Fernando Di Mieri 201 'IL RISORGIMENTO' Come in un vortice si rincorrono, a legger Leopardi, speranza, noia, desiderio, immaginazione, infinito, piacere, morte, infelicità, natura, fantasia, nulla .... Ogni nozione richiama insistentemente altre e queste ancora altre, in un continuo movimento, che rinvia alla scaturigine vertiginosa di un pensiero, la cui lettura si presenta irta di difficoltà. Difficoltà che aumentano per la presenza di forme espressive, non sempre filosoficamente organiche, una visibile evoluzione di posizione, la pluralità di significato, spinta talora almeno fino all'ambiguità (se non all'incoerenza), di parole chiave. Dispostissimo alla filosofia e sommo poeta fu il Leopardi, incarnando in se stesso quanto aveva sostenuto in tesi in un passo del suo Zibaldone, scrivendo che poesia e filosofia, al di là di certi caratteri discordanti, si richiamano reciprocamente e condividono un medesimo destino, anche nella considerazione pubblica e nel successo economico: 1 2 È tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua natura e proprietà il bello, e la filosofia ch'essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa più contraria al bello; sieno le facoltà le più affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi né l'uno né l'altro non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s'ei non partecipa più che mediocremente dell'altro genere, quanto all'indole primitiva dell'ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell'immaginazione [...]. La poesia e la filosofia sono entrambe del pari, quasi le sommità dell'umano spirito, le più nobili e le più difficili facoltà a cui possa applicarsi l'ingegno umano. E malgrado di ciò, e dell'esser l'una di loro, cioè la poesia, la più utile veramente di tutte le facoltà, sia la poesia, come la filosofia son del pari le più sfortunate e dispregiate di tutte le facoltà dello spirito. 3 Un bisogno reciproco spinge filosofia e poesia l'una verso l'altra, Fernando Di Mieri 202 ma senza commistioni omogeneizzanti, esattamente come la ragione ha bisogno delle illusioni e ogni cosa del suo opposto: verità che lasciano trasparire echi di una sapienza già antica. È nel nulla, come si vedrà, che nel Leopardi maturo poesia e filosofia trovano lo sfondo, il riferimento, la sorgente comune: 4 Complicità di poesia e filosofia, dunque. Ma su che cosa è basata questa complicità, se non sulla comune partecipazione all'ontologia del nulla? Precisamente ciò che il nichilismo, fermo al conflitto generatore dell'intera storia umana tra mondo vero e mondo falso, tra mondo dell'illusione vitale e mondo della verità mortifera, non vede né può vedere. 5 *** È il 1828, Leopardi ha percorso circa sei anni di pressoché totale aridità, non artistica ma poetica, durante i quali ha atteso alla composizione di gran parte di quel capolavoro della prosa italiana che sono le Operette morali. I soli parti poetici restano in sostanza "Alla sua donna" (1823), il "Coro di morti," che dà l'avvio al "Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie" (1824), l'epistola "Al conte Carlo Pepoli" (1826). Nel 1825, aveva detto di sé: "Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibilissimo che più non sente ec." Nello stesso anno, in una lettera al Giordani aveva chiarito i suoi interessi dominanti al tempo: "Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d'inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell'universo." Il pensiero si precisa in un senso sempre più decisamente materialistico, giunge ad espressioni aspre che non si giustificano se non sulla base di una religiosità voluta con forza, ma dalla quale è stato deluso per aver voluto imporle aspettative esclusivamente proprie. L'ostilità cresce così intensamente da giungere alla bestemmia. E, si sa, il bestemmiatore vero è colui che, magari in un'intimità non riconosciuta, non può non sentire almeno il bisogno di Dio: 6 7 8 'Il risorgimento ' 203 Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male, che ciascuno cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male, l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere; non v'ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose; tutte le cose: sono cattive. 9 Nel '27, tuttavia, si nota in Leopardi una "ripresa sentimentaleespressiva," per usare le parole di Binni. Il poeta svolge un'intensa meditazione sui temi della memoria personale, sui morti. Compone due Operette morale: Il Copernico, "incentrato 'sopra la nullità del genere umano' e sulle equivalenze giovinezza-poesia, maturità-filosofia, ed il 'Dialogo di Plotino e di Porfirio' che coincide col momento di crisi della 'morale dell'atarassia' ed è decifrabile come allegoria del dissidio morte-vita." 10 La salute del poeta non è felice, quando si trasferisce da Firenze a Pisa nel 1827, agli inizi di novembre, restandovi fino ai primi di giugno dell'anno successivo. La dolcezza e la salubrità del clima, l'ambiente socialmente stimolante, dove si sentivano "parlare dieci ο venti lingue," la luminosità (per non dire dell'economicità del soggiorno), l'esser Pisa "un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico" quale, Leopardi dice, non aveva mai veduto altrettanto producono un miglioramento delle sue condizioni fisiche e insieme favoriscono la fioritura di una stagione diversa che già si preparava nel suo animo. Leopardi percepisce qualcosa di nuovo, ritornano in lui gli affetti, la vitalità delle immagini. Ne troviamo viva testimonianza nell'epistolario, quando scrive: "[...] ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo 'Via delle rimembranze': là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti. Vi assicuro che in materia d'immaginazioni, mi pare di esser tornato al mio buon tempo antico." Scrive di buona lena e ne derivano lavori di pregio ineguale, comunque importanti per la storia della sua anima. Si impegna in attività editoriali. Il primo concreto segno di ripresa poetica avviene con "Scherzo," diciotto endecasillabi e settenari composti il 15 febbraio 1828. Binni ne ha segnalato la somiglianza con La Fucina d'Amore di De Rossi. È una riflessione sul labor limae poetico che va, com'è stato fatto, naturalmente collegato alle espressioni contenute nella contemporanea prefazione "Ai lettori" della Crestomazia poetica: 11 12 13 14 Fernando Di Mieri 204 Sarà poco meno che superfluo l'avvertire i giovani italiani e gli stranieri, che nei passi che qui si propongono di poeti ο di verseggiatori di questo secolo e della seconda metà del decimottavo, cerchino sentimenti e pensieri filosofici, ed ancora invenzioni e spirito poetico, ma non esempi di buona lingua, né anche di buono stile. 15 Leopardi, preso per mano da una delle Muse al cui seguito si era posto, visita l'"officina" della scrivere. Ella gli mostra ogni strumento, chiarendone la funzione "nel lavoro delle prose e de' versi." Quando però il discepolo chiede ove si trovi la "lima," la risposta è netta: "la lima è consumata; or facciam senza" ed "hassi a rifar, ma il tempo manca." Un impegno polemico, come si vede, indizio di una precisa vigoria intellettuale, di una chiarezza di posizioni anche in questa materia. Tuttavia, senza considerare "Il canto della fanciulla," un abbozzo dalla datazione tutto sommato incerta e in cui manca il tema del ricordo, è con "Il risorgimento," scritto tra il 7 e il 13 aprile 1828, e "A Silvia," del 19-20 aprile, che Leopardi torna davvero alla poesia. Avrà ben ragione di dire, ancora alla sorella Paolina il 2 maggio dello stesso anno: "[...] dopo due anni, ho fatto dei versi quest'Aprile; ma versi veramente all'antica, e con quel mio cuore d'una volta." Non è possibile però dire "Il risorgimento" un monumento perenne della poesia, e giustamente non ha goduto di vasta fortuna presso la critica: "[....] non si dica per il metro" — scrive Russo — "che appare troppo metastasiano, ma piuttosto perché il tutto si svolge come un'ordinata storia di stati d'animo. La simmetria del narrare fa capire che non si stratta di vero canto, ma di una ricapitolazione, o, se piace meglio, di una prefazione alla poesia che urgeva nuova nel petto del poeta." Sul piano formale, dunque, il modello è la canzonetta del Settecento, quale è stata usata talvolta da Bertola ο Parmi ("Il brindisi") ο Metastasio ("La libertà"). Sono venti strofe di otto versi settenari (doppie quartine). Il primo e il quinto di ognuna sono sdruccioli, il quarto e l'ottavo tronchi, mentre i due centrali di ogni quartina sono in rima baciata. Il riferimento più alto appare proprio Metastasio. Potrebbe sembrare strana questa scelta per un lettore dei giorni nostri, al quale Leopardi parla nel più intimo del cuore con vicinanza di affetti, mentre il poeta settecentesco