Fernando Di Mieri 201 `IL RISORGIMENTO

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Fernando Di Mieri
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'IL RISORGIMENTO'
Come in un vortice si rincorrono, a legger Leopardi, speranza, noia,
desiderio, immaginazione, infinito, piacere, morte, infelicità, natura,
fantasia, nulla .... Ogni nozione richiama insistentemente altre e queste
ancora altre, in un continuo movimento, che rinvia alla scaturigine
vertiginosa di un pensiero, la cui lettura si presenta irta di difficoltà.
Difficoltà che aumentano per la presenza di forme espressive, non
sempre filosoficamente organiche, una visibile evoluzione di posizione,
la pluralità di significato, spinta talora almeno fino all'ambiguità (se non
all'incoerenza), di parole chiave.
Dispostissimo alla filosofia e sommo poeta fu il Leopardi,
incarnando in se stesso quanto aveva sostenuto in tesi in un passo del
suo Zibaldone, scrivendo che poesia e filosofia, al di là di certi caratteri
discordanti, si richiamano reciprocamente e condividono un medesimo
destino, anche nella considerazione pubblica e nel successo economico:
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È tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua
natura e proprietà il bello, e la filosofia ch'essenzialmente ricerca il
vero, cioè la cosa più contraria al bello; sieno le facoltà le più affini
tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran
filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi né l'uno né l'altro
non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s'ei non partecipa
più che mediocremente dell'altro genere, quanto all'indole primitiva
dell'ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell'immaginazione
[...]. La poesia e la filosofia sono entrambe del pari, quasi le sommità
dell'umano spirito, le più nobili e le più difficili facoltà a cui possa
applicarsi l'ingegno umano. E malgrado di ciò, e dell'esser l'una di
loro, cioè la poesia, la più utile veramente di tutte le facoltà, sia la
poesia, come la filosofia son del pari le più sfortunate e dispregiate
di tutte le facoltà dello spirito.
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Un bisogno reciproco spinge filosofia e poesia l'una verso l'altra,
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ma senza commistioni omogeneizzanti, esattamente come la ragione ha
bisogno delle illusioni e ogni cosa del suo opposto: verità che lasciano
trasparire echi di una sapienza già antica. È nel nulla, come si vedrà,
che nel Leopardi maturo poesia e filosofia trovano lo sfondo, il
riferimento, la sorgente comune:
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Complicità di poesia e filosofia, dunque. Ma su che cosa è basata
questa complicità, se non sulla comune partecipazione all'ontologia
del nulla? Precisamente ciò che il nichilismo, fermo al conflitto
generatore dell'intera storia umana tra mondo vero e mondo falso, tra
mondo dell'illusione vitale e mondo della verità mortifera, non vede
né può vedere.
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È il 1828, Leopardi ha percorso circa sei anni di pressoché totale
aridità, non artistica ma poetica, durante i quali ha atteso alla
composizione di gran parte di quel capolavoro della prosa italiana che
sono le Operette morali. I soli parti poetici restano in sostanza "Alla
sua donna" (1823), il "Coro di morti," che dà l'avvio al "Dialogo di
Federico Ruysch e delle sue mummie" (1824), l'epistola "Al conte
Carlo Pepoli" (1826).
Nel 1825, aveva detto di sé: "Io sono, si perdoni la metafora, un
sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore
già sensibilissimo che più non sente ec." Nello stesso anno, in una
lettera al Giordani aveva chiarito i suoi interessi dominanti al tempo:
"Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di
scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più fuorché il vero,
che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio
scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e
d'inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile
della vita dell'universo." Il pensiero si precisa in un senso sempre più
decisamente materialistico, giunge ad espressioni aspre che non si
giustificano se non sulla base di una religiosità voluta con forza, ma
dalla quale è stato deluso per aver voluto imporle aspettative
esclusivamente proprie. L'ostilità cresce così intensamente da giungere
alla bestemmia. E, si sa, il bestemmiatore vero è colui che, magari in
un'intimità non riconosciuta, non può non sentire almeno il bisogno di
Dio:
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Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male, che ciascuno cosa esista
è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male
e ordinata al male; il fine dell'universo è il male, l'ordine e lo stato,
le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male,
né diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere;
non v'ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose;
tutte le cose: sono cattive.
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Nel '27, tuttavia, si nota in Leopardi una "ripresa sentimentaleespressiva," per usare le parole di Binni. Il poeta svolge un'intensa
meditazione sui temi della memoria personale, sui morti. Compone due
Operette morale: Il Copernico, "incentrato 'sopra la nullità del genere
umano' e sulle equivalenze giovinezza-poesia, maturità-filosofia, ed il
'Dialogo di Plotino e di Porfirio' che coincide col momento di crisi
della 'morale dell'atarassia' ed è decifrabile come allegoria del dissidio
morte-vita."
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La salute del poeta non è felice, quando si trasferisce da Firenze a
Pisa nel 1827, agli inizi di novembre, restandovi fino ai primi di giugno
dell'anno successivo. La dolcezza e la salubrità del clima, l'ambiente
socialmente stimolante, dove si sentivano "parlare dieci ο venti lingue,"
la luminosità (per non dire dell'economicità del soggiorno), l'esser Pisa
"un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio,
un misto così romantico" quale, Leopardi dice, non aveva mai veduto
altrettanto producono un miglioramento delle sue condizioni fisiche e
insieme favoriscono la fioritura di una stagione diversa che già si
preparava nel suo animo. Leopardi percepisce qualcosa di nuovo,
ritornano in lui gli affetti, la vitalità delle immagini. Ne troviamo viva
testimonianza nell'epistolario, quando scrive: "[...] ho qui in Pisa una
certa strada deliziosa, che io chiamo 'Via delle rimembranze': là vo a
passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti. Vi assicuro che in
materia d'immaginazioni, mi pare di esser tornato al mio buon tempo
antico."
