G O L D O N I SU LLA SC E N A DI DU E SECO LI
Jan Kott, critico e saggista polacco, scrisse nel 1961 un libro, che
credo sia noto ad alcuni di voi, Shokespare nostro contemporaneo, che
ebbe larga e meritata fama, e nel quale si mostrava l’intatta attualità
dell’autore de\V Amleto. La formula vale sicuramente anche per
Goldoni: perchè cercherò di dimostrarlo nel tempo di parola che mi è
concesso qui, a questa bella manifestazione che si colloca nel quadro
delle celebrazioni per il Bicentenario della morte: Goldoni, sì, è nostro
contemporaneo.
Goldoni è anche un classico, naturalmente. Cioè, come disse
Mark Twain, „qualcuno che tutti vorrebbero avere letto ma che pochi
in effetti leggono”. È pressapoco vero o, meglio, lo era fino a qualche
tempo fa, in Europa ma anche in Italia, eccezion fatta per Venezia,
dove il suo teatro ha resistito ma all’insegna della dialettalità. Un po’di
Goldoni, in Italia, ce lo hanno fatto leggere sui banchi di scuola, ma
nella scala dei valori letterari nazionali veniva a distanza di scrittori
come il Leopardi o il Manzoni. Altrove, in Europa, è stato visto come
un fiancheggiatore degli illuministi, ma nel suo teatro si distingueva
male fra Commedia delle Maschere e riforma del teatro dei caratteri.
Quel che è più grave è che resisteva un po’dappertutto, fino alla prima
metà di questo nostro secolo, un manierismo goldoniano ereditato
dall’Ottocento, che nascondeva sotto molte leziosaggini la moderna
genialità del suo teatro. Si continuavano a recitare, inoltre, sempre le
stesse commedie, La Locandiera in testa, non più di dieci o quindici
in tutto. Sarebbero tante, queste commedie cui restava affidata la sua
fama, se l’avvocato senza vocazione Carlo Goldoni non avesse scritto
dal 1748 (da quando, quarantenne, era diventato poeta di compagnia
del capocomico Girolamo Medebach al teatro veneziano di
Sant’Angelo) fino alla morte, avvenuta il 6 febbraio del 93, a Parigi,
qualcosa come 120 commedie, un terzo degne di stare ancora in scena;
e se in questa furiosa e gioiosa prolificità (16 commedie in un solo
anno nel 1750, come forse sapete) non avesse composto anche un
centinaio fra libretti d ’opera, pantomime, componimenti arcadici e, a
coronare il tutto, già sugli ottanta, i Métnories autobiografia teatrale e
fabulatoria in lingua francese che fu - potremmo dire - la sua ultima
grande commedia recitata davanti ad un mondo ormai irriconoscibile,
cambiato nel profondo dalla Rivoluzione dell’89.
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C’è voluto il Bicentenario perché di questo autore prolifico
quanto lo sarebbe stato nell’Ottocento Honoré de Balzac, si
conoscessero altre commedie oltre alle solite frequentate da registi ed
attori, per esempio II teatro comico o Le massere e qualcuno dei suoi
drammi giocosi da lui scritti per musicisti coevi come Mozart e
Vivaldi, Galuppi e Cimarosa, Paisiello e Haydn; e perché si
riprendesse l’abitudine di leggere i Mémoires.
Non dirò che lo scopo di fare emergere il Goldoni „sommerso”
- scopo che si era prefisso il Comitato nazionale da me coordinato - sia
stato completamente raggiunto; credo però di poter affermare che
quando il 6 febbraio 1994 l’anno goldoniano si chiuderà a Venezia, la
conoscenza di zone ancora inesplorate dell "arcipelago Goldoni” sarà
notevolmente migliorata.