appare glacialmente lontano. Il giudizio leopardiano è invece profondamente diverso: "[...] la vera poetica facoltà creatrice, sia quella del cuore ο quella della immaginativa, si può dire che dal cinquecento in qua non si sia più veduta in Italia; e che un 16 17 18 19 20 21 22 'Il risorgimento' 205 uomo degno del nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso." È interessante vedere quanto Giacalone scrive a proposito dell'opera metastasiana, poiché contribuisce a render ragione della particolare opzione leopardiana: 23 [...] il poeta, pur nei modi del suo gusto arcadico e rococò, quasi ad imitazione dei poeti civili, ha inteso celebrare "quella vittoria sugli inganni dell'animo che sola consente di guardare le cose con gli occhi ancora memori di commozione ma illimpiditi dal disincanto [...] né appare un caso che quella conquistata limpidezza di sguardo abbia suggerito un movimento analogo al Leopardi che nel 'Risorgimento' canta la ritrovata capacità di contemplare il reale attribuendola ad una facoltà da lui denominata cuore" (Galimberti). In questo senso il poeta vuole esaltare la libertà come disposizione psicologica, come atteggiamento morale, che gli consente di affrontare le difficoltà della vita con quel distacco indispensabile per non lasciarsene più coinvolgere pienamente fino alla sofferenza. 24 Come si vedrà, "Il risorgimento" parte dal ricordo di stati di varia prostrazione causati senz'altro in maniera determinante anche dalla scoperta del nulla per andare alla descrizione di un sentimento nuovo ed alacre, ma infondato, giacché il vero permane in tutta la sua terribile chiarezza. Sicché Leopardi deve per un verso far percepire, anche mediante l'ausilio del metro, la nuova, inebriante condizione, per un altro il contenuto non può nascondere le verità conquistate. Insomma, non è difficile capire l'esigenza di trovare una modalità espressiva idonea alla percezione della nuova capacità di sentire, immaginare, cogliere il linguaggio della natura e adatta insieme a far capire l'illusorietà di tale risorgimento. Per Leopardi la canzonetta settecentesca è la scelta più valida a rendere il risorgimento del suo spirito e insieme la distanza necessaria al mantenimento ed alla contemplazione della "dolorosa" verità concreta. ***** Non sarà mio intendimento azzardare rivalutazioni senza speranza. Cercherò, invece, di evidenziare il contenuto filosofico del canto, di indiscutibile importanza per la storia dell'anima leopardiana, vedendo come in questa fase i grandi nuclei tematici del "sistema" si collochino, quali coloriture assumano, quali relazioni intrattengano fra di loro. Lucido si presenta il dire leopardiano, in una poesia organicamente strutturata e compiuta, in cui tra i due fondamentali linguaggi, del vero Fernando Di Mieri 206 e del vago, è senz'altro l'uno a prevalere, ma l'altro "germina pur sempre, sia dal tema della rimembranza, che vi ricopre un ruolo fondante [...] sia dal vocabolario quantitativamente ridotto ma riccamente polisemo." Il canto si snoda, come si accennava, per centosessanta versi ed è rigorosamente strutturato. La divisione più immediata si coglie in due parti di eguale lunghezza. Ottanta versi per ripercorrere alcune fasi della vita passata, ottanta per suggerire i segni di un risveglio, una ripresa che, illusoria di sicuro, rende però la vita degna d'esser vissuta. Entro ognuna di queste parti, in particolare entro la seconda, è possibile cogliere ulteriori interrelate suddivisioni. Della prima metà, il ricordo è la cifra essenziale. Leopardi individua alcune tappe della biografia che, è doveroso dirlo, non vanno assolutizzate. Dopo gli inganni adolescenziali, con il loro portato di speranze disilluse, Leopardi giunge alla maturazione di un sentimento triste della personale esistenza, che trova la sua espressione piena nei piccoli idilli. Ciò che consente di gradire la vita, scompare. Le illusioni si rivelano per tali, anche se non per questo vanno escluse dalla vita umana. Anzi, restano necessarie per tenersi spiritualmente in piedi: 25 26 27 Il più solido piacere di questa vita è il piacere vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale, stante ch'elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell'uomo e voluti dalla natura e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. 28 Leopardi, con accenti talvolta petrarcheschi, vive la credenza timorosa che alla sua giovinezza sarebbero state negate le gioie del sentimento: Credei ch'ai tutto fossero in me, sul fior degli anni, mancati i dolci affanni della mia prima età: i dolci affanni, i teneri moti del cor profondo, qualunque cosa al mondo grato il sentir ci fa. (vv. 1-8) Sente per la prima volta mancare finanche il dolore. Piange. La vita si 'Il risorgimento' 207 riduce a ghiaccio. Nulla di quanto gli sorrideva — la natura nei suoi più vari aspetti — risplende ai suoi occhi negli aspetti migliori, ma si presenta invece in una dimensione statica, di morte, di buio. È il momento in cui Leopardi scopre il carattere illusorio e vacuo delle sue idealità ed aspirazioni e giunge a stati d'animo di abbandono delle lusinghe del mondo e di assenza e gelo nella vita interiore. In una lettera al Giordani scrive: Sono così stordito del niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna per rispondere alla tua del primo. Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove io mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte, non perch'io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo; e sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell'animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch'è un niente anche la mia disperazione. 29 Una considerazione che gli impedisce addirittura la concentrazione, uno stato che trova, per esplicita ammissione del poeta, il suo luogo di origine nella scoperta del nulla, da tanta parte della cultura contemporanea ravvisato in un mondo privo di fini superiori: Quante querele e lacrime sparsi nel novo stato, quando al mio cor gelato prima il dolor mancò! Mancàr gli usati palpiti, l'amor mi venne meno, e irrigidito il seno di sospirar cessò! Piansi spogliata, esanime fatta per me la vita; la terra inaridita, chiusa in eterno gel; deserto il dì; la tacita Fernando Di Mieri 208 notte più sola e bruna; spenta per me la luna, spente le stelle in ciel. (vv. 9-24) Quel pianto è tuttavia motivato dall'attitudine a sentire gli affetti del reale e dimostra pur sempre la vitalità del cuore. La spossata fantasia è alla ricerca delle antiche immaginazioni. La tristezza è dolore. Pur di quel pianto origine era l'antico affetto: nell'intimo del petto ancor viveva il cor. Chiedea l'usate immagini la stanca fantasia; e la tristezza mia era dolore ancor. (vv. 25-32) Ne "Il risorgimento," il dolore è innanzitutto indice di vitalità. "Privo del valore redentivo assegnatogli dalle religioni confessionali, il dolore si carica nella speculazione leopardiana di valenze rivelative: apre il cuore dolorante della realtà e svela il segreto dell'essere. Si rivela insomma come unica forza che riesce ad aver ragione del male, poiché senza di esso la gioia risulta inaccessibile." Quando viene a mancare del tutto, non resta che una condizione prossima all'inerzia del cadavere. Vien meno ad un certo punto addirittura il dolore: una fase attonita, che poi occuperà un tempo diffuso e duraturo. Abissale la differenza rispetto alle percezioni di un tempo. 