appunti di economia politica

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APPUNTI DI
ECONOMIA POLITICA
Appunti delle lezioni di
Fondamenti di Economia politica
di Emiliano Brancaccio
Facoltà di Scienze economiche e aziendali
Università del Sannio
PRIMA EDIZIONE
febbraio 2010
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ATTENZIONE: Questi appunti rappresentano sbobinamenti e
stralci dalle lezioni di Fondamenti di Economia politica del prof.
Emiliano Brancaccio, coadiuvato dal dott. Domenico Suppa (anno
2010).
Gli appunti potrebbero contenere qualche imprecisione. Gli
appunti integrano ma non sostituiscono i testi di riferimento.
 I cap. 1 e 2 degli appunti vanno studiati per primi.
 Il cap. 3 va affiancato al testo di microeconomia.
 I cap. 4 e 5 vanno affiancati al testo di macroeconomia.
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INDICE
Introduzione
1. CENNI DI STORIA DELL’ECONOMIA POLITICA
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
1.6
1.7
Un approccio critico alla economia politica
Gli economisti classici
Karl Marx
L’approccio neoclassico-marginalista
La Grande Crisi e Keynes
La Sintesi neoclassica e il nuovo mainstream
Per una critica della teoria economica mainstream
2. ELEMENTI DI TEORIA CLASSICA E MARXIANA
2.1 Un esempio del liberismo dei classici: il problema dei vantaggi
comparati di Ricardo
2.2 La condizione di riproducibilità del sistema economico nei classici e
in Marx
3. MICROECONOMIA E
MACROECONOMIA NEOCLASSICA
3.1 La teoria neoclassica della scelta razionale individuale: il caso del
consumatore
3.2 Il vincolo di bilancio del consumatore
3.3 Utilità, ordinamento delle preferenze e curve di indifferenza
3.4 La scelta del consumatore
3.5 La curva di domanda individuale
3.6 Il surplus del consumatore
3.7 La variazione della domanda individuale rispetto al reddito
3.8 Dalla curva di domanda individuale alla curva di domanda di mercato
3.9 La teoria neoclassica dell'impresa
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3.10 La massimizzazione del profitto dell'impresa
3.11 L'impresa in concorrenza perfetta
3.12 Rappresentazione grafica dell'equilibrio ottimale dell'impresa
3.13 Domanda, offerta ed equilibrio del mercato di concorrenza perfetta
3.14 L'elasticità della domanda rispetto al prezzo
3.15 Monopolio e oligopolio
3.16 Dalla microeconomia alla macroeconomia neoclassica
4. DISPENSE INTEGRATIVE DEL
MANUALE DI BLANCHARD
4.1 Una specificazione del modello di determinazione della produzione
4.2 Il paradosso del risparmio
4.3 Spesa pubblica, tassazione e teorema di Haavelmo
4.4 Il finanziamento del disavanzo pubblico e il Trattato di Maastricht
4.5 La politica monetaria e il Trattato di Maastricht
4.6 Politica monetaria e speculazione
4.7 Politica monetaria, libera circolazione dei capitali e controlli
4.8 Due interpretazioni alternative della crisi
5. ANTI-BLANCHARD
Introduzione
Il modello “compatibilista” di Blanchard
5.1 Dal modello IS-LM alla domanda aggregata
5.2 Il salario monetario e il salario reale domandato dai lavoratori
5.3 Il livello dei prezzi e il salario reale offerto dalle imprese
5.4 L’equilibrio “naturale” del modello di Blanchard
5.5 Solo l’equilibrio naturale garantisce la stabilità dei prezzi e dei salari
5.6 Dal mercato del lavoro all’offerta aggregata
5.7 Il modello di offerta e domanda aggregata AS-AD
5.8 Per uscire da una crisi la politica espansiva non è indispensabile
5.9 La politica espansiva non può oltrepassare l’equilibrio naturale
5.10 La neutralità della moneta
5.11 Il conflitto salariale è inutile ed è dannoso
5.12 Le virtù della moderazione salariale
5.13 Petrolio, anti-trust, immigrazione, progresso tecnico, concorrenza
5.14 Le conclusioni del modello di Blanchard
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Il modello “conflittualista” alternativo
5.15
5.16
5.17
5.18
5.19
La critica alla AD decrescente di Blanchard
La critica al carattere esogeno di µ e di z
Il modello conflittualista completo
La crisi non si risolve con le sole forze del mercato
Le politiche espansive possono avere effetti permanenti
sull’equilibrio
5.20 Conflitto versus moderazione salariale
5.21 Altri esempi sul modello conflittualista
5.22 Repliche neoclassiche e controrepliche conflittualiste
5.23 Limiti effettivi del modello conflittualista e prospettive di ricerca
5.24 Appendice: esogene ed endogene
Per approfondimenti
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I
CENNI DI STORIA
DELL’ECONOMIA POLITICA
1.1 Un approccio critico alla economia politica
E’ vero che la diffusione dei contratti “precari” ha contribuito a ridurre la
disoccupazione? Per quale motivo negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a una
caduta della quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori salariati? Quali sono
gli effetti della immigrazione sui salari dei lavoratori nativi? Quali sono le
possibilità per un figlio di operai di veder migliorare le proprie condizioni di
lavoro e di vita rispetto a quelle dei genitori? Perché alcuni paesi hanno visto
crescere la loro ricchezza più rapidamente di altri? Quali sono le cause della crisi
economica che stiamo attraversando? L’economia politica prova a rispondere a
queste e a molte altre domande. Si tratta di questioni scottanti, che riguardano il
vissuto quotidiano di tutti noi, e dalle quali in larga misura scaturiscono le
condizioni del nostro benessere. L’importanza dell’economia politica per tutti gli
aspetti della vita sociale è del resto testimoniata dall’influenza che le variabili
economiche possono avere sui più svariati comportamenti umani. Basti pensare
alle correlazioni esistenti tra disoccupazione e suicidio, tra povertà e criminalità,
tra partecipazione delle donne al lavoro e divorzi, tra disuguaglianza sociale e
rigidità delle norme morali, e così via.
La rilevanza della economia politica è dunque evidente. Ma quale potrebbe essere
una definizione rigorosa di questa disciplina? In termini del tutto preliminari,
possiamo affermare che l’economia politica indaga sui modi in cui una società si
organizza per affrontare le seguenti quattro questioni fondamentali: come
produrre, cosa produrre, quanto produrre e come distribuire ciò che si è prodotto.
Naturalmente tale definizione è molto generica, e in questi termini risulta
compatibile con qualsiasi indagine economica. Tuttavia nel corso di queste lezioni
avremo modo di approfondire il suo significato e scopriremo che ogni scuola di
pensiero economico tende a interpretarla in modo particolare. A questo proposito
è importante comprendere che esistono diversi modi di concepire l’economia. E
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quindi esistono anche diversi tipi di manuali attraverso i quali l’economia viene
insegnata.
I manuali oggigiorno più diffusi sono quelli realizzati da alcuni noti economisti
americani. Basti citare, per esempio, i testi di Paul Samuelson, Gregory Mankiw,
Olivier Blanchard, Joseph Stiglitz, tra gli altri. Si tratta di libri indubbiamente
molto apprezzati, sia per la ricchezza di contenuti che per la immediatezza del
linguaggio. Tuttavia questi testi presentano un limite: troppo spesso essi danno
agli studenti la sensazione che esista una sola rappresentazione possibile della
realtà economica, vale a dire una sola teoria, un solo “modello” universalmente
accettato dalla comunità degli studiosi.
Ma l’idea che per ogni fenomeno della realtà esista un solo modello interpretativo
è contraddetta dal fatto che, in tutti i campi di ricerca, ingenti risorse umane e
materiali vengono dedicate alla continua verifica dei diversi modelli esistenti, al
fine di valutare quale di essi sia maggiormente in grado di interpretare i fatti
concreti. Questo è vero in fisica, in chimica, in biologia, ma lo è ancora di più
nell’ambito dell’economia politica, dove i contrasti tra i ricercatori sulla teoria da
preferire sono particolarmente accentuati. Uno dei motivi per cui le dispute tra
economisti sono più accese che in altri ambiti verte sul fatto che oggetto di studio
dell’economia non sono i pianeti o le cellule ma le persone in carne ed ossa, con i
loro vitali interessi economici. Questioni che attengono alle cause e ai rimedi
contro la disoccupazione, alle determinanti dei salari o delle tasse, alle protezioni
contro i licenziamenti o al carattere pubblico o privato della scuola, della sanità e
più in generale dei mezzi di produzione, riguardano troppo da vicino il vissuto
quotidiano, gli interessi economici e le relative scelte politiche degli individui per
illudersi che su di esse si possa facilmente raggiungere un consenso unanime, e
soprattutto per credere che quegli stessi interessi non condizionino anche gli
indirizzi di ricerca degli studiosi. Con ciò, beninteso, non si vuol sostenere che il
condizionamento degli interessi materiali renda l’economia una scienza “falsa”,
vale a dire una mera ideologia. Piuttosto, si vuole affermare che per analizzare in
termini effettivamente scientifici la realtà economica che ci circonda è
indispensabile un approccio critico alla economia politica, ossia un approccio che
si ponga il problema di analizzare criticamente la teoria dominante, di indagare
sui suoi limiti, e di metterla sempre a confronto con una impostazione alternativa.