Scrive di buona lena e ne derivano lavori di pregio ineguale,
comunque importanti per la storia della sua anima. Si impegna in
attività editoriali. Il primo concreto segno di ripresa poetica avviene
con "Scherzo," diciotto endecasillabi e settenari composti il 15 febbraio
1828. Binni ne ha segnalato la somiglianza con La Fucina d'Amore di
De Rossi. È una riflessione sul labor limae poetico che va, com'è stato
fatto, naturalmente collegato alle espressioni contenute nella
contemporanea prefazione "Ai lettori" della Crestomazia poetica:
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Sarà poco meno che superfluo l'avvertire i giovani italiani e gli
stranieri, che nei passi che qui si propongono di poeti ο di
verseggiatori di questo secolo e della seconda metà del decimottavo,
cerchino sentimenti e pensieri filosofici, ed ancora invenzioni e spirito
poetico, ma non esempi di buona lingua, né anche di buono stile.
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Leopardi, preso per mano da una delle Muse al cui seguito si era posto,
visita l'"officina" della scrivere. Ella gli mostra ogni strumento,
chiarendone la funzione "nel lavoro delle prose e de' versi." Quando
però il discepolo chiede ove si trovi la "lima," la risposta è netta: "la
lima è consumata; or facciam senza" ed "hassi a rifar, ma il tempo
manca." Un impegno polemico, come si vede, indizio di una precisa
vigoria intellettuale, di una chiarezza di posizioni anche in questa
materia.
Tuttavia, senza considerare "Il canto della fanciulla," un abbozzo
dalla datazione tutto sommato incerta e in cui manca il tema del
ricordo, è con "Il risorgimento," scritto tra il 7 e il 13 aprile 1828, e
"A Silvia," del 19-20 aprile, che Leopardi torna davvero alla poesia.
Avrà ben ragione di dire, ancora alla sorella Paolina il 2 maggio dello
stesso anno: "[...] dopo due anni, ho fatto dei versi quest'Aprile; ma
versi veramente all'antica, e con quel mio cuore d'una volta." Non è
possibile però dire "Il risorgimento" un monumento perenne della
poesia, e giustamente non ha goduto di vasta fortuna presso la critica:
"[....] non si dica per il metro" — scrive Russo — "che appare troppo
metastasiano, ma piuttosto perché il tutto si svolge come un'ordinata
storia di stati d'animo. La simmetria del narrare fa capire che non si
stratta di vero canto, ma di una ricapitolazione, o, se piace meglio, di
una prefazione alla poesia che urgeva nuova nel petto del poeta."
Sul piano formale, dunque, il modello è la canzonetta del
Settecento, quale è stata usata talvolta da Bertola ο Parmi ("Il brindisi")
ο Metastasio ("La libertà"). Sono venti strofe di otto versi settenari
(doppie quartine). Il primo e il quinto di ognuna sono sdruccioli, il
quarto e l'ottavo tronchi, mentre i due centrali di ogni quartina sono in
rima baciata. Il riferimento più alto appare proprio Metastasio. Potrebbe
sembrare strana questa scelta per un lettore dei giorni nostri, al quale
Leopardi parla nel più intimo del cuore con vicinanza di affetti, mentre
il poeta settecentesco appare glacialmente lontano. Il giudizio
leopardiano è invece profondamente diverso: "[...] la vera poetica facoltà
creatrice, sia quella del cuore ο quella della immaginativa, si può dire
che dal cinquecento in qua non si sia più veduta in Italia; e che un
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uomo degno del nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato
in Italia dopo il Tasso." È interessante vedere quanto Giacalone scrive
a proposito dell'opera metastasiana, poiché contribuisce a render ragione
della particolare opzione leopardiana:
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[...] il poeta, pur nei modi del suo gusto arcadico e rococò, quasi ad
imitazione dei poeti civili, ha inteso celebrare "quella vittoria sugli
inganni dell'animo che sola consente di guardare le cose con gli occhi
ancora memori di commozione ma illimpiditi dal disincanto [...] né
appare un caso che quella conquistata limpidezza di sguardo abbia
suggerito un movimento analogo al Leopardi che nel 'Risorgimento'
canta la ritrovata capacità di contemplare il reale attribuendola ad una
facoltà da lui denominata cuore" (Galimberti). In questo senso il poeta
vuole esaltare la libertà come disposizione psicologica, come
atteggiamento morale, che gli consente di affrontare le difficoltà della
vita con quel distacco indispensabile per non lasciarsene più
coinvolgere pienamente fino alla sofferenza.