Non ho il tempo, qui, per rendere conto del risveglio di
interesse manifestatosi quest’anno per Goldoni in Italia e nel mondo;
ma lasciatemi almeno ricordare che dalla fine dell’estate al febbraio
prossimo saranno una cinquantina le manifestazioni celebrative e gli
spettacoli che sono stati, sono o saranno allestiti nel mondo. I nostri
Istituti di Cultura all’estero si sono mobilitati; opere di Goldoni sono
state messe in cartellone in tutte le grandi città, a Parigi - sul
palcoscenico prestigioso della Comédie Franqaise - e a Pietroburgo, a
Madrid e a Praga, ad Amsterdam e a Budapest, a Stoccolma e a
Bucarest, a Lisbona e a Londra. Si rappresenta Goldoni in Croazia,
nonostante i venti di guerra; a Pechino, a Montréal. Le toumées degli
spettacoli goldoniani di Strehler, Castri, Cecchi, De Bosio e Squarzina
trovano spettatori entusiasti dappertutto. Le rassegne goldoniane
d ’autunno che si sono concluse a Roma e a Venezia hanno mostrato
che il Teatro di Goldoni è rientrato nel grande repertorio
internazionale. A Praga e ad Atene, a Budapest e a Vienna lo si
traduce e lo si pubblica, appunto, come un contemporaneo. A Parigi,
una equipe facente capo al Comitato Goldoni européen sta ultimando
la versione francese di quaranta commedie, un terzo dunque della sua
sterminata produzione. E da noi - nonostante che il Comitato non
abbia potuto disporre di fondi, che due ministri che lo presiedevano
siano stati distratti dal Bicentenario per loro personali vicende e lo
stesso ministero dello Spettacolo sia stato abolito - sono almeno cento i
progetti goldoniani che hanno trovato o trovano attuazione, nei sei
settori del teatro e della musica, della ricerca universitaria e
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dell’editoria, della radio-televisione e del cinema. Fra l’altro, una
quindicina di convegni, la ristampa di una Omnia che impegnerà per
dieci anni un editore veneto, spettacoli che hanno impegnato non
soltanto Strehler - cui si deve di avere inaugurato il nuovo corso della
„regia critica” goldoniana insieme a Luchino Visconti, non soltanto i
goldoniani di lungo corso come De Bosio e Squarzina, Missiroli e
Cobelli, ma anche nuovi registi, Cecchi o Garella, e i nuovissimi, una
generazione di trentenni abituati a frequentare soprattutto le
avanguardie. Da questo vasto movimento di idee e di iniziative emerge
appunto - in Italia ma anche altrove nel mondo (basti pensare, in area
tedesca, alla sorprendente Bottega del caffè riscritta da Werner
Fassbinder) il senso dell’attualità, della contemporaneità di Goldoni.
Goldoni nostro contemporaneo perché con lui, con la sua
Riforma, cominciò in Italia e in Europa il Teatro dell’età moderna.
Nell’Europa del diciottesimo secolo, quello della Rivoluzione
francese, anche il teatro fu - come ben sapete - „rivolzuzionario”, e lo
provano 1 nomi di Beaumarchais e Marivaux, di Voltaire e Diderot, di
Lessing in area tedesca. Sapete anche che Goldoni - nonostante i suoi
trent’anni trascorsi a Parigi, dal 1762 fino alla morte, e nonostante la
stima e l’amicizia, ricambiate, per Voltaire, che l’aveva salutato in un
famoso epigramma come il campione del „vero naturale” - non fu un
illuminista nel senso stretto, ideologico del termine. Meglio, fu un
«illuminista che si ignorava”. L ’età dei Lumi egli la visse però,
potremmo dire, come condizione epocale, e lo mostrò splendidamente
con il suo teatro che annuncia la nascita di una società nuova. Né fu un
rivoluzionario alla lettera: i casi della vita - come sapete - fecero di lui
un frequentatore della Corte di Versailles regnanti Luigi XV e Luigi
XVI, e il precettore di italiano delle principesse reali. Quando si
verificò il terremoto del 1789 egli viveva con i fantasmi del suo teatro,
intento a salutare i contemporanei con i Mémoires. Gli viene tolta la
magra pensione regia e la morte lo coglierà, il 6 febbraio dell ’93,
povero, malato, quasi cieco, nel clima buio del Terrore. Ma, ecco, in
quegli stessi giorni il deputato Marie-.loseph Chénier ottiene della
tribuna dell’Assemblea Nazionale che quella pensione gli venga
restituita, in quanto gli si riconosce di essere stato citoyen loyal,
homme de loi intègre, auteur dramatique onvert anx temps nouveaux:
il contrario, cioè, di uno spregevole collaborazionista della monarchia
ghigliottianta. E anche se la ripristinata pensione arriva tardi,
quand’egli è deceduto, resta che Goldoni - rivoluzionario no, ma
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riformatore sì, viene così reintegrato, con questa decisione, nel
consesso degli spiriti che avevano scritto il primo capitolo dell’epoca
moderna.
