G O L D O N I SU LLA SC E N A DI DU E SECO LI Jan Kott, critico e saggista polacco, scrisse nel 1961 un libro, che credo sia noto ad alcuni di voi, Shokespare nostro contemporaneo, che ebbe larga e meritata fama, e nel quale si mostrava l’intatta attualità dell’autore de\V Amleto. La formula vale sicuramente anche per Goldoni: perchè cercherò di dimostrarlo nel tempo di parola che mi è concesso qui, a questa bella manifestazione che si colloca nel quadro delle celebrazioni per il Bicentenario della morte: Goldoni, sì, è nostro contemporaneo. Goldoni è anche un classico, naturalmente. Cioè, come disse Mark Twain, „qualcuno che tutti vorrebbero avere letto ma che pochi in effetti leggono”. È pressapoco vero o, meglio, lo era fino a qualche tempo fa, in Europa ma anche in Italia, eccezion fatta per Venezia, dove il suo teatro ha resistito ma all’insegna della dialettalità. Un po’di Goldoni, in Italia, ce lo hanno fatto leggere sui banchi di scuola, ma nella scala dei valori letterari nazionali veniva a distanza di scrittori come il Leopardi o il Manzoni. Altrove, in Europa, è stato visto come un fiancheggiatore degli illuministi, ma nel suo teatro si distingueva male fra Commedia delle Maschere e riforma del teatro dei caratteri. Quel che è più grave è che resisteva un po’dappertutto, fino alla prima metà di questo nostro secolo, un manierismo goldoniano ereditato dall’Ottocento, che nascondeva sotto molte leziosaggini la moderna genialità del suo teatro. Si continuavano a recitare, inoltre, sempre le stesse commedie, La Locandiera in testa, non più di dieci o quindici in tutto. Sarebbero tante, queste commedie cui restava affidata la sua fama, se l’avvocato senza vocazione Carlo Goldoni non avesse scritto dal 1748 (da quando, quarantenne, era diventato poeta di compagnia del capocomico Girolamo Medebach al teatro veneziano di Sant’Angelo) fino alla morte, avvenuta il 6 febbraio del 93, a Parigi, qualcosa come 120 commedie, un terzo degne di stare ancora in scena; e se in questa furiosa e gioiosa prolificità (16 commedie in un solo anno nel 1750, come forse sapete) non avesse composto anche un centinaio fra libretti d ’opera, pantomime, componimenti arcadici e, a coronare il tutto, già sugli ottanta, i Métnories autobiografia teatrale e fabulatoria in lingua francese che fu - potremmo dire - la sua ultima grande commedia recitata davanti ad un mondo ormai irriconoscibile, cambiato nel profondo dalla Rivoluzione dell’89. - 167 - C’è voluto il Bicentenario perché di questo autore prolifico quanto lo sarebbe stato nell’Ottocento Honoré de Balzac, si conoscessero altre commedie oltre alle solite frequentate da registi ed attori, per esempio II teatro comico o Le massere e qualcuno dei suoi drammi giocosi da lui scritti per musicisti coevi come Mozart e Vivaldi, Galuppi e Cimarosa, Paisiello e Haydn; e perché si riprendesse l’abitudine di leggere i Mémoires. Non dirò che lo scopo di fare emergere il Goldoni „sommerso” - scopo che si era prefisso il Comitato nazionale da me coordinato - sia stato completamente raggiunto; credo però di poter affermare che quando il 6 febbraio 1994 l’anno goldoniano si chiuderà a Venezia, la conoscenza di zone ancora inesplorate dell "arcipelago Goldoni” sarà notevolmente migliorata. Non ho il tempo, qui, per rendere conto del risveglio di interesse manifestatosi quest’anno per Goldoni in Italia e nel mondo; ma lasciatemi almeno ricordare che dalla fine dell’estate al febbraio prossimo saranno una cinquantina le manifestazioni celebrative e gli spettacoli che sono stati, sono o saranno allestiti nel mondo. I nostri Istituti di Cultura all’estero si sono mobilitati; opere di Goldoni sono state messe in cartellone in tutte le grandi città, a Parigi - sul palcoscenico prestigioso della Comédie Franqaise - e a Pietroburgo, a Madrid e a Praga, ad Amsterdam e a Budapest, a Stoccolma e a Bucarest, a Lisbona e a Londra. Si rappresenta Goldoni in Croazia, nonostante i venti di guerra; a Pechino, a