Lo studente deve pertanto comprendere che il più delle volte l’economia si
presenta come un luogo concettuale di contesa tra interpretazioni alternative della
realtà che ci circonda.
In questo senso, come vedremo, per tutto il corso della trattazione verranno messi
a confronto due indirizzi alternativi di ricerca. Da un lato analizzeremo le versioni
passate e presenti del cosiddetto mainstream, cioè dell’approccio attualmente
dominante detto neoclassico-marginalista. Dall’altro lato studieremo il cosiddetto
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approccio critico, che prende spunto dalle opere di Karl Marx, John Maynard
Keynes, Piero Sraffa ed altri per criticare l’impianto concettuale dell’approccio
neoclassico dominante e per indicare una diversa interpretazione dei fatti
economici e sociali.
Del resto, che l’economia politica abbia sempre rappresentato una sorta di “campo
di battaglia” tra visioni contrapposte è dimostrato dalla sua evoluzione storica. Nei
brevissimi cenni che seguono proveremo a dare un’idea di alcune tra le più celebri
dispute tra economisti.
1.2 Gli economisti classici
In genere si ritiene che la nascita di una vera e propria scienza economica sia
avvenuta tra il 1760 e il 1830, ossia a cavallo di quella prima Rivoluzione
industriale che in Inghilterra e in altri paesi creò le basi per la piena affermazione
del modo di produzione capitalistico (cioè di un sistema nel quale la classe dei
capitalisti detiene il controllo dei mezzi di produzione, mentre la classe dei
lavoratori si presenta sul mercato offrendo ai capitalisti la propria forza lavoro in
cambio di un salario). Durante la prima Rivoluzione industriale si assiste a un
grande processo di innovazione tecnologica, di allargamento dei mercati, di
concentrazione dei capitali, di trasformazione di larghe masse di lavoratori in
operai salariati e di aumento generalizzato della scala della produzione e della
circolazione delle merci. Tali trasformazioni economiche sono accompagnate
anche da importanti cambiamenti negli assetti sociali e politici. In questa fase si
registra infatti il relativo declino politico della classe aristocratica dei proprietari
terrieri e prende avvio l’ascesa sociale e politica di una nuova classe di soggetti,
quella dei capitalisti proprietari delle moderne imprese agricole e industriali. Il
successo dei capitalisti porta a una nuova concezione dello Stato: non più
espressione degli interessi del sovrano e dell’aristocrazia fondiaria, l’autorità
statale viene chiamata a favorire lo sviluppo del capitale. Nuovo scopo del potere
politico è dunque di salvaguardare gli interessi della nuova classe capitalista
emergente, in contrapposizione alle istanze provenienti dalla classe dei proprietari
terrieri.
E’ esattamente in questi scenari che avviene la pubblicazione delle fondamentali
opere di due studiosi considerati i padri fondatori della scienza economica
moderna: lo scozzese Adam Smith, autore della Ricchezza delle nazioni del 1776;
e l’inglese David Ricardo, autore dei Principi di economia politica e della
tassazione del 1817. Smith e Ricardo sono considerati i massimi esponenti della
cosiddetta economia classica. Gli economisti classici risultano in larga parte
sostenitori del cosiddetto liberismo, o “laissez-faire”. A grandi linee il liberismo è
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quella dottrina politica che si situa alla base dell’idea che per favorire lo sviluppo
economico e la crescita del benessere di tutti si debbano liberare le forze del
mercato dai lacci dell’autorità statale, cioè si debba “lasciar fare” ai capitalisti
privati. Sia pure seguendo ragionamenti molto articolati e con diversi accenti e
sfumature, Smith e Ricardo in definitiva sostengono le tesi liberiste. Essi infatti
ritengono che ci si dovrebbe affidare prevalentemente alle forze spontanee del
mercato e della concorrenza tra le imprese private, senza inutili vincoli o
intromissioni da parte dello Stato. A questo proposito, Smith elabora il cosiddetto
“teorema della mano invisibile”. Secondo questo “teorema” gli individui agiscono
nel libero mercato guidati dal loro egoismo personale, ma proprio seguendo i loro
interessi particolari essi inconsapevolmente contribuiscono allo sviluppo
economico complessivo, e quindi finiscono per servire l’interesse di tutti. Scrive
Smith che «ciascuno è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che
non era parte delle proprie intenzioni». Le forze del mercato rappresentano cioè
una “mano invisibile” che guida i singoli individui egoisti a compiere il bene
comune dello sviluppo economico. In questo senso egli aggiunge che «non è dalla
benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci dobbiamo aspettare la
cena, ma dal fatto che essi perseguono il proprio interesse». Il motivo per cui
secondo Smith il “teorema” funziona è che i capitalisti proprietari delle imprese,
in concorrenza tra loro, cercheranno di prevalere gli uni sugli altri producendo
esattamente le merci che i consumatori desiderano. Inoltre, i capitalisti
cercheranno di adottare i metodi produttivi più efficienti al fine di ridurre al
minimo i costi, ed essere quindi più competitivi rispetto ai diretti concorrenti. La
riduzione dei costi farà sì che le merci siano vendute ai prezzi più bassi possibili,
il che garantirà sviluppo e benessere diffuso. A grandi linee, sono questi i motivi
per cui secondo Smith è bene lasciare che le forze del mercato e della concorrenza
siano tendenzialmente lasciate libere di operare.
Una sorta di teorema della mano invisibile verrà in seguito applicato da David
Ricardo anche al caso dei rapporti internazionali. Per Ricardo occorre infatti
salvaguardare le libertà di mercato non soltanto quando si considerino i singoli
capitalisti in concorrenza tra loro, ma anche quando si tratti di nazioni che
competono negli scambi commerciali. Ricardo quindi era non soltanto un liberista
ma anche un “liberoscambista”. Egli cioè non era semplicemente un fautore del
liberismo economico tra le imprese e tra i singoli individui, ma sosteneva anche il
libero scambio tra paesi. Egli elaborò in questo senso il famoso “teorema dei
vantaggi comparati”. Questo teorema ci dice che il libero scambio di merci tra
paesi è sempre vantaggioso per tutti. In quest’ottica, anche se un paese fosse più
efficiente di un altro nella produzione di tutte le merci, al primo converrà
comunque concentrarsi nella produzione delle merci in cui sia relativamente più
efficiente, mentre potrà lasciare la produzione delle altre merci al secondo paese.
In questo senso Ricardo sostenne che l’Inghilterra avrebbe dovuto specializzarsi
nella produzione e nella esportazione di manufatti industriali, mentre avrebbe
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dovuto importare grano dagli altri paesi. Il consiglio che Ricardo dava
all’Inghilterra era quindi di abbandonare il protezionismo commerciale, cioè di
rinunciare ai dazi con i quali il paese cercava di proteggere l’agricoltura nazionale
dalla importazione di grano proveniente dall’estero. I dazi erano sostenuti dai
proprietari fondiari inglesi, che guadagnavano dalla produzione di grano sui loro
terreni. Ma per Ricardo la classe dei proprietari terrieri rappresentava un ostacolo
allo sviluppo economico. Il paese doveva quindi abbandonare le protezioni,
specializzarsi nella manifattura e aprirsi agli scambi internazionali.
Gli economisti classici offrivano quindi una interpretazione sostanzialmente
positiva del capitalismo e delle leggi della concorrenza che lo governavano. Essi
talvolta definivano “naturale” l’equilibrio concorrenziale determinato dalle forze
del mercato. In tal modo sembravano voler dare l’idea che il capitalismo si
sviluppasse secondo “leggi naturali”, ossia in un certo senso armoniche ed eterne.