Voi sapete che cosa ha significato la sua Riforma teatrale ancorché faticosamente attuata in una Venezia ancora dominata dalla
commedia delle maschere da un lato e dal purismo classicista dei suoi
avversari, Gozzi in testa; e bloccata nel primo periodo del suo
soggiorno parigino dalle resistenze dei comici dell’arte del Théàtre
Italien, infine misconosciuta nell’Ottocento: è stata la fine del teatro
come artifìcio e il principio di una drammaturgia della vita: è stata la
trasformazione degli stereotipi della Commedia dell’Arte in caratteri,
personaggi, persone. È stata, la Riforma goldoniana, il collegamento
epocale fra l’acutissimo spirito di osservazione del Goldoni, posto a
fondamento del suo lavoro, e quella ricerca del vero naturale degli
scrittori e dei filosofi illuministici, l’innesto della psicologia umana,
inalterabile nei secoli, e del realismo sociale - finalmente evidenziato
sulle scene del Novecento - al posto delle esauste, artificiose
ripetizioni dei canovacci all’improvviso. E allora sì: possiamo dire
oggi, una volta ritrovata la vera natura dell’uomo e dell’artista
Goldoni, strappate a nostra volta le nuove maschere che il manierismo
ottocentesco aveva rimesso sui volti dei suoi personaggi (mi riferisco
alle leziosaggini, ai sospiri, ai tricorni, alle battute, ai ventagli, ai
passetti e alla mossette del recitar Goldoni secondo tradizione, ai tempi
dei mattatori e delle dive del secolo scorso) possiamo dire oggi, in una
collocazione storica finalmente definitiva, che Goldoni fu anch’egli e a
suo modo, con il suo „sorriso critico” sulla società che cambiava, un
„rivoluzionario tranquillo”.
L’approfondimento degli studi e le ricerche di palcoscenico di
questi anni, e di questi mesi, hanno confermato irrefutabilmente che
mai Goldoni perse contatto con la realtà e mai tradi l’amata natura,
„sicura e universalmente maestra” : sia che rendesse conto, nella
Bottega de! caffè, di un groviglio di avventurose esistenze in un
campiello o indagasse, nelle Baruffe chiozzotte, sulle quotidiane,
agitate vicende di una comunità di poveri pescatori tenuta insieme
dalla solidarietà di classe; sia che presentasse le misconosciute virtù
delle donne del popolo come fece nella Putta onorata o nella Buona
moglie, oppure proponesse con la Castalda, la Pamela nubile, La
serva amorosa o la famosa Locandiera le sue belle, fiere, libere figure
femminili chiamate a prendere il posto di un fatiscente mondo
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maschile. (E a proposito, non dimentichiamo che un terzo delle sue
centoventi commedie hanno la donna nel titolo: saggiamente
femminista, dunque, il nostro Goldoni in piena età libertina...) Oppure,
si concedesse il piacere di un affresco di costume nelle Donne gelose o
nelle Massere, sorretto dall’eloquenza del dialetto veneziano (un
dialetto che sulla sua pagina aveva il fulgore di una „superlingua”,
come ebbe a dire Gianfranco Folena), o aguzzasse la sua vena satirica mai però acida - contro la grettezza della borghesia ricca, come nei
Rusteghi, nella Casa nova, nella trilogia delle Smanie della
villeggiatura. Oppure ancora, desse sfogo ad una vena esotica di moda
nei Settecento, epoca di viaggi, sempre restando però ancorato alla
ragione (era la famosa „misura goldoniana” avversione per l’eccesso),
come fece scrivendo La Peruviana o La bella Selvaggia.
