrano così essere nati già dai tempi della predicazione di Gesù ed essersi poi sviluppati più o
meno autonomamente. In sostanza, il racconto degli Atti appare non come una visione generale
della storia del primissimo cristianesimo, ma come un racconto proveniente da un ambiente
geograficamente preciso e limitato, ma che va posto accanto a racconti provenienti da altri gruppi di
seguaci di Gesù coevi e situati in altri luoghi.
La lettura armonizzante dei testi cristiani primitivi avvenuta (si veda ad esempio Taziano)
già alla metà del II secolo in alcuni ambienti (non tutti!) e che si rafforzerà poi con la costituzione
della collezione canonica del Nuovo Testamento, porta ad oscurare la percezione della diversità dei
testi, anche di quelli che diventeranno in seguito canonici. In realtà, la divergenza dei racconti delle
3
R.Cameron – M.P. Miller (eds), Redescribing Christian Origins, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2004;
J.S.Kloppenborg; F. Bovon, “The Emergency of Christianity”, Annali di Storia dell’esegesi; A.Destro – M.Pesce,
“Come è nato il cristianesimo”, Annali di Storia dell’Esegesi 21 (2004) 529-556. M.Pesce, “Come studiare la nascita
del cristianesimo. Alcuni punti di vista”, in Dario Garriba e Sergio Tanzarella (a cura di), Giudei o cristiani? Quando
nasce il cristianesimo?, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2005, 29-51.
2
origini di Matteo, Atti,4 Giovanni5 e Paolo6 è forte e ad essa va aggiunta quella che ci risulta dal
vangelo di Tommaso, dall’Ascensione di Isaia,7 dai primi testi gnostici cristiani, dall’Apocrifo di
Giovanni,8 dalla letteratura pseudo-clementina.9
Il paradigma della pluralità originaria, dei molti cristianesimi esistenti fin dalle origini, è
spesso fatto risalire all’opera di W.Bauer.10 Ma non bisogna dimenticare che quest’opera ha tardato
ad affermarsi e che oggi è rivalutata proprio perché il riconoscimento della pluralità dei
cristianesimi originari è divenuto un patrimonio comune della ricerca sulle origini cristiane.11
3. Il sorgere del concetto di eresia
Il concetto di eresia, inteso come un insieme di orientamenti religiosi e in particolare
teologici che sono considerati devianti e condannabili dal punto di vista di comportamenti e dottrine
giudicati ortodossi, sembra apparire verso la metà del II secolo. E’ diventato comune considerare
definitivo il giudizio storiografico di A.Le Boulluec12 sul fatto che la parola hairesis solo verso la
metà del secondo secolo e soprattutto in Giustino di Neapolis subisce una variazione fatale di
significato e da libera scelta lecita e accettata comincia a significare una scelta condannabile, una
corrente o un gruppo che aderisce a dottrine devianti contrarie all’ortodossia.
Dopo Le Boulluec la riflessione e la ricerca sono però notevolmente avanzate, anche nello
studio di Giustino.13 E’, infatti, abbastanza chiaro che l’apparire di un nuovo significato della parola
hairesis si accompagna ad una definizione tendenzialmente nuova dello stesso concetto di
“cristiano” e ad una separazione tra seguaci di Gesù ed ebrei. Per Giustino, i cristiani non solo tutti i
seguaci di Gesù, ma solo quelli, numericamente maggioritari, che non sono ebrei. L’operazione di
distinzione dei christianoi dai Giudei mira a impedire che i christianoi siano un sottogruppo dei
Giudei. D’altra parte, Giustino vuole anche impedire che i christianoi si integrino senza identità
distinta nell’impero e nella cultura ellenistico-romana. Questo ci sembra sia almeno uno dei motivi
che lo spingono a denunciare tutti quei gruppi che sono certamente christianoi (cioè seguaci di
Gesù appartenenti agli ethne dei gentili) ma si avvicinano troppo agli usi religiosi o alle tendenze
filosofiche dei gentili: “vi è gente che si professa cristiana … ma professa gli insegnamenti che
provengono dagli spiriti dell’errore” (35,2). “Tra di loro vi sono alcuni chiamati marcioniti, altri
valentiniani, altri basilidiani, altri saturnaliani ...” (35,6).14 E’ molto importante che Giustino
riconosca che questi che egli giudica devianti si considerino invece cristiani. La differenziazione
tra cristiani veri e falsi tende a negare processualmente,15 con il tempo, l’attribuzione del nome di
4
Matteo sembra far iniziare la predicazione ai non ebrei da parte degli Undici a partire dalla Galilea (Mt 28, 16-20) e
non dal Gerusalemme come negli Atti degli Apostoli 2,1-48.
5
Giovanni sembra testimoniare una diffusione di seguaci di Gesù da subito in Giudea.
6
Si veda la divergenza tra Gal 2 e Atti 15.
7
Ascensione di Isaia 3,19-31.
8
K.King, The Secret Revelation of John, Cambridge, Cambridge University Press, 2006.
9
F.S. Jones, “An Ancient Jewish Christian Rejoinder to Luke’s Acts of th Apostles: Pseudo-Clementine Recognitions
1.27-71”, Semeia 80 (1997) 223-245; Id., An Ancient Jewish Christian Source on the History of Christianity. PseudoClementine Recognitions 1.27-71, Atlanta Scholars Press, 1995.
10
Si veda la recente traduzione francese: Walter Bauer, Orthodoxie et hérésie aux débuts du Christianisme, Paris, Cerf,
2009 con l'introduzione di Alain Le Boulluec. Su Bauer, vedi F. W. Gingrich, W. Schneemelcher, E. Fascher in NTS 9
(1962/63) 1-38.