I classici tuttavia non nascondevano gli elementi di conflitto insiti nella società
capitalista. Non a caso Smith e Ricardo ritenevano che la società fosse divisa in
classi: i proprietari terrieri, i capitalisti e i lavoratori. In varie circostanze essi
riconobbero che le classi sociali hanno interessi irriducibilmente contrapposti tra
loro. Ricardo, in particolare, costruì una teoria secondo cui il profitto spettante ai
capitalisti va concepito come un “residuo”, come un “surplus” che si ottiene una
volta che da una data produzione totale siano state sottratte le merci spettanti ai
proprietari terrieri a titolo di rendite e le merci spettanti ai lavoratori sottoforma di
salari. Ma allora, se il profitto è un residuo, ciò significa che esso sarà tanto più
grande quanto minori siano le rendite e i salari, il che mette chiaramente in luce i
motivi di contrasto tra le classi sociali nella ripartizione della produzione.
1.3 Karl Marx
Proprio sulla concezione del profitto come “residuo”, e più in generale sugli
elementi di conflitto sociale riconosciuti dagli economisti classici, farà leva Karl
Marx per criticare la loro concezione positiva del capitalismo. Con la
pubblicazione del Capitale nel 1867 Marx si propone il compito di elaborare una
compiuta critica dell’economia politica dei classici. In questo senso egli sferra un
attacco poderoso al teorema della mano invisibile. Egli infatti descrive un sistema
tutt’altro che armonico ed eterno. Per Marx il capitalismo è in realtà afflitto da
perenne instabilità e da crisi ricorrenti. La teoria delle crisi di Marx è molto
complessa e tuttora oggetto di varie interpretazioni. In questa sede possiamo
affermare che tra le cause che secondo Marx determinano crisi ripetute vi è anche
il fatto che la spietata concorrenza tra le imprese conduce a una continua serie di
rivoluzioni tecniche e organizzative tese ad aumentare al massimo la produttività
di ogni singolo lavoratore e a ridurre il più possibile il suo salario. Ciò tuttavia
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implica un divario crescente tra la capacità produttiva dei lavoratori e la capacità
di spesa degli stessi lavoratori. Sotto date condizioni questo divario può
determinare un problema di sbocchi per le merci prodotte. La conseguenza è che il
processo di accumulazione dei capitali si blocca e le imprese sono indotte a
licenziare i lavoratori. Ma ciò allarga ulteriormente il divario tra capacità
produttiva e capacità di spesa, per cui il sistema rischia di avvitarsi su sé stesso
fino al tracollo. Al riguardo Marx scrive: «…La causa ultima di tutte le crisi
rimane sempre la povertà ed il consumo ristretto delle masse, di fronte alla
tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive…»
(Capitale, vol. III).
Marx contesta dunque l’idea classica di un capitalismo “naturale” e quindi
“eterno”, sostenendo invece la tesi della sua instabilità e della sua storicità. Per
Marx, l’elemento di maggior contraddizione del capitalismo è che la feroce
competizione tra capitali da un lato sviluppa nuove tecniche e nuove forze
produttive, ma dall’altro scatena le crisi e quindi genera tensioni nei rapporti di
produzione tra le classi sociali. In particolare, la classe lavoratrice si ritrova ad
essere l’artefice in ultima istanza dello sviluppo delle forze produttive, poiché
quello sviluppo avviene soprattutto in base allo sfruttamento imposto dal comando
del capitale sul lavoro. Al tempo stesso, la classe lavoratrice risulta anche la prima
vittima della disoccupazione e degli immiserimenti causati dalle ricorrenti crisi
del capitalismo. Le contraddizioni del capitalismo ricadono dunque
principalmente sui lavoratori salariati, artefici e vittime del sistema.
In quest’ottica Marx giudicava il capitalismo un sistema potente ma caotico,
“anarchico”, destinato prima o poi ad entrare in una crisi irreversibile e ad esser
quindi sostituito da un diverso sistema di organizzazione dei rapporti economici e
sociali. L’analisi marxiana potrebbe in questo senso essere considerata una
indagine sulle condizioni di riproducibilità del modo di produzione capitalistico.
Quando si dice che in Marx è fondamentale il concetto di storicità, si intende
appunto che egli sottolinea il fatto che i sistemi economici non sono affatto eterni
ma risultano storicamente determinati, nel senso che cambiano nel tempo. Ad
esempio, è noto che la Rivoluzione francese ha effettivamente sancito il passaggio
dall’Antico regime feudale (basato sul potere dei proprietari terrieri) al regime di
produzione capitalista (in cui il potere è nelle mani dei proprietari delle imprese).
Allo stesso modo, è possibile che il capitalismo a un certo punto imploda nelle sue
contraddizioni e ceda il passo a una nuova e diversa modalità di organizzazione
dei rapporti sociali.
Marx si attendeva in tal senso una svolta rivoluzionaria guidata dalla classe
lavoratrice, a seguito della quale potesse sorgere un sistema di tipo socialista: vale
a dire un sistema non più basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e
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sul lavoratore salariato posto sotto il comando del capitalista, ma fondato invece
sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sulla pianificazione sociale del
lavoro. In una prima fase il sistema socialista si sarebbe per forza di cose basato
sul controllo statale sui mezzi di produzione, sulla divisione del lavoro e sulle
retribuzioni. Ma più in prospettiva, a seguito dello sviluppo delle forze produttive
e della ricchezza sociale, Marx preconizzava un futuro comunista, nel quale il
potere coercitivo dello Stato, la divisione del lavoro e lo stesso concetto di
“salario” sarebbero diventati superflui. Nella Critica al programma di Gotha del
1875, egli definì il comunismo in questi termini: «In una fase più avanzata della
società comunista, dopo la scomparsa della subordinazione asservitrice degli
individui alla divisione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro
intellettuale e fisico […] dopo che con lo sviluppo completo degli individui sono
aumentate anche le loro forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze
collettive scorrono in abbondanza; soltanto allora la società può scrivere sulle sue
bandiere: da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni!».
Naturalmente Marx non fu il primo comunista della Storia. Molti prima di lui
avevano sostenuto l’ideale superiorità di un sistema fondato sulla cooperazione
sociale anziché sulla competizione individuale, e sulla proprietà collettiva anziché
privata dei mezzi di produzione. E in passato non erano nemmeno mancate
esperienze di comunismo concreto, come ad esempio quello delle comunità
cristiane primitive. Marx tuttavia differiva dai suoi predecessori per un motivo:
egli faceva poggiare la sua prospettiva comunista non su basi etico-morali, ma su
una rigorosa analisi scientifica delle contraddizioni del capitalismo e della sua
fragilità intrinseca, una analisi per molti versi ancora attuale. Ed è proprio in
questa analisi scientifica del capitalismo che risiedeva la vera forza di Marx, una
forza che prescinde dal carattere talvolta utopico delle sue premonizioni sul
comunismo.
Verso la fine dell’Ottocento le tesi marxiane divennero il punto di riferimento del
movimento operaio, cioè delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori
che in quel periodo andavano sviluppandosi e consolidandosi in molti paesi. In un
certo senso, l’analisi di Marx aveva successo poiché comunicava ai lavoratori che
con le loro lotte di emancipazione essi stavano contribuendo a smuovere la Storia,
accelerando la crisi del capitalismo e creando le condizioni per una nuova e
superiore organizzazione della società. Chiaramente, per molti altri queste tesi
risultavano invece scomode, pericolose. Infatti, rimarcando l’instabilità e la
storicità del modo di produzione capitalistico, l’analisi di Marx rappresentava una
oggettiva minaccia per i proprietari del capitale, principali detentori del potere
economico e politico.
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1.4 L’approccio neoclassico-marginalista
Per scongiurare le tesi di Marx occorreva dunque sfidarlo sul terreno dell’analisi
scientifica dell’economia. Occorreva cioè proporre una chiave di lettura della
realtà che fosse alternativa a quella marxiana. Ma per far questo non si poteva
tornare al pensiero dei classici. Infatti, benché Smith e Ricardo esprimessero nella
sostanza un giudizio positivo sul modo capitalistico di produzione, le loro teorie
mettevano apertamente in evidenza gli elementi di conflitto insiti nei rapporti tra
le classi sociali, e quindi somigliavano troppo all’analisi di Marx per potersi dire
del tutto estranee e alternative ad essa.