Montréal. Le toumées degli spettacoli goldoniani di Strehler, Castri, Cecchi, De Bosio e Squarzina trovano spettatori entusiasti dappertutto. Le rassegne goldoniane d ’autunno che si sono concluse a Roma e a Venezia hanno mostrato che il Teatro di Goldoni è rientrato nel grande repertorio internazionale. A Praga e ad Atene, a Budapest e a Vienna lo si traduce e lo si pubblica, appunto, come un contemporaneo. A Parigi, una equipe facente capo al Comitato Goldoni européen sta ultimando la versione francese di quaranta commedie, un terzo dunque della sua sterminata produzione. E da noi - nonostante che il Comitato non abbia potuto disporre di fondi, che due ministri che lo presiedevano siano stati distratti dal Bicentenario per loro personali vicende e lo stesso ministero dello Spettacolo sia stato abolito - sono almeno cento i progetti goldoniani che hanno trovato o trovano attuazione, nei sei settori del teatro e della musica, della ricerca universitaria e - 168 - dell’editoria, della radio-televisione e del cinema. Fra l’altro, una quindicina di convegni, la ristampa di una Omnia che impegnerà per dieci anni un editore veneto, spettacoli che hanno impegnato non soltanto Strehler - cui si deve di avere inaugurato il nuovo corso della „regia critica” goldoniana insieme a Luchino Visconti, non soltanto i goldoniani di lungo corso come De Bosio e Squarzina, Missiroli e Cobelli, ma anche nuovi registi, Cecchi o Garella, e i nuovissimi, una generazione di trentenni abituati a frequentare soprattutto le avanguardie. Da questo vasto movimento di idee e di iniziative emerge appunto - in Italia ma anche altrove nel mondo (basti pensare, in area tedesca, alla sorprendente Bottega del caffè riscritta da Werner Fassbinder) il senso dell’attualità, della contemporaneità di Goldoni. Goldoni nostro contemporaneo perché con lui, con la sua Riforma, cominciò in Italia e in Europa il Teatro dell’età moderna. Nell’Europa del diciottesimo secolo, quello della Rivoluzione francese, anche il teatro fu - come ben sapete - „rivolzuzionario”, e lo provano 1 nomi di Beaumarchais e Marivaux, di Voltaire e Diderot, di Lessing in area tedesca. Sapete anche che Goldoni - nonostante i suoi trent’anni trascorsi a Parigi, dal 1762 fino alla morte, e nonostante la stima e l’amicizia, ricambiate, per Voltaire, che l’aveva salutato in un famoso epigramma come il campione del „vero naturale” - non fu un illuminista nel senso stretto, ideologico del termine. Meglio, fu un «illuminista che si ignorava”. L ’età dei Lumi egli la visse però, potremmo dire, come condizione epocale, e lo mostrò splendidamente con il suo teatro che annuncia la nascita di una società nuova. Né fu un rivoluzionario alla lettera: i casi della vita - come sapete - fecero di lui un frequentatore della Corte di Versailles regnanti Luigi XV e Luigi XVI, e il precettore di italiano delle principesse reali. Quando si verificò il terremoto del 1789 egli viveva con i fantasmi del suo teatro, intento a salutare i contemporanei con i Mémoires. Gli viene tolta la magra pensione regia e la morte lo coglierà, il 6 febbraio dell ’93, povero, malato, quasi cieco, nel clima buio del Terrore. Ma, ecco, in quegli stessi giorni il deputato Marie-.loseph Chénier ottiene della tribuna dell’Assemblea Nazionale che quella pensione gli venga restituita, in quanto gli si riconosce di essere stato citoyen loyal, homme de loi intègre, auteur dramatique onvert anx temps nouveaux: il contrario, cioè, di uno spregevole collaborazionista della monarchia ghigliottianta. E anche se la ripristinata pensione arriva tardi, quand’egli è deceduto, resta che Goldoni - rivoluzionario no, ma - 169- riformatore sì, viene così reintegrato, con questa decisione, nel consesso degli spiriti che avevano scritto il primo capitolo dell’epoca moderna. Voi sapete che cosa ha significato la sua Riforma teatrale ancorché faticosamente attuata in una Venezia ancora dominata dalla commedia delle maschere da un lato e dal purismo classicista