11
P.Lampe, “Induction as Historiographical Tool: Methodological and Conceptual Reflections on Locally and
Regionally Focused Studies”, Annali di Storia dell’Esegesi 30, 2013, 9-20.
12
La notion d’héresie dans la littérature grecque. IIe-IIIe siècles. Tome I: de Justin à Ironée. Tome II: Clèment
d’Alexandrie et Origène, Paris, Études Augustiniennes, 1985. Si veda l’apprezzamento che ne fa ad esempio D.Boyarin,
Borderlines. The Partition of Judaeo-Christianity, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2004, 3-4.65.
13
Boyarin, Borderlines, 37-73; R. Lyman, “Hellenism and Heresy. 2002 NAPS Presidential Address”, “Journal of
Early Christian Studies” 11/2, 2003, 209-222.
14
M.Pesce, Da Gesù al cristianesimo, Brescia, Morcelliana, 2011, 202-205.
15
Sul concetto di definizione processuale cfr. G.Baumann, The Multicultural Riddle. Rethinking National, Ethnic, and
Religious Identities, New York, Routledge, 1999, 138-139.
3
cristiani agli eretici. Ancora più importante è, però, che per Giustino i devianti non siano
deformazioni di un’unità originaria. Lo schema dell’unità originaria che si degenera
successivamente in pluralità è ancora estraneo al suo pensiero, come lo era a quello di Paolo.
Ma su questo punto sono necessarie due osservazioni dirimenti dal punto di vista storico. La
prima riguarda i meccanismi che permettono di individuare l’ortodossia. Anzitutto, quale autorità
può definire ortodossa una dottrina e considerare eretica quella ad essa contraria? L’autorità di un
singolo pensatore, come ad esempio Giustino, non può certo pretendere di andare aldilà della
propria persona o al massimo del ristretto gruppo di allievi che aderiscono fedelmente al suo
pensiero. Diverso è il caso di un’istituzione. Per definizione un’istituzione riveste autorità rispetto
agli individui che vi aderiscono fino al momento in cui questi individui la ritengono valida. In
secondo luogo, i meccanismi di giustificazione attraverso i quali una persona o un’istituzione
possono tentare di legittimare la propria autorità sono di diversa natura. Si può fare ricorso ad una
legittimazione soprannaturale, e questo avviene soprattutto nel caso di Paolo,16 oppure ad una
giustificazione di tipo tradizionale. Nel primo caso, una rivelazione diretta di Dio giustificherebbe
la pretesa di basarsi su una verità inoppugnabile perché di origine divina, Nel secondo caso, la
legittimazione è ottenuta mediante la pretesa di rappresentare fedelmente ciò che l’autorità
originaria ha trasmesso attraverso fasi successive di trasmissione fedele. Mi sembra che questi due
criteri di legittimazione siano stati usati nel primo cristianesimo ambedue e sempre in un modo
difficilmente separabile. Per giunta, nessuno di questi due criteri ha mai fatto a meno di un terzo
criterio, quello del consenso di un gruppo che recepisce l’autorità, la riconosce e vi si riconosce. I
primi due principi, tuttavia, hanno una logica radicalmente diversa fra loro e in qualche misura
inconciliabile. Legittimare la propria autorità sulla base di una rivelazione divina diretta significa
non avere bisogno di alcuna conferma esterna o tradizionale. Significa che il principio di continuità
con dottrine precedenti non conferisce autorità: una dottrina è ortodossa in quanto ricevuta per
rivelazione diretta, non mediata, da Dio. La dottrina ortodossa che si legittima su un’autorità che si
fonda invece su una catena tradizionale precedente ha assoluto bisogno di dimostrare la propria
continuità con le precedenti dottrine ortodosse che costituiscono la catena di trasmissione
tradizionale.
La definizione di ortodossia e di eresia non valica i confini del gruppo all’interno del quale
si forma. Altri gruppi avranno altri contenuti di ortodossia e di eresia. Ciò che ortodosso per un
gruppo di cristiani non lo è quindi per un altro. Le chiese protestanti, ad esempio, che sono eretiche
dal punto di vista cattolico, elaboreranno al loro interno concetti di eresia per condannare coloro i
quali, dal loro punto di vista, sono devianti.17
Ma, una volta riconosciuto che il meccanismo di opposizione eresia-ortodossia si manifesta
all’interno di un gruppo o chiesa (o perché una parte del gruppo definisce deviante un’altra parte
dello stesso gruppo o nel senso che una parte minoritaria del gruppo si separa dal resto perché non
riesce a far prevalere sulla maggioranza la propria visione delle cose ritenuta “ortodossa”), diventa
abbastanza interessante riconoscere che i motivi per i quali alcuni ritengono opportuno condannare
come eretici singoli personaggi o singoli gruppi possono essere molto diversi a seconda dei casi.
Sembra evidente che non sia mai sorta la preoccupazione di definire eretico qualcuno con il quale
non si avesse un concreto rapporto. La creazione del binomio eresia-ortodossia sembra perciò
necessariamente connessa all’esistenza di una coesistenza tra gruppi diversi, ma in relazione
reciproca. Certo, a volte chi dichiara eretica la parte avversa deve essere in una posizione di potere
per farlo, oppure in una situazione di maggioranza numerica rispetto a una minoranza. Ma ciò non è
necessario sempre, perché dichiarare altri devianti è un atto compiuto spesso anche da minoranze o
da gruppi non dotati di una particolare forza sociale.