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Come si vedrà, "Il risorgimento" parte dal ricordo di stati di varia
prostrazione causati senz'altro in maniera determinante anche dalla
scoperta del nulla per andare alla descrizione di un sentimento nuovo
ed alacre, ma infondato, giacché il vero permane in tutta la sua terribile
chiarezza. Sicché Leopardi deve per un verso far percepire, anche
mediante l'ausilio del metro, la nuova, inebriante condizione, per un
altro il contenuto non può nascondere le verità conquistate. Insomma,
non è difficile capire l'esigenza di trovare una modalità espressiva
idonea alla percezione della nuova capacità di sentire, immaginare,
cogliere il linguaggio della natura e adatta insieme a far capire
l'illusorietà di tale risorgimento. Per Leopardi la canzonetta
settecentesca è la scelta più valida a rendere il risorgimento del suo
spirito e insieme la distanza necessaria al mantenimento ed alla
contemplazione della "dolorosa" verità concreta.
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Non sarà mio intendimento azzardare rivalutazioni senza speranza.
Cercherò, invece, di evidenziare il contenuto filosofico del canto, di
indiscutibile importanza per la storia dell'anima leopardiana, vedendo
come in questa fase i grandi nuclei tematici del "sistema" si collochino,
quali coloriture assumano, quali relazioni intrattengano fra di loro.
Lucido si presenta il dire leopardiano, in una poesia organicamente
strutturata e compiuta, in cui tra i due fondamentali linguaggi, del vero
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e del vago, è senz'altro l'uno a prevalere, ma l'altro "germina pur
sempre, sia dal tema della rimembranza, che vi ricopre un ruolo
fondante [...] sia dal vocabolario quantitativamente ridotto ma
riccamente polisemo." Il canto si snoda, come si accennava, per
centosessanta versi ed è rigorosamente strutturato. La divisione più
immediata si coglie in due parti di eguale lunghezza. Ottanta versi per
ripercorrere alcune fasi della vita passata, ottanta per suggerire i segni
di un risveglio, una ripresa che, illusoria di sicuro, rende però la vita
degna d'esser vissuta. Entro ognuna di queste parti, in particolare entro
la seconda, è possibile cogliere ulteriori interrelate suddivisioni.
Della prima metà, il ricordo è la cifra essenziale. Leopardi
individua alcune tappe della biografia che, è doveroso dirlo, non vanno
assolutizzate. Dopo gli inganni adolescenziali, con il loro portato di
speranze disilluse, Leopardi giunge alla maturazione di un sentimento
triste della personale esistenza, che trova la sua espressione piena nei
piccoli idilli. Ciò che consente di gradire la vita, scompare. Le illusioni
si rivelano per tali, anche se non per questo vanno escluse dalla vita
umana. Anzi, restano necessarie per tenersi spiritualmente in piedi:
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Il più solido piacere di questa vita è il piacere vano delle illusioni. Io
considero le illusioni come cosa in certo modo reale, stante ch'elle
sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date
dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito
spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell'uomo e
voluti dalla natura e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e
barbara cosa ec.
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Leopardi, con accenti talvolta petrarcheschi, vive la credenza
timorosa che alla sua giovinezza sarebbero state negate le gioie del
sentimento:
Credei ch'ai tutto fossero
in me, sul fior degli anni,
mancati i dolci affanni
della mia prima età:
i dolci affanni, i teneri
moti del cor profondo,
qualunque cosa al mondo
grato il sentir ci fa. (vv. 1-8)
Sente per la prima volta mancare finanche il dolore. Piange. La vita si
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riduce a ghiaccio. Nulla di quanto gli sorrideva — la natura nei suoi più
vari aspetti — risplende ai suoi occhi negli aspetti migliori, ma si
presenta invece in una dimensione statica, di morte, di buio.
È il momento in cui Leopardi scopre il carattere illusorio e vacuo
delle sue idealità ed aspirazioni e giunge a stati d'animo di abbandono
delle lusinghe del mondo e di assenza e gelo nella vita interiore. In una
lettera al Giordani scrive:
Sono così stordito del niente che mi circonda, che non so come abbia
forza di prender la penna per rispondere alla tua del primo. Se in
questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di
seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le
ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per
forza dal luogo dove io mi trovassi. Non ho più lena di concepire
nessun desiderio, neanche della morte, non perch'io la tema in nessun
conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove
non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta
che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e
lacera come un dolor gravissimo; e sono così spaventato della vanità
di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le
passioni, come sono spente nell'animo mio, che ne vo fuori di me,
considerando ch'è un niente anche la mia disperazione.
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Una considerazione che gli impedisce addirittura la concentrazione, uno
stato che trova, per esplicita ammissione del poeta, il suo luogo di
origine nella scoperta del nulla, da tanta parte della cultura
contemporanea ravvisato in un mondo privo di fini superiori:
Quante querele e lacrime
sparsi nel novo stato,
quando al mio cor gelato
prima il dolor mancò!
Mancàr gli usati palpiti,
l'amor mi venne meno,
e irrigidito il seno
di sospirar cessò!
Piansi spogliata, esanime
fatta per me la vita;
la terra inaridita,
chiusa in eterno gel;
deserto il dì; la tacita
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notte più sola e bruna;
spenta per me la luna,
spente le stelle in ciel. (vv. 9-24)
Quel pianto è tuttavia motivato dall'attitudine a sentire gli affetti del
reale e dimostra pur sempre la vitalità del cuore. La spossata fantasia
è alla ricerca delle antiche immaginazioni. La tristezza è dolore.
Pur di quel pianto origine
era l'antico affetto:
nell'intimo del petto
ancor viveva il cor.