Goldoni nostro contemporaneo, anche, per come l’abbiamo
ritrovato nel Bicentenario rileggendo le Memorie, o attraverso le
biografie ed i saggi (una trentina soltanto in Italia), pubblicati nel
corso del ’93. Ci eravamo abituati ad un’immagine di lui sbiadita,
edulcorata: il bonhomme Goldoni tutto casa, famiglia e buoni principi
dell’agiografia ufficiale, un "figlio del secolo”, un casanova in
pantofole goloso di grazie femminili, di buone pietanze e di cioccolata,
cortesan nei palazzi del potere, cicisbeo nei boudoirs delle
primedonne; e portato a frequentare le case da gioco. In questi ritratti
c ’è del vero, egli stesso li accreditò romanzando la propria vita nei
Mémoires e badando nel contempo a darsi un passaporto da
galantuomo per la posterità. Egli fu sì - come ha scritto Odoardo
Bertani in un suo' Goldoni pubblicato di recente - un avventuriero
onorato, titolo di una sua commedia) che „visse di corsa, penna
compresa, dovendo onorare improbi contratti che peraltro placavano la
irrequietezza creativa, l’inquieto bisogno di scrivere”. Ma ci è venuto
incontro anche un nuovo Goldoni, diverso da quello delle „spiritose”
invenzioni autobiografiche o dai ritratti di biografi initimiditi. Perciò
Goldoni nostro contemporaneo anche per questo, per la sua
irrequietezza, per l’alternarsi di entusiasmi incontenibili e di
malinconie depressive, per le contraddizioni che lo spingevano
all’avventura e alla fuga ma lo tenevano vincolato alla sua fedele e
paziente moglie Nicoletta Connio. Grande viaggiatore dall’età di
cinque anni, quando aveva accompagnato a Roma il padre Giulio,
medico non laureato ma intraprendente; colpito dal mal del teatro
dall’età di otto anni, quando compose il suo primo infantile
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canovaccio, e del teatro - attrici comprese - precocemente innamorato
fin dall’adolescenza, quando se ne scappò dal collegio dei domenicani
di Rimini su una barca dei comici diretti a Chioggia; scacciato dal
pontifìcio Istituto Ghisleri di Pavia per avere messo alla berlina in un
poemetto satirico i notabili della città; questuante di prestiti per
rimediare le perdite di gioco e tacitare i creditori che gli stavano alle
calcagna; tentato dalla carriera diplomatica fino ad accettare la nomina
a console a Venezia della Republica genovese, dopo di che gli chiesero
perfino di assoldare sicari per eliminare un nemico di Genova, tanto
ch’egli si affrettò a dare le dimissioni: veramente Goldoni fu un
«cavaliere dalle cento vite”, vissute teatralmente, si capisce. „Vo’ stare
allegro, vo’divertirmi, non voglio pensare ai guai, anzi voglio ridere di
tutto; e fissare in me la massima che l’uomo di spirito dev’essere
superiore ai colpi della fortuna”. Queste parole, che aveva messo in
bocca al suo Avventuriero onorato, Gugliemo, potrebb’essere la sua
epigrafe: ma anche, appunto, il credo esistenziale di un intellettuale
lucido e disincantato del nostro secolo.
Ma Goldoni è riuscito ad apparirci, nel fervore del
Bicentenario, come un nostro contemporaneo anche, se non
soprattutto, per la rilettura critica del suo teatro che, in questo ultimo
mezzo secolo, è stata fatta in Italia, soprattutto ma non soltanto in
Italia. E mi riferisco
non soltanto al salto di qualità che gli studi
goldoniani hanno compiuto fra le due guerre, con i contributi decisivi
di Ortolani, Baratto, Fubini, Zorzi, Fido, Apollonio, D ’Amico,
Mangini e altri ancora, ma anche al nuovo approccio con cui, dal
secondo dopoguerra in poi, quella che è stata chiamata la regia critica
- ossia il lavoro del regista, diventato centrale, sul testo teatrale - si è
accostato, al Goldoni. È ragionevole chiedersi non soltanto se Goldoni
sarebbe stato così presente, ancora, sulle scene italiana ed europea, ma
addirittura se non sarebbe stato, il suo teatro, confinato fra le curiosità
di limitato interesse (come, poniamo, le tragedie di Voltaire o le fiabe
di Gozzi) senza le riproposte davvero sfolgoranti della Locandiera o
dell’ Impresario delle Smirne da parte di Luchino Visconti, oppure
de\VArlecchino servitore di due padroni, delle Baruffe chiozzotte, delle
Smanie della villeggiatura e del Campiello da parte di Strehler. E se
altri registi come Gianfranco De Bosio, Luigi Squarzina, Mario
Missiroli, Giorgio De Lullo, Franco Enriquez, Giancarlo Cobelli non
avessero a loro volta portato avanti le ricerche sui grandi temi - il
realismo sociale, il grottesco satirico, l’epica popolare, l’astrazione
lirica, l’espressività del dialetto come super!ingua teatrale, eccetera - 172 -
posti da Visconti e da Strehler, a loro volta tributari di intuizioni o
ricerche di maestri della regia europea come Reinhardt, Stanislavskji,
Copeau e, in Italia, deH’opportuno lavoro di restauro filologico che
alla fine degli anni trenta aveva compiuto Renato Simoni.