La seconda osservazione riguarda i contenuti dell’ortodossia. Una tendenza degli storici del
cristianesimo antico è – come abbiamo accennato, quella di presupporre una continuità tra i
16
Gal 1,1.11-12.
I. Backus, P. Büttgen and B. Pouderon (eds), L’Argument hérésiologique. Questo concetto è sviluppato soprattutto a
p. 15-17, ma in generale anche in tutta l’Introduction, di Backus et Büttgen (13-20).
17
4
contenuti dottrinali della chiesa che essi considerano ortodossa, ad esempio la chiesa che si
riconosce nel concilio di Nicea, e le dottrine precedenti. Ma, come è noto, le cose non stanno così.
Spesso verifichiamo che gli autori che si considerano ortodossi, difendono non di rado dottrine che i
successivi autori considerati ortodossi non professano. L’ortodossia di Giustino, ad esempio, non
coincide con quella di Ireneo e con quella di Nicea. La sua concezione di divinità di Gesù e quella
di millenarismo non possono essere considerate ortodosse secondo la teologia della chiesa
successiva che si riconosce nei grandi concili del IV e V secolo. In sostanza i contenuti
dell’ortodossia mutano.
Ciò ha conseguenze fatali sulla storia del cristianesimo perché spesso gli storici che si
sentono in dovere di difendere ciò che le loro chiese considerano ortodosso, cercano
instancabilmente di dimostrare che le dottrine delle loro chiese stanno in continuità con le dottrine
antiche e che vi è una sostanziale armonia tra le autorità ortodosse nei lunghi secoli della storia
delle chiese.
4. Come interpretare storicamente la diversità dei gruppi cristiani
Ritorniamo al punto di partenza: secondo lo schema antico dell’unità primitiva della chiesa
delle origini, le eresie sarebbero le responsabili della diversificazione successiva. Questo schema è
stato talmente radicato nella storia del cristianesimo che lo troviamo ovunque ripetuto. Si prenda ad
esempio la definizione di Alfonso de Liguori nella sua “Istoria delle eresie con la loro
confutazione”, del 1772 (che cito da un’edizione di Bassano del 1838): “Eresie uscite dal suo [della
chiesa] medesimo seno per mezzo di uomini malvagi, che mossi dalla superbia, o dall’ambizione, o
dalla libertà dei sensi, impresero a lacerare le viscere della loro stessa madre”.18 La diversità è
lacerazione di un’unità preesistente. Questo schema presuppone una struttura istituzionale che non
corrisponde alle origini: presuppone cioè La chiesa come fonte e origine. Si rivela cioè non come
schema storico, ma come concetto dogmatico e per di più concetto dogmatico cattolico. Esiste una
chiesa originaria fondata da Gesù e dotata di determinate caratteristiche essenziali, che si perpetua
nei secoli da cui si distaccano le eresie per errori creati da singoli e seguiti poi da gruppi più o meno
numerosi.
È evidente che una volta riconosciuta la necessità di rovesciare il paradigma e di porre la
diversità come dato originario, si porrà anche la necessità di una classificazione della diversità.
Se il concetto di eresia non è applicabile ai primi 150 anni di storia cristiana, la ricostruzione
storiografica non può adoperarlo perché non esistono eretici in questo primo periodo della storia
cristiana. Sarebbe un anacronismo. L’anacronismo consiste, come è noto, nel considerare esistenti
in un certo periodo realtà storiche che sono proprie solo di epoche successive.
Ma la ricostruzione storiografica non potrà usare il concetto di eretico/eresia anche per il
periodo successivo, quando sarà introdotto da alcuni autori, autorità o istituzioni che si considerano
ortodossi, perché non si tratta di un concetto storiografico, bensì di strumenti per isolare e
marginalizzare dottrine che quel determinato autore o quella determinata istituzione o autorità
ecclesiastica non condivide. Lo storico non può adottare il concetto di questi autori o autorità per
definire le caratteristiche storico-religiose dei gruppi che studia. Non può, ad esempio, assumere il
punto di vista e gli intenti di Giustino, per classificare il cristianesimo della meta del II secolo.
Dovrà egli stesso costruire concetti storiografici adatti. Sarà quindi costretto ad elaborare un
concetto storiografico di “cristianesimo”, il quale dovrà includere tutti i gruppi e tutte le correnti
dottrinali e tutte le pratiche religiose che si autodefiniscono “seguaci di Gesù”.
Ciò vale anche per le categorie elaborate ad esempio dal vangelo di Giuda, all’incirca coevo.
Le sue condanne dei gruppi cristiani che si avvalgono dei vangeli “canonici”19 non possono essere
assunte come criteri storiografici.
18
19
Alfonso de Liguori, Istoria delle eresie con la loro confutazione, Bassano, 1838, 3.
Vangelo di Giuda 37,24-39,2.
5
In sostanza, il concetto di eresia è un concetto e una terminologia che deve essere
radicalmente eliminato dalla terminologia e dal sistema concettuale dello storico del cristianesimo
antico. Correlativamente deve mutare anche il concetto di cristianesimo che non può più essere
dipendente dall’idea di cristianesimo di una determinata chiesa o istituzione della chiesa antica, ma
deve essere applicato a qualsiasi gruppo si richiami a Gesù, qualunque siano le sue pratiche, le sue
dottrine e i suoi confini di appartenenza. Si tratta di una molteplicità di cristianesimi diversi, non di
un solo cristianesimo ortodosso, che si differenzierebbe da gruppi di persone definite eterodossi o
eretici. Lo storico, del resto, deve anche domandarsi come i gruppi (che alcuni definivano “eretici”)
definivano se stessi e come definivano e qualificavano il gruppo o i gruppi dai quali erano
condannati come eretici.
