Giovanni Carsaniga 124 AI MARGINI DELLA `PALINODIA

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Giovanni Carsaniga
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AI MARGINI DELLA 'PALINODIA.'
SCIENZA, TECNOLOGIA E NATURA IN LEOPARDI
Il 21 novembre 1835 Gino Capponi scrisse a Leopardi professandogli
sincera gratitudine per avergli intitolato dei "nobili versi." Meglio nota
è la lettera indirizzata negli stessi giorni al Tommaseo dove il "candido
Gino" così si esprimeva: "Il Leopardi m'ha scaricato addosso certi suoi
sciolti, dove gentilmente mi cogliona come credente a' giornali, a' baffi,
a' sigari, alla sapienza e alla beatitudine del secolo. E poi prova al
solito, come quattro e quattr'otto, che la natura ci attanaglia e chi l'ha
fatta è un boia." "Il marchese," commenta Paolo Ruffilli, "[...] non
apprezzò la dedica; ma dimostrò, proprio per questo, di aver capito la
'Palinodia.' E fu uno dei pochi. Da allora ad oggi, questa canzone è
stata ignorata, rimossa, sottovalutata da generazioni di critici." Ruffilli
ha ragione di lamentare il disinteresse della critica, e di mettere in
rilievo, insieme a Vanni Pierini, la continuità d'ispirazione che lega la
"Palinodia" alle "Operette morali" e alla "Ginestra," e il suo
valore filosofico; purché questo termine sia inteso nel senso che
aveva appunto ai tempi di Leopardi, includendovi la scienza. La
"Palinodia" può così offrirci lo spunto per approfondire la
cultura scientifica di Leopardi, assai sottovalutata dalla critica che
pure avrebbe dovuto essere messa sull'avviso dall'offerta della
cattedra di storia naturale all'università di Parma che il poeta
ricevette nel gennaio del 1829, tramite l'avvocato e poeta
dilettante Ferdinando Maestri. La proposta di affidare a Leopardi un
insegnamento di storia naturale partiva da uno scienziato insigne come
Giacomo Antonio Tommasini, e il poeta prese l'idea in seria
considerazione. Se da un lato nella sua risposta al Maestri, si confessava
"proprio un asino" in quella materia, dall'altra si dichiarava disposto a
studiarla, chiedeva al suo corrispondente precisi particolari
sull'organizzazione, e asseriva la sua buona disposizione nei confronti
dell'offerta.
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Il Vieusseux, che aveva pubblicato nell'Antologia tre delle Operette
morali, e avrebbe voluto assicurarsi Leopardi nel 1826 come
collaboratore d'indirizzo sociologico, aveva cominciato col chiedergli
due anni prima delle corrispondenze non solo letterarie ma anche
scientifiche; offerta che il poeta aveva declinato non tanto per
incompetenza quanto a motivo del suo isolamento fisico e intellettuale.
Nel dicembre del 1831 Vieusseux lo pregò di suggerirgli collaboratori
nel campo della scienze. Leopardi fece i nomi di Domenico Morichini;
di Vincenzo Valorani, professore di medicina pratica all'università di
Bologna; di Michele Medici, professore di fisiologia nella stessa
università, e studioso della vita culturale di quella città; del conte
Domenico Paoli, autore di un sostanzioso volume di Ricerche sul moto
molecolare dei solidi; di un altro pesarese, il Marchese Petrucci,
"buono scienziato," e di un non meglio identificato professore di fisica
di Ravenna; nonché del caro amico Francesco Puccinotti che merita un
discorso a parte, sia per la sua collaborazione scientifica col Leopardi
che per certi echi del pensiero leopardiano rintracciabili nelle sue opere.
Ma Puccinotti era già consapevole del valore del recanatese se in un
discorso Della sapienza di Ippocrate, letto all'Accademia dei Lincei in
Roma nel 1819 e stampato poi in Roma dal Salviucci l'anno successivo,
lo definiva "uno de' maggiori poeti e de' più profondi e sinceri
pensatori che vanti oggi l'Italia."
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Prescelto nel febbraio 1825 fra ventisei concorrenti a coprire la condotta
medica di Recanati, Puccinotti fu subito chiamato da Monaldo
Leopardi, a letto con una non grave bronchite, e rinnovò l'amicizia col
figlio. Ebbe numerose conversazioni con Giacomo tra l'aprile e il luglio
del 1825, di particolare interesse perché Leopardi a quel tempo stava
rivedendo le sue Operette morali. Lasciata Recanati nel gennaio del
1826 continuò per tre anni a corrispondere col poeta a cui lo legavano
una notevole comunanza di interessi scientifici, artistici e filosofici. Già
fin dal 1819 Puccinotti aveva proclamato in una sua comunicazione ai
Lincei la necessità che il medico assecondi la "Natura medicatrice"
secondo l'originale spirito ippocratico; principio da lui più tardi
sviluppato nel resto delle sue opere e non discordante dal monito
leopardiano del ritorno alla natura. Le sue carte rivelano un'insolita
ampiezza di interessi culturali, non solo nel campo della medicina (dove
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accenna alla medicina cinese e all'agopuntura) ma anche in quello della
linguistica e dialettologia, della filosofia e della letteratura, uniti a una
salda preparazione filologica che gli permetteva di accedere direttamente
ai codici e svolgere ricerche di archivio (spesso con l'aiuto di
corrispondenti e trascrittori) per la sua Storia della Medicina. Il
principio della "speculazione dei rapporti" (esaminato più oltre in questo
studio) e di una natura in cui tout se tient si ritrova in una delle
affermazioni iniziali della Patologia induttiva del Puccinotti secondo cui
la vita è un perenne movimento, un perenne avvicendarsi di forme,
mantenute in armonia da una serie infinita di combinazioni e
corrispondenze: "L'Ente supremo ha legato si strettamente tutte le parti
della sua grande opera che niuna v'è che non abbia relazioni con tutto
il sistema. [...] Nulla vi ha dunque d'isolato."
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Avvicinatosi ai metodi analitici del Bufalini col quale fu in
rapporto, Puccinotti sviluppò crescente interesse per quei rami della sua
scienza che oggi si direbbero medicina preventiva e medicina sociale.
Riteneva che gli esseri umani fossero i più cagionevoli degli animali, e
che la civiltà meccanica fosse causa di malattie, come il Leopardi della
"Palinodia" che addita la facilità delle comunicazioni come veicolo di
epidemie (v. 44). Altre idee del Puccinotti suonano simili a quelle di
Leopardi, come la distinzione fra educazione (sviluppo di "assuetudini"
morali e fisiche) e istruzione (sviluppo di facoltà puramente
intellettuali), la stretta corrispondenza fra debolezza fisica e mancanza
di vigoria emotiva e sentimentale, la letteratura moderna caratterizzata
da "fecondità di mente" (nel senso di artificiale stranezza di argomenti)
e "mollizie e volubilità di sentimenti," la necessità che la filosofia
discenda "dalle sue alture metafisiche alla pratica sociale," l'istituzione
di previdenze di igiene sociale a beneficio della classe lavoratrice.
Come già Leopardi, anche Puccinotti mostrava notevole diffidenza per
il concetto di progresso corrente ai suoi tempi: un brano della Storia
della Medicina sembra quasi un riecheggiamento della visione
pessimistica dei mass media nella "Palinodia":
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Che direbbe il Redi affacciandosi per un istante al mondo d'oggi se
voltasse gli occhi a qualcuno di que' milioni di giornali dove non si
parla d'altro che di lumi di verità, di progressi soprattutto in ogni
umana scienza naturale e civile, e che ciascuno ci regala in fine una
caterva di ricette e di rimedj tutti più ο meno dati per sicuri contro le
più gravi e ribelli infermità? [...] che ad altro fine non si spacciano
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che per profittare di quel genere di ignoranza e dabbenaggine, che è
il parasito vivente il più funesto della vivente nostra civilizzazione.
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Puccinotti era religioso, e questa sua religiosità sembra accentuarsi nella
sua opera col passar degli anni: un sentimento aperto e alieno dal
settarismo che s'illudeva di riconoscere un afflato inconsapevole di
religiosità perfino nel Leopardi. Pur disposto, in quanto medico, a
vedere la vita come un fatto essenzialmente corporale per cui è un
errore vivere coll'anima quando bisogna vivere col corpo, e pronto a
censurare l'idealismo col quale la cultura borghese cercava di temperare
il positivismo imperante nella seconda metà dell'Ottocento, Puccinotti
era alieno dalle posizioni materialistiche dell'amico, come dimostra il
suo rifiuto di ammettere una materia pensante, cosa invece teorizzata
apertamente dal Leopardi. E forse il distacco tra i due coincise con il
progressivo spostarsi di Leopardi su posizioni più chiaramente
materialistiche.
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L'abbondanza di medici nella rosa di collaboratori proposta al
Vieusseux va spiegata non solo con l'amicizia del Tommasini e con le
altre frequentazioni del valetudinario poeta, sempre in cerca di chi
potesse lenire le sue misteriose e recalcitranti infermità, ma anche con
la particolare posizione culturale dei medici dell'epoca, a mezza strada
fra le scienze fisiche e quelle morali, e tradizionalmente inclinati alle
belle lettere. Ciò li rendeva particolarmente adatti al programma
editoriale dell'Antologia, anche se Vieusseux rifiutava di pubblicare
articoli di materia specificamente medica. Con questo programma
Leopardi non era molto d'accordo. Riteneva "che un giornale italiano
dovesse piuttosto insegnare quello che debba farsi che annunziare quel
che si fa" e non condivideva il dichiarato entusiasmo dell'Antologia
per le scienze, fossero esse morali, economiche e politiche, oppure
naturali e matematiche.
In questo si distaccava chiaramente
dall'ambiente politico-culturale di Gino Capponi.
Diversi brani delle lettere e dello Zibaldone e la "Palinodia" sono
stati usati come pretesto per presentare un Leopardi antiscientifico:
operazione ideologicamente simile alla confezione di un Leopardi
reazionario, incapace d'intendere il progresso, attardato in un
illuminismo settecentesco, chiuso nella sua poetica idillica. In realtà il
Leopardi non era né contro le scienze né contro il progresso
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tecnologico. Dal chiarimento (in una nota pagina della Zibaldone che
egli significativamente schedò nel suo indice sotto la voce Felicità)
dell'apparente contraddizione nel suo sistema filosofico fra l'amore per
la vita e le lodi dell'inazione come dello stato meno infelice, Leopardi
deduceva che il suo sistema, "invece di esser contrario all'attività, allo
spirito di energia che ora domina una gran parte d'Europa, agli sforzi
diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e
gli uomini sempre più attivi e più occupati, gli è anzi direttamente e
fondamentalmente favorevole" (Zibaldone 4186-87). Come aveva
spiegato fin dal 1818, Leopardi era contro la mistificazione ideologica
dell'idea di progresso e contro una concezione del progresso come di
un valore intrinseco, funzione del tempo, per cui "dopo"
necessariamente significhi "meglio" (Zibaldone 4171-72); ma non era
affatto contro l'avanzamento delle scienze, ivi compresi gli aspetti più
spiccatamente tecnologici per cui dimostrò sempre un vivo interesse.
Era al corrente degli studi di storia naturale da Anton van
Leeuwenhoek a Buffon; delle ultime osservazioni astronomiche di
Gruithuisen, Schröter e Herschel; delle moderne teorie geologiche
sull'evoluzione nel tempo della morfologia terrestre; per non parlare,
naturalmente, della massa di cognizioni scientifiche accumulate nella
giovanile Storia dell'Astronomia. Nelle Operette si trova menzione
della pentola a pressione, degli automi, dei parafulmini. Nella
"Palinodia" si accenna estesamente non solo alle conquiste tecnologiche
dell'industrializzazione ma anche, con rara lungimiranza, alle sue
conseguenze politico-economiche, come il colonialismo e le guerre
commerciali.
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Il mero possesso di una cultura scientifica non era cosa insolita in un
poeta. Nel secolo diciottesimo molti poeti didascalici avevano
verseggiato le ultime scoperte scientifiche. In tempi più vicini al
Leopardi, Roberti, Parini, Monti e Arici (per non parlare che di poeti
studiati e citati dal Recanatese) avevano anch'essi pagato lo scotto alla
tradizione didascalico-scientifica. Dal canto loro molti scienziati, privi
ancora di una lingua scientifica comune ma forniti di una letteraria,
esprimevano le loro teorie in versi latini e italiani. Tale è il caso di
Ruder Josip Boscovic, non solo uno dei più notevoli scienziati del
Settecento la cui influenza si fece sentire fino al primo decennio di
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questo secolo ma anche membro dell'Arcadia apprezzato e lodato dal
Metastasio, che dedicò alla Royal Society nel 1761 un ponderoso poema
latino, De Solis ac Lunae defectibus a cui aveva lavorato sin dal 1735.