Chiedea l'usate immagini
la stanca fantasia;
e la tristezza mia
era dolore ancor. (vv. 25-32)
Ne "Il risorgimento," il dolore è innanzitutto indice di vitalità.
"Privo del valore redentivo assegnatogli dalle religioni confessionali, il
dolore si carica nella speculazione leopardiana di valenze rivelative:
apre il cuore dolorante della realtà e svela il segreto dell'essere. Si
rivela insomma come unica forza che riesce ad aver ragione del male,
poiché senza di esso la gioia risulta inaccessibile." Quando viene a
mancare del tutto, non resta che una condizione prossima all'inerzia del
cadavere.
Vien meno ad un certo punto addirittura il dolore: una fase attonita,
che poi occuperà un tempo diffuso e duraturo. Abissale la differenza
rispetto alle percezioni di un tempo.
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Fra poco in me quell'ultimo
dolore anco fu spento,
e di più far lamento
valor non mi restò.
Giacqui: insensato, attonito,
non dimandai conforto:
quasi perduto e morto,
il cor s'abbandonò, (vv. 33-40)
La contemplazione rapita degli uccelli nella grazia dei loro
movimenti, nel piacere del loro canto non commuove più il poeta.
Eppure è ben noto quanto egli abbia indugiato in proposito. In
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un'Operetta agli abitanti del cielo esplicitamente dedicata, aveva scritto:
"Gli uccelli per lo più si dimostrano nei moti e nell'aspetto lietissimi;
e non da altro procede quella virtù che hanno di rallegrarci colla vista,
se non che le loro forme e i loro atti, universalmente, sono tali, che per
natura dinotano abilità e disposizione speciale a provare godimento e
gioia: la quale apparenza non è da riputare vana e ingannevole." Non
parla più al suo cuore il giorno che declina nella diletta stagione
autunnale, per lui così speciale nel sole, negli oggetti, nelle nubi,
nell'aria.
A nulla serve, per un simile ottundimento interiore, l'amore
"immaginato" (per Teresa Carniani-Malvezzi). Triste per esser privo di
ogni lenimento affettivo "non ha altro espediente per vivere, né altro
produce in lui la natura stessa e il tempo, che un abito di render
continuamente represso e prostrato l'amor proprio, perché l'infelicità
offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma."
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Qual fui! quanto dissimile
da quel che tanto ardore,
che sì beato errore
nutrii nell'alma un di!
La rondinella vigile,
alle finestre intorno
cantando al novo giorno,
il cor non mi feri:
non all'autunno pallido
in solitaria villa,
la vespertina squilla,
il fuggitivo Sol.
Invan brillare il vespero
vidi per muto calle,
invan sonò la valle
del flebile usignol.
E voi, pupille tenere,
sguardi furtivi, erranti,
voi de' gentili amanti
primo, immortale amor,
ed alla mano offertami
candida ignuda mano,
foste voi pure invano
al duro mio sopor. (vv. 41-64)
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Nulla è capace di scuotere una condizione ormai di puro
avvilimento. Il desiderio, anche quello di morire, scompare dall'intimo.
In questo modo Leopardi vien conducendo la primavera, che il destino
ha voluto breve e passeggera per l'uomo, della sua vita.
D'ogni dolcezza vedovo,
tristo; ma non turbato,
ma placido il mio stato,
il volto era seren.
Desiderato il termine
avrei del viver mio;
ma spento era il desio
nello spossato sen.
Qual dell'età decrepita
l'avanzo ignudo e vile,
io conducea l'aprile
degli anni miei così:
così quegli 'ineffabili
giorni, ο mio cor, traevi,
che sì fugaci e brevi
il cielo a noi sortì. (vv. 65-80)
Che cos'è accaduto di così terribile per spiegare lo scoramento del
poeta? Va da sé che per fornire una risposta, è doveroso contemplare,
nell'equazione personale di Leopardi, una pluralità di motivi: particolari
disposizioni di fondo, momenti delle esperienze di vita, i risultati di
un'assidua indagine filosofico-teologica.
E allora, sul piano
psicologico: un atteggiamento fondato sulla speranza e la ricerca di un
soddisfacimento alla propria immaginazione, alla propria fantasia. Sul
piano filosofico-teologico: l'abbandono delle verità tradizionali e la
scoperta del nulla. Sullo sfondo, in un grado impossibile da determinare
in un senso ο nell'altro, la condizione fisica del poeta ed il contesto
familiare. Non sarà possibile esaminare partitamente ognuno di questi
grandi temi. Alcuni cenni per qualcuno d'essi sarà però dato.
Va precisato in via preliminare che, al di là di ogni possibile
discussione sulla sua religiosità, sussistono in Leopardi ambizioni e
desideri decisamente intramondani ed immanenti. L'aspirazione alla
gloria, fortissima in lui fin da tenera età, e il bisogno di amore da
sentire carnalmente palpitante, uniti ad una natura fondamentalmente
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sognatrice e malinconica, mossa da potenti fantasie (talvolta incline
anche alla menzogna), si muovono entro l'ambito terreno. Quando
prenderà le distanze dalla religione tradizionale, la sua natura sensibile
e fantastica si troverà priva di ogni sostegno datore di senso e di
ordine.