Un punto fondamentale della questione metodologica è che, di fronte ad un gruppo che
definisce eretico un altro gruppo, la storia deve tener conto non solo della valutazione del gruppo
che condanna, ma anche della percezione di sé del gruppo condannato. Lo storico si trova di fronte
a due serie di sistemi concettuali contrapposti e non può adottare i concetti che uno dei due gruppi
ha usato per definire e condannare il gruppo avverso. Deve mettersi dal punto di vista di ambedue.
Altrimenti diventerebbe espressione di un gruppo contro l’altro.
Queste considerazioni che ci spingono a cancellare dalla terminologia e dalla concettualità
della storiografia il concetto di eresia valgono anche per il medioevo. Per questo periodo non
possiamo che sottoscrivere quanto scrive Grado Giovanni Merlo in Eretici del Medioevo. Temi e
paradossi di storia e di storiografia: “le eresie e gli eretici esistono in quanto la cultura chiericale e
i vertici ecclesiastici tali li individuano, definiscono e avversano (fino a reprimerli in modo
cruento), in funzione della difesa di un ordinamento religioso che al tempo stesso pretendeva di
essere un ordinamento civile e politico. […] Eresie ed eretici del medioevo non hanno alcuna
oggettività, che derivi da una soggettività eterodossa: sono nomi, etichette applicate dagli uomini di
chiesa a idee, comportamenti e individui, in determinati contesti spazio-temporali in cui quegli
uomini di Chiesa vedevano minacciata la propria egemonia culturale e il proprio dominio sui fedeli,
ovvero sulle popolazioni, definendo perciò quella minaccia come violazione del (doveroso)
conformismo religioso, che essi consideravano la condizione nell’al di qua per conseguire la
salvezza eterna nell’al di là”.20
Da questa ampia definizione di Merlo, risulta una serie di elementi su cui dobbiamo
soffermarci anche se in modo molto rapido. Anzitutto, ciò che emerge in comune con l’età antica
del cristianesimo è che il concetto di eresia e di eretico non è un concetto storiografico, ma una
definizione che un gruppo di seguaci di Gesù opera a proposito di altri gruppi di seguaci di Gesù
giudicandoli non conformi a ciò che esso ritiene ortodosso. L’eresia esiste quindi solo nella mente
chi la definisce tale, ma non corrisponde alla realtà storico-religiosa dei gruppi definiti eretici. Ma
dalla definizione di Merlo emergono anche le differenze tra l’età antica del cristianesimo e quella
medievale (limitandoci ai secoli XI-XIV ai quali Merlo si riferisce). La dimensione politica della
chiesa medievale e il fatto che i gruppi che essa combatte si allontanano dalla prassi e dalla dottrina
di quella chiesa perché intendono ispirarsi alle origini del cristianesimo, origini, a loro parere tradite
dalla chiesa medievale. Soprattutto, nei primi secoli cristiani non esiste una chiesa istituzionale da
tutti riconosciuta come accadde nei secoli XI-XIV dell’occidente latino. Il concetto di eresia usato
dagli eresiologi della chiesa antica e quello usato dalle autorità ecclesiastiche medievali non è lo
stesso, cambia, come cambia la fisionomia dei cristianesimi delle diverse epoche.
Abbiamo così verificato almeno due fenomeni storici diversi: anzitutto, quello delle origini
del cristianesimo in cui una molteplicità di gruppi ed interpretazioni venne ad un certo punto bollata
con il nome di eresia da parte di autori, istituzioni e autorità; in secondo luogo, quello per cui
gruppi e dottrine nascono per un desiderio di rinnovamento, per far rivivere o vivere una presunta
20
Brescia, Morcelliana, 2011, 5-6.
6
purezza originaria del cristianesimo in situazioni di presunta degenerazione delle chiese. A questi
due fenomeni storici diversi corrispondono concetti diversi di eresia.
All’affermazione che il concetto di eresia va bandito dall’apparato concettuale e
terminologico di una storia del cristianesimo che non voglia essere ancillare a una teologia
particolare, si obietta a volte che al concetto di eresia lo storico non potrebbe e non dovrebbe
rinunciare in quanto in certi periodi storici non gli eretici ma la stigmatizzazione di eresia realmente
esistette con conseguenze storiche massicce e reali. Ora, che nella storia del cristianesimo questa
stigmatizzazione (con le sue conseguenze storiche, civili e sociali) ci fu realmente è certo.
Rinunciare ad usare storiograficamente il concetto di eresia non significa, però, negare che la
definizione di “eretico” (pur essendo una costruzione concettuale arbitraria e da rifiutare) abbia
avuto delle conseguenze storiche reali. Gli eretici, proprio perché definiti tali, furono realmente
perseguitati, dovettero realmente subire condizioni di vita non di rado orribili, furono realmente
privati di diritti elementari nella vita civile e sociale. Di questo bisogna fare storia certamente. Ma il
negare validità storiografica al concetto di eresia, a mio parere, rende ancora più doverosa la
ricostruzione delle persecuzioni che i presunti ortodossi fecero ai danni dei presunti eretici e delle
conseguenze storiche complessive della stigmatizzazione di eresia. La quale stigmatizzazione sarà
certamente centrale per comprendere il funzionamento di un sistema religioso, politico e sociale che
di quella stigmatizzazione fece uso o per comprendere quali gruppi, e in che misura, assunsero
determinati atteggiamenti teorici e pratici verso i gruppi che consideravano devianti. Vada sé che
una storia del cristianesimo, che fin dall’inizio si propone di studiare tutte le diverse correnti senza
differenziarle fra loro in base ai criteri che un solo gruppo considera ortodossi, sarà per principio
attenta a ricostruire la fisionomia e le vicende di ciascun gruppo senza privilegiarne alcuno. Lungi
dal compromettere la storia dei gruppi che furono considerati “eretici”, questa storiografia cercherà
invece di comprenderli a fondo meglio.