Si pose dunque il problema di elaborare una nuova teoria, che non si concentrasse
sul carattere conflittuale e instabile del modo di produzione capitalistico ma che al
contrario fornisse una convincente rappresentazione armonica del sistema
economico. Così, a partire dal 1870, nasce e trova largo seguito una nuova
concezione teorica, detta neoclassica o marginalista. Jevons, Menger e Walras
furono tra i fondatori di questo approccio, seguiti poi da Marshall, Pigou,
Wicksell, Pareto, Robbins e molti altri.
La nuova impostazione viene definita “neo-classica”, ma in effetti essa porta con
sé ben poco della precedente economia classica e marxiana. Marx e i classici
indagavano sui meccanismi di funzionamento del capitalismo, sulle cause della
sua capacità di sviluppo ma anche sulla sua tendenza alla crisi, sulle
contraddizioni che lo caratterizzano e sui conflitti tra le classi sociali che quelle
contraddizioni scatenano. Marx, in particolare, sottolineava la storicità del
capitalismo e puntava a una indagine scientifica sulle condizioni di riproduzione o
di crisi del modo di produzione capitalistico. Ed ancora, sia i classici che Marx
facevano partire le loro analisi direttamente dallo studio delle classi sociali.
Completamente diverso è invece l’oggetto di indagine degli economisti
neoclassici-marginalisti. I teorici neoclassici rifiutano una analisi della società
basata sulla divisione tra le classi. Ad essa contrappongono il cosiddetto
individualismo metodologico. Questo metodo si basa sulla idea che qualsiasi
aggregato sociale, inclusa la classe, è in realtà costituito da singoli individui.
Stando quindi all’approccio neoclassico, l’analisi scientifica della società deve
sempre partire dall’analisi del comportamento del singolo.
Inoltre, i neoclassici rifiutano l’idea di doversi occupare di uno specifico modo di
produzione, e in particolare del capitalismo. Essi si propongono di elaborare una
teoria molto più astratta e generale, che valga per ogni sistema di organizzazione
dei rapporti sociali e per ogni periodo storico, e che valga anche per ogni
individuo (indipendentemente dalla ricchezza che possiede o dalla funzione
economica che svolge). In questo senso i neoclassici ritengono che il problema
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economico fondamentale di ogni individuo e di ogni società sia quello di
impiegare al meglio i mezzi scarsi di cui dispone al fine di accrescere più che può
il proprio benessere. Questo problema secondo i neoclassici è così importante che
definisce in quanto tale l’oggetto stesso della scienza economica.
Infatti, nel Saggio sulla natura e sul significato della scienza economica del 1932,
lo studioso neoclassico Lionel Robbins definì l’economia come quella scienza
«che studia il comportamento umano come una relazione fra scopi classificabili in
ordine d’importanza e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». Pochi anni dopo
un altro economista neoclassico fornì una descrizione ancor più sintetica della
disciplina: nel suo celebre Fondamenti di analisi economica del 1947, Paul
Samuelson definì il nucleo di ogni problema economico come «una funzione
matematica da massimizzare sotto vincoli», dove i vincoli rappresentano le risorse
scarse disponibili e la funzione da massimizzare in genere rappresenta il benessere
individuale. Come vedremo, secondo i neoclassici tale benessere può esser
misurato attraverso l’utilità, un concetto che essi adoperano molto spesso nelle
loro analisi.
Per comprendere meglio il significato di queste definizioni, consideriamo il
seguente esempio. Per i neoclassici una tipica risorsa scarsa è il tempo, ossia le
ore del giorno. Supponiamo allora che un individuo debba decidere come
impiegare le sue ore. Tra i possibili usi alternativi egli potrà scegliere di lavorare e
ottenere così un reddito che gli darà modo di consumare merci, oppure potrà
scegliere di riposare e dedicarsi al tempo libero. Ora, sia il riposo che il consumo
di merci accrescono l’utilità dell’individuo, cioè aumentano il suo benessere.
Come si fa a decidere quante ore dedicare al riposo e quante ore dedicare al lavoro
necessario per ottenere un reddito e consumare? Quale sarà cioè la quantità
ottimale di ore da dedicare al lavoro, e quale la quantità ottimale di ore da
dedicare al riposo, al fine di massimizzare l’utilità dell’individuo? La risposta dei
neoclassici verte sul cosiddetto “calcolo marginale”, cioè su un calcolo effettuato
su incrementi piccoli, appunto “marginali”, delle variabili considerate.
Questo calcolo si basa sul principio che al crescere del consumo di un qualsiasi
bene, l’utilità dell’individuo tende ad aumentare ma con incrementi sempre più
piccoli. Il motivo è che mentre le dosi iniziali del bene sono particolarmente
gradite all’individuo, le dosi successive lo condurranno verso la sazietà e quindi
risulteranno meno “utili”. Tale principio è detto “legge della utilità marginale
decrescente”, ed è alla base di molte analisi neoclassiche.
Dunque, nel caso dell’individuo considerato, si tratterà di distribuire le ore del
giorno tra lavoro (e conseguente consumo di merci) e tempo libero. La scelta
avverrà sapendo che all’inizio il consumo di merci è assolutamente necessario, e
quindi conferisce una utilità molto alta; ma al crescere delle ore di lavoro e del
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consumo, e al conseguente ridursi delle ore di tempo libero, l’individuo tenderà ad
essere sempre più sazio di merci ma anche sempre più stanco, per cui l’utilità
marginale del consumo tenderà a ridursi rispetto all’utilità marginale del tempo
libero. Pertanto, se vuole massimizzare la sua utilità, l’individuo dovrà seguire
questa regola: aumentare il tempo di lavoro fino a quando l’utilità marginale del
consumo è maggiore della utilità marginale del tempo libero, cioè fino a quando
l’aumento di utilità derivante dal consumo di merci reso possibile dal reddito
ottenuto tramite un incremento marginale di tempo di lavoro sia maggiore o al
limite uguale alla perdita di utilità causata dalla rinuncia al tempo libero che
consegue a quello stesso incremento marginale di tempo di lavoro. Nel momento
in cui la utilità marginale del consumo eguaglia l’utilità marginale del tempo
libero, l’individuo starà lavorando proprio il numero ottimale di ore. Infatti, se
l’individuo aumentasse ulteriormente il tempo di lavoro, la perdita di utilità
dovuta alla rinuncia al riposo eccederebbe l’aumento di utilità derivante dal
consumo di merci, e quindi egli incorrerebbe in una riduzione netta del suo
benessere. Questo tipo di calcolo, effettuato per l’appunto su variazioni
“marginali” – ossia molto piccole - delle grandezze considerate, è alla base della
teoria neoclassica, che proprio per questo motivo viene anche detta teoria
marginalista.
E’ bene precisare che questo tipo di calcolo può indifferentemente applicarsi non
solo ai lavoratori ma anche ai capitalisti, o a qualsiasi altro soggetto. Ad esempio,
il possessore di ingenti ricchezze deve decidere se consumare subito tali ricchezze
oppure prestarle ad altri, guadagnando così un tasso d’interesse e potendo quindi
consumare maggiori quantità di ricchezza in futuro. Anche in tal caso, dicono i
neoclassici, si applica il calcolo marginale: il soggetto distribuirà infatti le sue
ricchezze tra consumo immediato e consumo futuro in base al confronto tra le
utilità marginali della prima e della seconda opzione.
Dunque, per i neoclassici, l’analisi basata sulla esistenza delle classi sociali è
inutile e per certi versi fuorviante, visto che il comportamento di ogni individuo,
indipendentemente dalla classe di appartenenza, può essere esaminato come un
problema di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse di
cui egli dispone, e più specificamente come un problema risolvibile con il calcolo
marginale.
Inoltre, gli economisti neoclassici ritengono che il principio di massimizzazione
della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse possa essere applicato a qualsiasi
epoca storica e a qualsiasi società, semplice o complessa che sia. L’oggetto di
indagine potrà essere una economia elementare, magari basata su un unico
individuo, come ad esempio quella del naufrago Robinson Crusoe raccontata nel
famoso romanzo di Defoe. Oppure potrà trattarsi di una economia capitalistica
altamente sviluppata, costituita da tanti operatori e da una complessa rete di
17
scambi. In ogni caso entrambe le economie affronteranno problemi analoghi,
basati sul principio di massimo vincolato e risolvibili tramite il calcolo marginale.
Discutere quindi di uno specifico modo di produzione storicamente determinato,
come facevano i classici e soprattutto Marx, è da ritenersi errato.