L'estetica del tempo concepiva la relazione tra contenuti scientifici e
forme poetiche come una relazione meramente esteriore, in cui l'arte
attingeva valori educativi e morali indossando vesti dilettevoli. Così per
Monti e i classicisti il "nudo arido vero che dei vati è tomba," Γ "aspra
verità" delle scienze dovevano esser velati da lusinghieri adombramenti
e temperati da fantasie mitologiche, come per gli architetti delle prime
stazioni ferroviarie le sataniche vaporiere dovevano nascondersi dietro
facciate rassomiglianti a templi greci. I romantici arrivarono a rifiutare
la classicità mitologica, ma non molto più in là; come i primi
fabbricanti di macchine da cucire, i cui modelli ornamentali non furono
evidentemente i templi greci ma le cattedrali gotiche. Nessuno si era
ancora posto seriamente il problema di come, ο perché, occuparsi delle
scienze, della tecnologia e del progresso; né di quale forma poetica
fosse richiesta dai nuovi contenuti. La differenza fondamentale tra
Leopardi e i letterati del suo tempo, sia classici che romantici, è che il
Recanatese rifiutava la poesia della scienza e della tecnologia:
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Ond'io, degli astri desioso, al canto
Del secolo i bisogni omai non penso
Materia far; che a quello, ognor crescendo,
Provveggono i mercati e le officine
Già largamente [...] ("Palinodia," 251-5)
ed elaborava una scienza della poesia, un "sistema" ossia una
metodologia intellettuale in cui scienza e poesia fossero non più in
relazione esteriore ma in rapporto organico.
Ricordiamo l'esame approfondito fatto dal Leopardi dei rapporti fra
poesia e "filosofia," termine che ai suoi tempi comprendeva ciò che
oggi si direbbe scienza. Poesia e filosofia sono distinte e antitetiche
per Leopardi quando per "filosofia" s'intenda l'arida logica del R. P.
Odoardo del Giudice ο l'ancilla theologiae del R. P. François Jacquier
su cui si era esercitata la sua mente da fanciullo e da cui aveva cercato
rifugio nell'erudizione letteraria; oppure razionalismo meccanico,
soppressione delle emozioni, sterile speculazione incapace di
promuovere mutamenti sociali e mero esprit géométrique (Zibaldone,
48, 111, 116, 160-61). Ma poesia e filosofia si sorreggono a vicenda
quando quest'ultima si trasformi in "una, per così dire ultrafilosofia, che
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conoscendo l'intiero e l'intimo delle cose, ci ravvicini alla natura. E
questo dovrebbe essere il frutto dei lumi straordinari dei questo secolo"
(Zibaldone, 115). La cosiddetta "conversione" di Leopardi alla filosofia
(Zibaldone, 1742) coincise all'inizio nel 1819 con la sua prima grande
stagione di poesia perché questa ultrafilosofia era in ultima analisi
un'epistemologia che non negava bensì promuoveva la poesia. Poesia
e filosofia si completano l'una con l'altra quando la filosofia, attraverso
una dettagliata analisi dei rapporti fra le idee e le cose, serva a stimolare
e a liberare le nostre emozioni e la nostra immaginazione (Zibaldone,
114-15, 947-8, 1360, 1383, 1833-40, 3237-45, 3382-86). Le facoltà del
grande poeta sono
tutte contenute e derivanti dalla facoltà di scoprire i rapporti delle
cose, anche i menomi e i più lontani, anche delle cose che paiono le
meno analoghe ec. Or questo è tutto il filosofo; facoltà di scoprire e
conoscere i rapporti, di legare insieme i particolari, e di
generalizzare.
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Si ha qui un'importante criterio stilistico per l'esame della
"Palinodia," che più degli altri canti leopardiani contiene accostamenti
e legami concettuali folgoranti e imprevedibili, callidae juncturae in
quantità, mescolanze lessicali tra forme auliche e vocaboli della lingua
comune non certo dovute, come nei poeti del secondo ottocento,
all'incapacità di dominare una materia lessicale in evoluzione, ma a
grande sapienza satirica.
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In questa riconciliazione tra filosofia-scienza e poesia Leopardi fu
ispirato da Madame de Stael, che, discutendo la filosofia tedesca del
tempo, aveva affermato in alcune pagine di De l'Allemagne, la necessità
di une philosophie plus étendue per prendere in esame i rapporti fra le
cose (e non solo fra i dati dell'esperienza, ma anche tra il razionale e
l'irrazionale); cioè di un'"ultrafilosofia" su cui fondare una metodologia
filosofico-scientifica unitaria. Dopo aver lodato gli antichi scienziati che
si servivano della ragione, su cui riposa l'intelligenza umana, ma
consultavano anche l'immaginazione, sacerdotessa della natura, la
scrittrice così continuava:
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Ce que nous appelons des erreurs et des superstitions tenoit peut-être
à des lois de l'univers qui nous sont encore inconnues. [...] Il ne
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s'ensuit pas assurément qu'il faille renoncer à la méthode
expérimentale, si nécessaire dans les sciences. Mais pourquoi ne
donneroit-on pas pour guide suprème à cette méthode une philosophie
plus étendue, qui embrasseroit l'univers dans son ensemble, et ne
mépriseroit pas le coté nocturne de la nature en attendant qu'on
puisse y répandre de la clarté? [...] Les poètes pourroient trouver dans
les sciences une foule de pensées à leur usage, si elles
communiquoient entre elles par la philosophie de l'univers, et si cette
philosophie de l'univers, au lieu d'être abstraite, étoit animée par
l'inépuisable source du sentiment. L'univers rassemble plus à un
poème qu'à une machine; et s'il falloit choisir, pour le concevoir, de
l'imagination ou de l'esprit mathématique, l'imagination approcheroit
davantage de la vérité. Mais, encore une fois il ne faut pas choisir,
puisque c'est la totalité de notre être moral qui doit être employée
dans une si importante méditation.
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Queste pagine permetteranno al Leopardi non solo di consolidare
la sua metodologia filosofico-poetica come una "speculazione dei
rapporti" (Zibaldone, 947) ma anche di recuperare alla poesia tutto
l'ingente
materiale scientifico-erudito del Saggio sopra gli errori
popolari degli antichi che, secondo l'abortito progetto di rifacimento del
1817, doveva trattare, dopo gli errori in materia spirituale, degli errori
in materia di astronomia, geografia e storia naturale.
La riconciliazione leopardiana di filosofia e poesia fu influenzata
non solo da M.me de Stael, ma anche dalle opere di Francesco Maria
Zanotti e della cerchia di dotti e letterati, riuniti attorno all'Istituto e
Accademia di Scienze e Arti liberali fondato a Bologna dal conte Luigi
Ferdinando Marsigli nel 1711 ("a Bologna, nei primi decenni del secolo
XVIII, i maestri più autorevoli di letteratura erano al tempo stesso
scienziati insigni"). L'istituto aveva assorbito l'Accademia degli
Inquieti che radunava gli amici e i discepoli di Eustachio Manfredi,
compreso Francesco Algarotti, discepolo anche dello Zanotti, che
pubblicò le sue prime memorie scientifico-letterarie negli annali
dell'Istituto. Tra i suoi membri si contano anche i padri Boscovic e
Jacquier, il padre Roberti, che a Bologna insegnò e predicò con grande
successo fra il 1751 e il 1773; e (tra gli epigoni che fecero da ponte tra
la Bologna del XVIII secolo e quella più moderna dei Tommasini, degli
Orioli, dei Medici e dei Valorani direttamente nota al Leopardi) Luigi
Caccianemici Palcani, discepolo dello Zanotti, suo biografo e curatore
dell'edizione delle sue opere. Lo studio dell'assorbimento da parte del
Leopardi di questa cultura bolognese è ricco d'interesse. Dall'Algarotti
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Leopardi raccoglie numerosi spunti linguistici e stilistici (poi sviluppati
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nello Zibaldone) sulla struttura e sullo sviluppo della lingua francese,
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sull'uso di immagini poetiche da parte degli scrittori di scienze, sulla
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provvidenza della natura (ma una provvidenza esente da cause finali),
e su un caso particolare del rapporto-distinzione tra filosofia-scienza e
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poesia. Alla poesia del Roberti, studiata sin da fanciullo, Leopardi
sembra preferire la prosa, che cita largamente nella Crestomazia: al
brano tratto dalle Annotazioni sopra la umanità del secolo decimo
ottavo risale l'idea leopardiana che l'amore universale sia la teoria del
non far bene a nessuno in particolare (Zibaldone, 885; v. anche 151,
457, 1710): idea che ricompare nella Palinodia ai vv. 40 e 197-207. La
scelta antologica delle poesie del Manfredi (che Leopardi celebra
citando lungamente l'elogio scritto da Giampietro Zanotti) sottolinea
l'opinione leopardiana (condivisa dal Giordani) che la classe nobile
abbia una particolare responsabilità culturale e morale; e la sua
avversione per la religione nel suo aspetto di repressione e
mortificazione della vita. Con una citazione del Palcani Leopardi
ricorda al tempo stesso la nobile figura di Luigi Ferdinando Marsigli,
fondatore del benemerito Istituto bolognese: il circolo così si chiude.
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Ma le rispondenze più significative, come dicevamo, sono quelle
che si notano fra gli scritti del Leopardi e quelli di Francesco Maria
Zanotti. Anche lo Zanotti dovette attraversare un periodo in cui poesia
e filosofia gli parvero irreconciliabili, ma più per motivi moralistici che
filosofici. In una delle sue composizioni volgari dedicata al conte
Alamanno Isolani scriveva:
Perché versi non fo? Perché mi spazio
Sol di Filosofia ne i campi uberrimi,
E frutti cerco sol di Sapienzia!
[...] Perché la Santa Arte Poetica
Che già fu di virtù mantice e stimolo,
Or par che fatta sia sprone del vizio.
Chi è che oggi ascenda all'Eliconio
Monte, e si beva dell'acqua di Pegaso
E versi canti, puri, come i veteri,
Che l'adulazione non corrompagli?
[...]
Io vi dico, Signor, che più non faccio
Versi, né son Poeta, ma Filosofo,
Perché di dire il vero solo piacemi,
Né Poesia con Verità s'accoppia.
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Eppure dovette trattarsi di atteggiamento non duraturo, se il conte
Gregorio Casali, discepolo dello Zanotti e curatore dell'edizione, poteva
ribadire più volte, nella prefazione indirizzata al Roberti, il concetto
della "dolce concordia" e dello "stretto vincolo" che congiunge Filosofia
e Poesia.
In questa prefazione compare, in un riferimento alle teorie
zanottiane esposte nel secondo libro del dialogo Della forza dei corpi
che chiamano viva, l'idea della filosofia come speculazione di rapporti,
in termini assai simili a quelli della leopardiana "ultrafilosofia" e alla
nota di Zibaldone 947: "[...] così ne mostra egli la Filosofia
comprendere non pure le cose tutte ma insieme le relazioni per le quali
ed il nostro animo vuole appartenere alle cose ed intende che a lui esse
appartengono."