dei suoi avversari, Gozzi in testa; e bloccata nel primo periodo del suo soggiorno parigino dalle resistenze dei comici dell’arte del Théàtre Italien, infine misconosciuta nell’Ottocento: è stata la fine del teatro come artifìcio e il principio di una drammaturgia della vita: è stata la trasformazione degli stereotipi della Commedia dell’Arte in caratteri, personaggi, persone. È stata, la Riforma goldoniana, il collegamento epocale fra l’acutissimo spirito di osservazione del Goldoni, posto a fondamento del suo lavoro, e quella ricerca del vero naturale degli scrittori e dei filosofi illuministici, l’innesto della psicologia umana, inalterabile nei secoli, e del realismo sociale - finalmente evidenziato sulle scene del Novecento - al posto delle esauste, artificiose ripetizioni dei canovacci all’improvviso. E allora sì: possiamo dire oggi, una volta ritrovata la vera natura dell’uomo e dell’artista Goldoni, strappate a nostra volta le nuove maschere che il manierismo ottocentesco aveva rimesso sui volti dei suoi personaggi (mi riferisco alle leziosaggini, ai sospiri, ai tricorni, alle battute, ai ventagli, ai passetti e alla mossette del recitar Goldoni secondo tradizione, ai tempi dei mattatori e delle dive del secolo scorso) possiamo dire oggi, in una collocazione storica finalmente definitiva, che Goldoni fu anch’egli e a suo modo, con il suo „sorriso critico” sulla società che cambiava, un „rivoluzionario tranquillo”. L’approfondimento degli studi e le ricerche di palcoscenico di questi anni, e di questi mesi, hanno confermato irrefutabilmente che mai Goldoni perse contatto con la realtà e mai tradi l’amata natura, „sicura e universalmente maestra” : sia che rendesse conto, nella Bottega de! caffè, di un groviglio di avventurose esistenze in un campiello o indagasse, nelle Baruffe chiozzotte, sulle quotidiane, agitate vicende di una comunità di poveri pescatori tenuta insieme dalla solidarietà di classe; sia che presentasse le misconosciute virtù delle donne del popolo come fece nella Putta onorata o nella Buona moglie, oppure proponesse con la Castalda, la Pamela nubile, La serva amorosa o la famosa Locandiera le sue belle, fiere, libere figure femminili chiamate a prendere il posto di un fatiscente mondo - 170- maschile. (E a proposito, non dimentichiamo che un terzo delle sue centoventi commedie hanno la donna nel titolo: saggiamente femminista, dunque, il nostro Goldoni in piena età libertina...) Oppure, si concedesse il piacere di un affresco di costume nelle Donne gelose o nelle Massere, sorretto dall’eloquenza del dialetto veneziano (un dialetto che sulla sua pagina aveva il fulgore di una „superlingua”, come ebbe a dire Gianfranco Folena), o aguzzasse la sua vena satirica mai però acida - contro la grettezza della borghesia ricca, come nei Rusteghi, nella Casa nova, nella trilogia delle Smanie della villeggiatura. Oppure ancora, desse sfogo ad una vena esotica di moda nei Settecento, epoca di viaggi, sempre restando però ancorato alla ragione (era la famosa „misura goldoniana” avversione per l’eccesso), come fece scrivendo La Peruviana o La bella Selvaggia. Goldoni nostro contemporaneo, anche, per come l’abbiamo ritrovato nel Bicentenario rileggendo le Memorie, o attraverso le biografie ed i saggi (una trentina soltanto in Italia), pubblicati nel corso del ’93. Ci eravamo abituati ad un’immagine di lui sbiadita, edulcorata: il bonhomme Goldoni tutto casa, famiglia e buoni principi dell’agiografia ufficiale, un "figlio del secolo”, un casanova in pantofole goloso di grazie femminili, di buone pietanze e di cioccolata, cortesan nei palazzi del potere, cicisbeo nei boudoirs delle primedonne; e portato a frequentare le case da gioco. In questi ritratti c ’è del vero, egli stesso li accreditò romanzando la propria vita nei Mémoires e badando nel contempo a darsi un passaporto da galantuomo per la posterità. Egli fu sì - come ha scritto Odoardo Bertani in un suo' Goldoni pubblicato di recente - un avventuriero