Ma al di là del nuovo metodo di analisi adottato, quali furono le conclusioni
politiche alle quali i neoclassici giunsero attraverso di esso? Indubbiamente, nella
maggioranza dei casi, la nuova teoria perveniva a risultati più rassicuranti per i
proprietari del capitale rispetto a quelli esposti dai classici e da Marx. Dall’analisi
neoclassica può infatti scaturire l’idea che in condizioni di perfetta concorrenza
una economia capitalistica di mercato sia in grado di garantire il pieno utilizzo
delle risorse scarse disponibili ed anche una remunerazione delle risorse conforme
al contributo di queste alla produzione. In particolare, riguardo alle fondamentali
questioni della disoccupazione e dei salari, i neoclassici applicavano ancora una
volta il calcolo marginalista. In primo luogo, essi ritenevano che per ogni data
quantità di mezzi di produzione disponibili, i lavoratori via via assunti dalle
imprese avrebbero fatto registrare una produttività sempre minore: è la “legge
della produttività marginale decrescente” di un fattore produttivo, quando gli altri
fattori siano considerati fissi. In base a questa legge, i neoclassici sostenevano che
le imprese avrebbero assunto nuovi lavoratori solo se la loro produttività
marginale fosse stata maggiore o al limite uguale al costo marginale
dell’assunzione, che corrisponde al salario reale (ossia al salario espresso in
termini di potere d’acquisto effettivo). Pertanto, se i lavoratori avessero accettato
un salario conforme alla loro produttività, sarebbero stati certamente assunti dalle
imprese. Vista quindi in quest’ottica, la disoccupazione può dipendere solo dalla
libera scelta del lavoratore, che magari si dichiara indisponibile ad accettare un
salario equivalente alla sua produttività; oppure la disoccupazione può dipendere
dall’azione dei sindacati dei lavoratori, che impediscono di ridurre i salari al
livello della produttività marginale, e quindi rendono impossibile l’assunzione di
ulteriori lavoratori da parte delle imprese. Se dunque si eliminano le distorsioni
causate dai sindacati e si lascia fare alle forze del mercato, si giungerà alla piena
occupazione dei lavoratori disposti ad accettare un salario equivalente alla loro
produttività. In definitiva, il libero gioco delle forze del mercato conduce a un
equilibrio complessivo efficiente e in un certo senso giusto: un equilibrio che
alcuni teorici neoclassici definiscono “naturale”.
La teoria neoclassica permetteva in tal modo di elaborare una sorta di nuovo
“teorema della mano invisibile”. Da essa si può infatti derivare l’idea che
l’economia capitalistica non sia né instabile né conflittuale. In assenza di
“distorsioni” causate dalla politica o dall’azione sindacale, le forze spontanee del
mercato condurranno il sistema economico verso un equilibrio “naturale”, in cui
tutti coloro i quali siano disposti a lavorare al salario vigente troveranno
certamente un’occupazione.
18
La nuova teoria pertanto riafferma i principi cardine del liberismo in termini più
netti rispetto a quanto sostenuto dai classici. Essa infatti si fonda su una
concezione non più conflittuale ma armonica dei rapporti sociali. Ricordiamo che
anche Ricardo era liberista. Egli tuttavia interpretava la realtà in base all’idea che
per ogni data produzione il profitto fosse calcolato come un residuo al netto dei
salari. Stando a questa chiave di lettura il salario e il profitto sono legati tra loro
da un rapporto antagonistico, poiché se uno aumenta l’altro diminuisce. Pertanto,
nella vecchia ottica classica, tra percettori di profitto e percettori di salari vi è
sempre un irriducibile conflitto nella ripartizione della produzione. Invece,
nell’ambito della visione neoclassica si stabilisce che il lavoro e tutti gli altri
fattori produttivi sono remunerati in base alle rispettive produttività marginali,
cioè al contributo dato da ciascuno di essi alla crescita della produzione. Il
conflitto svanisce, soppiantato da una interpretazione armonica ed efficientista
della distribuzione del prodotto tra lavoratori e capitalisti.
1.5 La Grande Crisi e Keynes
Tra il 1870 e il 1914 la teoria neoclassica si impose come il nuovo mainstream, la
nuova visione dominante della scienza economica. L’approccio neoclassico si
diffuse nei circoli accademici e della finanza, e le analisi di politica economica
che scaturivano da esso trovarono ampio spazio presso la grande stampa. Il
successo della teoria era in buona misura dovuto alla capacità di presentare il
problema economico in termini asettici, come un generico problema di uso
efficiente di risorse scarse. Questa prerogativa dell’approccio neoclassico
permetteva a molti studiosi di avvicinarsi all’economia come se si trattasse di una
scienza neutra, priva di implicazioni politiche. Inoltre, le versioni più in voga
della teoria neoclassica sembravano in grado di descrivere l’economia
capitalistica di mercato come un sistema armonico, efficiente e stabile, il che le
rendeva estremamente utili nella battaglia ideologica contro il movimento operaio
e contro i sostenitori del socialismo.
Gli eventi successivi al 1914, tuttavia, misero fortemente in questione l’idea
neoclassica di un sistema capitalistico efficiente ed armonico. Allo scoppio della
Prima guerra mondiale, molti sostennero che il conflitto bellico tra nazioni non
fosse altro che una versione estrema del conflitto tra capitali. Si diceva in questo
senso che il capitalismo tende al cosiddetto “imperialismo”. Secondo questa
interpretazione, il modo di produzione capitalistico tende a scatenare una tale
competizione sociale da condurre poi inesorabilmente alla guerra militare.
19
Inoltre, nel 1917 si verifica un evento che sembra per certi versi dare ragione ad
alcune premonizioni di Marx: in una Russia devastata dalla guerra e dalla miseria
si verifica infatti una nuova Rivoluzione. Il partito che la guida si dichiara
espressamente marxista, e punterà a riorganizzare i rapporti economici su basi
socialiste.
Ed ancora, la visione armonica del capitalismo suggerita dall’approccio
neoclassico subisce un altro duro colpo a seguito della Grande Crisi. Nel 1929,
dopo una lunga fase di euforia nei mercati azionari, il crollo della borsa di Wall
Street diede avvio a una gravissima crisi economica, che in pochi anni creò 12
milioni di disoccupati negli Stati Uniti, 6 milioni in Germania, 3 milioni in Gran
Bretagna e molti altri nel resto del mondo. Inoltre, secondo alcuni osservatori, fu
proprio la Grande Crisi a creare le condizioni sociali e politiche per l’avvento del
nazismo e per la Seconda guerra mondiale.
In un simile scenario di sconvolgimenti sociali e politici si fa strada il
convincimento che la teoria neoclassica non sia in grado di dare un’adeguata
rappresentazione del funzionamento reale del capitalismo. Del resto, le chiavi di
lettura della crisi suggerite dagli economisti neoclassici apparivano sempre più
lontane dalla realtà. Ad esempio, nella Teoria della disoccupazione del 1933,
l’economista neoclassico Arthur C. Pigou sostenne che la crisi era dovuta al fatto
che i sindacati si opponevano al calo delle retribuzioni. In questo modo, secondo
Pigou, i sindacati impedivano il riequilibrio tra salari e produttività marginale del
lavoro che sarebbe stato necessario per indurre le imprese ad assumere i lavoratori
disoccupati. Questa tesi tuttavia risultava smentita dal fatto che in realtà i salari
erano fortemente diminuiti a seguito della crisi, e che ciò nonostante non si era
registrato alcun miglioramento sul versante dell’occupazione.
I tempi erano dunque maturi per una nuova rivoluzione delle idee in campo
economico. Tra i portatori della medesima vi fu l’economista inglese John
Maynard Keynes, autore della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e
della moneta del 1936. Nella sua critica ai neoclassici Keynes sceglie una
posizione “intermedia”, nel senso che accetta una parte della loro teoria ma rifiuta
un’altra parte. In particolare, Keynes condivide la tesi neoclassica secondo la
quale in equilibrio il salario reale coincide con la produttività marginale del
lavoro. Egli accetta pure la tesi secondo cui, dati gli altri fattori di produzione, la
produttività marginale del lavoro decresce al crescere del numero dei lavoratori
occupati. Tuttavia, Keynes aggiunge pure che i neoclassici trascurano un punto
fondamentale, e cioè che il numero degli occupati dipende dalla domanda effettiva
di merci. Le imprese cioè assumeranno solo i lavoratori necessari a produrre la
quantità di merci effettivamente domandata dal mercato, cioè la quantità che
possa essere effettivamente venduta. Questo è il “principio della domanda
20
effettiva”, ed è alla base della teoria di Keynes. Se dunque la domanda effettiva di
merci è bassa, le imprese assumeranno pochi lavoratori e vi sarà quindi una
elevata disoccupazione.