Difatti lo Zanotti, nella sua "descrizione del filosofo perfettissimo"
auspicava che il suo filosofo fosse un esperto di logica, metafisica,
morale, scienza economica e politica, giurisprudenza, fisica, chimica,
medicina, storia naturale, geometria, algebra (queste due scienze
"amicissime della metafisica da cui credono esser nate," idea sviluppata
poi da Leopardi nello Zibaldone sulla scorta di un passo di
D'Alembert), meccanica, ottica e astronomia. Non si trattava tanto di
una concreta proposta pedagogica, e nemmeno di un velato autoritratto
(nonostante che tale fosse la reputazione dello Zanotti presso i
contemporanei); quanto della rappresentazione di un ideale illuministico
di cultura in cui confluivano la tradizione universalistica rinascimentale,
il newtonianismo cristiano (che presentava l'universo come un sistema
di rapporti regolato dalla mano divina) e l'enciclopedismo del Cours
d'instruction del Condillac (con la sua insistenza sulla sistematica
istituzione di rapporti fra le idee come metodo di conoscenza). In
questo senso la conciliazione tra filosofia e poesia offerta dallo Zanotti
era preferibile a quella dei preromantici tedeschi trattati da M.me de
Staël. Oltre che di tutte le cognizioni scientifiche a cui abbiamo
accennato, lo Zanotti voleva dotare il suo filosofo anche di sapienza
psicologica, vista in modo classicistico sotto la specie di eloquenza, cioè
"come e per quai mezzi si lusinghino gli animi umani, si eccitino e si
movano. E per quest'istessa ragione," soggiungeva, "niente mi
maraviglierei se quel perfettissimo filosofo che noi andiamo ora
immaginando, volesse essere anche poeta [...] un dottissimo poeta." La
poesia del filosofo zanottiano si nutre quindi di psicologia e di
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conoscenza della natura umana. La speculazione dei dotti tedeschi,
invece, sembrava al Leopardi (sulla scorta di informazioni di seconda
mano) completamente separata dagli uomini e dalle cose, per cui essi
finivano con lo scrivere "poemi della ragione": "[...] laddove l'altre
nazioni oramai tutte filosofano anche poetando, i tedeschi poetano
filosofando" (Zibaldone 2616-18). Nella concezione zanottiana, la poesia
era posta sullo stesso livello di tutte le altre scienze quale complemento
della perfezione del filosofo ideale; in quella che Leopardi attribuiva ai
tedeschi, rifiutandola, la poesia non era altro che sogno, evasione dalla
realtà degli uomini e delle cose. Ad una filosofia che finiva per rivelarsi
priva di "vere e sode" qualità speculative e decadeva quindi a "poesia"
(nel senso deteriore della parola), preferiva una letteratura e una poesia
che si rivelassero filosofiche, cioè ricche di "verità solide" sulla natura
umana, che è l'unico degno oggetto della poesia (Zibaldone, 1828,
1847-48).
Dello Zanotti il Leopardi doveva apprezzare anche le idee,
classicisticamente equilibrate ma assai aperte verso il futuro, riguardanti
il rapporto tra antichi e moderni e la nozione di progresso. Sembra di
scorgere nelle sue parole un presagio del criterio popperiano di
falsificabilità della scienza: "Il pretendere che ciò che si dice non debba
poter essere falso è pretensione superba, e conveniente piuttosto a un
dio che a un filosofo." Al contrario, il filosofo deve essere
"ardimentoso", "e tramandare ai secoli avvenire i suoi dubbi, e le sue
ragionevoli suspizioni: benché in questo corra pericolo che sieno una
volta conosciute false e rigettate." Il concetto che buona parte della
scienza di oggi procede dalla necessaria falsificazione di quella di ieri,
e che quella di domani procederà dalla falsificazione di quella di oggi,
dà allo Zanotti un senso spiccato della storicità della scienza, e
dell'inserimento della speculazione presente in un continuum tra passato
e futuro, per cui il sapiente odierno è collaboratore sia di quelli che
l'hanno preceduto che di quelli che lo seguiranno, "come se fosser tutti
una comunità sola, e formassero, per cosi dire, una sola accademia."
Ne nasce una matura visione del rapporto tra antichi e moderni in cui
la predilezione classicistica per gli antichi, comune allo Zanotti ed al
Leopardi, si giustifica perché gli antichi erano i moderni dell'età loro,
e come tali avevano una cultura assai più aderente al proprio stato in
natura e alla propria realtà sociale di quella dei contemporanei; molti dei
quali ο vivono nel passato ο lo disprezzano, e in ambedue i casi si
mettono nell'impossibilità d'intendere il presente. "Mal provveggono
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alla gloria nostra coloro che, disprezzando gli antichi, lasciano ai posteri
un esempio di disprezzare anche noi." D'altro canto, "voler chiudere la
strada a tutte le invenzioni nuove, è lo stesso che accusar gli antichi che
già l'aprirono; e fare ingiuria ai posteri, in grazia de' quali fu aperta."
E il Leopardi:
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Una volta si venerava superstiziosamente tutto ciò che venia dagli
antichi; ora si disprezza da molti senza distinzione tutto ciò che loro
appartiene. Dei due pregiudizi l'uno non è minore dell'altro.
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Se dico che resta ancora molto a ricuperare della civiltà degli antichi,
non perciò intendo negare, né anche volgere in dubbio, che la
moderna non abbia moltissime e bellissime parti che l'antica non
ebbe.
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Il tema del "recupero" della civiltà del passato è anche un tema
zanottiano. Se ci restassero tutte le opere dei classici: "chi sa [...] quante
quistioni si vedrebbono essere antichissime che ora si credon nuove, e
perciò forse si credon nuove perché son tanto antiche che il tempo ha
potuto cancellarne fin la memoria." In Leopardi (Zibaldone, 4144-45,
4192-93, 4289) si trasforma in un concetto chiave per la comprensione
del suo classicismo che non rifiuta il progresso, e della cultura
contemporanea biasima solo l'alienazione dalla natura e dalla civiltà
antica più vicina alla natura. Ma Leopardi sa bene che solo nel presente
è possibile, e ha un senso, conoscere il passato. Volgendo
all'affermativo un'interrogazione retorica del Discorso intorno alla
poesia romantica se ne ricava che il mondo primitivo va visto, abitato
e conosciuto intimamente nel mondo incivilito, e la natura nel mondo
snaturato; e per far ciò dobbiamo sgombrare gli occhi, le orecchio e la
mente dalle distrazioni, dai rumori, dalle false ideologie che ci
confondono.
62
***
La lettura del dialogo Della forza dei corpi che chiamano viva offre
altri elementi importanti per la ricostruzione della cultura leopardiana.
La prefazione di Francesco Tipaldi alla prima edizione riassume molte
delle idee dello Zanotti in materia di lingua, espresse in particolare nel
volume secondo dei Paradossi (anch'essi noti al Leopardi), paragonabili
a simili idee leopardiane svolte nello Zibaldone. Le questioni
Giovanni Carsaniga
136
linguistiche e filosofico-poetiche sono comunque marginali in un'opera
che è sostanzialmente di divulgazione scientifica, e che tratta
principalmente di fisica e di dinamica. In essa lo Zanotti esponeva la
controversia sulla "forza viva" sorta fra i cartesiani, che consideravano
la "quantità di moto" di un corpo uguale al prodotto fra massa e
velocità, e i leibniziani, che preferivano identificarla in una forza
proporzionale al quadrato della velocità. La controversia era, in un certo
senso, terminologica, dato che l'uno e l'altro campo discuteva sotto il
nome di "forza viva" concetti diversi. La formula dei cartesiani era
applicabile a forze che agiscono su tempi eguali, mentre quella dei
leibniziani lo era a forze che agiscono su uguali distanze: sia agli uni
che agli altri era estranea la nozione vettoriale di momento cinetico che
avrebbe chiarito i termini del problema. E tuttavia la controversia non
avrebbe avuto così grande risonanza nel diciottesimo secolo se sotto
la disputa terminologica non si fossero agitati importanti problemi
filosofici e ideologici, determinanti per il tipo di concezione della
natura, e conseguentemente del rapporto esseri umani — natura, che si
voleva giustificare attraverso la speculazione scientifica.
63
L'argomento centrale, che la scienza non poteva impostare
correttamente prima della formulazione delle leggi della termodinamica
e del concetto di entropia nella prima metà del diciannovesimo secolo,
era quello dell'economia energetica dell'universo. Si trattava di
decidere, in sostanza, per quale ragione l'universo non si arrestasse a
poco a poco, una volta che Galileo e i copernicani avevano dimostrato
falsa la concentricità, perfezione e incorruttibilità delle sfere celesti, e
la conseguente mancanza di attriti, da cui si ipotizzava la conservazione
perenne del moto ad esse impresso dal dito divino. Si imponeva quindi,
ο una legge di conservazione e trasformazione dell'energia, oppure una
spiegazione che postulasse continui incrementi energetici per
compensare le perdite del sistema (e, in questo caso, restava da spiegare
chi ο che cosa producesse questi incrementi). Per Descartes in tutte le
trasformazioni dell'universo la sua "quantità di moto" complessiva
restava costante. Dio, nell'atto di creare il mondo materiale, gli avrebbe
impresso una quantità di moto destinata a restare immutata nel suo
valore globale, anche se variamente distribuita tra i singoli corpi; e si
sarebbe riservato di intervenire periodicamente per compensare le
deficienze. Dato che nel sistema cartesiano la realtà dei corpi era
riducibile alle due proprietà di estensione e movimento, la legge di
conservazione della quantità di moto diventava fondamentale per
comprendere il processo di causalità, riducibile così a formulazione
'Palinodia'
137
matematica. Newton, aperto a suggerimenti di natura mistico-religiosa
accettabili per fede proprio per il suo metodologicamente rigoroso
rifiuto di formulare ipotesi scientifiche prive di adeguate basi teoretiche
ο sperimentali, aveva anch'egli concesso a Dio di intervenire
periodicamente nella sua creazione per regolarla e ricaricarla. Tale idea
ripugnava a Leibniz, non già in nome di un principio materialistico di
conservazione dell'energia, bensì di un concetto essenzialmente
metafisico-teologico del creato, per cui la dignità e onnipotenza del
creatore non gli permettevano di abbassarsi alla funzione di orologiaio.
Leibniz doveva quindi introdurre nella propria meccanica il concetto,
per altro ambiguo, di "forza viva" a sostegno del proprio principio di
conservazione dell'energia.
Paradossalmente la posizione di Leibniz, più suscettibile di sviluppi
sul piano teoretico in quanto escludeva interventi miracolistici, era la
meno accettabile e feconda sul piano ideologico. Quello che il secolo
richiedeva non era più una scienza inestricabilmente fusa con la
teologia, in cui, per dirla con Leibniz, la fonte della meccanica fosse
nella metafisica, ma una scienza che mantenesse tanta distanza dalla
religione sia da poter salvaguardare la propria credibilità metodologica,
che da potersi conciliare con essa sul terreno filosofico come cosa
distinta. Di qui il successo del cartesianesimo prima e del
newtonianismo poi negli ambienti illuministici. La concezione
rigorosamente meccanicistica del cosmo proposta da Descartes, come
sistema di interazioni matematicamente calcolabili aveva soddisfatto non
solo quei pochi razionalisti che non avevano più bisogno dell'ipotesi di
Dio per spiegare il funzionamento dell'universo, ma anche quei molti
religiosi che vedevano in Dio la sola garanzia della razionalità umana
a cui era affidato il calcolo del sistema. La fisica di Newton, pur non
dipendendo dall'ipotesi di Dio come di una causa prima, e proclamando
che le cause finali sono inconoscibili, presentava l'universo come un
congegno matematicamente progettato e costruito ma ancora in divenire,
capace di scompensi e perturbazioni. Ipotesi molto più attraente del
sistema chiuso cartesiano, perché lasciava aperta la possibilità di
cambiamento, e offriva il modo di ascrivere a scompensi e perturbazioni
dell'insieme molti fenomeni non ancora sufficientemente comprensibili.
Al tempo stesso, asserendo e quasi provando la continua presenza della
manus emendatrix di Dio nel creato, si prestava a numerose elaborazioni
apologetiche. Sotto il duplice aspetto della suprema razionalità e della
non esclusione dell'intervento divino, la fisica newtoniana era la degna
64
Giovanni Carsaniga
138
erede e continuatrice di quella cartesiana: opinione già corrente nel
diciottesimo secolo e documentata dalle numerose "conversioni"
dall'uno all'altro sistema. Tra cui quella dello Zanotti, eminente
rappresentante di quella che Sebastiano Timpanaro definisce "cultura
illuministico-reazionaria," di quello sforzo di rinnovamento e di ripresa
scientifica all'interno della tradizione cattolica promosso da Benedetto
XIV e patrocinato dal cardinale Neri Corsini.
Se da un lato questo sforzo culturale mirava a neutralizzare le
nuove idee assorbendole nell'ortodossia e smussare quelle che potevano
essere le punte più pericolose della filosofia illuministica e della nuova
scienza, dall'altro, per conciliare fede e ragione, religione e scienza, ed
affermare il principio che il sano intelletto conduce immancabilmente
al cattolicesimo, si dovevano necessariamente privilegiare le basi
razionali del pensiero. Ciò permise a molti illuministi cattolici di
sviluppare una ricerca scientifica di prim Ordine su basi pressoché
autonome rispetto alla teologia, salve qualche formale professione di
ossequio per le verità rivelate. Il fatto che l'opera di Copernico fosse
stata tolta dall'Indice solo nel 1758, e che fino al 1822 la censura
papale imponesse agli autori cattolici di trattare del sistema eliocentrico
come di una mera ipotesi, non impedi né al padre Jacquier
(antimaterialista in filosofia) né al padre Boscovic di diventare accesi
ed influenti fautori della cosmologia newtoniana. Di qui la fondamentale
importanza di questo filone della cultura cattolica, l'unica a cui
Leopardi poteva accedere nelle sue condizione familiari e ambientali,
proprio per quanto riguarda la graduale formazione della cultura laica
e materialistica del Leopardi "progressivo" e perciò antiprogressista, nel
senso in cui si dimostra tale nella "Palinodia."