onorato, titolo di una sua commedia) che „visse di corsa, penna compresa, dovendo onorare improbi contratti che peraltro placavano la irrequietezza creativa, l’inquieto bisogno di scrivere”. Ma ci è venuto incontro anche un nuovo Goldoni, diverso da quello delle „spiritose” invenzioni autobiografiche o dai ritratti di biografi initimiditi. Perciò Goldoni nostro contemporaneo anche per questo, per la sua irrequietezza, per l’alternarsi di entusiasmi incontenibili e di malinconie depressive, per le contraddizioni che lo spingevano all’avventura e alla fuga ma lo tenevano vincolato alla sua fedele e paziente moglie Nicoletta Connio. Grande viaggiatore dall’età di cinque anni, quando aveva accompagnato a Roma il padre Giulio, medico non laureato ma intraprendente; colpito dal mal del teatro dall’età di otto anni, quando compose il suo primo infantile - 171 - canovaccio, e del teatro - attrici comprese - precocemente innamorato fin dall’adolescenza, quando se ne scappò dal collegio dei domenicani di Rimini su una barca dei comici diretti a Chioggia; scacciato dal pontifìcio Istituto Ghisleri di Pavia per avere messo alla berlina in un poemetto satirico i notabili della città; questuante di prestiti per rimediare le perdite di gioco e tacitare i creditori che gli stavano alle calcagna; tentato dalla carriera diplomatica fino ad accettare la nomina a console a Venezia della Republica genovese, dopo di che gli chiesero perfino di assoldare sicari per eliminare un nemico di Genova, tanto ch’egli si affrettò a dare le dimissioni: veramente Goldoni fu un «cavaliere dalle cento vite”, vissute teatralmente, si capisce. „Vo’ stare allegro, vo’divertirmi, non voglio pensare ai guai, anzi voglio ridere di tutto; e fissare in me la massima che l’uomo di spirito dev’essere superiore ai colpi della fortuna”. Queste parole, che aveva messo in bocca al suo Avventuriero onorato, Gugliemo, potrebb’essere la sua epigrafe: ma anche, appunto, il credo esistenziale di un intellettuale lucido e disincantato del nostro secolo. Ma Goldoni è riuscito ad apparirci, nel fervore del Bicentenario, come un nostro contemporaneo anche, se non soprattutto, per la rilettura critica del suo teatro che, in questo ultimo mezzo secolo, è stata fatta in Italia, soprattutto ma non soltanto in Italia. E mi riferisco non soltanto al salto di qualità che gli studi goldoniani hanno compiuto fra le due guerre, con i contributi decisivi di Ortolani, Baratto, Fubini, Zorzi, Fido, Apollonio, D ’Amico, Mangini e altri ancora, ma anche al nuovo approccio con cui, dal secondo dopoguerra in poi, quella che è stata chiamata la regia critica - ossia il lavoro del regista, diventato centrale, sul testo teatrale - si è accostato, al Goldoni. È ragionevole chiedersi non soltanto se Goldoni sarebbe stato così presente, ancora, sulle scene italiana ed europea, ma addirittura se non sarebbe stato, il suo teatro, confinato fra le curiosità di limitato interesse (come, poniamo, le tragedie di Voltaire o le fiabe di Gozzi) senza le riproposte davvero sfolgoranti della Locandiera o dell’ Impresario delle Smirne da parte di Luchino Visconti, oppure de\VArlecchino servitore di due padroni, delle Baruffe chiozzotte, delle Smanie della villeggiatura e del Campiello da parte di Strehler. E se altri registi come Gianfranco De Bosio, Luigi Squarzina, Mario Missiroli, Giorgio De Lullo, Franco Enriquez, Giancarlo Cobelli non avessero a loro volta portato avanti le ricerche sui grandi temi - il realismo sociale, il grottesco satirico, l’epica popolare, l’astrazione lirica, l’espressività del dialetto come super!ingua teatrale, eccetera - 172 - posti da Visconti e da Strehler, a loro volta tributari di intuizioni o ricerche di maestri della regia europea come Reinhardt, Stanislavskji, Copeau e, in Italia, deH’opportuno lavoro di restauro filologico che alla fine degli anni trenta aveva compiuto Renato Simoni. Non dobbiamo dimenticare che, a differenza di Molière - la cui continuità ed integrità