La domanda effettiva a sua volta dipende dalle aspettative sul futuro. Se tra gli
operatori economici si diffonde una ondata di pessimismo, gli acquisti di beni di
investimento (macchinari, impianti, attrezzature, ecc.) verranno ridotti, il che
provocherà una serie di licenziamenti, quindi un calo dei consumi dei lavoratori,
quindi ulteriori licenziamenti, e così via in una spirale negativa che può condurre
a una crisi generale. Nella teoria keynesiana questo meccanismo cumulativo va
sotto il nome di “moltiplicatore”.
Keynes riteneva che i neoclassici trascurassero tutti questi problemi, e per questo
non fossero in grado di fornire una adeguata rappresentazione del sistema
economico.
Dal principio della domanda effettiva e dalla teoria del moltiplicatore Keynes
faceva anche scaturire una critica al liberismo prevalente tra i neoclassici. Egli
infatti riteneva che le forze del mercato, lasciate a sé stesse, non sarebbero mai
state capaci di generare una domanda effettiva tale da eliminare la
disoccupazione. In questo senso Keynes criticò l’idea di Pigou, secondo il quale la
grande crisi dipendeva dal fatto che i sindacati dei lavoratori si opponevano alla
riduzione dei salari e quindi impedivano il libero funzionamento del mercato. Al
contrario,
Keynes sosteneva che la riduzione dei salari non avrebbe risolto la crisi. Anzi,
avrebbe potuto aggravarla. La riduzione dei salari avrebbe infatti dato avvio a un
lungo periodo di calo dei prezzi delle merci, che avrebbe indotto molti operatori a
rinviare gli acquisti in attesa di ulteriori cadute dei prezzi. Il che avrebbe solo
accentuato la crisi. Pertanto, non si poteva imputare la depressione economica ai
sindacati.
Per Keynes il vero problema è che il capitalismo risulta afflitto da una domanda
effettiva molto instabile, condizionata dai cambiamenti nelle aspettative sul
futuro, e in genere mai sufficiente per garantire la piena occupazione dei
lavoratori. Keynes proponeva dunque l’abbandono del laissez-faire. A suo avviso
soltanto un massiccio intervento statale nell’economia avrebbe potuto garantire
livelli alti e stabili della domanda effettiva, tali da scongiurare le crisi ricorrenti
del capitalismo e in grado di condurre sempre alla piena occupazione del lavoro.
In questo senso Keynes parlava di «socializzazione di una certa ampiezza
dell’investimento», ossia di un ampio intervento dello Stato per il finanziamento
degli investimenti in opere pubbliche, servizi sociali, beni di interesse collettivo.
21
1.6 La Sintesi neoclassica e il nuovo mainstream
Dalla Seconda guerra mondiale il liberismo uscì perdente. Dopo la guerra era
infatti diffusa un po’ ovunque l’opinione che le forze spontanee del capitalismo,
lasciate a sé stesse, fossero causa di instabilità, crisi e conflitti. Questa idea era
ovviamente supportata dall’esperienza recente. Essa inoltre veniva sostenuta dai
sindacati dei lavoratori, che in molti paesi uscirono dalla guerra legittimati e
rafforzati, anche per le battaglie antifasciste che avevano condotto. Infine, non si
poteva trascurare il fatto che tra i vincitori della guerra vi fosse anche l’Unione
Sovietica, lo stato socialista nato dalla rivoluzione russa del 1917. Questa
presenza costituiva una sfida ulteriore per i fautori del capitalismo.
Al termine della guerra le tesi di Keynes trovarono dunque un ambiente propizio
per svilupparsi, sia in ambito accademico che politico. Le politiche economiche
del dopoguerra furono in varie circostanze ispirate dalla critica della ideologia
liberista degli anni precedenti. In particolare, era diffuso il convincimento che
l’intervento statale nell’economia fosse in una certa misura necessario per
rimediare alla instabilità e alla debolezza della domanda tipiche del capitalismo.
In questa fase venne a costituirsi una nuova scuola, detta “sintesi neoclassica”. Tra
i suoi esponenti spiccavano i nomi di John Hicks, Franco Modigliani e Don
Patinkin. Questi economisti proposero una sintesi, per l’appunto, tra le idee di
Keynes e la teoria neoclassica.
Dopo vari passaggi teorici, da questa sintesi emerse negli anni Cinquanta un
nuovo modello, portatore della seguente soluzione di compromesso: 1) il principio
keynesiano della domanda effettiva e il moltiplicatore determinano i livelli della
produzione e della occupazione nel breve periodo; 2) l’equilibrio “naturale” del
mercato del lavoro e la funzione di produzione determinano i livelli della
occupazione e della produzione nel lungo periodo. L’idea di fondo è che le
oscillazioni della domanda possono in effetti provocare cambiamenti continui
nella produzione e nella occupazione ma ciò può avvenire solo nel breve periodo.
Nel lungo periodo le forze del mercato dovrebbero comunque condurre
l’economia al suo equilibrio “naturale” di piena occupazione. Gli interventi di
politica economica dello Stato possono però essere d’aiuto per accelerare la
convergenza del sistema economico verso il suo equilibrio “naturale”.
La cosiddetta Sintesi neoclassica era dunque compiuta. Il problema keynesiano
della domanda effettiva non veniva negato, come facevano i vecchi neoclassici,
ma veniva ridotto a una questione di “breve periodo”. Il primato neoclassico
22
dell’equilibrio “naturale” di piena occupazione veniva comunque ristabilito nel
lungo periodo. La politica economica non era indispensabile, ma poteva aiutare a
raggiungere più rapidamente l’equilibrio naturale.
Il manuale di Macroeconomia di Olivier Blanchard rappresenta la versione
didattica più recente e avanzata della cosiddetta Sintesi neoclassica. La novità
essenziale apportata da Blanchard è che a differenza dei vecchi neoclassici lui non
si riferisce più alla concorrenza perfetta. Per Blanchard gli agenti economici non
sono piccoli e senza potere. Egli infatti ammette che le imprese possano avere un
potere di monopolio, e che i lavoratori si riuniscano in sindacati. Queste
innovazioni rendono senza dubbio la sua analisi più adatta alla realtà dei nostri
giorni. Nella sostanza però i risultati delle sue analisi sono quelle tipiche della
Sintesi. Il rischio di una carenza di domanda effettiva può sussistere ma solo nel
breve periodo. Nel lungo periodo l’economia dovrebbe tornare spontaneamente
all’equilibrio “naturale” di piena occupazione. La politica economica non è
indispensabile ma può forse aiutare a raggiungere più velocemente
quell’equilibrio.
La Sintesi neoclassica, nella versione di Blanchard, rappresenta oggi il nuovo
“mainstream”, la nuova teoria economica dominante.
Tuttavia, come vedremo, c’è chi ritiene che essa sia viziata da una serie di
contraddizioni logiche e che abbia travisato e ridimensionato il pensiero originario
di Keynes.
1.7 Per una critica della teoria economica mainstream
Nello stesso periodo in cui andava sviluppandosi il nuovo mainstream della
Sintesi neoclassica, sorgevano parallelamente dei nuovi filoni di “critica” della
teoria economica dominante.
L’espressione “teoria critica” riecheggia la critica dell’economia politica di
marxiana memoria. Diversi odierni esponenti degli approcci di teoria critica si
propongono infatti di recuperare e di aggiornare l’opera di Marx. Alcuni di essi
puntano inoltre a recuperare i concetti fondamentali della teoria di Keynes,
liberandola dai suoi residui neoclassici. Lo scopo della moderna critica della
teoria economica è quello di attingere dai contributi di Marx, di Keynes e di altri
pensatori eterodossi per costruire una visione teorica antagonista a quella
neoclassica. Il proposito dei critici, dunque, non è quello della “sintesi”, ma è
quello della “alternativa”.