30 Fra poco in me quell'ultimo dolore anco fu spento, e di più far lamento valor non mi restò. Giacqui: insensato, attonito, non dimandai conforto: quasi perduto e morto, il cor s'abbandonò, (vv. 33-40) La contemplazione rapita degli uccelli nella grazia dei loro movimenti, nel piacere del loro canto non commuove più il poeta. Eppure è ben noto quanto egli abbia indugiato in proposito. In 'Il risorgimento' 209 un'Operetta agli abitanti del cielo esplicitamente dedicata, aveva scritto: "Gli uccelli per lo più si dimostrano nei moti e nell'aspetto lietissimi; e non da altro procede quella virtù che hanno di rallegrarci colla vista, se non che le loro forme e i loro atti, universalmente, sono tali, che per natura dinotano abilità e disposizione speciale a provare godimento e gioia: la quale apparenza non è da riputare vana e ingannevole." Non parla più al suo cuore il giorno che declina nella diletta stagione autunnale, per lui così speciale nel sole, negli oggetti, nelle nubi, nell'aria. A nulla serve, per un simile ottundimento interiore, l'amore "immaginato" (per Teresa Carniani-Malvezzi). Triste per esser privo di ogni lenimento affettivo "non ha altro espediente per vivere, né altro produce in lui la natura stessa e il tempo, che un abito di render continuamente represso e prostrato l'amor proprio, perché l'infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma." 31 32 33 Qual fui! quanto dissimile da quel che tanto ardore, che sì beato errore nutrii nell'alma un di! La rondinella vigile, alle finestre intorno cantando al novo giorno, il cor non mi feri: non all'autunno pallido in solitaria villa, la vespertina squilla, il fuggitivo Sol. Invan brillare il vespero vidi per muto calle, invan sonò la valle del flebile usignol. E voi, pupille tenere, sguardi furtivi, erranti, voi de' gentili amanti primo, immortale amor, ed alla mano offertami candida ignuda mano, foste voi pure invano al duro mio sopor. (vv. 41-64) Fernando Di Mieri 210 Nulla è capace di scuotere una condizione ormai di puro avvilimento. Il desiderio, anche quello di morire, scompare dall'intimo. In questo modo Leopardi vien conducendo la primavera, che il destino ha voluto breve e passeggera per l'uomo, della sua vita. D'ogni dolcezza vedovo, tristo; ma non turbato, ma placido il mio stato, il volto era seren. Desiderato il termine avrei del viver mio; ma spento era il desio nello spossato sen. Qual dell'età decrepita l'avanzo ignudo e vile, io conducea l'aprile degli anni miei così: così quegli 'ineffabili giorni, ο mio cor, traevi, che sì fugaci e brevi il cielo a noi sortì. (vv. 65-80) Che cos'è accaduto di così terribile per spiegare lo scoramento del poeta? Va da sé che per fornire una risposta, è doveroso contemplare, nell'equazione personale di Leopardi, una pluralità di motivi: particolari disposizioni di fondo, momenti delle esperienze di vita, i risultati di un'assidua indagine filosofico-teologica. E allora, sul piano psicologico: un atteggiamento fondato sulla speranza e la ricerca di un soddisfacimento alla propria immaginazione, alla propria fantasia. Sul piano filosofico-teologico: l'abbandono delle verità tradizionali e la scoperta del nulla. Sullo sfondo, in un grado impossibile da determinare in un senso ο nell'altro, la condizione fisica del poeta ed il contesto familiare. Non sarà possibile esaminare partitamente ognuno di questi grandi temi. Alcuni cenni per qualcuno d'essi sarà però dato. Va precisato in via preliminare che, al di là di ogni possibile discussione sulla sua religiosità, sussistono in Leopardi ambizioni e desideri decisamente intramondani ed immanenti. L'aspirazione alla gloria, fortissima in lui fin da tenera età, e il bisogno di amore da sentire carnalmente palpitante, uniti ad una natura fondamentalmente 34 'Il risorgimento' 211 sognatrice e malinconica, mossa da potenti fantasie (talvolta incline anche alla menzogna), si muovono entro l'ambito terreno. Quando prenderà le distanze dalla religione tradizionale, la sua natura sensibile e fantastica si troverà priva di ogni sostegno datore di senso e di ordine. Leopardi ha fin dalla più grave sua crisi spirituale, quella che lo fa affacciare per l'appunto sull'abisso del nulla, anzi a penetrarvi e a parlare da quella profondità, chiara consapevolezza dei movimenti fondamentali di pensiero che a quell'abisso medesimo conducono. Vi è nella tradizione un mondo necessario ed ideale che serve di fondamento al mondo transeunte e relativo. La modernità ha messo in crisi il primo mondo, dunque il secondo è diventato nulla. Le idee platoniche, le uniche a suo dire che possano garantire l'esistenza di Dio, sono abbandonate: "[...] è chiaro che la distruzione delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta, e de' loro contrarli. Vale a dire di una perfezione ec. la quale abbia un fondamento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendente da loro." E ancora: "[...] In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v'è ragione assoluta perch'ella non possa non essere, ο non essere in quel tal modo ec. [...] Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio." Un risultato speculativo ottenuto non solo da letture sensistiche e materialistiche, quindi un filone caratterizzante della modernità, ma anche dalla meditazione di correnti del pensiero antico, che lo portano a ritenere irrimediabilmente dissolte le forme più evidenti del platonismo tradizionale. Se le idee non hanno più giustificazione di esistere, la stessa nozione di Dio vien meno. Con Lui è distrutto anche il mondo, almeno nella visione sostanzialistica. Non che sia stato annichilito del tutto, ma si fa nulla data la mancanza di fondamento e di finalità, dati il suo relativismo e la sua contingenza: "Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla." Il nulla leopardiano è il sentimento di vuoto universale, immaginarietà, inconsistenza com'è provato in abbondanza da vari passi dello Zibaldone. L'uomo, e quindi anche Leopardi, vive nel nulla e potrebbe dare un senso e un valore più profondo alla sua meditazione sull'insussistenza e la contraddittorietà solo riconoscendosi capace di 35 36 37 38 39 Fernando Di Mieri 212 trascendenza verticale, ma Leopardi, irretito com'è nell'immanente, non può rendere certo adeguatamente conto di queste problematiche e dei loro risvolti esistenziali. Pulsioni fondamentali dello spirito umano e risultanze metafisiche si ritrovano intrecciate in un groviglio inestricabile. Il sentimento del nulla, quindi la percezione delle cose come nulla, viene abilmente ricondotto alla sua origine naturale, all'insufficienza dei piaceri, cioè ad un'impossibile felicità, ed alla nostra tensione verso l'infinito. Leopardi insiste con particolare vigore sulla mancanza di corrispondenza tra un principio logico fondamentalissimo come quello di non contraddizione e quanto avviene in natura che è esattamente contraddittorio: Non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura [...]. Or l'essere, unito all'infelicità, ed unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a se stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità [...]. Dunque l'essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo. 40 Nulla ed infinito si offrono insieme allo studio del ricercatore. Niente [...] nella natura annunzia l'infinito, l'esistenza di alcuna cosa infinita. L'infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia. [...] Or quelle grandezze [...] che noi non possiamo concepire, noi le abbiam credute infinite [...]. Ma l'infinito è un'idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell'esistenza di esso, neppur per analogia [...]. Pare che solamente quello che non esiste [...] possa essere senza limiti, e che l'infinito venga in sostanza ad esser lo stesso che il nulla. 41 È nulla inoltre non per sé, ma per noi, perché non può essere utile alla nostra felicità. E così le cose esistenti, e niuna opera della natura né dell'uomo, non sono atte alla felicità dell'uomo (10 luglio 1823). Non ch'elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l'uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch'egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Così elleno son nulla alla felicità dell'uomo, non essendo un nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla Ίl risorgimento' 213 la miracolosa e stupenda opera della natura [...] Benché a noi per verità ed in sostanza a nulla serva? 42 Risulta in tutta la sua evidenza che Leopardi, nulla egli stesso ed immerso nel nulla, non fa altro che portare a termine, con inflessibile coerenze, quanto il pensiero radicalmente materialista comporta. Questo mondo non può dirsi semplicemente sospeso in un luogo intermedio tra assenza di principio e di fine, ma in questo "tra" rivela, nella finitezza e nel limite, la sua nullità, mancando di un aggancio realmente metafisico. Ovviamente, Leopardi non è ingenuo al punto da negare se stesso, la terra calpestata. Il suo mondo però — privo di un fondamento ontologico avvolgente — dunque è inconsistente, è nulla. Egli altro non fa che costruire una particolare ontologia. Se si vuole, com'è stato fatto con espressione in un certo senso ossimorica, un'ontologia del nulla. Nulla dunque è il vuoto, il relativo, la mancanza di necessità. Nulla è l'assenza di fondamento eterno, immutabile, che produce un sentimento di inconsistenza. È la contingenza e il relativismo radicali. Per la sua stessa insistenza sull'infinito, l'opera di Leopardi è dominata da un impulso religioso. Né v'è chi non veda nelle sue più note espressioni una profonda ansia di trascendenza. Addirittura è stata rilevata una religiosità dai tratti marcatamente apofatici. "Se, dunque," — ha scritto ad esempio Moretto — 43 nello spazio del religioso, denominato da Schleiermacher Universo, la figura del Dio persona risulta alla fine criticata e superata, nello "spazio immenso," dischiuso dal finale del canto del Gallo silvestre [...] si rivela caduca e superata la figura stessa dell'Universo, e al suo posto subentrano il "silenzio nudo" e la "quiete altissima," che sono i nuovi nomi conferiti da Leopardi, in consonanza con la tradizione mistica d'Oriente e d'Occidente, al Deus absconditus et ineffabilis. 