65
66
***
Come le nuove istanze scientifiche e laiche emergano nel Leopardi da
una base religiosa si vede nelle pagine conclusive del Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi. Il metodo che l'ortodossia imponeva al
giovane Leopardi per distruggere le superstizioni e gli errori era quello
di sostituirli con le verità rivelate dalla religione. Ma era un
suggerimento pericoloso, se è vero che "la superstizione è un abuso
della religione nato dall'ignoranza," uno spingere la propria virtuosa
disposizione a credere oltre i limiti della credibilità. Come, allora,
fissare tali limiti? Il criterio non può che essere esterno alla religione:
'Palinodia'
139
"la sola scienza può fissare il punto preciso oltre il quale non devono
estendersi gli effetti di una virtù ο di una prevenzione giusta ed
opportuna" (866, 2). Le caratteristiche di quella scienza si possono
dedurre dal biasimo che il Leopardi riserva alla "mancanza di esame, di
critica e di ciò che è necessario per giudicare, la negligenza che
impedisce di riflettere e fa che non si abbia cura di accertarsi di una
cosa prima di vederla, [...] l'ignoranza della cause." In questo
programma illuministico di ricerca, se v'è ancora posto per la religione,
si tratta di un posto del tutto secondario; e quando più tardi Leopardi
protesterà nello Zibaldone che il suo "sistema" non è contrario alla
religione, ciò sarà vero soltanto perché, in un sistema che neghi tutti i
sistemi, ammetta l'esistenza di Dio in tutti i modi possibili, abbracci
quasi tutto il sistema dell'ateismo e proclami il relativismo più assoluto,
c'è spazio anche per la religione (Zibaldone, 1637-45; v. anche 416).
Vediamo ora in che modo il Leopardi utilizzasse il trattato dello
Zanotti sulla forza viva. Alla fine del primo libro, lo scienziato
bolognese si era rifiutato di lasciarsi trascinare in una discussione dei
fini e degli effetti della natura, "non sapendo noi questi fini, e dovendo
pur sempre dubitare se oltre quelli che ci par di sapere altri ne abbia la
natura che non sappiamo." E, dopo aver dissentito dal principe de
moindre action del Maupertuis che gli pareva restringere il campo
d'azione di Dio ai più semplici e diretti rapporti di causalità e limitare
la inconoscibile complessità della natura, dichiarava:
67
Tutte le opere [...] che intendiamo della natura le troviamo semplici
perché noi non intendiamo se non le semplici; alle più composte non
possiamo aggiungere; e quelle istesse che chiamiamo semplici non le
diremmo forse tali se le intendessimo perfettamente; che scopriremmo
anche in esse un'infinita varietà di azioni, e di qualità, e di modi, che
la picciolezza del nostro intendere non ci permette di discoprire,
essendo cosa vana il credere che gli artifizi della natura non si
estendan più in là delle nostre cognizioni.
68
E Leopardi, citando lo Zanotti:
[...] le nostre cognizioni intorno alla natura ο dell'uomo ο delle cose,
e le nostre deduzioni, raziocini e conclusioni, per la maggior parte
non sono assolute ma relative, cioè sono vere in quanto alla maniera
di essere delle cose esistenti, e da noi conosciute per tali, ma era in
arbitrio della natura che fossero altrimenti (Zibaldone, 160).
Giovanni Carsaniga
140
Le prestese leggi della natura non sono altro che fatti che noi
conosciamo [...]. Oggi si sa abbastanza generalmente che le leggi
della natura non si sanno (Zibaldone, 4189; v. anche 4467-69).
L'idea dell'inconoscibilità della natura e l'esigenza di una sua
conoscenza sistematica asserita dal Leopardi non sono affatto
contraddittorie, anzi discendono l'una dall'altra (Zibaldone, 1089-90),
poiché è proprio la metodologia scientifica della speculazione dei
rapporti che rivela, al limite, l'impossibilità d'investigare razionalmente
la totalità dei rapporti: il che non vuol dire, naturalmente, che non
debbano investigarsi i rapporti parziali nel maggior numero possibile.
Al limite della scienza e oltre la scienza, ma come estensione e
complemento di essa, sta la poesia: l'analisi della natura fatta dalla
ragione senza l'aiuto dell'immaginazione e del sentimento è come
l'autopsia di un cadavere, che non dimostra il modo ο la qualità di vita
del corpo vivente.
Si può con certezza affermare che la natura, e vogliamo dire
l'università delle cose, è composta, conformata e ordinata ad un
effetto poetico [...]. Nulla di poetico si scorge nelle sue parti,
separandole l'una dall'altra, ed esaminandole a una a una col
semplice lume della ragione esatta e geometrica [...]. Spetta
all'immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l'intendere tutte le
sopradette cose; ed elle il possono, perocché noi ne' quali risiedono
esse facoltà, siamo pur parte di questa natura e di questa università
ch'esaminiamo [...]. E siccome alla sola immaginazione ed al cuore
spetta il sentire e quindi conoscere ciò ch'è poetico, però ad essi soli
è possibile ed appartiene l'entrare e il penetrare addentro ne' grandi
misteri della vita, dei destini, delle intenzioni si generali si anzi
particolari della natura. [...] Essi soli sono atti a concepire, creare,
formare, perfezionare un sistema filosofico, metafisico, politico che
abbia il meno possibile di falso [...]. In conferma del sopraddetto si
osservi che i più profondi filosofi, i più penetranti indagatori del vero,
e quelli di più vasto colpo d'occhio, furono espressamente notabili e
singolari per le facoltà dell'immaginazione e del cuore, si distinsero
per una vena e per un genio decisamente poetico, ne diedero ancora
insigni prove cogli scritti ο colle azioni ο coi patimenti della vita che
dalla immaginazione e dalla sensibilità derivano, ο con tutte queste
cose insieme (Zibaldone, 3237-45).
Si comprende come l'interesse maggiore del trattato zanottiano sulla
forza viva non consistesse per il Leopardi nelle sottili ed elaborate
'Palinodia'
141
disquisizioni sul comportamento, nell'aria ο nel vuoto, di corpi
perfettamente elastici, ο duri, ο levigati, in cui la scienza, elaborando
deduzioni sistematiche da premesse astratte finisce per somigliare alla
metafisica (Zibaldone, 3978 e 4304), bensì in quelle parti che
poggiandosi sull'osservazione di fenomeni naturali, come azioni,
reazioni, resistenze e attriti, distanze percorse, si prestavano ad analogie
nel campo morale e a costruire modelli per l'investigazione del principio
di causalità anche nel mondo fisiopsicologico, a livello sia individuale
che sociale (Zibaldone, 47, 3977). Il motivo per cui Leopardi non
69
amava troppo le scienze matematico-deduttive, ο "scienze esatte" non
era solo quello puramente estetico, che difficilmente si raggiunge in esse
dignità letteraria, ma anche quello, più propriamente epistemologico, che
tale carenza estetica deriva dalla preponderanza in quelle scienze della
metafisica sull'immaginazione che le isterilisce e impedisce loro di
diventare completi strumenti di conoscenza. Di qui l'avversione del
Leopardi per la statistica ("Palinodia" vv. 138-45) e la sua ammirazione
per scrittori come Buffon e Bailly, cultori rispettivamente di storia
naturale ("vera scienza," secondo Zibaldone, 4215) e di astronomia; e
la preferenza dimostrata dal Recanatese proprio per quei due campi
dello scibile in cui, fra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, si
svolse buona parte della lotta contro le interpretazioni teologiche,
provvidenziali e idealistiche della natura. E, nel campo della prosa
scientifica italiana, la sua predilezione per la "linea galileiana" (Galilei,
Viviani, Redi, Magalotti), per quella newtoniana (Zanotti, Algarotti,
Palcani), e per le descrizioni geografiche; predilezione di cui la sua
scelta antologica del 1827 è un interessante documento. Ma già da una
decina d'anni Leopardi discuteva col Giordani come sviluppare una
buona prosa italiana. Una sua lettera al Giordani del 1821 mostra che
a quell'epoca il problema della creazione di una buona prosa filosofica,
scientifica e didascalica aveva assunto importanti connotazioni culturali
e politiche:
70
Molto s'è disputato e si disputa della lingua in Italia, massimamente
oggidì. Ma i migliori, per quello ch'io ne penso, hanno ricordato e
predicata la filosofia piuttosto che adoperatala. Ora questa materia
domanda tanta profondità di concetti quanta può capire nella mente
umana, stante che la lingua e l'uomo e le nazioni per poco non sono
la stessa cosa. [...] Chiunque vorrà far bene all'Italia prima di tutto
dovrà mostrarle una lingua filosofica, senza la quale io credo ch'ella
non avrà mai letteratura moderna sua propria e non avendo letteratura
Giovanni Carsaniga
moderna propria non sarà mai più nazione (pp. 1122-23).
142
71
Dal resto della lettera si può arguire che Leopardi stesso si proponeva
di contribuire alla creazione di questa nuova lingua filosofica scrivendo
un'opera sulle lingue romanze. La lettera successiva indica le tre "armi"
che il Leopardi intendeva adottare per combattere letterariamente la
negligenza degli Italiani: ragione, affetti e riso. L'opera sulle lingue
romanze rimase allo stato di progetto; ma ragione, affetti e riso, generi
filosofico, drammatico e satirico, dovevano divenire gli elementi
strutturali base delle Operette morali del 1824-27, i cui abbozzi
Leopardi aveva nel cassetto fin dal 1820; e successivamente della
"Palinodia," della satira "I nuovi credenti" e dei "Paralipomeni." Fra il
settembre del 1823, data di composizione di "Alla sua donna" e la
pubblicazione delle "Operette" la poesia tace, se si eccettua l'epistola
"Al Conte Carlo Pepoli," in cui Leopardi delineava fra l'altro il suo
programma filosofico-scientifico:
[...] L'acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
E dell'eterne cose; a che prodotta,
A che d'affanni e di miserie carca
L'umana stirpe; a quale ultimo intento
Lei spinga il fato e la natura; a cui
Tanto nostro dolor diletti ο giovi:
Con quali ordini e leggi a che si volva
Questo arcano universo [...]
I materiali per questa investigazione erano già stati raccolti. Alla fine
del 1823 riempivano 4007 pagine dello Zibaldone. Lo Zibaldone era
beninteso uno strumento intellettuale privato, un personale deposito di
idee; e il suo svolgimento a spirale, attraverso ripetizioni, espansioni e
correzioni di note precedenti, dense di riferimenti a pagine passate e
future, non gli conferiva una forma suscettibile di pubblicazione. Eppure
è chiaro che Leopardi non intendeva tener per sé l'acerbo vero. La
chiusa dell'epistola al Pepoli prospetta profeticamente l'avversione del
pubblico al Leopardi filosofo e scienziato, ricordata anche all'inizio
della "Palinodia": "Intolleranda / Parve, e fu, la mia lingua alla beata /
Prole mortal." I suoi ragionamenti erano troppo eversivi per la Firenze
del Vieusseux. La cultura liberale e neo-guelfa si preparava a
72
'Palinodia'
143
canonizzare entusiasticamente Alessandro Manzoni: di qui, forse, la
strana ipotesi del Capponi che il "franco / di poetar maestro" dei versi
227-8 adombrasse appunto il Manzoni e non, com'è ormai certo, il
Tommaseo. Negli studi sulle Operette e sulla "Palinodia" la critica ha
spesso e volentieri trascurato l'intenzione deliberata e chiaramente
espressa dal loro autore di unire la dignità letteraria al rigore scientifico,
svalutandone il significato ideologico come manifesto del pensiero
scientifico leopardiano. Di conseguenza la "Palinodia" è stata giudicata
poesia mediocre; e le Operette sono state trovate difettose proprio in
base a quei criteri di filosofia formale e "geometrica" che Leopardi
aveva più volte rifiutato come incompatibili con l'arte letteraria. La
poesia, che egli voleva fusa con la filosofia, è stata presa per
un'intrusione frammentaria, seppur benvenuta, nei suoi astratti e aridi
ragionamenti. E le operette alle quali Leopardi attribuiva maggior
importanza, come il "Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco,"
celebrazione e glorificazione della cosmologia materialistica, ο il
"Dialogo di Timandro e di Eleandro," che l'autore indicava allo Stella
come una specie di prefazione a tutta la raccolta, sono state
sommariamente definite di scarsa importanza, ο "aliene dalla vera natura
del Leopardi." 7 5
73
74
***
Resta infine da spiegare perché quest'opera scientifica (tanto scientifica
da giustificare il concetto che del suo autore potè formarsi il
Tommasini, e un ravvicinamento da parte del Puccinotti ai propri scritti
di
scienza medica)
fosse intitolata Operette morali. L'ipotesi
meccanicistica della natura, rifiutando qualsiasi vitalismo sotto l'aspetto
di forza viva ο d'altro, finiva per asserire l'assoluta priorità della natura
sugli esseri umani, che, come la geologia e la paleontologia stavano
rivelando, apparvero assai tardi sulla scena del mondo. Quali che siano
le nostre illusioni sul nostro destino provvidenziale nella grande catena
degli esseri, noi siamo in ultima analisi del tutto irrilevanti al sistema
della natura. Il cosmo funzionerebbe benissimo se non ci fossimo, e non
funziona di certo a nostro beneficio. Può superficialmente apparire che
questi argomenti tendano a ridurre la dignità umana e a rimuoverla dal
centro della speculazione filosofica, ma sarebbe un errore. Poiché è
precisamente la nostra superfluità in un cosmo dove tutto sembra avere
un fine ed essere idoneo a quel fine che fa nascere le domande: a che
76
77
Giovanni Carsaniga
144
cosa serve l'umanità? perché è così imperfetta e debole? perché è così
inevitabilmente infelice? cioè, gli interrogativi dell'epistola al Pepoli,
sottintesi nella "Palinodia." Ed è precisamente attraverso la loro capacità
di porsi tali interrogativi che gli esseri umani possono assurgere ai più
alti poteri intellettuali e alla più elevata dignità morale (Zibaldone,
3171-72).