Leopardi ha fin dalla più grave sua crisi spirituale, quella che lo fa
affacciare per l'appunto sull'abisso del nulla, anzi a penetrarvi e a
parlare da quella profondità, chiara consapevolezza dei movimenti
fondamentali di pensiero che a quell'abisso medesimo conducono. Vi
è nella tradizione un mondo necessario ed ideale che serve di
fondamento al mondo transeunte e relativo. La modernità ha messo in
crisi il primo mondo, dunque il secondo è diventato nulla. Le idee
platoniche, le uniche a suo dire che possano garantire l'esistenza di Dio,
sono abbandonate: "[...] è chiaro che la distruzione delle idee innate
distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta, e de'
loro contrarli. Vale a dire di una perfezione ec. la quale abbia un
fondamento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti
che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale
ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendente da loro." E ancora:
"[...] In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla.
Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v'è ragione
assoluta perch'ella non possa non essere, ο non essere in quel tal modo
ec. [...] Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose,
è distrutto Iddio." Un risultato speculativo ottenuto non solo da letture
sensistiche e materialistiche, quindi un filone caratterizzante della
modernità, ma anche dalla meditazione di correnti del pensiero antico,
che lo portano a ritenere irrimediabilmente dissolte le forme più evidenti
del platonismo tradizionale. Se le idee non hanno più giustificazione di
esistere, la stessa nozione di Dio vien meno. Con Lui è distrutto anche
il mondo, almeno nella visione sostanzialistica. Non che sia stato
annichilito del tutto, ma si fa nulla data la mancanza di fondamento e
di finalità, dati il suo relativismo e la sua contingenza: "Io era
spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi
sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido
nulla." Il nulla leopardiano è il sentimento di vuoto universale,
immaginarietà, inconsistenza com'è provato in abbondanza da vari passi
dello Zibaldone. L'uomo, e quindi anche Leopardi, vive nel nulla e
potrebbe dare un senso e un valore più profondo alla sua meditazione
sull'insussistenza e la contraddittorietà solo riconoscendosi capace di
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trascendenza verticale, ma Leopardi, irretito com'è nell'immanente, non
può rendere certo adeguatamente conto di queste problematiche e dei
loro risvolti esistenziali.
Pulsioni fondamentali dello spirito umano e risultanze metafisiche
si ritrovano intrecciate in un groviglio inestricabile. Il sentimento del
nulla, quindi la percezione delle cose come nulla, viene abilmente
ricondotto alla sua origine naturale, all'insufficienza dei piaceri, cioè ad
un'impossibile felicità, ed alla nostra tensione verso l'infinito.
Leopardi insiste con particolare vigore sulla mancanza di
corrispondenza tra un principio logico fondamentalissimo come quello
di non contraddizione e quanto avviene in natura che è esattamente
contraddittorio:
Non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente
falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in
natura [...]. Or l'essere, unito all'infelicità, ed unitovi necessariamente
e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a se stessa, alla
perfezione e al fine proprio che è la sola felicità [...]. Dunque l'essere
dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se
medesimo.
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Nulla ed infinito si offrono insieme allo studio del ricercatore.
Niente [...] nella natura annunzia l'infinito, l'esistenza di alcuna cosa
infinita. L'infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra
piccolezza ad un tempo e della nostra superbia. [...] Or quelle
grandezze [...] che noi non possiamo concepire, noi le abbiam credute
infinite [...]. Ma l'infinito è un'idea, un sogno, non una realtà: almeno
niuna prova abbiamo noi dell'esistenza di esso, neppur per analogia
[...]. Pare che solamente quello che non esiste [...] possa essere senza
limiti, e che l'infinito venga in sostanza ad esser lo stesso che il
nulla.
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È nulla inoltre non per sé, ma per noi, perché non può essere utile alla
nostra felicità.
E così le cose esistenti, e niuna opera della natura né dell'uomo, non
sono atte alla felicità dell'uomo (10 luglio 1823). Non ch'elle sieno
cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l'uomo
indeterminatamente vorrebbe, e ch'egli confusamente giudica, prima
di sperimentarle. Così elleno son nulla alla felicità dell'uomo, non
essendo un nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla
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la miracolosa e stupenda opera della natura [...] Benché a noi per
verità ed in sostanza a nulla serva?
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Risulta in tutta la sua evidenza che Leopardi, nulla egli stesso ed
immerso nel nulla, non fa altro che portare a termine, con inflessibile
coerenze, quanto il pensiero radicalmente materialista comporta. Questo
mondo non può dirsi semplicemente sospeso in un luogo intermedio tra
assenza di principio e di fine, ma in questo "tra" rivela, nella finitezza
e nel limite, la sua nullità, mancando di un aggancio realmente
metafisico. Ovviamente, Leopardi non è ingenuo al punto da negare se
stesso, la terra calpestata. Il suo mondo però — privo di un fondamento
ontologico avvolgente — dunque è inconsistente, è nulla. Egli altro non
fa che costruire una particolare ontologia. Se si vuole, com'è stato fatto
con espressione in un certo senso ossimorica, un'ontologia del nulla.
Nulla dunque è il vuoto, il relativo, la mancanza di necessità. Nulla è
l'assenza di fondamento eterno, immutabile, che produce un sentimento
di inconsistenza. È la contingenza e il relativismo radicali. Per la sua
stessa insistenza sull'infinito, l'opera di Leopardi è dominata da un
impulso religioso. Né v'è chi non veda nelle sue più note espressioni
una profonda ansia di trascendenza. Addirittura è stata rilevata una
religiosità dai tratti marcatamente apofatici. "Se, dunque," — ha scritto
ad esempio Moretto —
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nello spazio del religioso, denominato da Schleiermacher Universo,
la figura del Dio persona risulta alla fine criticata e superata, nello
"spazio immenso," dischiuso dal finale del canto del Gallo silvestre
[...] si rivela caduca e superata la figura stessa dell'Universo, e al suo
posto subentrano il "silenzio nudo" e la "quiete altissima," che sono
i nuovi nomi conferiti da Leopardi, in consonanza con la tradizione
mistica d'Oriente e d'Occidente, al Deus absconditus et ineffabilis.