5. La critica al concetto di eresia a partire dal XVI secolo
Nell’età della Riforma e della Controriforma, il concetto di eresia diventa talmente
fondamentale nelle chiese da costituire forse l’orizzonte teologico principale o almeno uno di quelli
principali. Per la chiesa di Roma la lotta contro l’eresia diventerà centrale per secoli. Mi sembra
essenziale rendersi conto che questa assoluta centralità del concetto di eresia porta ad una
rifondazione della disciplina della storia della chiesa che diventa strumento di lotta teologica. Alle
Centuriae di Magdeburgo di Vlacic, Matteo Flaccio Illirico del 1558/74 si opporrà la storia cattolica
della chiesa, gli Annales di Baronio del 1588/1605. La storia della chiesa diventa così strumento di
difesa delle tesi teologiche protestanti o cattoliche, ancilla theologiae, per definizione.
Aveva certamente ragione H.Jedin quando scriveva a proposito della storiografia
controversistica cattolica, che “la vera chiesa di Cristo, riconoscibile da determinati contrassegni o
note, fu opposta alla falsa; doveva però venir dimostrata come tale anche storicamente;
l’apostolicità della sua dottrina, la continuità del suo magistero e la veneranda antichità delle sue
istituzioni dovevano venir provate sulla base di fonti genuine. Per questo la teologia
controversistica assunse fin da principio una tinta storico-tradizionalista. Si cercarono e si trovarono
nei padri della chiesa e nelle antiche liturgie le testimonianze in favore del sacrificio della messa e
della presenza reale, del primato papale e dell’autorità dei concili….”.21 Archeologia cristiane e
storia della letteratura ecclesiastica sono altrettanti strumenti, per Jedin, di questo progetto
21
H.Jedin, Introduzione alla storia della Chiesa, Brescia, Morcelliana, 1973, 3-4. I. Backus e Ph. Büttgen notano che
anche i protestanti adottarono un simile sistema: “Tous les auteurs, catholiques ou protestants, doivent néanmoins
établir deux filiations pour démontrer que leur Église est bien le propriétaire légitime de l’Écriture. Ils doivent d’une
part établir la filiation entre leur Église et la ‘vraie’ Église au sens historique; d’autre part, ils doivent faire remonter les
origines de l’adversaire à une doctrine condamnée comme hérétique dans l’Antiquité chrétienne” (“L’argument
hérésiologique à l’époque des Réformes”, in: Irena Backus, Philippe Büttgen et Bernard Pouderon (eds), L’Argument
hérésiologique,16. Cfr. anche P. Petitmengin, “Les Haeretici nostri temporis confrontés aux hérésies de l’Antiquité”,
ivi, 177-198.
7
apologetico e controversistico. Ma non mi sembra totalmente adeguato il giudizio di Jedin quando
egli attribuisce il formarsi di una “storia ecclesiastica come scienza” solo alla “pubblicazione di
larghi gruppi di fonti”, fatto che “condusse irresistibilmente alla elaborazione di un metodo storicocritico e quindi alla storia ecclesiastica come scienza”.22 Infatti, senza una critica del concetto di
eresia e degli altri concetti essenziali alla apologetica delle chiese non può nascere una
comprensione storica adeguata. Ed è in alcuni ambienti intellettuali europei dei secoli XVI-XVIII
che si elabora quella critica che permetterà la nascita di una storia ecclesiastica come scienza, la
quale non ha solo bisogno di edizioni di fonti e di metodi analisi storico-critici, ma anche di concetti
storiografici svincolati dall’apologetica e dalla condanna. Bisogna anche tenere conto dell’orizzonte
concettuale e della finalità all’interno della quale si iscrive la storia del cristianesimo.
Si può affermare che una storia del cristianesimo nasce in modo pieno come disciplina
storica solo quando sostituisce il proprio sistema concettuale con quello di discipline diverse dalla
teologia, la quale per definizione è solo confessionale.
E’, infatti, a partire dalla fine del XVI secolo che il concetto di eresia viene sottoposto a
critica radicale da parte di alcuni che poco alla volta diventeranno gli ispiratori di una rinnovata
concezione della storia del cristianesimo che lentamente perviene a non essere più primariamente
strumento di lotta religiosa, ma primariamente strumento di conoscenza storica.
Scriveva ad esempio Sébastien Castellion nel suo De haereticis. An sint persequendi del
1554:
Gli Ebrei e i Turchi non condannino i Cristiani, e allo stesso modo i Cristiani non disprezzino i Turchi o gli
Ebrei, ma piuttosto li istruiscano e li persuadano per mezzo della vera religione. E, egualmente, tra Cristiani,
non condanniamoci l’un l’altro ma, se siamo più istruiti, dobbiamo essere anche migliori e maggiormente
disposti alla misericordia. Infatti questo è certo, che quanto meglio si conosce la verità, tanto meno si è
propensi a condannare gli altri, come si vede chiaramente in Cristo e negli apostoli. In verità chi condanna gli
altri con facilità, proprio per questo motivo dimostra di essere totalmente ignorante, poiché non sa tollerare il
prossimo; infatti sapere è sapere come agire, e chi non sa agire con clemenza non può conoscere la clemenza
[…].23
L’affermazione centrale di Castellion: “si può lasciare che ognuno rimanga della sua
opinione, in attesa che il signore riveli la verità”24 è correlativa ad un’altra fondamentale
osservazione per la quale tutta una serie di questioni teologiche sono sostanzialmente marginali,
mentre rimane centrale solo la credenza nell’esistenza di Dio giudice delle trasgressioni nell’al di là
e l’obbedienza alla legge di Cristo che consiste nell’amore del prossimo.