Perciò una concezione del mondo materialistica e
rigorosamente scientifica non può mancare di preoccuparsi molto da
vicino della condizione umana, in particolare del problema della felicità
e del dolore, che nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo era un
problema realmente scientifico (com'è dimostrato dal grande numero di
trattati sull'argomento).
Il messaggio delle Operette è riassunto da Eleandro, portavoce
dell'autore con parole che potrebbero essere anche un sunto di quello
della "Palinodia":
78
[...] Io desidero quanto voi, e quanto qualunque altro, il bene della
mia specie in universale; ma non lo spero in nessun modo; non mi so
dilettare e pascere di certe buone aspettative, come veggo fare a molti
filosofi in questo secolo; e la mia disperazione, per essere intera, e
continua, e fondata in un giudizio fermo e in una certezza, non mi
lascia luogo a sogni e immaginazioni circa il futuro, né animo
d'intraprendere cosa alcuna per vedere di ridurle ad effetto (164, 1).
Bisogna quindi concludere che questo reciso rifiuto dell'ottimismo
ammonti a pessimismo? Da un punto di vista strettamente logico direi
di no: negare, ad esempio, che il nuoto sia il migliore di tutti gli esercizi
fisici non vuol dire che sia il peggiore. Sorprende che i critici a me noti,
che nello spazio di un secolo dalla pubblicazione dello Zibaldone hanno
studiato le varie fasi del pessimismo leopardiano, antropologico, storico
e cosmico, non abbiano mai notato che la parola pessimismo si trova
una volta sola nello Zibaldone in un contesto in cui Leopardi nega di
voler sostituire l'ottimismo col pessimismo. Il paragrafo precedente, che
comincia "Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male" etc., è stato fin
troppo spesso citato per mostrare la completa negatività della sua
filosofia. Ma la citazione si ferma selettivamente al penultimo paragrafo.
L'ultimo rivela che il famoso "inno al male" non è parte della liturgia
arimanica leopardiana, ma semplicemente un exemplum fictum
contrapposto per assurdo all'altrettanto assurda fiducia del Leibniz, del
Pope, del candido Gino, di Terenzio Mamiani e dell'Antologia nelle
magnifiche sorti e progressive dell'umanità. E il Leopardi conclude:
'Palinodia'
145
"Non ardirei però estenderlo a dire che l'universo esistente è il peggiore
degli universi possibili, sostituendo così all'ottimismo il pessimismo.
Chi può conoscere i limiti della possibilità?" (Zibaldone, 4174). Circa
un anno dopo, Leopardi così riconfermava il suo cauto scetticismo:
Se noi non possiamo giudicare dei fini, né aver dati sufficienti per
conoscere se le cose dell'universo sien veramente buone ο cattive, se
quel che ci par bene sia bene, se quel che male sia male; perché
vorremo noi dire che l'universo sia buono, in grazia di quello che ci
par buono, e non piuttosto che sia malo, in vista di quanto ci par
malo, ch'è almeno altrettanto? Astenghiamoci dunque dal giudicare,
e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine; ma se
è buono ο cattivo non lo diciamo (Zibaldone, 4258).
Per non essere anch'io accusato di amputare le citazioni, devo dire
che Leopardi immediatamente soggiunge: "Certo è che per noi, e
relativamente a noi, nella più parte è cattivo. [...] Cattivo è ancora per
tutte le altre creature [...]." E tuttavia dal fatto che, relativamente a
Leopardi, agli uomini e alle creature, l'universo appaia cattivo, la natura
crudele (se ne veda la tremenda descrizione nella "Palinodia," vv. 15481), non ne consegue che essi lo siano necessariamente in assoluto. Non
è possibile, ammonisce Leopardi più oltre, risalire dai disordini della
natura, che ci sembrano orribili e ci fanno fremere, alle intenzioni della
natura (Zibaldone, 4461-2). Ammonizione perfettamente consona al
relativismo più volte affermato nello Zibaldone, secondo cui non è
lecito dedurre vere conseguenze d'ordine generale da vere esperienze
d'ordine individuale ο particolare. 7 9 Forse, piuttosto che "pessimista,"
Leopardi avrebbe preferito esser chiamato "antiottimista," dato che egli
credeva alla funzione positiva della pars destruens (Zibaldone, 270910).
Non v'è dubbio che l'immagine della natura madre benevola perda
di vigore col passar degli anni nella poesia di Leopardi. Ma è altrettanto
certo che si tratta non di un mutamento di opinione ma di uno
spostamento di enfasi reso possibile dal dualismo già insito nel concetto
di natura, per quanto riguarda sia la sua struttura che la sua evoluzione
storica. In un senso la natura è l'incarnazione dell'invarianza, ricorrenza
e riproducibilità dei fenomeni osservabili; ciclica eppure sostanzialmente
immutabile; l'oggetto di ciò che si chiamava "filosofia naturale." In un
altro, la natura è il simbolo dell'evoluzione nel tempo degli organismi
viventi, e del lento ma sicuro cambiamento degli oggetti inanimati:
Giovanni Carsaniga
146
l'oggetto della nuova disciplina detta "storia naturale," resa popolare
dall'opera di Buffon. Il problema di come conciliare la nozione di
"leggi" ο "stati" di natura con l'evidenza del cambiamento storico,
vissuto dall'umanità sia nella sua filogenesi che nella sua ontogenesi,
era molto importante per un pensatore come Leopardi, che aveva visto
tutta la scienza spostarsi gradualmente, fra il diciottesimo e il
diciannovesimo secolo, dalla concezione matematico-meccanicistica di
un universo immutabile ereditata da Descartes e Newton alle nuove
teorie evoluzionistiche di Buffon, Maupertuis, Lamarck e Hutton.
L'immutabilità della natura era stata affermata da Leopardi nel 1818
("Discorso intorno alla poesia romantica") e nel 1822 ο 1832
("Frammento sul suicidio," dove però s'affaccia una distinzione fra
un'immutabile natura naturata e una natura naturans produttrice di
cose mutevoli e variabili: p. 199, 2). Nel 1821 tuttavia Leopardi,
riflettendo sulla distinzione montiana fra "natura bruta" e "coltivata,"
ammette che "dopo che l'uomo s'è cambiato ha dovuto cambiar la
natura." Si nota qui chiaramente la coesistenza di due nozioni di
"natura": una natura extra-storica, perfetta, metafisica, compatibile
soltanto con un ideale stato di umana perfezione, ma posta al di sopra
e al di fuori dell'umanità; e una natura storica e storicizzata,
comprendente l'umanità che ha deviato dal suo stato ideale e ha finito
col cambiarla (Zibaldone, 1558-62).
Ambedue le nozioni, di una natura immutabile, esterna all'umanità,
a cui l'umanità deve adattarsi, e di una natura "la quale non solamente
ne circonda e preme da ogni parte, ma sta dentro di noi vivente e
gridante" erano già presenti nel Discorso. La compresenza dei due
aspetti della natura ritorna nel Risorgimento: v. 109-110 per la natura
che dà al poeta i dolci inganni; e v. 119-120 per la natura priva di
compassione. Difficile quindi supporre il lineare sviluppo cronologico
dall'una all'altra proposto da molta critica. Nello "stato di natura"
preistorico, ο extra-storico, supposto da Leopardi, la specie umana
poteva soltanto guardare alla natura come a una madre benigna; ma ciò
non è più possibile dopo i progressi della scienza illuministica.
All'individuo, che un lungo processo evolutivo ha rimosso dal suo
pristino edenico "stato di natura," e che i progressi scientifici hanno
spogliato del suo presunto rango teleologicamente privilegiato, la natura
può solo apparire remota, distante e, in ultima analisi, ostile (Zibaldone,
1530-31). Sotto questo aspetto l'immagine della natura è altrettanto
ambivalente quanto quella della madre. L'ostilità fra la natura e
'Palinodia'
147
l'individuo è dichiarata fin dal 1820 nella "Sera del di di festa." D'altra
parte Leopardi nega che i disegni della natura siano necessariamente
cattivi ancora nel 1829. Ciò non vuol dire che in quelle pagine dello
Zibaldone (4461-62) Leopardi ritorni alla concezione di una natura
benefica; ma solo che in quegli anni gli si precisa l'idea, più volte
delineata, della neutralità etica della natura: essa non è né buona né
cattiva, e il nostro giudizio di lei non può essere che parziale. Alla
concezione ottimistica del progresso naturale oggetto di satira nella
"Palinodia" Leopardi non poteva che contrapporre una natura
decisamente crudele (v. 170), un'"empia madre" (v. 181).
La crisi dell'idea di Natura ha un parallelo in quella dell'idea di
Dio: difatti quid alius est Natura quam Deus? aveva detto Seneca. La
nozione cristiana di un Dio che sia al tempo stesso perfetto e buono è
contraddittoria: poiché; se Dio fosse soltanto buono e non anche
l'opposto, la sua perfezione sarebbe incompleta, dato che un modo di
essere gli sarebbe negato. Invece "l'unica perfezione assoluta è di
esistere in tutti i possibili modi [...]. La perfezione assoluta abbraccia
tutte le possibili qualità, anche contrarie, poiché non v'è contrarietà
assoluta, ma relativa" (Zibaldone, 1626). Nonostante le sue professioni
di ortodossia, Leopardi si spinge fino ad affermazioni decisamente
eretiche: se Dio deve esistere spinozianamente in tutti i modi possibili,
deve trovarsi anche al di sopra della moralità; e può esser perfino dotato
di esistenza materiale. Il modo in cui Dio viene concepito dall'umanità,
cioè come esclusivamente buono, e il modo in cui egli deve
necessariamente esistere, cioè come sintesi di infiniti e contrastanti modi
di essere, come pure alcuni degli attributi divini rivelati dalla religione
(che sia al tempo stesso uno e trino) non sono minimamente
riconciliabili all'interno delle strutture logico-razionali umane.
"Tutto è animato dal contrasto, e langue senza di esso"
(Zibaldone, 2156-57). Quindi anche la Natura è una sintesi di contrasti,
ed è animata da essi. "La natura non distrugge che per creare, e non
crea che per distruggere" aveva scritto Leopardi fin dal 1813; e lo
ripeterà di nuovo nel
1825.