44 Tuttavia, è doveroso stabilire dei punti fermi. Va sempre ricordato, ad evitare facili suggestioni ed ancor più facili passaggi concettuali, che vi è nella tradizione mistica un nulla per sovrabbondanza di pienezza ed un nulla per assenza di valore, sostanza, significato; allo stesso modo vi è il silenzio di ciò che ricomprende in sé ed oltrepassa la parola sensibile e il silenzio, di cui troppo spesso il mondo conosce i tristi effetti, della parola inespressa per imposizioni esterne ο assenza di tensione, incapacità progettuale ο altro. Leopardi con grave difficoltà può essere collocato tra i campioni poetici di un pensiero autenticamente Fernando Di Mieri 214 apofatico. Sicché, per quanto assurdo possa essere un linguaggio di questo genere, se i nomi rientrano effettivamente nella tradizione teologica la "cosa" significata non è rigorosamente la stessa. Se il riconoscimento dell'uomo come essere naturaliter votato alla trascendenza appare senz'altro come una sorta di prerequisito e senz'altro fra i momenti iniziali di una vera religiosità, va anche detto che questa dovrà essere poi proseguita, per quel che è possibile, compiuta. Nulla sembra esservi che autorizzi a pensare ad una tale conclusione. Al contrario, appare chiaro che il Leopardi maturo si aggira pienamente nell'intramondano. Da lontano Leopardi era partito nelle sue riflessioni, per giungere poi all'equazione tra infinito e nulla, già implicita nella nozione di infinito come indefinito. Se infinito è il desiderio, una forza elementare sempre attiva perché mai soddisfatta, esso sarà placato solo da un'immaginazione indefinita. Questa, confusa "con la facoltà conoscitrice," produce l'illusione, nelle psicologie più remote di fanciulli e primitivi, che le prospettive da essa offerte siano reali, che esista davvero l'infinito. Lo sguardo disincantato del conoscitore del vero, invece, vede l'origine propria dell'infinito nell'esigenza radicata di cogliere ciò che ci supera abissalmente. Ma se l'infinito non è reale, sarà nulla. Se ne potrà certo dare un'immagine nella rimembranza, ma nulla di più. Lo slittamento verso posizioni con forze materialiste, che vedono l'affaticarsi del mondo in un dimensione priva della luce del trascendente, ma "eterna," è forse una difficoltà? Sarebbe solo il tempo a sfuggire alle strette maglie del limite? La risposta leopardiana è inequivoca: 45 Il tempo non è una cosa. Esso è uno accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla; [...] In somma l'esser del tempo non è altro che un modo, un lato, per dir così, del considerar che noi facciamo la esistenza delle cose che sono, ο che possono ο si suppongono poter essere. Medesimamente dello spazio. Il nulla non impedisce che una cosa che è, sia, stia, dimori. Dove nulla è, quivi niuno impedimento è che una cosa non vi stia ο non vi venga. Però il nulla è necessariamente luogo. 46 La meditazione sul nulla va collegata inoltre naturalmente con quella sul male che troverà espressione oltre che in alcuni passi dello Zibaldone, nell'"Inno ad Arimane," "Re delle cose, autor del mondo, arcana/malvagità, sommo potere e somma/ intelligenza, eterno/ dator de' 'Il risorgimento' 215 47 mali e reggitor del moto." In tal modo si spiega l'inversione a cui temi fondamentali della teologia e dell'ascetica cristiane sono piegati nella opera leopardiana. Il 17 maggio 1829 scriverà, in un crescendo pessimistico: Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell'ordine, che fonda l'ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v'è del male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario? Dico, in un ordine ove il male è essenziale. 48 ***** Sul piano antropologico abbiamo un desiderio infinito dell'uomo di conoscere e amare, un'aspirazione fondamentale alla felicità, la bramosia di realizzazione connessa ad una speranza. Ed è il caso di ripercorrere tratti di queste idee fondamentalissime che Leopardi analizzò con acume fin dagli inizi della sua maturità di pensiero. L'uomo è per natura essere desiderante, e si sa quanto il collegamento tra desiderio e infinito sia stato argomento principe nell'apologetica religiosa. Allo stesso modo si sa quanto Leopardi abbia riflettuto sulla natura del desiderio, tensione infinita al piacere, cioè alla felicità. Sembra di ripercorrere davvero il pensiero degli antichi cirenaici quando si leggono queste parole: 49 Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l'animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L'anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch'è ingenita ο congenita coll'esistenza, e perciò non può aver fine in questo ο quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti (1) né per durata, (2) né per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli (1) né la sua durata, perché nessun piacere è eterno, (2) né la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. 50 Fernando Di Mieri 216 Non si desidera una certa cosa, ma il piacere, se si considera che, una volta soddisfatto il piacere, rimane comunque un vuoto nell'anima. Non è un caso che Gaetano Sanseverino, esponente di rilievo della Neoscolastica dell'Ottocento, in uno scritto del 1849, metta in relazione il pensiero di Leopardi con quello di Egesia, il persuasor di morte. Sostiene anzi che è "quasi lo stesso." D'altro canto, si ponga mente a quanto Leopardi stesso ha scritto nello Zibaldone a proposito di questo indirizzo di pensiero: "Gli Egesiaci (ramo della setta Cirenaica) dicevano secondo il Laerzio (in Aristippo 1.2 segm. 95). τον τε σοφον έαύτοΌ ε ν ε κ α π ά ν τ α πράξειν. Questa 55 potrebb'esser la divisa di tutti i sapienti moderni, in quanto sapienti." È l'immaginazione la forza immane che prospetta all'uomo la scoperta dell'infinito, ma di un genere particolare: 51 52 53 54 Veniamo all'inclinazione dell'uomo all'infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell'uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell'uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti (1) in numero, (2) in durata, (3) e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. 56 Se da ciò l'anima religiosa alla maniera tradizionale era indotta ad uno scatto verso livelli superiori del reale, Leopardi con il tempo si fermerà al di qua, nel mondo, che viene così riconosciuto come unico ambito di realizzazione: lo scarto che in tal modo si crea tra pulsione infinita e realizzazione finita e provvisoria non può condurre che all'insignificanza, al nulla. Il materialismo leopardiano è il risultato di un'inversione che porta a privilegiare il lato carnale della felicità, precisamente quello posposto, e senz'altro condannato dal Cristianesimo, quando assurga ad un'autonomia assoluta. Non lo soddisfa più l'idea di una felicità somma, ma ultraterrena. Le speranze che dà all'uomo il Cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l'infelice e il travagliato in questo mondo [...]. La promessa e l'aspettativa di una felicità grandissima e somma ed 'Il risorgimento' 217 intiera bensì, ma 1° che l'uomo non può comprendere né immaginare né pur concepire ο congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2° ch'egli sa bene di non poter mai né concepire né immaginare né averne veruna idea finché gli durerà questa vita, 3° ch'egli sa espressamente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella che quaggiù gli è negata [...]. La felicità che l'uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi ο da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo. 57 Il sentimento della noia, scoperto in maniera profonda e sostanzialmente irreversibile nel corso del tanto agnognato e poi tanto deludente soggiorno romano, si affaccia a questo proposito. L'origine è sempre la stessa: lo scarto tra il finito che siamo e in cui siamo immersi ο che possiamo afferrare e l'infinito bramato, ma che si allontana inafferrabile. E tuttavia, la noia non viene intesa semplicisticamente, diventa anzi un segno di profondità di sentire e dunque di distinzione spirituale. "La noia è il desiderio di felicità, lasciato, per così dir, puro. Questo desiderio è passione [...]. Questa passione, quando ella si trova sola [...] è quello che noi chiamiamo noia." Se il vuoto che si produce è noia, a provarlo può essere solo l'uomo con una nobile qualificazione spirituale. 