23
Nel corso del Novecento la critica della teoria dominante ha tratto nuova linfa dal
contributo dell’economista italiano Piero Sraffa. Nel suo celebre Produzione di
merci a mezzo di merci del 1960, Sraffa sferrò un nuovo attacco alla teoria
neoclassica, ancor più radicale di quello di Keynes. Sraffa considera infatti la
teoria neoclassica incoerente sul piano logico. La critica sraffiana è complessa, e
non può esser trattata in un corso base di economia. Tuttavia a grandi linee si può
affermare che essa rientra in una serie di critiche che sono state da più parti rivolte
al concetto neoclassico di “capitale”. Proviamo a fornire qualche spunto derivante
da tali critiche. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione disponibili in una
data epoca. Se si vuole calcolare il capitale nel suo complesso allora occorre
prendere in considerazione l’aggregato dei mezzi di produzione. Questi mezzi
però sono eterogenei tra loro e quindi per aggregarli è necessario moltiplicare la
quantità di ogni mezzo di produzione per il rispettivo prezzo, e poi sommare tutti i
valori tra loro. In tal modo si ottiene una misura del capitale “in valore”. Questa
dotazione del capitale può quindi essere impiegata nella teoria neoclassica per
determinare salari e interessi. Ad esempio, dato il capitale, è possibile ottenere la
domanda di lavoro, che può essere quindi intersecata con l’offerta di lavoro per
ottenere il salario reale. Inoltre, noto il capitale, è possibile ricavare
l’investimento, che assieme al risparmio contribuisce a determinare il tasso
d’interesse, e così via. La teoria microeconomica e macroeconomica neoclassica,
come vedremo, procede nella sostanza in base a questa sequenza. Il problema è
che questa sequenza è viziata sul piano logico. In essa, infatti, il salario, il tasso
d’interesse, ecc. sono determinati una volta che sia dato il capitale. Ma noi
abbiamo detto che per conoscere il capitale occorre conoscere i prezzi dei singoli
mezzi di produzione che lo compongono. Ma per conoscere i prezzi bisognerebbe
che i salari e i tassi d’interesse fossero già noti. E’ chiaro allora che la teoria
neoclassica presenta un vizio di circolarità.
Le critiche di Sraffa e di altri alla concezione del capitale investono tutte le
versioni della teoria neoclassica, inclusa quella della Sintesi. Tali critiche sono
state quindi adoperate per contestare anche il nuovo mainstream.
Ma le obiezioni alla Sintesi neoclassica non finiscono qui. Tra i suoi critici vi
furono pure alcuni allievi e amici di Keynes, tra cui Richard Kahn, Joan Robinson
ed altri. Questi giudicarono la Sintesi come una sorta di “tradimento” delle idee
originarie del maestro, e quindi la rifiutarono. Essi proposero una diversa
interpretazione di Keynes, che manteneva il principio della domanda effettiva e il
moltiplicatore, ma che rifiutava il concetto di equilibrio “naturale” e ogni altro
collegamento con la teoria neoclassica
Da queste e da altre critiche, alla Sintesi e più in generale a tutte le moderne
versioni della teoria neoclassica, si sta cercando di edificare una teoria economica
24
alternativa. La grave crisi iniziata nel 2008 ha dato nuovi impulsi in questa
direzione, segnalando la necessità di elaborare una interpretazione del capitalismo
che tenga conto della sua instabilità e delle sue contraddizioni, e che riprenda
quindi i fondamentali insegnamenti di Marx e di Keynes.
25
II
ELEMENTI DI TEORIA
CLASSICA E MARXIANA
2.1 Un esempio del liberismo dei classici: il teorema dei vantaggi comparati
di Ricardo
Supponiamo che il costo di produzione (e quindi anche il prezzo) di ogni merce
corrisponda alle ore di lavoro necessarie a produrre una unità di quella merce.
grano
tessuto
Spagna
3
12
Inghilterra
2
4
ore di lavoro
necessarie a
produrre 1 unità di
merce nei due
paesi
L'Inghilterra gode di un vantaggio assoluto nella produzione di entrambe le merci
e di un vantaggio comparato nella produzione di tessuto.
Stando ai soli vantaggi assoluti sembrerebbe che l'Inghilterra non abbia interesse
ad aprirsi agli scambi internazionali.
Ricardo invece dimostra che sotto date condizioni all'Inghilterra conviene
specializzarsi nella produzione di tessuto e importare grano dalla Spagna.
Suppa base della tabella, definiamo le ragioni di scambio tra le merci all'interno di
ciascun paese nel caso in cui viga autarchia (cioè chiusura agli scambi
internazionali).
26
In Spagna
1T = 4G
in Inghilterra 1T = 2G
Ricardo afferma che condizione sufficiente affinché lo scambio convenga a
entrambi i paesi è che la ragione di scambio internazionale (cioè quella che si
impone al momento della apertura dei due paesi agli scambi) sia compresa tra le
due ragioni di scambio in autarchia.
Dimostriamo:
Supponiamo che la ragione di scambio internazionale sia:
1T = 3G
In tal caso, per ogni esportazione di 1T da parte dell'Inghilterra a fronte di una
esportazione di 3G da parte della Spagna avremo:
Spagna
Inghilterra
Grano
Tessuto
ESPORTA 3G IMPORTA 1T 12-9 = 3ore di
corrispondete a 9 corrispondente a
lavoro
ore di lavoro
12 ore di lavoro guadagnate
IMPORTA 3G ESPORTA 1T 6-4 = 2ore di
corrispondente a corrispondente a
lavoro
6 ore di lavoro
4 ore di lavoro guadagnate
La tabella indica il costo delle merci in base alle tecniche prevalenti all'interno di
ogni nazione.
Si vede che se i due paesi si specializzano e si aprono agli scambi, otterranno
entrambi un guadagno in termini di lavoro “risparmiato”.
Ricardo inoltre dimostra che il guadagno derivante dall'apertura internazionale è
tanto minore quanto più la ragione di scambio internazionale si avvicina a quella
di autarchia.
Esercizio: se la ragione di scambio che si impone a livello internazionale è uguale
a quella dell'Inghilterra in autarchia (cioè 1T = 2G) allora tutto il vantaggio
dell'apertura agli scambi andrà ala Spagna è l'Inghilterra non avrà nulla da
guadagnarci. Dimostriamo
27
Se la ragione di scambio internazionale
dell'Inghilterra in autarchia) allora …...
è 1T = 2G (uguale a quella
Grano
Tessuto
ESPORTA IMPORTA
2G
1T
12-6 = 6ore
Spagna corrispondet corrisponden di lavoro
e a 6 ore di te a 12 ore di guadagnate
lavoro
lavoro
IMPORTA ESPORTA
2G
1T
4-4 = 0ore di
Inghilterra corrisponden corrisponden
lavoro
te a 4 ore di te a 4 ore di guadagnate
lavoro
lavoro
In tal caso guadagna solo la Spagna, l'Inghilterra non ottiene alcun beneficio
dall'apertura.
L'esercizio chiarisce pure perché la condizione sufficiente per lo scambio è che la
ragione internazionale sia compresa tra quelle interne. Il motivo è semplice: se
non lo fosse uno dei due paesi non avrebbe alcun interesse ad aprirsi allo scambio
internazionale.
Ricardo dunque dimostra la sua tesi liberista e liberoscambista: in generale ai
paesi conviene aprirsi agli scambi internazionali e specializzarsi nella produzione
in cui godono di un vantaggio comparato.
Resta tuttavia aperto un problema:
Il teorema dei vantaggi comparati dimostra che l'apertura internazionale conviene
poiché implica un guadagno in termini di “lavoro risparmiato”.
Ora, in generale questo “risparmio” di lavoro è un indice di maggiore efficienza,
senza dubbio.
Tuttavia, quanto è realmente importante il risparmio di lavoro quando c'è
disoccupazione?
Quando un paese e afflitto dalla crisi e dalla disoccupazione il problema
principale diventa impiegare e non certo risparmiare lavoro.
È chiaro allora che il teorema dei vantaggi comparati ha senso solo se si assume
che non vi siano problemi di disoccupazione.
28
Se questi problemi vi sono allora non è detto che la soluzione del liberoscambio e
dell'apertura internazionale sia quella preferibile.
2.2 La condizione di riproducibilità del sistema economico nei classici e in
Marx
Sappiamo che i classici e soprattutto Marx si sono interrogati sulle condizioni di
riproducibilità (detta anche “vitalità”) del sistema economico, cioè sulle
condizioni della sua esistenza.
Attraverso una serie di esempi vediamo in che modo essi esaminavano questo
problema.
Consideriamo per semplicità una economia che produce come output grano (G) e
ferro (F) utilizzando come input il grano e il ferro medesimi.