La natura, come consegue
dall'identificazione tra essa e Dio, è tutto ciò che è, in tutti i modi
d'essere possibili, attuali e potenziali, compresi quelli tra loro
contraddittorii. La natura è l'unico assoluto, posto che la sola base della
metafisica leopardiana è che tutto è relativo, e la natura include ogni
relatività. La sua assolutezza non è quindi a priori, ma logicamente a
posteriori. Dato che tutto ciò che è non può essere altro da quello che
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Giovanni Carsaniga
148
è, il concetto di natura possiede un'assolutezza e una necessità
tautologiche. Ma questa necessità non esclude il caso, dato che la natura
avrebbe potuto realizzarsi in uno qualsiasi di infiniti altri modi possibili
di esistenza. Dal fatto che il concetto di natura sia logicamente, anzi
tautologicamente determinato non discende tuttavia che la natura fisica
si determini logicamente. Al contrario, essa non può essere ridotta a
formule matematiche ο geometriche. L'unica cosa certa a proposito
delle cosiddette leggi di natura è che esse ci sono ignote. La nostra
ragione cerca di escludere dalla nozione di ordine cosmico la possibilità
di accidenti particolari; ma non ne consegue che anche la natura la
escluda (Zibaldone, 585-86). Natura e ragione sono nemiche perché, se
la natura necessariamente ingloba il caso e casualmente si determina in
modo necessario, la ragione può operare soltanto escludendo il caso dai
suoi procedimenti logici. Sotto questo aspetto la sua operazione,
obbligata a scegliere fra diverse, e spesso opposte possibilità, è del tutto
innaturale (encore une fois, il ne faut pas choisir, come ammoniva
Madame de Staël). La contraddizione fra categorie è un fatto
concettuale la cui applicazione sul piano fisico può essere
completamente fuorviante. Questa verità la scienza l'avrebbe scoperta
solo lungo tempo dopo la morte di Leopardi; quando si comprese, ad
esempio, che, per quanto possa essere utile e necessario concettualmente
di pensare alle radiazioni come consistenti ο di particelle ο di onde, una
tale distinzione non può minimamente essere proiettata nella realtà
fisica: il modello concettuale è utile appunto come modello, ma
assolutamente inadeguato come descrizione della realtà.
Seppure non in questi termini, la distinzione tra realtà concettuale
ed extra-concettuale era tuttavia chiara al Leopardi, come risulta dalle
sue precisazioni sul concetto di "spirituale," ο "ideale." Nessuno, egli
afferma, è mai stato capace di immaginare l'ideale senza attribuirgli una
certa qual realtà sensibile (Zibaldone, 1389-90). Questo perché tutta
l'esperienza umana è materiale e sensibile e tutte le facoltà umane sono
materiali, compreso il pensiero. L'umanità può quindi immaginare lo
spirito solo come qualcosa di impalpabile e incorporeo, e purtuttavia
materiale (Zibaldone, 601 e segg., 1026, 1262). "Il cuore può bene
immaginarsi di amare lo spirito, ο di sentir qualche cosa d'immateriale:
ma assolutamente s'inganna" (Zibaldone, 1694). Come si può quindi
riconciliare l'opinione che materia e spirito abbiano realtà separata, che
sembra implicare l'esistenza di una realtà spirituale, e la negazione che
lo spirito possa essere concepito come parte della realtà? (ambedue in
'Palinodia'
149
Zibaldone, 1635-36). Sebbene Leopardi non abbia chiaramente definito
il problema, nella sua speculazione non mancano le indicazioni di come
lo si possa risolvere. Le nostre facoltà mentali possono formare concetti
immateriali soltanto riducendoli a materia; e il processo di
materializzazione delle idee astratte risiede nel linguaggio (Zibaldone,
1757-58). Dato che esiste una distinzione fra la realtà materiale e il
pensiero che la concepisce, lo spirito non può esser parte, per quanto
vaga, indefinita, incorporea e impalpabile, di quella realtà che è
l'oggetto del pensiero; bensì è parte del pensiero stesso, "legato e
immedesimato nella parola," che è il corpo e non la veste del pensiero
(Zibaldone, 1694). Questo spirito-parola non va confuso con quello che
si suole generalmente chiamare "spirito," che è inevitabilmente ed
erroneamente proiettato al di fuori del pensiero nella realtà
extraconcettuale. Questo tipo di spiritualismo è una pericolosa follia
(Zibaldone, 4206-8)."Il nostro intelletto [...] è il solo luogo dove il
tempo e lo spazio come tante altre cose astratte, esistano
indipendentemente e per sé medesimi, e sian qualche cosa" (Zibaldone,
4233). Ne consegue, sebbene Leopardi non lo esprima in questi termini,
che le illusioni consolatorie, non essendo parte della realtà materiale
(tantomeno di quella tecnologica prospettata nella "Palinodia"), non
possono nemmeno trarre la loro forza da una supposta realtà spirituale
al di fuori del pensiero. La loro realtà (che è vera e sperimentabile) può
solo essere una realtà concettuale. Le illusioni non sono simboli di cose
non realizzate, segni di speranzose possibilità, preannunzi di ciò che può
accadere. Non possono essere incorporate in niente altro che parole: il
loro solo corpo sono le parole che le esprimono. L'unico possibile
destino per un apostolo delle illusioni come Leopardi era quello di
poeta.
GIOVANNI CARSANIGA
Università di Sydney,
Sydney, Australia
NOTE
La lettera al Tommaseo si legge in N. Tommaseo e G. Capponi, Carteggio
inedito a cura di I. del Lungo e P. Prunas (Bologna, 1911), Vol. 1, p. 330. Vedi
anche la lettera al Vieusseux col noto riferimento al "gobbo maledetto" in
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Giovanni Carsaniga
150
Lettere di Gino Capponi e di altri a lui, a cura di A. Carraresi (Firenze, 1882),
Vol. 1, p. 404, lett. 172.
"Palinodia," in Letture Leopardiane, a cura di M. Dell'Aquila (Roma, 1995),
p. 170.
G. Leopardi, Palinodia, a cura di V. Pierini (Stampa Alternativa, 1993).
Va notata anche la continuità d'ispirazione e di tono satirico con un altra
poesia del 1835, I nuovi credenti.
Parma, 1768-1846. Marito di Antonietta e padre di Adelaide, ambedue fedeli
e tenere amiche del poeta, e suocero del Maestri. Docente di Fisiologia e
Patologia all'università di Parma (1794) e di Clinica Medica all'università di
Bologna (1816), autore di numerose opere scientifiche e letterarie, in
corrispondenza con i principali scienziati del tempo. Prosegui in Italia la
reazione di G. Rasori contro le teorie browniane, che spiegavano le malattie con
uno stato astenico dell'organismo e proponevano cure a base di stimolanti ed
eccitanti. Rasori e Tommasini, invece, le riconducevano ad uno stato stenico
che doveva essere curato mediante sedativi e salassi (teoria dei controstimoli).
Ambedue le teorie furono cambattute da Maurizio Bufalini (Fondamenti di
patologia analitica, 1819) il quale affermava la necessità del metodo analitico
e sperimentale. Un'eco di questi dibattiti si trova nel comportamento del
Leopardi malato, descritto in Sette anni di sodalizio dal Ranieri; secondo cui i
medici curanti del poeta durante il suo soggiorno a Napoli "avevano mantenuta
una nobile, autonoma temperanza; e non erano né brauniani né rasoriani. Ma
appena uno di loro trovava che la carne era troppa e il brodo troppo denso,
Leopardi non voleva più saperne di carne, e voleva perire di pesce e di
vegetabile alla rasoriana; appena uno di loro trovava che la carne era pur
necessaria, Leopardi non voleva più sapere di pesce e di vegetabili, e voleva
perire di carne e di brodi densi come la panna, alla brauniana." Sulla
controversia v. A. Cazzaniga, La grande crisi della medicina italiana nel primo
Ottocento (Milano, 1951).
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Lettera al Maestri del 6.2 1829, in G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W.
Binni e E. Ghidetti (Firenze, 1969), vol. 1, pp. 1334-5. Alle professioni
d'ignoranza del Leopardi non bisogna prestar troppa fede. In una nota lettera
al Vieusseux del 4 marzo 1826 assicurava di essere "nella filosofia sociale [...]
per ogni parte un vero ignorante," spiegando il fatto con la sua mancanza
d'interesse per lo studio dei rapporti umani. Eppure a quella data aveva già
scritto il "Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani" e molte
pagine dello Zibaldone che dimostrano un'intelligenza acutissima dei fenomeni
sociali. Per le citazioni leopardiane tratte dal Vol. 1 di Binni-Ghidetti indico
solo il numero di pagina: i numeri 1 ο 2 si riferiscono rispettivamente alla
colonna di sinistra e di destra. Dello Zibaldone indico solo la paginazione
leopardiana, standard in tutte le edizioni, l'ultima delle quali è a cura di G.
Pacella (Milano, 1991), 3 voll.
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V. p. 1373-74. Morichini era noto per le sue ricerche di idroterapia e per i
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151
suoi studi sulle saline di Corneto. Leopardi ne conosceva anche il figlio, l'abate
Carlo Luigi, che raccomandava al Vieusseux nella lettera successiva. Di
Valorani Leopardi conosceva probabilmente la traduzione dell'ottavo idillio di
Mosco, pubblicata a Bologna nel 1824 in Nuova collezione di opuscoli letterari
a cura di G. B. Bruni, F. Cardinali, F. Orioli, F. e R. Tognetti. Per la traduzione
del Leopardi v. p. 420. Di Michele Medici (non Mariano, come nell'indice del
Ghidetti al Vol. 1), si vedano Memorie storiche intorno le académie scientifiche
e letterarie della città di Bologna (Bologna, 1852). Sulle frequentazioni
mediche di Leopardi, e sulla sua relazione con Puccinotti, vedi A. Volpi,
"Leopardi presenta gli amici medici," in Leopardi a Pisa, a cura di Fiorenza
Ceragioli (Pisa, 1997), pp. 232-8.
Pesaro, 1825 (ho visto l'edizione di Firenze del 1840). Il libro del Paoli è una
fonte importante della cultura leopardiana in materia di geologia, su cui v. G.
Boffito, Giacomo Leopardi e l'aeronautica (I quaderni aeronautici), diretti da
C. G. Marchesini, Loreto, 1942; che, nonostante il titolo, si occupa
prevalentemente della cultura geologica del tempo.
Il Puccinotti, urbinate (1794-1872), si laureò in medicina a Roma nel 1816 ed
esercitò la professione nel Lazio e in Campania dal 1817 al 1822. Fu eletto
socio dei Lincei nel 1821. Conobbe il Leopardi a Roma, stando ad un appunto
conservato nelle Carte Puccinotti alla Biblioteca Nazionale di Firenze (ed
erroneamente ascritto al 1819, dato che il Leopardi non si recò a Roma prima
del novembre 1822). La nota (Carte Puccinotti, C XIII) fu pubblicata da G.
Baccini (F. P. ed alcuni suoi pensieri inediti, Firenze, 1903) con un errore di
lettura ("questo sconcio giornale" è in realtà "questo secondo giornale").
Carte Puccinotti, C I, p. 14.
L'informazione è fornita dal Puccinotti stesso in una lettera ad Alinda
Brunamonti Bonacci del 12 febbraio 1872, insieme a una curiosa testimonianza
sul modo in cui Leopardi imparava l'inglese, esercitandosi negli intervalli in cui
sospendeva la stesura del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie per
dar modo allo spolverino di asciugare l'inchiostro (Lettere scientifiche e
familiari di Francesco Puccinotti raccolte ed illustrate dal padre A. Checcucci,
Firenze, 1877, pp. 425-6). Sappiamo che il Puccinotti discusse con lui il
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie e sembra probabile che
l'accenno in una carta del Puccinotti posteriore al 1837 all'opera di Hufeland
sull'arte di prolungare la vita si rifaccia alla discussione del Dialogo di un
Fisico e di un Metafisico. Christoph Wilhelm Hufeland era un amico di Goethe
e di Schiller la cui memoria sopravvive ancora oggi nel termine macrobiotico
che egli fu forse il primo a diffondere attraverso la sua Makrobiotik, oder die
Kunst des menschliches Leben zu verlängern (Jena, 1798). Fu tra i primi a
propugnare la vaccinazione di Jenner, e può darsi che per questo motivo non
fosse ignoto in casa Leopardi, dove Monaldo, primo tra in nobili del paese,
aveva fatto vaccinare Giacomo, Carlo e Paolina nel 1801. Leopardi cita la
traduzione italiana dell'opera in Zibaldone, 352, che è del novembre 1820. Il
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Puccinotti fa menzione di Hufeland in un opuscolo medico inedito del gennaio
1825 su un metodo per la cura della tenia, e cita specificamente la Macrobiotica
in una carta non datata (ma posteriore al 1837) contenente un appunto su una
biografia di Hufeland pubblicata a Berlino in quell'anno. Sullo Hufeland vedi
W. Brednow, Ch. W. Hufeland, Arzt und Erzieher im Lichten der Aufklärung
(Berlino, 1964).
Baccini, op. cit., p. 5.
Opere di F. P., parte la, Pisa 1839, p. 11.
v. nota 5.