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Tuttavia, è doveroso stabilire dei punti fermi. Va sempre ricordato, ad
evitare facili suggestioni ed ancor più facili passaggi concettuali, che vi
è nella tradizione mistica un nulla per sovrabbondanza di pienezza ed
un nulla per assenza di valore, sostanza, significato; allo stesso modo
vi è il silenzio di ciò che ricomprende in sé ed oltrepassa la parola
sensibile e il silenzio, di cui troppo spesso il mondo conosce i tristi
effetti, della parola inespressa per imposizioni esterne ο assenza di
tensione, incapacità progettuale ο altro. Leopardi con grave difficoltà
può essere collocato tra i campioni poetici di un pensiero autenticamente
Fernando Di Mieri
214
apofatico. Sicché, per quanto assurdo possa essere un linguaggio di
questo genere, se i nomi rientrano effettivamente nella tradizione
teologica la "cosa" significata non è rigorosamente la stessa. Se il
riconoscimento dell'uomo come essere naturaliter votato alla
trascendenza appare senz'altro come una sorta di prerequisito e
senz'altro fra i momenti iniziali di una vera religiosità, va anche detto
che questa dovrà essere poi proseguita, per quel che è possibile,
compiuta. Nulla sembra esservi che autorizzi a pensare ad una tale
conclusione. Al contrario, appare chiaro che il Leopardi maturo si
aggira pienamente nell'intramondano.
Da lontano Leopardi era partito nelle sue riflessioni, per giungere
poi all'equazione tra infinito e nulla, già implicita nella nozione di
infinito come indefinito. Se infinito è il desiderio, una forza elementare
sempre attiva perché mai soddisfatta, esso sarà placato solo da
un'immaginazione indefinita. Questa, confusa "con la facoltà
conoscitrice," produce l'illusione, nelle psicologie più remote di fanciulli
e primitivi, che le prospettive da essa offerte siano reali, che esista
davvero l'infinito. Lo sguardo disincantato del conoscitore del vero,
invece, vede l'origine propria dell'infinito nell'esigenza radicata di
cogliere ciò che ci supera abissalmente. Ma se l'infinito non è reale,
sarà nulla. Se ne potrà certo dare un'immagine nella rimembranza, ma
nulla di più. Lo slittamento verso posizioni con forze materialiste, che
vedono l'affaticarsi del mondo in un dimensione priva della luce del
trascendente, ma "eterna," è forse una difficoltà? Sarebbe solo il tempo
a sfuggire alle strette maglie del limite? La risposta leopardiana è
inequivoca:
45
Il tempo non è una cosa. Esso è uno accidente delle cose, e
indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla; [...] In somma
l'esser del tempo non è altro che un modo, un lato, per dir così, del
considerar che noi facciamo la esistenza delle cose che sono, ο che
possono ο si suppongono poter essere. Medesimamente dello spazio.
Il nulla non impedisce che una cosa che è, sia, stia, dimori. Dove
nulla è, quivi niuno impedimento è che una cosa non vi stia ο non vi
venga. Però il nulla è necessariamente luogo.
46
La meditazione sul nulla va collegata inoltre naturalmente con
quella sul male che troverà espressione oltre che in alcuni passi dello
Zibaldone, nell'"Inno ad Arimane," "Re delle cose, autor del mondo,
arcana/malvagità, sommo potere e somma/ intelligenza, eterno/ dator de'
'Il risorgimento'
215
47
mali e reggitor del moto." In tal modo si spiega l'inversione a cui temi
fondamentali della teologia e dell'ascetica cristiane sono piegati nella
opera leopardiana. Il 17 maggio 1829 scriverà, in un crescendo
pessimistico:
Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male
nell'ordine, che fonda l'ordine nel male? Il disordine varrebbe assai
meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v'è del male, domani vi potrà
esser del bene, esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è
ordinario? Dico, in un ordine ove il male è essenziale.
48
*****
Sul piano antropologico abbiamo un desiderio infinito dell'uomo di
conoscere e amare, un'aspirazione fondamentale alla felicità, la
bramosia di realizzazione connessa ad una speranza. Ed è il caso di
ripercorrere tratti di queste idee fondamentalissime che Leopardi
analizzò con acume fin dagli inizi della sua maturità di pensiero.
L'uomo è per natura essere desiderante, e si sa quanto il
collegamento tra desiderio e infinito sia stato argomento principe
nell'apologetica religiosa. Allo stesso modo si sa quanto Leopardi abbia
riflettuto sulla natura del desiderio, tensione infinita al piacere, cioè alla
felicità. Sembra di ripercorrere davvero il pensiero degli antichi cirenaici
quando si leggono queste parole:
49
Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i
piaceri a riempierci l'animo, e la tendenza nostra verso un infinito che
non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e
più materiale che spirituale. L'anima umana (e così tutti gli esseri
viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché
sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola
bene, è tutt'uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non
ha limiti, perch'è ingenita ο congenita coll'esistenza, e perciò non può
aver fine in questo ο quel piacere che non può essere infinito, ma
solamente termina colla vita. E non ha limiti (1) né per durata, (2) né
per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli
(1) né la sua durata, perché nessun piacere è eterno, (2) né la sua
estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose
porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia
circoscritto.