Nel Trattato teologico-politico di Spinoza la diversità di opinioni religiose non viene
classificata grazie al concetto di eresia, ma in base al fatto che gli uomini, seguendo la propria
coscienza e la propria intelligenza necessariamente pervengono ad opinioni differenti:
quanto più si cerca di togliere agli uomini la libertà di parola, tanto più decisamente essi reagiscono a tali
tentativi […] proprio coloro che la buona educazione, l’integrità dei costumi e l’esercizio della virtù hanno resi
più liberi. Gli uomini sono per lo più così fatti, che nulla tollerano con maggiore impazienza quanto il vedere
tacciate di criminose le opinioni che credono vere, e che sia imputato loro a delitto ciò che accende in essi la
pietà verso Dio e verso gli uomini. […] Quanti scismi nella chiesa derivarono per lo più da questo, che i
magistrati vollero dirimere con le leggi le controversie dei dottori.25
In sostanza, la varietà delle opinioni nasce necessariamente dalla coscienza e dall’intelligenza, non
è frutto di malvagità, né di influsso demoniaco. Ma ci si trova ancora, alla fine del XVII secolo, di
fronte a un sistema religioso che non solo adopera il concetto di eresia, ma anche ha il potere di
22
Jedin, Introduzione alla storia della Chiesa, 95.
S.Castellion, La persecuzione degli eretici, Torino, La Rosa, 17, 18.
24
Ivi, 24.
25
Trattato teologico-politico Introduzione di E. Giancotti Boscherini. Traduzione e commenti di A. Droetto e E.
Giancotti Boscherini, Torino, Einaudi, 1984, 486.
23
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servirsi di strumenti politici per condannarla. E’ in questo clima che si sviluppa sia l’esigenza di una
ricerca storica sul cristianesimo che si sottragga ai condizionamenti confessionali, sia l’esigenza di
una teoria che spieghi diversamente le origini della pluralità di opinioni religiose, sia l’esigenza di
ordinamenti politici che garantiscano la libertà di opinione religiosa.
La posizione di Castellione e quella di Spinoza sono però certamente minoritarie. In
sostanza, il primato della coscienza come origine delle opinioni religiose, l’eliminazione del
concetto di eresia e la sua riduzione a quello di diversità lecita di opinioni, il rimando al futuro
escatologico della soluzione sulla verità teologica nel cristianesimo, l’eliminazione di una punizione
per avere sostenuto idee religiose particolari, punizione comminata in base alla legge civile da parte
dell’autorità politica, l’elaborazione di un concetto di cristianesimo in cui l’aspetto dottrinale non è
centrale per la definizione della sua essenza (e quindi è in grado di permettere la coesistenza dei
vari gruppi e il loro mutuo riconoscimento), la rivendicazione della figura di Gesù e del primissimo
cristianesimo come diversi dal cristianesimo successivo sono tutte concezioni che vanno sempre più
prendendo piede per sottrarsi alla contrapposizione e alla lotta dottrinale e politica fra le chiese.
La presa di coscienza che tutti pretendono di possedere una verità assoluta e non la
riconoscono negli altri porta alla necessità di un’uscita dalla prospettiva teologica nella valutazione
delle religioni, ma una storia del cristianesimo non confessionale tarderà ad affermarsi.
Irena Backus ha scritto contributi importanti per la storia del concetto di eresia in età
moderna soprattutto per l’ambito protestante. Dai suoi lavori emerge che il concetto di eresia tra la
fine del Seicento e i primi decenni del Settecento viene sempre di più attenuato. Ma non eliminato.
Si tratta di comprendere meglio se l’autorità ecclesiastica che ha condannato un’eresia ne avesse
veramente il diritto e la sua decisione sia realmente corretta. Si tratta soprattutto di difendere la
tolleranza religiosa a livello politico per una libera convivenza civile tra i gruppi religiosi, ma non
di eliminare il concetto di eresia. Backus ha ragione nel sottolineare l’importanza di Christian
Thomasius, con il suo Problema juridicum an haeresis sit crimen del 1697. Tra gli allievi di
Thomasius, si diffonde l’opinione “que l’hérésie n’est pas un crime punissable mais qu’il s’agit
plutôt d’une opinion considérée comme erronée par les autorités ecclésiastiques pour des raisons
souvent arbitraires”.26 Particolarmente significativa, in questo senso, è l’opinione di Leibniz, il
quale non elimina il concetto di eresia, pur attenuandolo. Scrive Backus:
il adhère implicitement aux critères usuels de définition de l’hérésie, postulant que pour être considérée comme
hérétique, une doctrine doit avoir été condamnée officiellement par un concile reconnu comme officiel et
général. Certes, toute hérésie constitue pour Leibniz une erreur du dogme nuisible à l’unité de l’Église.