Opere di F. P., op. cit., p. 28; Opere, parte 2a (Livorno, 1846), p. 839, e 845
segg. Si vedano Zibaldone 2567-68 dove l'uomo è definito come "più dilicato
assai di tutti gli altri animali"; 3179-82 sulle malattie introdotte dalla civiltà;
1062-63 per il tema, spesso ripetuto, di come l'educazione al raziocinio,
puramente intellettuale, distrugga la naturalezza emotiva e debiliti l'azione
fisica; 115 e 152, per l'idea che il vigore fisico e la forza immaginativa siano
direttamente proporzionali; 17 sulla poesia sentimentale; 574-75 sulla funzione
sociale della filosofia; 870-71 e 1172 sulle malattie industriali.
Storia della medicina, vol. IIΙ (Medicina moderna), Prato, 1866, p. 158.
17
In un appunto non datato, probabilmente per una conferenza sul Petrarca, si
legge: "Leopardi da giovane fa un inno alla Religione. Adulto contempla l'Italia
che lo circonda e dispera di patria, e canta queste disperazioni non da Ateo
perché l'Ateo non può esser poeta, ma spera" (Carte Puccinotti, A VII 8,
interno del foglietto, col 2. Le parole "ma spera" si riferiscono ovviamente al
Leopardi). Che questo inno fosse una delle poesie religiose puerili, pubblicate
sulle carte recanatesi dopo la morte del Puccinotti, ο fosse una composizione
ancora inedita, l'accenno dimostra una conoscenza diretta ed intima della
produzione leopardiana; e fa pensare a uno scambio d'idee più profondo e
intenso di quello verificabile sull'epistolario.
Gli animisti antichi e moderni (Firenze, 1863), p. 10 (Estratto dal giornale
medico L'Imparziale dello stesso anno).
Zibaldone, 4288-89 del 1827.
Nella citata lettera alla Brunamonti Bonacci Puccinotti scriveva: "[...] noi
medici, che teniamo, dopo la scienza nostra, la letteratura per seconda moglie."
Aveva difatti rifiutato un articolo del Tonelli, nonostante l'interessamento del
Leopardi (1302, 1).
Lettera al Vieusseux del 2.2. 1824 (1179, 1).
V. il "Proemio" dell'Antologia del dott. G. Giusti (vol. 1, p. 4, gennaio 1821);
e R. Ciampini, G. P. Vieusseux: i suoi viaggi, i suoi giornali, i suoi amici
(Torino, 1953), p. 197. Le parole di una lettera al Giordani del 1828 (1321, 1)
sono una critica implicita della linea editoriale del Vieusseux. Il programma
dello Spettatore Fiorentino che Leopardi si proponeva di lanciare nel 1832 e
che fallì a motivo dell'opposizione governativa (la polizia granducale
considerava il poeta ideologicamente sospetto) ne dichiarava il carattere
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decisamente negativo: "Noi non miriamo né all'aumento dell'industria, né al
miglioramento degli ordini sociali, né al perfezionamento dell'uomo [...].
Confessiamo schiettamente che il nostro giornale non avrà nessuna utilità. [...]
Il nostro scopo, dunque, non è giovare al mondo." Ma si ricordi che per
Leopardi la negatività, spinozianamente concepita come pars destruens, era la
premessa essenziale per qualsiasi attività costruttiva del pensiero [Zibaldone,
2709-11].
Si veda però l'ipotesi di S. Timpanaro (Antileopardiani e moderati nella
sinistra italiana [Pisa, 1982], pp. 182-3) che il poeta si sia rivolto a Capponi,
che conosceva superficialmente, come a uno spirito affine; così come indirizzò
ad amici consenzienti, Pepoli e Ranieri, l'epistola e la satira I nuovi credenti.
Leopardi, cominciando "Errai, candido Gino [...]" non avrebbe pensato a
Candide bensì all'Orazio di Albi, sermonum nostrorum candide judex.
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Il concetto dell'irreversibilità del progresso e della necessità di accettarlo si
trova già nel "Discorso intorno alla poesia romantica," dove Leopardi ci tiene
a distinguersi da quei "filosofi che piangono l'uomo dirozzato e ripulito" (p.
918, 2) e afferma di non voler lodare i secoli antichi, ma solo proclamare che
l'ufficio del poeta è seguir la natura (p. 921, 2). V. anche "Detti memorabili di
Filippo Ottonieri" (pp. 145-6).
"Dialogo di un Fisico e di un Metafisico."
L'Histoire Naturelle de l'homme è citata nello Zibaldone a partire dal 1820.
L'Histoire Naturelle des Oiseaux è, com'è noto, la fonte dell'Elogio degli
uccelli.
"Dialogo della Terra e della Luna," "Discorso sopra lo stato presente dei
costumi degli italiani."
Nel "Dialogo di Ercole e d'Atlante" si allude allo schiacciamento polare,
confermato sperimentalmente dalle osservazioni del Maupertuis e di La
Condamine verso la metà del Settecento; e alla separazione delle masse terrestri,
fatto sospettato sin dall'antichità classica, ma diventato incontrovertibile solo nel
presente secolo, ad opera di Wegener.
L'opera fu liquidata dal Flora con queste parole (riportate anche dal Ghidetti):
"è una compilazione pura e semplice, nella quale il giovinetto L. trascrive ο
traduce le notizie, con tutte le citazioni e i rimandi a piè di pagina, dai non
molti libri di cui si avvale nella scolastica fatica"; laddove ci sarebbe voluta una
valutazione culturale di questo lavoro nel quadro complessivo dello sviluppo
intellettuale leopardiano, delle ragioni per cui il poeta quindicenne si
sobbarcasse a questa notevole fatica, e delle sue conseguenze. Va notato che
l'opera non si occupa solo di astronomia in senso stretto, ma anche di questioni
pertinenti alla fisica, alla religione, alla storia delle tradizioni e alla metodologia
scientifica; e che i "non molti libri" citati dal Leopardi come fonti primarie
(senza contare le note testuali di seconda ο terza mano) sono più di trecento, ad
opera di 230 autori ο curatori. Si vedano in proposito Ρ. Emmanuelli, "Giacomo
Leopardi storico dell'astronomia," in Archeion, Archivio di storia della scienza
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Vol. XIX, η. 2-3 (aprile-settembre 1937), 326-9; L. Gabba, "Una storia
dell'astronomia di G. Leopardi," Rivista rosminiana di filosofìa e di cultura
(1941) n. 35, 106-8; e M. A. Finocchiaro, "A Curious History of Astronomy:
Leopardi's Storia dell'Astronomia" Isis vol. 65 η. 229 (dicembre 1974), 517-19.
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La scommessa di Prometeo.
32
"Proposta di premi fatta all'accademia dei Sillografi." Vaucanson mori sedici
anni prima della nascita del Leopardi; Kempelen tre anni dopo; l'interesse per
le loro creazioni era ancora vivo agli inizi del secolo scorso. Va ricordato che
tale interesse era radicato nella cultura illuministica e si ricollegava a tutta una
problematica materialistica che, nelle sue varie forme, faceva capo a Descartes,
Lamettrie e Condillac, per sfociare poi nella filosofia degli idéologues. Sugli
automi si veda A. Chapuis e E. Droz, Les Automates. Figures artificielles
d'hommes et d'animaux. Histoire et technique, 2 voll. Neuchâtel, 1949. Sulla
conoscenza leopardiana del progresso tecnologico v. Hilda Norman, "Leopardi
and the Machine Age," in Philosophers and Machines, a cura di O. Mayr (New
York, 1976), pp. 146-57.
Zibaldone, 4198-99. I parafulmini sono indirettamente ricordati nella citata
"Proposta" (scritta alla fine di febbraio 1824), dove si parla di "parainvidia [...]
paracalunnie ο paraperfidia ο parafrodi." È probabile che Leopardi, interessato
ai lavori dell'amico Francesco Orioli, ne avesse visto De' Paragrandini
metallici (Bologna, 1823). Una lettera di Alessandro Volta sullo stesso
argomento fu pubblicata dell'Antologia nell'agosto 1823 (p. 194).
Vedi le "ferrate vie" (43); il "vapor" (44), che accomuna tutte le macchine
con questa forza motrice; l'elettricità vista metaforicamente come i "fulmini"
di Volta (81); "Anglia tutta / con le macchine sue" (83-4) e i generi di consumo
prodotti dalla rivoluzione industriale (107-21), compresa quella che più tardi si
sarebbe definita la loro planned obsolescence con termine inglese meno poetico
di "menstrua beltà" (119); "il varco" sotto il Tamigi costruito da Brunei a
Rotherhithe (126); l'illuminazione stradale a gas (128-31), il poeta condanna la
passione per la statistica in sé e per sé, senza sbocchi politici (139-45), per cui
si veda anche la lettera al Giordani del 24 luglio 1828 (1321, 1). Il colonialismo
è adombrato nei nomi di territori coloniali (29-30) e le guerre per cause
economiche e commerciali sono profetizzate ai w. 61-8. I "larghi fogli" (35),
cioè i giornali, sono un calco dall'inglese broadsheets.
L'importanza scientifica e poetica del Boscovic non era sfuggita al Leopardi
("Storia dell'Astronomia," 723). Sui rapporti tra lo scienziato gesuita e
l'ambiente illuministico milanese v. G. Costa, "Il rapporto Frisi-Boscovich alla
luce di lettere inedite di Frisi, Boscovich, Mozzi, Lalande e Pietro Verri,"
Rivista Italiana Storica 79 (1967), 819-76, con copiose indicazioni
bibliografiche. V. anche R. Vidotto, "Rudjer Boscovic a due secoli dalla morte:
precursore della scienza moderna," Panorama (Fiume), 19, 16, X (1987), 26-7.
Sermone sulla Mitologia (1825) vv. 27-8, 90-4, 157-65; se ne sente un'eco
nell'"acerbo vero" dell'epistola Al Conte Carlo Ρ epoli, 140.
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Newton è incluso tra i filosofi in Zibaldone, 2709; e in 2727-28 i "filosofi
propriamente detti" sono inclusi tra gli scienziati. Il padre G. B. Roberti così si
era espresso nella Lettera sopra l'uso della Fisica nella Poesia (Bologna, 1765),
p. xii (citata negli elenchi di letture leopardiane per il febbraio 1825; 376, 1):
"Urania, che è una filosofessa, non è ella una Musa? E poi perché non potranno
parecchi Poeti co' loro versi divenir filosofi se parecchi filosofi son divenuti co'
lor sistemi Poeti?"
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V. S. Timpanaro, Classicismo e Illuminismo nell'Ottocento italiano (Pisa,
1965), pp. 183-5; e Leopardi, Entro dipinta gabbia, a cura di Maria Corti
(Milano, 1972), p. 516. Ma lo Jacquier è meglio noto come matematico e fisico
che come teologo. Fu uno dei più influenti propagandistici delle idee
newtoniane in Italia e in Francia. Protetto dal Cardinale Alberoni, lo
accompagnò nella legazione di Romagna, ed entrò in contatto con i circoli
scientifici di Bologna. Nel 1746 ottenne la cattedra di fisica sperimentale a
Roma, e collaborò con Boscovic e Leseur ai calcoli per i lavori di assestamento
della cupola di S. Pietro. Socio delle accademie delle scienze di Parigi,
Pietroburgo, Berlino e della Royal Society, non trascurò nemmeno lui le Muse,
e fu pastore in Arcadia sotto il nome di Diofante Amicleo. Vedi Michaud,
Biographie Universelle, Vol. XX, pp. 513-14. Per la cultura filosofica del
giovane Leopardi v. Dissertazioni filosofiche, a cura di Tatiana Crivelli (Padova,
1995).
38
Zibaldone, 1650. V. anche "Comparazione delle sentenze di Bruto e
Teofrasto," 207-8; "Parini, ovvero della gloria," c. VII, 126-7.
Particolarmente dal suo trattato De l'influence des passions sur le bonheur
des individus et des nations (1796). In quest'opera, vera miniera di temi
leopardiani, la scrittrice aveva cercato di risolvere la dicotomia tra Natura e
Ragione che tanto aveva preoccupato il pensiero settecentesco e che avrebbe
ben presto esercitato la speculazione del Recanatese, e aveva proclamato che la
philosophie n'est pas de l'insensibilité: se essa libera dal giogo di una passione
predominante è solo per permettere all'animo di esplorare tutta una ricca
gamma di idee separate. Concetto ribadito nel capitolo successivo dedicato allo
studio, dove la combinazione e lo sviluppo delle varie idee astratte sono visti
come un mezzo per ravvivare felicemente la coscienza della propria esistenza
morale. "De l'influence," op. cit., in Oeuvres complètes, t. III (Paris, 1820), pp.
245 e 254. Vedi anche R. Mauzi, L'idée de bonheur dans la littérature et la
pensée françaises au XVIIIe siècle (Paris, 1965), pp. 266-67.