furono garantite dalla Comédie Franfaise, Goldoni non beneficiò di una istituzione o di un organismo destinato a perpetuarne o a salvaguardarne l’opera dopo la morte, se si eccettua una mal definita „scuola veneta” soggetta agli alti e bassi del teatro ottocentesco dei mattatori capocomici. Goldoni era ancora in vita e già la sua drammaturgia, benché ambisse corrispondere nella parte più vitale ai canoni della sua Riforma, era modificata sulla scena fino allo stravolgimento. Se ripercorriamo velocissimamente i due secoli di messinscene goldoniane dalla morte di Goldoni in poi, noi possiamo ricostruire la storia di un lungo tradimento che, semplificando appena, potremmo definire come un tentativo di restaurazione preriforma del repertorio goldoniano. Se ne è parlato di recente al Convegno internazionale sulla Traduzione teatrale di Trieste. In Francia, dove lo stesso Goldoni dovette fare i conti con le resistenze degli attori del Théàtre Italien alla sua Riforma, i testi di Goldoni furono, nell’Ottocento, spesso manipolati dagli specialisti del vaudeville, della farsa, della pochade, o fatti arretrare nei territori della commedia delle maschere. In Inghilterra, fino ai primi del Novecento non ci si imbarazzò a identificare Goldoni con la Commedia dell’Arte, e la tournée della grande Ristori nel 1850 non convinse i teatranti d ’Oltremanica ad andare al di là della sporadica rappresentazione di stravolti canovacci. In Paesi come l’Olanda, la Spagna o il Portogallo, ad una precoce conoscenza dei Goldoni dei drammi giocosi in musica seguirono adattamenti disinvolti, innesti sulle culture e le tradizioni nazionali, della commedia graciosos nella penisola iberica. In Russia Goldoni trovò il doppio ostacolo della commedia alta, classicista, e del dramma borghese, fu contaminato con le maschere della buffoneria russa, furono frequenti i rifacimenti, scarse le traduzioni dirette e lo si dedusse (il primo Arlecchino ad esempio) dalle trasposizioni francesi; e questo fino alla scoperta stanislavskijana della tipizzazione dei suoi personaggi. Fu lo stesso in Ungheria, dove poeti ed ed attori dell’Ottocento usarono molto liberamente dei testi goldoniani; in Romania, dove gli attori si rifecero ad approssimative traduzioni - 173 - greche o francesi, in Polonia, dove Goldoni fu proposto come autore di moralità di costume alla corte di Varsavia per diventare poi, nella seconda metà del nostro secolo, drammaturgo impegnato e progressista, o nell’ex Jugoslavia, dove ad una precoce fortuna più all’interno del paese, e ad opera dei gesuiti, che sulla sponda adriatica, segui presso le popolazioni croate un uso finalizzato alla esaltazione dell’etnia e della cultura locali. Non parliamo degli sporadici e maldestri innesti, in Cina, di Goldoni, magari con motivi musicali napoletani, sul teatro popolare Kunju, mimico-acrobatico, o della sua „carnevalizzazione” nei Paesi del Sudamerica. Quanto all’Italia, per tutto l’Ottocento continuò purtroppo un processo degenerativo che dal „vero naturale,, proprio della Riforma goldoniana scese ad un modo manierato e stucchevole di recitar Goldoni, nei casi estremi confuso con gli autori di canovacci della Commedia dell’Arte: vigeva l’imperio del capocomico e anche i maggiori attori che lo interpretarono - lo Zago e il Benini, il Salvini e il Novelli, la Ristori e la Duse- furono paghi di confinarlo in un Settecento di maniera, senza preoccuparsi di renderne il senso del reale, la capacità di dipingere grandi affreschi sociali, di intagliare personaggi veri e non manichini, di trasformare la comicità della farsa in satira. Si continuò così fino agli anni Trenta di questo secolo, e i tentativi di proporlo in altro modo fatto da registi come Anton Giulio Bragaglia o Enzo Ferrieri rimasero isolati. Bisognò arrivare agli spettacoli goldoniani di Renato Simonia commediografo veneto e critico di teatro autorevole, per tornare - negli anni precedenti il secondo conflitto mondiale - ad una lettura tutto sommato