58 La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani [...] trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e 59 pochissimo ο nulla agli altri animali. Il tempo catalettico, però, se è lecito usare quest'espressione, nella magica atmosfera pisana sembra ormai definitivamente dissolto. Un pensiero dello Zibaldone parla di quanto Leopardi si attende dai suoi versi, il piacere che gliene deriva, il gusto di riandare con la mente alle esperienze passate: Fernando Di Mieri 218 Uno de'maggiori frutti che io mi propongo e spero da' miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de' miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d'altri: (Pisa 15, Apr. 1828) oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch'io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa ο non sia conosciuta per tale da altrui (Pisa 15 Feb. Ult. Venerdì di Carnevale 1828). 60 Ne "Il risorgimento" Leopardi torna per l'appunto al passato appena trascorso, la confronta col presente. La seconda parte, quella della rinascita del cuore, inizia con alcune domande di rapito stupore per l'improvviso ridestarsi delle emozioni, la rinnovata simpatia con la natura, il ritorno delle lacrime e una nuova capacità di guardare il mondo. Leopardi sente d'improvviso ritornare la vita, la fantasia, le illusioni, tutte quelle cose che parevano irrimediabilmente perdute. Volgendo intorno lo sguardo, tutto ritorna a procurargli sensazioni, di piacere ο dolore, ma sensazioni. I tanti aspetti della natura ritornano a parlargli in cuore. Gli "errori beati," testimoniano ancora una volta che il cuore è vivo. Chi dalla grave, immemore quiete or mi ridesta? che virtù nova è questa, questa che sento in me? Moti soavi, immagini, palpiti, error beato, per sempre a voi negato questo mio cor non è? Siete pur voi quell'unica luce de' giorni miei? gli affetti ch'io perdei nella novella età? Se al ciel, s'ai verdi margini, ovunque il guardo mira, tutto un dolor mi spira, Ίl risorgimento' 219 tutto un piacer mi dà. Meco ritorna a vivere la piaggia, il bosco, il monte; parla al mio core il fonte, meco favella il mar. Chi mi ridona il piangere dopo cotanto obblio? e come al guardo mio cangiato il mondo appar? (vv. 81-104) Inizia un tentativo di soluzione del felice enigma rappresentato dal nuovo stato. È la speranza? Leopardi aveva scritto nel 1821: [...] le illusioni poco stanno a riprender possesso e riconquistare l'animo nostro, anche malgrado noi; e l'uomo (purché viva) torna infallibilmente a sperare quella felicità che avea disperata; prova quella consolazione che avea creduta e giudicata impossibile; dimentica e discrede quell'acerba verità, che avea poste nella sua mente altissime radici; e il disinganno più fermo, totale, e ripetuto, e anche giornaliero, non resiste alle forze della natura che richiama gli errori e le speranze (16. Gen. 1821). 61 Ma la speranza ormai non potrà mostrare più il suo volto, mai più potrà tornare. Certo, in un passo del suo Zibaldone egli si esprime in termini diversi, che lasciano pensare: La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo, appoco appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta più speranza che desiderio, e più speranze che desiderii ec. (Pisa, 19, 1828). 62 Ma tutto ciò rappresenta una diversità di atteggiamento rispetto alla proposizione espressa ne "Il risorgimento," "che va va al di là" — sostiene Binni — "di questo contrasto tra speranze e desideri per puntare decisamente al risorgere non della speranza ο del desiderio, ma della radice stessa della vitalità, del cuore, del sentimento." È difficile non condividere le parole del noto critico per quanto riguarda questo motivo, che da subito di presenta nel pensiero leopardiano. 63 Fernando Di Mieri 220 64 "Io vivo, dunque io spero." Centrale è questo tema, tanto che Leopardi si lascerà andare a sillogismi di questo genere, dal sapore cartesiano, e si potrebbero moltiplicare facilmente i passi in cui parla della speranza, attitudine fondamentale dello spirito umano. Alla radice di tutto una lucida consapevolezza dello stesso Leopardi, il quale riconosce ampiamente il peso che questa "inclinazione" dello spirito umano ha avuto nella sua vita: Racconta Diogene Laerzio di Chilone Lacedemonio il quale interrogato in che differissero i dotti dagl'indotti, rispose, nelle buone speranze [...]. Io non so dire se avesse riguardo alle cose di questo mondo ο di una vita avvenire. Certamente rispetto a quelle, oggidì avviene appunto il contrario. In che differisce l'ignorante del savio? Nella speranza. 65 In tutto ciò la "speranza è infinita come il desiderio del piacere, ed ha di più la forza se non di soddisfar l'uomo, almeno di riempierlo di consolazione, e di mantenerlo in piena vita. La speranza propria dell'uomo, degli antichi, fanciulli, ignoranti, è quasi annullata per il moderno sapiente." D'altro canto, basti pensare soltanto, esattamente come fa Sanseverino, anche al ruolo della speranza nella "Storia del genere umano," dove anima lo stato di infanzia dell'umanità per poi svanire e va pertanto a connettersi in negativo con quel tema della scoperta dell'orrido vero, così determinante per l'esperienza leopardiana. "Il risorgimento," canto del ritorno della vita procede all'unisono con gli altri canti pisano-recanatesi nel negare il ritorno della speranza fallace della giovinezza. Gaetano Sanseverino ha individuato la speranza come il luogo ove si colloca ogni felicità nel pensiero leopardiano. Ma la speranza fallace può portare a risultati disastrosi, che variano a seconda dell'indole e dei fini di chi se ne fa propugnatore ed esaltatore. Almeno duplice è infatti il modo di intendere la speranza. In quanto passione è null'altro che l'attesa animata da fiducia in un bene raggiungibile, senza ulteriori specificazioni. Leopardi ricorda: "Il primitivo e proprio significato di spes non fu già lo sperare ma l'aspettare indeterminatamente al bene 68 ο al male." Perché diventi virtù, essa deve mirare ad un bene assoluto. Nella tradizione tomistica la speranza rientra nell'appetito irascibile, a differenza del desiderio, a sua volta appetito concupiscibile, che tende a un bene, indipendentemente dalla sua raggiungibilità. È evidente che la nozione di bene richiama immediatamente quella di felicità definita 66 67 'Il risorgimento' 221 in tal modo da Boezio: "Liquet igitur esse beatitudinem statum bonorum omnium congregatione perfectum." La speranza leopardiana è chiaramente immanentizzata e perde la sua valenza di virtù teologica. Gli spazi ultraterreni offerti dal cristianesimo non possono dunque consolare l'uomo infelice. Fin quando la vita alita nel cuore dell'uomo, la speranza, che origina dall'amor proprio, non cesserà mai di sostenerlo. "La speranza è come l'amore proprio, dal quale immediatamente deriva. L'uno e l'altra non possono, per essenza e natura dell'animale, abbandonarlo mai finch'egli vive, cioè sente la sua esistenza." Il motivo della speranza è sconcertante nella sua prevalenza: "La speranza è sempre maggiore del bene" (167). Anche nella speranza il vago ritorna a prevalere. E inoltre, per il suo carattere indefinito, la speranza prevale addirittura sul piacere stesso. Si giustificano così espressioni come: "La speranza di un piccolo bene, è un piacere assolutamente maggiore del possesso di un bene grande già provato." E ancora: 69 70 71 72 Dalla mia teoria del piacere seguita che l'uomo, desiderando sempre un piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch'egli non può concepire. E così è infatti. Tutti i desiderii e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un'idea confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente. E perciò e non per altro, la speranza è meglio del piacere, contenendo quell'indefinito, che la realtà non può contenere. 73 ***** L'uomo desidera instancabilmente la felicità di questa vita, né riesce a trovare appagamento nella promessa del cristianesimo di una felicità ultraterrena. Una natura "sorda," ingannatrice e priva di misericordia è quella che non si preoccupa del bene, ma solo dell'essere, in una divaricazione sconcertante tra due nozioni, che l'indirizzo prevalente del pensiero classico aveva identificato: L'uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedano, per conservarla [...]. L'esistenza non è per l'esistente, non ha per suo fine l'esistente, né il bene dell'esistente; se anche egli vi prova alcun Fernando Di Mieri 222 bene, ciò è un puro caso: l'esistente è per l'esistenza, tutto per l'esistenza, questa è il suo puro fine reale. 