Toutefois, l’essentiel est de déterminer les critères d’une telle erreur. Or pour Leibniz, ces critères sont avant
tout historiques, ce qui ne contredit en rien le principe de la confusion conceptuelle dont témoigne toute
opinion hérétique. Ainsi Leibniz se demande chaque fois : qui a condamné des dogmes erronés semblables par
le passé? S’agit-il d’un hérésiologue généralement respecté tel Épiphane, ou bien s’agit-il d’un synode? Dans
ce dernier cas, avons-nous affaire à un synode général ou bien à un synode à portée restreinte ? Et enfin, s’agitil d’un synode orthodoxe ou hétérodoxe? Cette vision historique de l’hérésie qui repose sur sa notion de
l’imperfection de la créature ou du “mal métaphysique” de celle-ci distingue Leibniz de la vision tolérante d’un
Thomasius ou d’un Bayle, mais aussi de la conception d’un Abraham Calov qui pensait qu’aussi bien les
catholiques que les réformés étaient des hérétiques sans aucun droit au salut, étant donné qu’ils ne partageaient
pas toutes les opinions des luthériens”.27
Il sintomo della mutazione epistemologica della storia del cristianesimo e delle chiese si
manifesta ad esempio nell’opera di Johann Lorenz Mosheim Institutiones historiae ecclesiasticae
antiquioris del 1737:
Come, nelle repubbliche civili, esplodono a volte guerre e insurrezioni, così anche nella repubblica cristiana
sono spesso nate delle forti ribellioni per quanto riguarda le dottrine e riti. I capi e gli autori di queste
sedizioni sono chiamati eretici. E le opinioni per le quali si sono separati dagli altri cristiani sono chiamate
eresie. La storia di queste ribellioni o eresie dovrebbe essere integrale e precisa. Quest’opera, se portata a
26
27
Backus, “Leibniz et l’hérésie ancienne”, p. 81.
Ivi, 93-94.
9
termine in modo intelligente e con imparzialità, ripaga la fatica. Ma è ardua e difficile. I capi di questi partiti,
infatti, sono stati trattati molto ingiustamente e le loro dottrine non sono state presentate in modo corretto. E
non e facile arrivare alla verità in tante tenebre, perché la maggior parte degli scritti di quelli che sono
chiamati eretici sono ora perduti. Coloro che si avvicinano, perciò, a questa parte della storia della chiesa
dovrebbero escludere ogni aspetto di condanna dal nome di eretico e, usandolo, dovrebbero considerarlo nel
suo senso più generale per indicare coloro che furono occasione di divisioni e di contese fra i cristiani, sia per
colpa propria o per colpa degli altri. 28
Il concetto di eresia comincia ad essere posto in discussione perché lo si priva di qualsiasi
connotazione teologica negativa. Ma permane l’idea che gli eretici abbiano, a torto o a ragione,
provocato divisioni all’interno del cristianesimo. Permane cioè l’idea di un’unità originaria che,
come abbiamo detto all’inizio, non corrisponde alla realtà storica dei primi secoli cristiani, secondo
la storiografia recente. Ma la svolta più importante in quest’opera sta nell’affermare che i gruppi
cosiddetti eretici vanno studiati in modo esauriente e preciso e con “imparzialità”. In passato,
invece, sono stati trattati “molto ingiustamente” e le loro dottrine non sono state “rappresentate in
modo corretto”.29 Si comincia a mettere in dubbio che le divisioni nella chiesa siano state davvero
causate dagli eretici. Il concetto si eresia, pur non criticato radicalmente, tende a stemperarsi.
In ambito cattolico, invece, Alfonso de Liguori (ma è solo uno dei molti esempi), nella sua
prefazione alla Istoria delle eresie, loda l’autorità politica per la repressione delle eresie: “sarà di
eterna memoria l’ammirabil zelo, con cui si è sempre segnalato in aver continua cura, che si
conservasse illibata la nostra sagrosanta Religione in tutto il Regno, e specialmente in questa
capitale… Di ciò è una prova troppo manifesta la somma premura avuta da V.E. in far proibire con
rigorosissime pene l’introduzione dei libri infetti di errori contra la Fede, e nel far castigare i
Trasgressori di tali sante Leggi con introdurre e vendere in questa Città tali pestiferi libri”.30
6. Conclusione
Una storia ecclesiastica e una storia del cristianesimo libera dal concetto di eresia è forse in
grado di leggere con occhi nuovi il celebre passo della lettera di Paolo ai Corinzi,”: “oportet
haereses esse” (1 Cor 11, 18-19): “sento dire che vi sono dei contrasti (o divisioni) fra voi e in parte
vi credo, infatti è necessario che vi siano delle divergenze (aireseis) fra di voi affinché possano
essere manifestati quelli che sono in grado di valutare (dokimoi)”. Questo passo va letto con occhi
liberi da anacronismi. In realtà, non tratta di divisioni dottrinali. Il contesto è quello di conflitti
durante riunioni di tipo rituale, derivate da differenze sociali tra più e meno abbienti. Il primo
termine usato da Paolo per definire questi conflitti è schismata, il secondo aireseis. La differenza di
opinioni e di gruppi sembra un fatto necessario “è necessario che vi siano aireseis”. Nessuno di
questi due termini significava allora ciò che ha significato nei secoli successivi dopo che la teologia
elaborò i concetti di eresia e di scisma. Per Paolo, i conflitti di cui parla non sono un fenomeno
veramente controllabile. Esiste. Ma anche se si volesse concedere alla parola hairesis una sfumatura
di carattere dottrinale, la soluzione della diversità, che è un fatto che Paolo giudica negativo,
avverrà a suo parere senza un intervento repressivo: ad un certo punto, la verità si manifesterà.