ancora tradizionale ma filologicamente fedele di Goldoni, e a riaccostarlo al pubblico con alcuni allestimenti estivi nei campielli; e questo nonostante che il regime fascista, contrario al teatro dialettale, non incoraggiasse particolarmente operazioni del genere. La svolta avviene, come ho già detto, dopo l’ultima guerra, quando muore il vecchio capocomicato, a Roma e a Milano si cercano i fondamenti di una nuova arte scenica e gli studiosi di Goldoni riprendono lena nelle Università. Strehler lavora nel ’47, sul pacoscenico del neonato Piccolo Teatro di Milano, alla prima edizione del suo Arlecchino servitore di due padroni, in un immaginario registico che tenta con intuizioni artistiche di risalire alla poetica del Goldoni; seguiranno L 'Amante militare nel ’50, poi Gli innamorati, La Vedova scaltra e nel ’54 la Trilogia della Villeggiatura, che sarebbe - 174- stata riproposta con successo sulla scena della Comédie Frangaise, determinando delle „vocazioni goldoniane” in Francia, di Jacques Lassalle, di Alfredo Arias, di Claude Penchenat; poi ancora le Baruffe e II Campiello, ripresi con successo per il Bicentenario. Strehler cancellò via via le convenzioni deformanti del goldonismo ottocentesco, guardò a Goldoni „con gli occhiali della modernità”, ne esaltò la dialettalità come espressione antropologica e sociale di un popolo, ne colse la forza rinnovatrice, lo accostò, agli autori ai quali aveva lavorato, il lombardo Bertolazzi e il russo Cechov. E lo stesso fece, negli stessi anni, Luchino Visconti, firmando nel ’52 una memorabile Locandiera alla luce di una duplice sollecitazione, le pulsioni illuministiche e il realismo sociale; e approfondì ancora con L ’impresario delle Smirne il distacco dal manierismo goldoniano, in un Settecento ritrovato nella sua verità storica e sociale. E vennero poi altri registi innovatori che proposero a loro volta non un Goldoni pittore di maniera di un Settecento lezioso e superficiale, ma affrescatore di una società veneziana viva e vibrante, fra le inquietudini di un vecchio mondo al tramonto e il dilagare dell’ottimismo illuministico. Di alcuni di loro - che hanno firmato anche spettacoli per il Bicentenario - sarebbe doveroso parlare; di De Bosio, attento alla questione del dialetto-superlingua; Squarzina, con i suoi intelligenti e stimolanti spettacoli allo Stabile di Genova, i dissacranti Missiroli e Cobelli, l’elegante Scaparro, il caustico Patroni Griffi. Fissiamone almeno i nomi, insieme a quelli di Fersen, Calenda, Lavia, Sbragia, Gregoretti, Sciaccaluga, Bernardi, Colli, Nanni; e limitiamoci a dire che nell’alveo di questo grande revival goldoniano, nella scia di quei grandi interpreti ch’erano stati negli anni Cinquanta la Adani e la Morelli, Lionello e Stoppa; e prima ancora Baseggio e Benassi, la Vazzoler e la Volonghi, non ci sono stati grande attore e grande attrice che abbiano disertato l’appuntamento con il ritrovato Goldoni. Ma il lavoro della regia critica, che ci ha consentito di ritrovare il vero Goldoni della Riforma, è stato anche fertile di conseguenze: a partire dagli anni Ottanta, e nell’imminenza e durante il Bicentenario è andata affermandosi una nouvelle vague goldoniana che ha approfondito la ricerca del realismo sociale e del grottesco satirico, e ha gettato ponti fra Goldoni e la nuova drammaturgia: qui basterà che citi, per gli alti risultati raggiunti, Luca Ronconi con la sua Serva amorosa, Massimo Castri con I Rusteghi, Nanni Garella con Gli - 175 - innamorati; e che indichi che al repertorio goldoniano si sono volti anche registi delle ultimissime avanguardie, sull’ esempio di Fassbinder. Sicché si può dire che sulla «riforma” della regia critica, che ha recuperato la vera natura delle Riforma del Goldoni, si sia innestata una «riforma della riforma” : un modo di leggere veramente Goldoni come nostro contemporaneo. Segretario Generale e Direttore Artistico del Comitato Nazionale per le celebrazioni del Bicentenario Goldoniano UGO RONFANI - 176-