74 Per Leopardi, il bene somiglia spesso a quello che in realtà noi diciamo benessere individuale, anche se da non confinare, com'è ovvio, all'aspetto materiale e meno che mai a quello grettamente economicistico. Per parlare in termini più generali è la felicità terrena. Nei versi che seguono assistiamo, com'è chiaro, ad un passaggio dalla considerazione della sua storia personale a più ampie illustrazioni della natura universale, che è natura impietosa, al pari dell'umanità, incapace di riconoscere il valore dei grandi, al pari di occhi che splendono senza amore. Forse la speme, ο povero mio cor, ti volse un riso? Ahi della speme il viso io non vedrò mai più. Proprii mi diede i palpiti, natura, e i dolci inganni. Sopiro in me gli affanni l'ingenita virtù; non l'annullar: non vinsela il fato e la sventura; non con la vista impura l'infausta verità. [...] Che non del ben sollecita fu, ma dell'esser solo: purché ci serbi al duolo, or d'altro a lei non cal. (vv. 105-124) Giovane Santo Stefano lapidato dal dubbio fu chiamato da Melville Giacomo Leopardi [...]. Egli aveva smarrito il senso delle parole che in italiano distinguono e giudicano l'immaginativa disciplinata e feconda dal vizio, e perseguì il "bello aereo, le idee indefinite," le impressioni fuggitive. Fu salvato dall'oggettivo nitore della tradizione linguistica italiana, a dispetto della sua modernità, la quale gli faceva annotare nello Zibaldone: "La malinconia, il sentimentale moderno e c , perciò appunto sono così dolci, perché immergono l'anima in un abisso di pensieri indeterminati de' quali non sa vedere il fondo né i contorni." 75 'Il risorgimento' 223 È l'indefinito che attrae irresistibilmente la sua anima, tutto ciò che acquista contorni indeterminati. Lo abbiamo già visto a proposito della speranza. Ma speranze e rimembranze si richiamano in un gioco di rimandi e sono in egual misura attraenti appunto per la loro caratteristica di etereità: "La rimembranza del piacere, si può paragonare alla speranza, e produce appreso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene [...] che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perché in lontananza sembra di poterlo gustare." 76 In un celebre passo dello Zibaldone, Leopardi chiarisce il valore poetico e la natura della rimembranza: Un oggetto qualunque, p. e. un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch'egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno ο in altro modo, si trova sempre consistere nell'indefinito, nel vago. 77 Naturalmente la rimembranza è l'evocazione di qualcosa di trascorso e di irrimediabilmente perduto e che comporta il riconoscimento del carattere transeunte delle realtà umane e terrene. Libera l'immaginazione poetica, ora capace di trovare un raccordo, un motivo, un interesse, qualcosa che ispiri dei versi: "Il passato, a ricordarsene, è più bello del presente come il futuro a immaginarlo. Perché il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana; è la sola immagine del vero: e tutto il vero è brutto (18 Agos. 1821)." Quasi crogiolandosi in questi torbidi stati indefiniti, Leopardi non effettua una revulsione di piano per passare al Saturno degli autentici contemplativi. Né si libera del sogno ad occhi aperti. Eppure egli aveva chiara consapevolezza dei rischi spirituali che corre in particolare chi ha troppo fertile fantasia e che ozio e solitudine sono i mali principali da fuggire: "A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato esteriormente [...]. Quanto più io era libero da fatiche e da occupazioni estrinseche [...] tanto meno io era quieto nell'animo [...]. Le persone massimamente di una certa immaginazione [...] hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione esterno." 78 79 Fernando Di Mieri 224 È questo il pericolo, da sempre segnalato: per il proprio equilibrio personale, è bene non avventurarsi nelle dimensioni della fantasticheria. Proprio là dove Leopardi amava scorrazzare in un impasto di sensuale ed indeterminato, al cui fondo si rileva l'amore schietto per la vita. Proprio l'amore per la vita terrena, negata ο che almeno in parte riteneva gli fosse stata negata, spiega tante sue posizioni. Dalle mie vaghe immagini so ben ch'ella discorda: so che natura è sorda, che miserar non sa. (vv. 121-124) Proseguendo la nostra analisi del canto, assistiamo ad un passaggio dalla visione filosofica di una natura indifferente alla felicità umana a una considerazione dello stato in cui verso "il misero," l'eletto della verità, nel contesto umano: So che pietà fra gli uomini il misero non trova; che lui, fuggendo, a prova schernisce ogni mortal. Che ignora il tristo secolo gl'ingegni e le virtudi; che manca ai degni studi l'ignuda gloria ancor. (vv. 125-132) Non vi è spazio in questi versi per categorie "progressive," che con le dovute cautele, i necessari distinguo, potranno essere usate nell'analisi di altre composizioni. Manca la solidarietà di quanti vivono nel "divertimento" verso chi ha scoperto la nudità ontologica della natura. Né si fa cenno ad una comunione di spiriti eletti che possa sopperire all'angustia dell'isolamento. Qui le espressioni sono nette: chi si innalza per studi e per sapienza non trova accoglienza nel suo mondo. Ed ancora, se "il misero" può essere ancora letto come "quel misero Leopardi," ma anche chiunque altro viva la stessa condizione di solitudine disperante, nei versi successivi si passa senz'altro ad una condizione più personale, al distacco che nei suoi confronti mantiene uno sguardo radioso, ma che irride ai sentimenti altrui: 'Il risorgimento' 225 E voi, pupille tremule, voi, raggio sovrumano, so che splendete invano, che in voi non brilla amor. Nessuno ignoto ed intimo affetto in voi non brilla: non chiude una favilla quel bianco petto in se. Anzi d'altrui le tenere cure suol porre in gioco; e d'un celeste foco disprezzo è la mercé. (vv. 133-144) Nonostante tutto ciò, le illusioni tornano a far sentire il loro impeto. Un nonnulla, un ambiente nuovo e favorevole, la stanchezza di una prostrazione a lungo vissuta fanno ritornare attuali questi segnali di vita. È il cuore soltanto che gli dà nutrimento. Null'altro giustifica questo risorgimento. Immutato è infatti il pensiero filosofico, immutate le condizioni personali e affettive, immutate il corso che l'umanità tiene nei confronti di che si eleva. Pur sento in me rivivere gl'inganni aperti e noti; e de' suoi proprii moti si maraviglia il sen. Da te, mio cor, quest'ultimo spirto, e l'ardor natio, ogni conforto mio solo da te mi vien. (vv. 145-152) Mancano, dunque, all'anima, e Leopardi lo dichiara sintetizzando in una coppia di versi quanto aveva in precedenza diffusamente detto, sorte, natura, mondo e beltà. Ma se lo spirito, tetragono nella resistenza, non cede ai colpi della sorte, se perciò il cuore continuerà a mostrare i segni della vitalità, per quanto avverse siano le situazioni, che non gli hanno fornito né buona sorte, né gloria, né bellezza, non sarà da Leopardi detto "spietato" il cielo che lo fa vivere. Mancano, il sento, all'anima alta, gentile e pura, la sorte, la natura, Fernando Di Mieri 226 il mondo e la beltà. Ma se tu vivi, ο misero, se non concedi al fato, non chiamerò spietato che lo spirar mi dà. (vv. 153-160) FERNANDO DI MIERI Istituto Filosofico "San Tommaso d'Aquino," Napoli NOTE 1 Per E. Severino, nel saggio Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi (Milano: Rizzoli, 1997), la frammentarietà si presenta come un tratto generale del nostro tempo. È l'analogo umanistico della specializzazione in campo scientifico. Si consideri, ad esempio, un termine centrale in Leopardi: natura. Vi è stato chi, come Gioanola, ha potuto, forse esasperandone la pluralità semantica, contestare il "pigro luogo comune da libro scolastico" del passaggio leopardiano da una visione della natura come madre in matrigna. Lo stesso Gioanola deve però segnalare che "nel significato di istintualità e vitalità che si oppone alle razionalizzazioni della cultura, il concetto di natura rimane sempre positivo, anche se il campo operativo di tale significato si va progressivamente riducendo per il sovrapporsi dell'altro, della natura come Arimane, principio del male" (E. Gioanola, Leopardi, la malinconia [Milano: Jaca Book, 1995], cit., in E. Fenzi, "Leopardi, oltre la malinconia," Nuova Corrente XLIII [1996], 104). Zibaldone, 3382-3-4, 8. Sett. Natalizio di Maria Vergine Santissima, 1823. In un pensiero del 1821, Leopardi si esprime in questi termini a proposito di una simbiosi tra filosofia e poesia nella modernità: "Malgrado quanto ho detto dell'insociabilità dell'odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e quasi dell'impossibile, e non consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque ostacolo, ed essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente. Ma questa cosa, come vicina all'impossibile, non sarà che rarissima e singolare (24 Luglio 1821)" (Zibaldone, 1383). Cfr. Zibaldone, 1839 (4 Ott. 1821). S. Givone, Storia del nulla (Bari: Laterza, 1996), p. 141. Va ricordato che il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico, sono del 1832 (Cfr. la Notizia intorno 2 3 4 5 6 4 Il risorgimento' 227 a queste Operette, premessa all'Edizione Starita di Napoli del 1835, in Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose [Roma: Newton Compton, 1997], p. 607). Zibaldone, 4149 (Bologna, 3 Nov. 1825). A Pietro Giordani, 6 Maggio 1825. Zibaldone, 4174 (Bologna, 22 Apr. 1826). Si consideri ancora, circa la bestemmia, quanto segue, che tra altri motivi fa accostare Leopardi a Giobbe: "Oggidì (eccetto nei mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie, ο tale che la Religione è impedisce in tutti i modi di creder colpevole, e quindi degna di odio. Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l'eccesso dell'infelicità indipendente dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all'odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori, e questo, tanto più quanto più l'uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita, ec. (15 Gen. 1821)" (Zibaldone, 506-7). R. Verdirame, "La Virtù nova' e l''error beato.' Lettura del 'Risorgimento' di Giacomo Leopardi," Le Forme e la Storia n. s. II (1990), 282. Cfr. A Paolina Leopardi. 12. 11. 1827. Ibid. 25. 2. 1828. Sul soggiorno pisano si possono utilmente consultare: E. Giordano, La carazza e la spada. Saggi leopardiani (Salerno: Laveglia, 1990), Leopardi a Pisa, a cura di F. Ceragioli (Milano: Electa, 1997), R. Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi (Milano: Mondadori, 1998). Cfr. W. Binni, "Scherzo," "Il risorgimento," in idem., Lezioni Leopardiane, a cura di N. Bellucci, con la collaborazione di M. Dondero (Firenze: La Nuova Italia, 1994), p. 469. Cfr. Leopardi, Tutte le poesie [...], op. cit., p. 210 e Zibaldone 4271-4272. Leopardi, "Scherzo," in Tutte le poesie, op. cit., p. 210. Con buona probabilità il tempo della composizione va collocato nell'aprile del 1828. È stato edito per la prima volta in Leopardi, Scritti vari inediti dalle carte napoletane (Firenze: Le Monnier, 1906). Binni, Lezioni Leopardiane, op. cit., p. 471. Vi sono alcune differenze di vario genere tra "Il risorgimento" dell'edizione Piatti di Firenze (1831), la prima, e l'edizione Starita di Napoli (1835). Verdirame ritiene di cogliere nelle varianti sostanziali apportate successivamente "l'enfatizzazione, attraverso un procedimento limpidamente ragionativo, della lotta tra l'io eroico da una parte, la natura algidamente neutrale e la verità individuata e segnalata come forza antagonista ed 'infausta,' dall'altra" (Verdirame, op. cit., p. 295). Leopardi, Tutte le poesie [...], op. cit., p. 1363. Si può tuttavia concordare col giudizio espresso da Valeri sul diverso livello artistico delle strofe: "[...] alla fine, dovremmo pur accedere, nonostante qualche 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 Fernando Di Mieri 228 riserva, al giudizio comune. Ma su una strofe dell'ultima parte, su una mezza strofe, almeno, mi sia concesso di richiamare l'attenzione di chi legge [...]. 'Forse la speme, ο povero, / Mio cuor, ti volse un riso? / Ahi, della speme il viso / Io non vedrò mai più [...]'" (D. Valeri, "Il 'Risorgimento' di Giacomo Leopardi," in Idem., Conversazioni italiane [Firenze: Olschki, 1968], p. 199). L. Russo, I classici italiani (Firenze: Sansoni, 1966), Vol. IIΙ, p. 735. Leopardi, Zibaldone, 702 (27 Feb. 1821). Russo insiste sull'esteriorità dell'incontro tra Leopardi e Metastasio: "[...] anche in Leopardi era venuto maturando, attraverso gli anni, una mitezza passionale, che è la caratteristica costante dei melodrammi metastasiani, in cui si avvicendano e si armonizzano gli impeti della passione e la saggia e chiaroveggente riflessione [...]. Ma l'accordo era soltanto esteriore: il Leopardi restava profondamente un elegiaco e non un idillico ο un epicureo patetico, come il poeta del Settecento. 'Il Risorgimento,' in fondo, non è che una malinconica elegia, mentre in quasi tutti i melodrammi del Metastasio c'è un poeta idillico soddisfatto che si compiace e sensualmente assapora e vanifica il suo dolore" (Russo, I classici, op. cit., p. 736. 22 23 24 G Giacalone, La pratica della letteratura. Seicento e Settecento (Napoli: Fratelli Ferraro, 1996), p. 379. Verdirame, op. cit., p. 288. "L'analisi contenutistica dei 160 versi che costituiscono il componimento ne evidenzia la struttura quadripartita, sapientemente disposta in segmenti paralleli sistemati specularmente secondo un tracciato a chiasmo calibrato tra rappresentazione e commento, per cui la prima sezione si connette alla terza nella raffigurazione di una situazione individuale ed universale, la seconda e la quarta sono accomunante dalla tensione riflessiva e lirica. Il quadro sinottico si presenta perciò così articolato: a) resoconto di uno stato psichico di indifferenza emotiva e freddezza sentimentale ( w . 1-80); b) interrogazione retorica di stupefatta meraviglia sulla improvvisa rinascita del cuore (vv. 81-116); c) pittura della natura indifferente e del genere umano sordo al dolore del poeta (vv. 117144); d) esaltato e coinvolto canto del cuore inopinatamente rinato agli affetti (vv. 145-160)" (Verdirame, op. cit., pp. 283-4). Va da sé che altre suddivisioni sono possibili. Ad esempio, sarei propenso a collocare il termine della prima sezione della seconda parte al v. 104. 25 26 27 Cfr. I Canti di G. Leopardi, commento di Alfredo Straccali, ed. corretta e accresciuta da Oresti Antognoni (Firenze: Sansoni, 1920). Non ν ' è accordo pieno tra i commentatori circa l'individuazione biografica delle tappe ripercorse nel "Risorgimento" (Cfr. Valeri, op. cit., pp. 181-200). Straccali, ad esempio, riteneva che i primi otto versi si riferiscano alla fase che giunge fin quasi alla fine del 1819, mentre i versi dal nono al trentaduesimo richiamano il periodo che va dalla fine del 1819 al 1822. I rimanenti versi della prima metà andrebbero invece riferiti al periodo che va dal 1822 agli inizi del 1828. Zibaldone, 51. Leopardi giunge a scrivere: "[...] il mezzo filosofo combatte 28 'Il risorgimento' 229 le illusioni perché appunto è illuso, il vero filosofo le ama e le predica, perché non è illuso; e il combattere le illusioni in genere è il più certo segno d'imperfettissimo e insufficientissimo sapere, e di notabile illusione" (Zibaldone, 1715. 16 Sett. 1821). 29 A Pietro Giordani, 19 Novembre 1819. Verdirame, op. cit., pp. 291-2. Leopardi, "Elogio degli uccelli," in idem., Tutte le poesie, op. cit., p. 571. Sugli stessi temi, cfr. anche Zibaldone, 159 e 221. "Nell'autunno par che il sole e gli oggetti sieno d'un altro colore, le nubi d'un'altra forma, l'aria d'un altro sapore" (Zibaldone, 74). Pensieri, VII, 24. È nota la fermezza con cui Leopardi, in una lettera del 24 maggio 1832 al De Sinner respinge la tesi, già al tempo avanzata, di una derivazione del suo pessimismo dalle tristi condizioni fisiche: "Voi dite benissimo ch'egli è assurdo l'attribuire ai miei scritti una tendenza religiosa. Quels que soient mes malheurs, qu'on a jugé à props d'étaler et que peut-être on a un peu exagérés dans ce Journal, j'ai eu assez di courage pour ne pas chercher à en diminuer le poids ni par de frivoles espérances d'une prétendue félicité future et inconnue, ni par une lâche résignation. Mes sentimens envers la destinée ont été et sont toujours ceux que j'ai exprimés dans 'Bruto minore.' Ç'a été par suite de ce même courage, qu'étant amené par mes recherches à une philosophie désespérante, je n'ai pas hésité a l'embrasser toute entière; tandis que de l'autre côté ce n'a été que par effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin d'être persuadés du mérite de l'existence, que l'on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l'on s'obstine à attribuer à mes circonstances matérielles ce qu'on ne doit qu'à mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse e de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s'attacher à détruire mes observations et mes raisonnemens plutôt que d'accuser mes maladies." Se queste parole vanno comunque tenute presenti, resta vero, tuttavia, che è da considerare l'orgoglio di uno spirito che sentiva quotidianamente attacchi dalla vita e titanicamente si adoperava per una ribellione. Dunque, non è da ascoltare fino in fondo. Naturalmente è difficile stabilire percentuali di incidenza, ma non è azzardato rilevare l'influenza delle condizioni fisiche. 30 31 32 33 34 35 Quello della malinconia è uno dei tratti tipici della personalità leopardiana e va a connettersi senz'altro anche con le esperienze familiari (cfr., in proposito, Gioanola, op. cit.). Zibaldone, 1340-1 (17 Luglio 1821). Ibid., 1341-1342 (18 Luglio 1821). 