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"De l'Allemagne," in Oeuvres Complètes, Vol. XI (1820), pp. 311-12, 31415.
Su cui è ancora utile lo studio di Sofia Ravasi, Leopardi et M.me de Stael
(Milano, 1910).
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Francesco Maria non è nemmeno nominato negli indici del Flora, del BinniGhidetti, e perfino del normalmente accuratissimo Pacella che lo confondono
col fratello Giampietro, nonostante precise indicazioni bibliografiche nello
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Zibaldone e nelle Lettere. L'identità e l'importanza dello Zanotti non sono però
sfuggite a G. Bollati la cui introduzione alla Crestomazia italiana: la prosa
(Torino, 1968), contiene acute indicazioni sull'influenza dello scienziato
bolognese, e sulla formazione scientifica del Leopardi in genere (p. xc-xciii).
E neppure a M. De Zan, autore di un ottimo studio su "La possibile influenza
di F. M. Zanotti nelle riflessioni filosofiche di Leopardi sul valore della
conoscenza scientifica," Rivista di storia della filosofia n. 2 (1996), 271-310.
Su F. M. Zanotti e sul suo circolo si vedano anche: G. Fantuzzi, Notizie degli
scrittori bolognesi, 9 voll. (Bologna, 1781-84), e Notizie della vita e degli scritti
di F. M. Zanotti (Bologna, 1778); D. Provenzal, I riformatori della bella
letteratura italiana: Eustachio Manfredi, Giampietro Zanotti, Fernand'Antonio
Ghedini, Francesco Maria Zanotti. Studio di storia letteraria bolognese del
secolo XVIII (Rocca S. Casciano, 1900); L. Fabris, "F. M. Zanotti e i suoi scritti
filosofici," Giornale storico della filosofia italiana (1931) n. 2; G. CaponeBraga, La filosofia francese e italiana del Settecento (Padova, 1942), vol. II, pp.
41-8; l'introduzione di M. F. Sciacca a F. M. Zanotti, Scritti filosofici (Milano,
1943); F. Venturi. Settecento Riformatore (Torino, 1969), pp. 395-408. Sulla
Bologna del Settecento, v. R. Cocconi, Bologna nel sec. XVIII (Faenza, 1916);
L. A. Frati, Il Settecento a Bologna (Palermo, 1923); e B. Bellomo, Settecento
bolognese: vita e cronache (Bologna, 1936).
E. Bonora, "F. Algarotti," Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. II (1960),
p. 356.
Zibaldone 110, dov'è citato, il Saggio sulla lingua francese.
"Lettera al padre Giambattista Roberti," citata in Crestomazia italiana: prosa,
op. cit., p. 127-31.
Crestomazia, op. cit., pp. 326-27. Per il Leopardi il concetto di "provvidenza"
della natura è perfettamente compatibile con l'assenza di qualsiasi spiegazione
teleologica (si noti che l'unico brano dello Zibaldone suscettibile di
interpretazione teleologica, la pagina sul canto degli uccelli — Zibaldone, 159
— si trova ad appena un mese di distanza da Zibaldone, 208 — dove si asserisce
che ciò che noi attribuiamo alla Provvidenza è in realtà opera del caso). La
natura è provvidenzialmente ordinata nel senso che tende ad essere un sistema
in armonia, anche in armonia di contrari (Zibaldone, 2045-46); ma il suo
ordinamento non è a beneficio dell'uomo, e neppure dei viventi in genere.
"Omero e il Newton," in Crestomazia, op. cit., p. 473.
Entro dipinta gabbia, op. cit., pp. xvi-xviii.
Crestomazia, op. cit., p. 414-20.
Ibid., pp. 208-9; Zibaldone 2381-84. Leopardi avrebbe condiviso il giudizio
fortemente limitativo del Manfredi antologista di poesia per il Seicento; ed è
possibile che il misogallismo mostrato dal Manfredi nella famosa polemica
Bouhours-Orsi, comune a tutto il gruppo bolognese in varia misura, sia filtrato
fino al Leopardi. Secondo D. Provenzal, op. cit., il limitatissimo uso di
materiale secentesco fatto dal Manfredi nella sua Scelta di sonetti e canzoni de'
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più eccellenti rimatori d'ogni secolo, che va sotto il nome del suo discepolo
Agostino Gobbi (Bologna, 1709-1711) sarebbe un indice del suo gusto letterario
riformatore. Per il giudizio del Leopardi v. le note di G. Savoca in G. Leopardi,
Crestomazia italiana: la poesia (Torino, 1968), pp. 544-46.
Crestomazia, op. cit., pp. 476-77.
F. M. Zanotti, Poesie volgari, con una prefazione del conte Gregorio Casali
al padre G. B. Roberti (Bologna, 1757), pp. 121-2.
L'idea passa poi al Puccinotti, che, nella sua prolusione alle lezioni di
Patologia generale per l'anno 1829-30 riafferma il "grande principio filosofico:
che tutte le umane idee sono cognizioni di rapporti" (Opere, p. 1, Pisa, 1839,
p. 196).
La "descrizione" dello Zanotti è estesamente citata dal Leopardi in
Crestomazia: prosa, op. cit., pp. 263-76 (con lievi divergenze rispetto a F. M.
Zanotti, Opere scelte [Milano, 1818], p. 137-48 da cui traggo le altre citazioni).
Per le riflessioni su D'Alembert, Éloge de M. Jean Bernoulli, ν. Zibaldone,
4304.
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"Le seul moyen d'acquérir des connaissances est donc de rémonter à l'origine
de nos idées, d'en suivre la génération et de les comparer sous tous les rapports
possibles," Condillac, "L'Art de penser," in Oeuvres (Paris, 1798), pp. 128-9;
v. anche pp. 140, 241.
Crestomazia, prosa, op. cit., p. 265.
Ibid., pp. 266, 275 e 276. Idea non aliena alla sensibilità del Leopardi, il
quale si augurava di scrivere una Lettera ad un giovane del ventesimo secolo,
parlando, fra l'altro, proprio dell'insopprimibilità del processo di civilizzazione,
visto come una "grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura"
(Zibaldone, 4279-80).
Crestomazia: prosa, op. cit., pp. 271 e 273.
Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, op. cit., pp. 771, 772.
Lettera a Pietro Colletta del marzo 1829 (1336, 2). Vi si citano i Paradossi
dello Zanotti.
"Della forza etc." in Opere scelte, op. cit., pp. 30-1.
Vi parteciparono, fra gli altri, Huygens, Maupertuis, D'Alembert, i fratelli
Bernoulli, Voltaire, Boskovic e, indirettamente, Newton, il quale fece presentare
le sue idee da Samuel Clarke (v. A. Koyre e I. Bernard-Cohen, "Newton and
the Leibniz-Clarke controversy," Archive International d'histoire des sciences
15 [1962], 63-126). Sulla controversia v. R. Dugas, Histoire de la méchanique
(Paris-Neuchatel, 1950) (di cui ho consultato la traduzione inglese A History of
Mechanics [Neuchatel, 1955], partic. p. 160 segg., 218-69); A. Wolf, A History
of Science. Technology and Philosophy in the Eighteenth Century (London,
1938), pp. 61-6; M. Jammer, Concepts of Force: A Study in the Foundations of
Dynamics (Cambridge, MA, 1957), pp. 158-9; L. Geymonat, Storia del pensiero
filosofico e scientifico, Vol. ΙII, Il Settecento (Milano, 1970), p. 221; Ρ.
Costabel, "Le De viribus vivis de Roger Boscovich ou de la vertu des querelles
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des mots," Archive International d'histoire des sciences 14 (1961), 3-12; T. L.
Hankins, "Eighteenth-century attempts to resolve the Vis viva controversy," Isis
56 (1965), 291-7.
Hélène Metzger, Attraction universelle et religion naturelle chez quelques
commentateurs anglais de Newton (Paris, 1938).
È riferita dal Leopardi nella Storia dell'astronomia (692-93).
Classicismo e illuminismo, op. cit., pp. 183-7.
Opere scelte, op. cit., p. 118.
Ibid., pp. 123-24.
Vedine la definizione in Zibaldone, p. 2731.
V. in proposito le osservazioni di S. Timpanaro, Sul materialismo (Pisa,
1970), p. 12 segg.
Sul rapporto in Leopardi tra lingua e nazione si veda G. Talamo, "Leopardi
e la storia d'Italia a lui contemporanea," in Il pensiero storico e politico di
Giacomo Leopardi (Firenze, 1989), pp. 69-90.
In Zibaldone, 1720 Leopardi si prospetta il rifiuto da parte del pubblico della
verità contenute nel suo sistema, e auspica che esse abbiano la fortuna di esser
ripetute. La parentesi a p. 2055-56 ("Questa interpretazione [...] non so se sia
vera. A me basta che quest'esempio spieghi a me stesso il mio pensiero")
potrebbe servire a giustificare un possibile errore agli occhi di un futuro lettore.
Espressa in una lettera al Lampertico: v. Lettere, op. cit., pp. 416-18.
Ad esempio, da Piero Bigongiari (Leopardi, Firenze, 1976); ma già il diffuso
commento di Ireneo Sanesi (Firenze, 1931) esprimeva un giudizio negativo. La
"Palinodia" è assente anche dalle Lezioni leopardiane di Walter Binni
recentemente raccolte da Novella Bellucci (Firenze, 1994).
Il primo è un "giovanile errore" del Fubini, che duole però veder ristampato
nel suo per altro ammirevole commento alle Operette (Loescher, 1966); dove
si legge che "il cuore profondo del Leopardi" non è impegnato nel Frammento,
e che esso è "scarsamente significativo." Il secondo commento in Menotti
Ciardo, Le "Operette morali" di G. Leopardi (Bologna, 1971).
In una lettera al Valorani del 2 novembre 1837 Puccinotti si lamentava
dell'accoglienza fatta ai suoi "Dialoghi" sulla teoria rasoriana della flogosi
notando che "il celebre Giacomo Leopardi scrisse in dialoghi le sue inimitabili
Operette morali; e la morale credo che sia cosa che in gravità non la cede punto
alla medicina" (Lettere, op. cit., p. 136).
Inutile ricordare che questi concetti facevano già parte della polemica
antiprovvidenzialistica e antiteleologica di Voltaire; e che ancora oggi studiosi
come Richard Dawkins e Stephen Jay Gould ritengono utile riaffermarli contro
le diffuse fantasie creazionistiche.
Sul materialismo, op. cit., p. 48 e segg. Fra questi trattati non va dimenticato
il Ragionamento al signor Conte Gregorio Casali sopra un libro franzese del
signore di Maupertuis intitolato Essai de philosophie morale dello Zanotti; che
andrebbe studiato sia come possibile tramite per il Leopardi delle idee del
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Maupertuis, mai direttamente citato nello Zibaldone eppure presente in molti
spunti della teoria leopardiana del piacere; sia come esempio del modo in cui
Leopardi sapeva distaccarsi dalle idee di cui riconosceva Γ influenza.
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V. l'indice analitico dello Zibaldone (Binni-Ghidetti ο Pacella) s. v. relatività.
Ad es.: nel Dialogo della Natura e di un islandese e in Zib., 4257-59.
L'identificazione di Dio e Natura appare già nel principio di un rifacimento
del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (906, 1) ed è ribadita in
Zibaldone, 393.
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La discussione dei modi di essere di Dio è sviluppata in Zibaldone, 16371646, 1710-12 e 2073-75. Per questa via Leopardi arriva perfino a dichiarare
l'inadeguatezza del principio aristotelico di non contraddizione, spingendosi
molto vicino ad una concezione dialettica (Zibaldone, 1627, 4099 e 4129). Egli
vede bene che il vero e il falso, il sostanziale e l'apparente, l'insensibilità e la
sensibilità, il ghiaccio e il fuoco, la pazienza e l'impazienza, l'impotenza e la
somma potenza, il piccolissimo e il grandissimo, la matematica e la poesia, e
perfino la sua famosa coppia di irriducibili nemici, la natura e la ragione,
dipendono ο sono legati essenzialmente gli uni cogli altri, come lo sono tutti i
contrari, e non possono essere considerati isolatamente gli uni dagli altri. Più
che di incapacità del Leopardi di arrivare alla soluzione dialettica elaborata da
Hegel è forse meglio parlare di riluttanza dovuta ad una diversa prospettiva
ideologica. Vedi al proposito le osservazioni di Timpanaro in Classicismo e
illuminismo, op. cit., pp. 180-2, e di Solmi, Studi e nuovi studi leopardiani
(Firenze, 1975), pp. 6-7.
Storia dell'astronomia, op. cit., pp. 712 e 2; e Zibaldone, 4130; v. anche
Zibaldone, 1531.
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