Non dobbiamo dimenticare che, a differenza di Molière - la cui
continuità ed integrità furono garantite dalla Comédie Franfaise,
Goldoni non beneficiò di una istituzione o di un organismo destinato a
perpetuarne o a salvaguardarne l’opera dopo la morte, se si eccettua
una mal definita „scuola veneta” soggetta agli alti e bassi del teatro
ottocentesco dei mattatori capocomici. Goldoni era ancora in vita e già
la sua drammaturgia, benché ambisse corrispondere nella parte più
vitale ai canoni della sua Riforma, era modificata sulla scena fino allo
stravolgimento.
Se ripercorriamo velocissimamente i due secoli di messinscene
goldoniane dalla morte di Goldoni in poi, noi possiamo ricostruire la
storia di un lungo tradimento che, semplificando appena, potremmo
definire come un tentativo di restaurazione preriforma del repertorio
goldoniano. Se ne è parlato di recente al Convegno internazionale sulla
Traduzione teatrale di Trieste. In Francia, dove lo stesso Goldoni
dovette fare i conti con le resistenze degli attori del Théàtre Italien alla
sua Riforma,
i testi di Goldoni furono, nell’Ottocento, spesso
manipolati dagli specialisti del vaudeville, della farsa, della pochade, o
fatti arretrare nei territori della commedia delle maschere. In
Inghilterra, fino ai primi del Novecento non ci si imbarazzò a
identificare Goldoni con la Commedia dell’Arte, e la tournée della
grande Ristori nel 1850 non convinse i teatranti d ’Oltremanica ad
andare al di là della sporadica rappresentazione di stravolti canovacci.
In Paesi come l’Olanda, la Spagna o il Portogallo, ad una precoce
conoscenza dei Goldoni dei drammi giocosi in musica seguirono
adattamenti disinvolti, innesti sulle culture e le tradizioni nazionali,
della commedia graciosos nella penisola iberica. In Russia Goldoni
trovò il doppio ostacolo della commedia alta, classicista, e del dramma
borghese, fu contaminato con le maschere della buffoneria russa,
furono frequenti i rifacimenti, scarse le traduzioni dirette e lo si
dedusse (il primo Arlecchino ad esempio) dalle trasposizioni francesi;
e questo fino alla scoperta stanislavskijana della tipizzazione dei suoi
personaggi. Fu lo stesso in Ungheria, dove poeti ed ed attori
dell’Ottocento usarono molto liberamente dei testi goldoniani; in
Romania, dove gli attori si rifecero ad approssimative traduzioni
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greche o francesi, in Polonia, dove Goldoni fu proposto come autore di
moralità di costume alla corte di Varsavia per diventare poi, nella
seconda metà del nostro secolo, drammaturgo impegnato e
progressista, o nell’ex Jugoslavia, dove ad una precoce fortuna più
all’interno del paese, e ad opera dei gesuiti, che sulla sponda adriatica,
segui presso le popolazioni croate un uso finalizzato alla esaltazione
dell’etnia e della cultura locali. Non parliamo degli sporadici e
maldestri innesti, in Cina, di Goldoni, magari con motivi musicali
napoletani, sul teatro popolare Kunju, mimico-acrobatico, o della sua
„carnevalizzazione” nei Paesi del Sudamerica.
Quanto all’Italia, per tutto l’Ottocento continuò purtroppo un
processo degenerativo che dal „vero naturale,, proprio della Riforma
goldoniana scese ad un modo manierato e stucchevole di recitar
Goldoni, nei casi estremi confuso con gli autori di canovacci della
Commedia dell’Arte: vigeva l’imperio del capocomico e anche i
maggiori attori che lo interpretarono - lo Zago e il Benini, il Salvini e
il Novelli, la Ristori e la Duse- furono paghi di confinarlo in un
Settecento di maniera, senza preoccuparsi di renderne il senso del
reale, la capacità di dipingere grandi affreschi sociali, di intagliare
personaggi veri e non manichini, di trasformare la comicità della farsa
in satira. Si continuò così fino agli anni Trenta di questo secolo, e i
tentativi di proporlo in altro modo fatto da registi come Anton Giulio
Bragaglia o Enzo Ferrieri rimasero isolati. Bisognò arrivare agli
spettacoli goldoniani di Renato Simonia commediografo veneto e
critico di teatro autorevole, per tornare - negli anni precedenti il
secondo conflitto mondiale - ad una lettura tutto sommato ancora
tradizionale ma filologicamente fedele di Goldoni, e a riaccostarlo al
pubblico con alcuni allestimenti estivi nei campielli; e questo
nonostante che il regime fascista, contrario al teatro dialettale, non
incoraggiasse particolarmente operazioni del genere.