Questo manifestarsi ha due aspetti: avverrà in futuro (futuro escatologico o ravvicinato, è difficile
qui da dirimere) e avverrà manifestando chi sono i dokimoi. Il verbo dokimazô in Paolo ha una
sfumatura per la quale si tratta di un giudizio di valutazione che avviene mediante rivelazione
28
Che cito dalla traduzione americana del 1838 in mio possesso: Institutes of Ecclesiastical History, New Haven 1832,
18.
29
Vedi anche G. Arnold, Unpartaiische Kirchen- und Ketzerhistorie. Vom Anfaang des Neuen Testament biz auf das
Jahr Christi 1688, Franckfurt am Mayn, Thomas Fritschen, 1729. Arnold “claimed that often the so-called heretics, and
not the established church, represented the authentic Christian faith and spirituality, while the established church in his
view was tainted by hierarchical offices and dogmatism. He used his heresiological historiography as a polemical tool
to criticize all objectifications of Christianity that, in past history, tried to congeal the truth in offices and dogmas of
pure teaching” (P.Lampe, “Induction as Historiographical Tool, 15).
30
Alfonso de Liguori, Istoria delle eresie con la loro confutazione, iv-v.
10
soprannaturale. Il dokimazein è un giudizio che i profeti esercitano (vedi 1 Tess 5,21) ed è un atto
simile al diakrinein o al sugkrinein profetico di cui parla Paolo in 1 Cor 2,15 e 14,28. È così che i
profeti possono capire se quello che dicono gli altri profeti è giusto:
I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. Se uno di quelli che sono seduti riceve una rivelazione, il
primo taccia: tutti infatti potete profetare, uno alla volta, perché tutti possano imparare ed essere esortati. Ma le
ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti, perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace (1
Cor 14,29-33).
E’ così che Paolo ritiene che i profeti debbano prima o poi riconoscere in base a rivelazione diretta
di Dio che quello che egli dice è vero:
Forse la parola di Dio è partita da voi? O è giunta soltanto a voi? Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni
dello Spirito, deve riconoscere che quanto scrivo è comando del Signore; se qualcuno non lo riconosce,
neppure lui è riconosciuto (1 Cor 14,36-38).
Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio
vi illuminerà anche su questo (Fil 3.15).
Certo Paolo vorrebbe che esistesse unità e che non ci fossero le divisioni che si manifestano a
Corinto tra gruppi diversi che si ispirano a diversi predicatori:
Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare,
perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti. Mi è stato segnalato
infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che
ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!”.
Cristo è stato forse diviso? (1 Cor 1,10-13).
Certo Paolo ritiene che esista un solo vangelo:
Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo.
In realtà, però, non ce n'è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di
Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi
abbiamo predicato, sia anàtema! L'abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso
da quello che avete ricevuto, sia anàtema! (Gal 1,6-9)
Ma in realtà nonostante il disappunto di Paolo, diversità sul contenuto del messaggio esistevano, e
come! E se egli ha il coraggio di chiamare i suoi avversari apostoli di Satana, che probabilmente
altri non erano che inviati di Giacomo, non osiamo pensare cosa questi altri seguaci di Gesù
pensassero di lui.
Quando andiamo a cercare i criteri a cui Paolo si appella per dirimere le questioni relative
alla diversità del messaggio, vediamo che egli si richiama a criteri diversi e difficilmente
conciliabili. Fa appello a una rivelazione diretta di Dio senza alcuna mediazione o convalida umana:
Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre
(Gal 1,1);
Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho
ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo (Gal 1,11-12).
Oppure afferma che tutti gli apostoli predicano la stessa cosa, come nel caso della risurrezione di
cui parla in 1 Cor 15,11. Oppure si richiama al criterio di una tradizione autorevole ricevuta da altri
(1 Cor 11,23;15,3). Inutile cercare una riduzione a unità di questi criteri in un momento di forte
creatività e incertezza teologica come quella dei primi decenni. Sembra però nettamente prevalere
l’appello a una rivelazione soprannaturale diretta che costituisce la fonte dell’autorità e della
legittimazione. Paolo è, perciò, pienamente consapevole che le rivelazioni non sono chiare e che
11
hanno bisogno di discernimento, discernimento tuttavia che non può essere che operato tra profeti
cioè tra persone che giudicano in base a rivelazione soprannaturale diretta, discutendo fra loro per
pervenire ad un accordo.
Tutta la vicenda di Paolo testimonia l’esistenza di una pluralità di persone che si ritengono
legittimate ad esercitare un’autorità e che manifestano, perciò, opinioni e pratiche differenti.
Esigenza di escludere la verità dell’altro perché la propria è derivata da una fonte di autorità
soprannaturale, pluralità di autorità indipendenti proprio perchè derivate da una fonte
soprannaturale, esigenza di una unità nonostante la diversità sembrano tre caratteristiche
contraddittorie ed ineliminabili dal dna del cristianesimo delle origini che si perpetuerà in tutte le
età successive fino ad oggi.
Lo storico del cristianesimo deve elaborare un sistema concettuale per comprendere questa
dinamica tra ineliminabile pluralità e ineliminabile esigenza di verità, in sostanza un insieme di
categorie storiografiche che rinunci per sempre al concetto di eresia. Ma per far questo dovrà
meditare a quale statuto epistemologico fare appello. A quello della storia delle religioni? A quello
dell’antropologia culturale? Oppure, sulla strada della École des Hautes Études en Sciences
Sociales fondata negli anni Settanta, ad una scienza storica aperta ad ambedue? Oppure
semplicemente ad un metodo storico che abbandoni la funzione ancillare rispetto alle teologie o ad
una religione?
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