36 37 Ibid., 85. Il passo cosi prosegue: "prima di provare la felicità, ο vogliamo dire un'apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo allentarci delle speranze, e se queste son forti e costanti, il tempo loro è veramente il tempo felice dell'uomo, come nella età fra la fanciullezza e la giovanezza. Ma provata quella 38 Fernando Di Mieri 230 felicità che ho detto, e perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e la infelicità dell'uomo è stabilita." "Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un'ora più quieta conoscerò, la vanità e l'irragionevolezza e l'immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s'annullerà, lasciandomi in un voto universale, e in un'indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi" (Zibaldone, 72). Ibid., 4099-4100 (2 Giugno 1824). Ibid., 4177-78. Ibid., 2936-37. Cfr., Givone, op. cit. Emanuele Severino ha studiato il particolare nichilismo leopardiano, inquadrandolo nella sua più generale visione filosofica della storia dell'Occidente. Cfr. Severino, Il nulla e la poesia alla fine dell'età della tecnica: Leopardi (Milano: Rizzoli, 1990); idem., "Leopardi e la tradizione dell'Occidente," in idem., Pensieri sul cristianesimo (Milano: Rizzoli, 1995), pp. 256-64; idem., Cosa arcana e stupenda, op. cit. G. Moretto, "Leopardi e la religiosità jobica," Humanitas LIII, n. 1/2 (aprile 1998), 330-1. "La contraddittoria vicenda infinito-indefinito infinito-nulla, espressione della fondamentale contraddizione vita-esistenza [...] segna in forme diverse fino all'ultimo la poesia del Leopardi. Una configurazione molto particolare questa dialettica infinitistica l'assume nei 'canti di Aspasia.' Qui l'infinito positivo, risorgente con inaspettata e straordinaria intensità sotto la specie della passione amorosa, si presenta in contrasto esasperato col motivo dell'infinito-nulla e della finitezza dell'essere femminile. Solo al dileguarsi della passione il poeta riacquista la giusta prospettiva, la demistificazione dell'infinito (amore) costituisce, infatti, il nucleo tematico di 'Aspasia,' l'ultima poesia di questo periodo. Soltanto nella 'Ginestra' non c'è più nessuna traccia d'infinito. Questo tema, tuttavia [...] resta per così dire, presente nella stessa rinuncia sofferta e attuale, se ancora nel 'Tramonto della luna,' l'altro componimento del 1836, il poeta indugia nella descrizione del vago-infinito, sia pure lucidamente analizzato e svelato, all'inizio della poesia, per un'illusione della poesia, per un'illusione ottica" (A. Mariani, "Sulla tematica leopardiana dell'infinito: dall'infinito-indefinito all'infinito-nulla," Italianistica V [1976], 268). Zibaldone, 4233 (Recanati, 14 Dic. 1826). Cfr. anche Zibaldone, 4181 (Bologna 4 Giugno 1826). Leopardi, "Ad Arimane," in idem., Tutte le poesie [...], op. cit., p. 472. Da ricordare anche che, nella sua "Dissertazione sopra la virtù morale in generale" (1812), Leopardi aveva scritto: "Leggi del Secondo Zoroastro. Il tempo non ha confini, egli è increato, è Creator del tutto. La parola fu sua figlia, e da questa poi nacquero il Dio del bene Oromaze, e il Dio del male Ariman" (cit., in Leopardi, Tutte le poesie [...], op. cit., p. 710). Cfr., anche il già cit., Zibaldone, 39 40 41 42 43 44 45 46 47 'Il risorgimento' 231 4174, che così conclude: "Non ardirei però estenderlo a dire che l'universo esistente è il peggiore degli universali possibili, sostituendo così all'ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?" Zibaldone, 4511. Ibid., 376-390. Ibid., 165. 48 49 50 51 Nato nel 1811 a Napoli, fa sentire con forza la sua presenza culturale nel contesto partenopeo dopo la fondazione della prestigiosa rivista La Scienza e la Fede, che "ebbe per sottotitolo Raccolta religiosa, scientifica, letteraria ed artistica che mostra come il sapere umano renda testimonianza alla religione cattolica. Essa fu il primo esperimento, in tutta Italia, ed unico fino al 1850, d'una rivista che si presentava con un programma ben determinato: difesa della Religione. La sua periodicità fu mensile fino al 1860; indi divenne quindicinale e visse al 1888. Rivisse col titolo Scienze e lettere riprendendo la pubblicazione il 3 marzo 1900; si interruppe una seconda volta con febbraio 1909. Venne ripresa col febbraio 1930 e durò fino al gennaio 1938. Finalmente rinasce col nome di Asprenas nel 1953 e continua oggi" (Ρ. Orlando, Il tomismo Napoli nel sec. XIX. La scuola del Sanseverino. I. Fonti e documenti [Roma: 1968], p. 19, n. 13). 52 Sanseverino, "Delle poesie di Giacomo Leopardi, ο sia esame del sistema di coloro che pongono ogni felicità nella speranza," La Scienza e la Fede (Napoli ottobre 1849), fasc. 106, 282-304. Cicerone nelle Tusculanae Disputationes testimonia che a questo seguace della scuola cirenaica fu proibito di insegnare da Tolomeo I, perché persuadeva al suicidio. Diogene Laerzio (Π, 93-96) a sua volta riferisce che il pensiero di Egesia, esposto nell'opera Colui che si lascia morir di fame, si fonda sul principio generale della scuola cirenaica che il fine è il piacere, ma tale piacere è irraggiungibile e relativo. "[Egesia e i suoi seguaci] ritenevano che nulla fosse per natura piacevole ο spiacevole: per la rarità ο per la novità ο per la sazietà accade che taluni godano e altri no [...]. Svalutavano anche le sensazioni, perché non danno conoscenza certa, ma facevano tutto ciò che loro sembrasse ragionevole [...]. La felicità è [...] irrealizzabile. Vita e morte sono da prendersi senza preferenza [...]. Per l'insensato vivere può essere vantaggioso, per l'uomo saggio indifferente" (Diogene Laerzio, II, 94) "La morte non deve dunque in alcun modo essere temuta, perché non ci separa dai beni, bensì dai mali: concetto, questo, che valse ad Egesia il soprannome 'persuasor di morte'" (G. Reale, Storia della filosofia antica [Milano: Vita e Pensiero, 1996], Vol. ΙΠ, p. 58. Cfr. anche le pp. 56-9). 53 54 "Egesia, com'è noto, fu della scuola di Aristippo e degli altri cirenaici, i quali [...] riponevano tutta la possibile felicità dell'uomo ne' piaceri della presente vita. Da tal principio la più parte de' discepoli di Aristippo dedusse, che per esser felice era mestiero abbandonarsi del tutto in balia de' piaceri [...]. Però altri, considerando che i piaceri attuali [...] non possono per verun modo Fernando Di Mieri 232 soddisfare a' desiderii del cuore umano, ma invece lo accendono [...] conchiusero che la vita è un male, e che la morte è l'unico bene dell'uomo. Di cotesta strana razza di filosofi, Egesia con altri sostenne, doversi dare la morte con le proprie mani, onde fu detto dagli antichi persuasore di morte; altri [...] insegnavano doversi tollerare la vita, come un indeclinabile tormento, ed intanto invocare la morte [...]. Della prima sentenza si è fatto in questi ultimi tempi in Italia propagatore il Foscolo [...] della seconda il Leopardi" (Sanseverino, op. cit., pp. 283-4). Zibaldone, 249. Ibid., 167. Ibid., 3497-98. Ibid., 3715. Pensieri, LXVIII, p. 640. Zibaldone, 4302. Ibid., 513-14. Ibid., 4301. Binni, "Scherzo," op. cit., p. 473. Zibaldone, 4145. Ibid., 162 (10 Luglio 1820). Ibid., 169. 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 Nella "Ricordanze," troviamo "Ο speranze, speranze, ameni inganni / della mia prima età! Sempre, parlando / ritorno a voi: c h e per andar di tempo, / per variar d'affetto e di pensieri, / obbliarvi non so [...] / [...] Ahi, ma qualvolta / a voi ripenso, ο mie speranze antiche, / ed a quel caro immaginar mio primo." E in "A Silvia": "Anche perìa fra poco / la speranza mia dolce: agli anni miei / anche negaro i fati / la giovinezza. Ahi come, / come passata sei, / cara compagna dell'età mia nova, / mia lacrimata speme, / questo è quel mondo? Questi / i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi / onde cotanto ragionammo insieme? / Questa la sorte dell'umane genti? / All'apparir del vero / tu, misera, cadesti; e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano." Zibaldone, 3571. Consolatio Philosophiae, ΠΙ, 2. 70 Zibaldone, 3497-3509. 71 Ibid., 2316. 72 Ibid., 1464. 73 Ibid., 1017. 74 Ibid., 4169. 75 E. Zolla, Storia del fantasticare (Milano: Bompiani, 1973), p. 155. Il passo leopardiano citato è Zibaldone, 170. Zibaldone, 1044. Così Leopardi definisce l'immaginazione e ne delinea le caratteristiche essenziali: "Tanto la facoltà d'immaginare quanto di sentire sono abiti" (Zibaldone, 1556) e "L'immaginazione per tanto è la sorgente della ragione, come del sentimento, delle passioni, della poesia [...] Immaginazione 67 68 69 76 'Il risorgimento' 233 e intelletto è tutt'uno. L'intelletto acquista ciò che si chiama immaginazione, mediante gli abiti e le circostanze, e le disposizioni naturali analoghe; acquista nello stesso modo, ciò che si chiama riflessione ec. ec. (20 Nov. 1821)" (Zibaldone, 2133-2134). Zibaldone, 4426 (Recanati, 14 Dic. Domenica 1828). Ibid., 1521-22. Ibid., 4259-60. 77 78 79