La svolta avviene, come ho già detto, dopo l’ultima guerra,
quando muore il vecchio capocomicato, a Roma e a Milano si cercano
i fondamenti di una nuova arte scenica e gli studiosi di Goldoni
riprendono lena nelle Università. Strehler lavora nel ’47, sul
pacoscenico del neonato Piccolo Teatro di Milano, alla prima edizione
del suo Arlecchino servitore di due padroni, in un immaginario
registico che tenta con intuizioni artistiche di risalire alla poetica del
Goldoni; seguiranno L 'Amante militare nel ’50, poi Gli innamorati, La
Vedova scaltra e nel ’54 la Trilogia della Villeggiatura, che sarebbe
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stata riproposta con successo sulla scena della Comédie Frangaise,
determinando delle „vocazioni goldoniane” in Francia, di Jacques
Lassalle, di Alfredo Arias, di Claude Penchenat; poi ancora le Baruffe
e II Campiello, ripresi con successo per il Bicentenario.
Strehler cancellò via via le convenzioni deformanti del
goldonismo ottocentesco, guardò a Goldoni „con gli occhiali della
modernità”, ne esaltò la dialettalità come espressione antropologica e
sociale di un popolo, ne colse la forza rinnovatrice, lo accostò, agli
autori ai quali aveva lavorato, il lombardo Bertolazzi e il russo
Cechov. E lo stesso fece, negli stessi anni, Luchino Visconti, firmando
nel ’52 una memorabile Locandiera alla luce di una duplice
sollecitazione, le pulsioni illuministiche e il realismo sociale; e
approfondì ancora con L ’impresario delle Smirne il distacco dal
manierismo goldoniano, in un Settecento ritrovato nella sua verità
storica e sociale.
E vennero poi altri registi innovatori che proposero a loro volta
non un Goldoni pittore di maniera di un Settecento lezioso e
superficiale, ma affrescatore di una società veneziana viva e vibrante,
fra le inquietudini di un vecchio mondo al tramonto e il dilagare
dell’ottimismo illuministico. Di alcuni di loro - che hanno firmato
anche spettacoli per il Bicentenario - sarebbe doveroso parlare; di De
Bosio, attento alla questione del dialetto-superlingua; Squarzina, con i
suoi intelligenti e stimolanti spettacoli allo Stabile di Genova, i
dissacranti Missiroli e Cobelli, l’elegante Scaparro, il caustico Patroni
Griffi. Fissiamone almeno i nomi, insieme a quelli di Fersen, Calenda,
Lavia, Sbragia, Gregoretti, Sciaccaluga, Bernardi, Colli, Nanni; e
limitiamoci a dire che nell’alveo di questo grande revival goldoniano,
nella scia di quei grandi interpreti ch’erano stati negli anni Cinquanta
la Adani e la Morelli, Lionello e Stoppa; e prima ancora Baseggio e
Benassi, la Vazzoler e la Volonghi, non ci sono stati grande attore e
grande attrice che abbiano disertato l’appuntamento con il ritrovato
Goldoni.
Ma il lavoro della regia critica, che ci ha consentito di ritrovare
il vero Goldoni della Riforma, è stato anche fertile di conseguenze: a
partire dagli anni Ottanta, e nell’imminenza e durante il Bicentenario è
andata affermandosi una nouvelle vague goldoniana che ha
approfondito la ricerca del realismo sociale e del grottesco satirico, e
ha gettato ponti fra Goldoni e la nuova drammaturgia: qui basterà che
citi, per gli alti risultati raggiunti, Luca Ronconi con la sua Serva
amorosa, Massimo Castri con I Rusteghi, Nanni Garella con Gli
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innamorati; e che indichi che al repertorio goldoniano si sono volti
anche registi delle ultimissime avanguardie, sull’ esempio di
Fassbinder. Sicché si può dire che sulla «riforma” della regia critica,
che ha recuperato la vera natura delle Riforma del Goldoni, si sia
innestata una «riforma della riforma” : un modo di leggere veramente
Goldoni come nostro contemporaneo.
Segretario Generale e Direttore Artistico
del Comitato Nazionale per le celebrazioni
del Bicentenario Goldoniano
UGO RONFANI
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