50
Fernando Di Mieri
216
Non si desidera una certa cosa, ma il piacere, se si considera che, una
volta soddisfatto il piacere, rimane comunque un vuoto nell'anima.
Non è un caso che Gaetano Sanseverino, esponente di rilievo della
Neoscolastica dell'Ottocento, in uno scritto del 1849, metta in
relazione il pensiero di Leopardi con quello di Egesia, il persuasor di
morte. Sostiene anzi che è "quasi lo stesso." D'altro canto, si ponga
mente a quanto Leopardi stesso ha scritto nello Zibaldone a proposito
di questo indirizzo di pensiero: "Gli Egesiaci (ramo della setta
Cirenaica) dicevano secondo il Laerzio (in Aristippo 1.2 segm. 95).
τον
τε
σοφον
έαύτοΌ
ε ν ε κ α π ά ν τ α πράξειν.
Questa
55
potrebb'esser la divisa di tutti i sapienti moderni, in quanto sapienti."
È l'immaginazione la forza immane che prospetta all'uomo la
scoperta dell'infinito, ma di un genere particolare:
51
52
53
54
Veniamo all'inclinazione dell'uomo all'infinito. Indipendentemente
dal desiderio del piacere, esiste nell'uomo una facoltà immaginativa,
la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le
cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell'uomo al
piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue
principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la
detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei
piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti (1) in numero, (2) in
durata, (3) e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare
nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano
la speranza, le illusioni ec.
56
Se da ciò l'anima religiosa alla maniera tradizionale era indotta ad
uno scatto verso livelli superiori del reale, Leopardi con il tempo si
fermerà al di qua, nel mondo, che viene così riconosciuto come unico
ambito di realizzazione: lo scarto che in tal modo si crea tra pulsione
infinita e realizzazione finita e provvisoria non può condurre che
all'insignificanza, al nulla.
Il materialismo leopardiano è il risultato di un'inversione che porta
a privilegiare il lato carnale della felicità, precisamente quello posposto,
e senz'altro condannato dal Cristianesimo, quando assurga ad
un'autonomia assoluta. Non lo soddisfa più l'idea di una felicità somma,
ma ultraterrena.
Le speranze che dà all'uomo il Cristianesimo sono pur troppo poco
atte a consolare l'infelice e il travagliato in questo mondo [...]. La
promessa e l'aspettativa di una felicità grandissima e somma ed
'Il risorgimento'
217
intiera bensì, ma 1° che l'uomo non può comprendere né immaginare
né pur concepire ο congetturare in niun modo di che natura sia,
nemmen per approssimazione, 2° ch'egli sa bene di non poter mai né
concepire né immaginare né averne veruna idea finché gli durerà
questa vita, 3° ch'egli sa espressamente esser di natura affatto diversa
ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella che
quaggiù gli è negata [...]. La felicità che l'uomo naturalmente desidera
è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere
sperimentata dai sensi ο da questo nostro animo tal qual egli è
presentemente e qual noi lo sentiamo.
57
Il sentimento della noia, scoperto in maniera profonda e
sostanzialmente irreversibile nel corso del tanto agnognato e poi tanto
deludente soggiorno romano, si affaccia a questo proposito. L'origine
è sempre la stessa: lo scarto tra il finito che siamo e in cui siamo
immersi ο che possiamo afferrare e l'infinito bramato, ma che si
allontana inafferrabile. E tuttavia, la noia non viene intesa
semplicisticamente, diventa anzi un segno di profondità di sentire e
dunque di distinzione spirituale.
"La noia è il desiderio di felicità, lasciato, per così dir, puro. Questo
desiderio è passione [...]. Questa passione, quando ella si trova sola [...]
è quello che noi chiamiamo noia." Se il vuoto che si produce è noia,
a provarlo può essere solo l'uomo con una nobile qualificazione
spirituale.
58
La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani [...]
trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio;
immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e
sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande
che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di
nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior
segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana.
Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e
59
pochissimo ο nulla agli altri animali.
Il tempo catalettico, però, se è lecito usare quest'espressione, nella
magica atmosfera pisana sembra ormai definitivamente dissolto. Un
pensiero dello Zibaldone parla di quanto Leopardi si attende dai suoi
versi, il piacere che gliene deriva, il gusto di riandare con la mente alle
esperienze passate:
Fernando Di Mieri
218
Uno de'maggiori frutti che io mi propongo e spero da' miei versi, è
che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù;
è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de' miei
sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata,
quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come
spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d'altri: (Pisa 15,
Apr. 1828) oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch'io fui,
e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in
gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se
compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non
con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia
essa ο non sia conosciuta per tale da altrui (Pisa 15 Feb. Ult. Venerdì
di Carnevale 1828).
60
Ne "Il risorgimento" Leopardi torna per l'appunto al passato appena
trascorso, la confronta col presente.