È bene precisare che tra gli input di grano e di ferro necessari alla produzione
rientrano anche le quantità necessarie al sostentamento dei lavoratori impegnati
nel processo produttivo. Ciò significa, per esempio, che l'input di grano
comprende sia il grano impiegato nella semina dei terreni sia il grano consumato
dai lavoratori impiegati.
Riguardo al ferro, possiamo suggerire che si tratti del ferro contenuto negli
attrezzi necessari alla produzione (vanghe, picconi, trattori, ecc.)
Consideriamo una economia in cui le tecniche di produzione stabiliscono la
seguente relazione tra input e output:
280 G  12 F → 400 G
120 G 8 F → 20 F
Date le tecniche disponibili, il settore del grano è in grado di produrre un output di
400 unità di grano impiegando come input 280 unità di grano e 12 unità di ferro.
Il settore del ferro produce un output di 20 unità di ferro usando come input 120
unità di grano e 8 unità di ferro.
È facile verificare che questa è una economia di pura sussistenza. Infatti se
sommiamo le colonne otteniamo il totale del grano usato come input
(280+120=400) e il totale del ferro usato come input (12+8=20) all'interno dei
entrambi i settori. Si vede chiaramente che gli output di grano (400) e ferro (20)
29
riescono appena a coprire gli input necessari a ripetere la produzione di periodo
in periodo.
Dunque l'economia di sussistenza è appena in grado di riprodursi. Essa cioè non è
in grado di generare un “surplus” (cioè una “eccedenza”, un “residuo”) al di là
dello stretto necessario per la riproduzione.
Domanda: può mai esistere una economia di mera sussistenza in un regime
capitalistico? Ovviamente no. Una economia capitalistica può riprodursi solo se
oltre alla stretta sussistenza genera un surplus, un eccedenza, un residuo che serva
a remunerare il profitto dei capitalisti. Se l'economia non è in grado di generare un
surplus che remuneri il profitto, il meccanismo capitalistico si inceppa.
Come si può generare un surplus? In vari modi: apportando innovazioni tecniche
che aumentano l'output a parità di input; oppure aumentando lo sforzo produttivo
dei lavoratori, il che pure aumenta l'output a parità di input; oppure ancora
riducendo l'input attraverso una riduzione dei salari, ecc.
Per esempio:
280 G  12 F → 500 G
120 G 8 F → 30 F
____
____
400 G 20 F
(L'aumento dell'output a parità di input può esser dovuto a innovazioni
tecnologiche o all'aumento degli sforzi produttivi richiesti ai lavoratori)
Si vede chiaramente che questa è una economia che genera un surplus. Infatti
l'input totale di grano è 400 ma l'output ora è 500; l'input totale di ferro è 20 ma
l'output ora è 30.
Il surplus di 100 G e 10 F consentirà di remunerare i profitti dei capitalisti, i quali
potranno poi decidere di consumare questa eccedenza oppure reinvestirla per
aumentare la scala di produzione.
Esercizio:
partendo dalla economia di sussistenza mostra in che modo si può generare un
surplus intervenendo sugli input anziché sugli output (ad esempio tramite una
riduzione della parte di input che va ai lavoratori sotto forma di salari).
30
Questi esempi chiariscono pure gli elementi di conflitto sociale insiti nella
concezione del profitto come surplus (o residuo) tipica degli economisti classici e
di Marx.
Gli esempi infatti evidenziano che il surplus può essere generato a scapito dei
lavoratori, o a seguito di una intensificazione dei loro sforzi oppure a seguito di
una riduzione degli input slariali.
Al tempo stesso, il surplus è indispensabile alla sopravvivenza di una economia
capitalistica, che è in grado di riprodursi solo se viene soddisfatto il movente del
profitto dei capitalisti.
Proviamo a riformulare tutto in termini di coefficienti di produzione.
Se dividiamo gli input e gli output otteniamo:
280
12
500
G 
F → 
G
500
500
500
120
8
30
G 
F→ 
F
30
30
30
da cui:
0,56 G 
0,024 F →
 1G

0,26 F →
 1F
4G
I coefficienti ci dicono che per ottenere 1 unità di grano occorrono 0,56 unità di
grano e 0,024 unità di ferro, e per ottenere 1 unità di ferro occorrono 4 unità di
grano e 0,26 unità di ferro.
Generalizziamo:
Definiamo
aij
il coefficiente di produzione che ci dice quante unità di i
servono per produrre una unità di j
per esempio:
280
= 0,56 = aGG
500
che ci dice quante unità di grano (G) occorrono per
31
produrre 1 unità di grano (G)
12
= 0,024 = aFG
500
che ci dice quante unità di ferro (F) occorrono per
produrre 1 unità di grano (G)
a questo punto, utilizzando i coefficienti di produzione, possiamo dare una
rappresentazione generale della condizione di riproducibilità (o vitalità) del
sistema economico.
Una economia rispetta la condizione di riproducibilità (o vitalità) se è in grado
almeno di riprodurre se stessa, cioè se gli output sono almeno in grado di coprire
gli input.
Possiamo dunque affermare che una economia è riproducibile se esistono dei
livelli di output di grano (YG) e di ferro (YF) tali che:
1)
2)
YG  YG aGG + YF aGF
YF  YG aFG + YF aFF
La prima condizione ci dice che la quantità di grano output YG deve essere
maggiore o al limite uguale alla quantità di grano necessaria a produrre 1 unità di
grano (aGG) moltiplicata per l'output totale di grano YG, più la quantità di grano
necessaria a produrre 1 unità di ferro (aGF) moltiplicata per l'output totale di ferro
(YF).
Discorso analogo vale per la seconda condizione.
Effettuiamo alcuni semplici passaggi:
1) YG (1-aGG)  YF aGF
2) YF (1-aFF)  YG aFG
da cui:
1)
aGF
YG

YF 1  aGG
2)
1  a FF YG

a FG
YF
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quindi occorre che:
aGF
1  a FF

a FG
1  a GG
ossia:
(1-aGG)(1-aFF)  aGF · aFG
che è la condizione di riproducibilità ( o di vitalità) del sistema.
Se la condizione è rispettata col segno di uguaglianza (=) allora siamo di fronte a
una economia di mera sussistenza.
Se la condizione è rispettata col segno maggiore (>) allora siamo di fronte a una
economia che genera surplus (e che dunque, potendo remunerare un profitto, può
essere una economia capitalistica).
Esercizio:
calcola i coefficienti di produzione della economia di sussistenza esaminata in
precedenza e verifica che essi rispettano la condizione di riproducibilità con
vincolo di stretta uguaglianza.
Esercizio:
descrivi una economia che non è nemmeno di sussistenza e che quindi non è in
grado di riprodursi.
La condizione di riproducibilità del sistema evidenza gli elementi di antagonismo
tra le classi sociali.
Basti pensare che un modo per rispettarla (cioè per garantire l'esistenza di un
surplus che remuneri il profitto) è di riprodurre i coefficienti di produzione, per
esempio intensificando gli sforzi dei lavoratori oppure riducendo i salari. (ricorda
che la riduzione dei coefficienti indica che il rapporto tra input e output si riduce;
l'interpretazione degli sforzi aumenta l'output a parità di input, la riduzione dei
salari riduce l'input a parità di output).
Marx inoltre riteneva che la condizione di riproducibilità non fosse sufficiente ad
assicurare la sopravvivenza del capitalismo, nemmeno se fosse stata rispettata con
segno “>”.
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Infatti, se esiste un problema di sbocchi per la produzione, c'è il rischio che il
sistema si inceppi anche se risulta vitale sul piano tecnico. Questo problema sarà
poi sviluppato da Keynes con il “principio della domanda effettiva”.
Ma soprattutto il problema della riproducibilità del sistema verte sulla capacità o
meno del capitale di autoriprodursi.
Ricordiamo che il capitalista per esser tale deve anticipare un capitale monetario,
di solito ottenuto in prestito da una banca. Per esempio, le imprese che producono
grano avranno bisogno di un capitale monetario per iniziare la produzione, pari a:
PGYG aGG + PFYG aFG
capitale anticipato
Esse si impegnano quindi a rimborsare questo capitale alla banca più gli interessi
i:
(PGYG aGG + PFYG aFG )(1+i)
rimborso dovuto alla banca
Affinché l'impresa sia riproducibile occorre dunque che il valore del prodotto
lordo
PG·YG
sia maggiore o al limite uguale al rimborso dovuto!
PG·YG (PGYG aGG + PFYG aFG )(1+i)
Questa è la condizione di riproducibilità capitalistica.