La seconda parte, quella della rinascita del cuore, inizia con alcune
domande di rapito stupore per l'improvviso ridestarsi delle emozioni, la
rinnovata simpatia con la natura, il ritorno delle lacrime e una nuova
capacità di guardare il mondo. Leopardi sente d'improvviso ritornare la
vita, la fantasia, le illusioni, tutte quelle cose che parevano
irrimediabilmente perdute. Volgendo intorno lo sguardo, tutto ritorna a
procurargli sensazioni, di piacere ο dolore, ma sensazioni. I tanti aspetti
della natura ritornano a parlargli in cuore. Gli "errori beati,"
testimoniano ancora una volta che il cuore è vivo.
Chi dalla grave, immemore
quiete or mi ridesta?
che virtù nova è questa,
questa che sento in me?
Moti soavi, immagini,
palpiti, error beato,
per sempre a voi negato
questo mio cor non è?
Siete pur voi quell'unica
luce de' giorni miei?
gli affetti ch'io perdei
nella novella età?
Se al ciel, s'ai verdi margini,
ovunque il guardo mira,
tutto un dolor mi spira,
Ίl risorgimento'
219
tutto un piacer mi dà.
Meco ritorna a vivere
la piaggia, il bosco, il monte;
parla al mio core il fonte,
meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
dopo cotanto obblio?
e come al guardo mio
cangiato il mondo appar? (vv. 81-104)
Inizia un tentativo di soluzione del felice enigma rappresentato dal
nuovo stato. È la speranza? Leopardi aveva scritto nel 1821:
[...] le illusioni poco stanno a riprender possesso e riconquistare
l'animo nostro, anche malgrado noi; e l'uomo (purché viva) torna
infallibilmente a sperare quella felicità che avea disperata; prova
quella consolazione che avea creduta e giudicata impossibile;
dimentica e discrede quell'acerba verità, che avea poste nella sua
mente altissime radici; e il disinganno più fermo, totale, e ripetuto, e
anche giornaliero, non resiste alle forze della natura che richiama gli
errori e le speranze (16. Gen. 1821).
61
Ma la speranza ormai non potrà mostrare più il suo volto, mai più potrà
tornare. Certo, in un passo del suo Zibaldone egli si esprime in termini
diversi, che lasciano pensare:
La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel
mondo, appoco appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni
desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi
trovo nella strana situazione di aver molta più speranza che desiderio,
e più speranze che desiderii ec. (Pisa, 19, 1828).
62
Ma tutto ciò rappresenta una diversità di atteggiamento rispetto alla
proposizione espressa ne "Il risorgimento," "che va va al di là" —
sostiene Binni — "di questo contrasto tra speranze e desideri per
puntare decisamente al risorgere non della speranza ο del desiderio, ma
della radice stessa della vitalità, del cuore, del sentimento." È difficile
non condividere le parole del noto critico per quanto riguarda questo
motivo, che da subito di presenta nel pensiero leopardiano.
63
Fernando Di Mieri
220
64
"Io vivo, dunque io spero." Centrale è questo tema, tanto che
Leopardi si lascerà andare a sillogismi di questo genere, dal sapore
cartesiano, e si potrebbero moltiplicare facilmente i passi in cui parla
della speranza, attitudine fondamentale dello spirito umano. Alla radice
di tutto una lucida consapevolezza dello stesso Leopardi, il quale
riconosce ampiamente il peso che questa "inclinazione" dello spirito
umano ha avuto nella sua vita:
Racconta Diogene Laerzio di Chilone Lacedemonio il quale
interrogato in che differissero i dotti dagl'indotti, rispose, nelle buone
speranze [...]. Io non so dire se avesse riguardo alle cose di questo
mondo ο di una vita avvenire. Certamente rispetto a quelle, oggidì
avviene appunto il contrario. In che differisce l'ignorante del savio?
Nella speranza.
65
In tutto ciò la "speranza è infinita come il desiderio del piacere, ed ha
di più la forza se non di soddisfar l'uomo, almeno di riempierlo di
consolazione, e di mantenerlo in piena vita. La speranza propria
dell'uomo, degli antichi, fanciulli, ignoranti, è quasi annullata per il
moderno sapiente." D'altro canto, basti pensare soltanto, esattamente
come fa Sanseverino, anche al ruolo della speranza nella "Storia del
genere umano," dove anima lo stato di infanzia dell'umanità per poi
svanire e va pertanto a connettersi in negativo con quel tema della
scoperta dell'orrido vero, così determinante per l'esperienza leopardiana.
"Il risorgimento," canto del ritorno della vita procede all'unisono
con gli altri canti pisano-recanatesi nel negare il ritorno della speranza
fallace della giovinezza.
Gaetano Sanseverino ha individuato la speranza come il luogo ove
si colloca ogni felicità nel pensiero leopardiano. Ma la speranza fallace
può portare a risultati disastrosi, che variano a seconda dell'indole e dei
fini di chi se ne fa propugnatore ed esaltatore. Almeno duplice è infatti
il modo di intendere la speranza. In quanto passione è null'altro che
l'attesa animata da fiducia in un bene raggiungibile, senza ulteriori
specificazioni. Leopardi ricorda: "Il primitivo e proprio significato di
spes non fu già lo sperare ma l'aspettare indeterminatamente al bene
68
ο al male." Perché diventi virtù, essa deve mirare ad un bene assoluto.
Nella tradizione tomistica la speranza rientra nell'appetito irascibile, a
differenza del desiderio, a sua volta appetito concupiscibile, che tende
a un bene, indipendentemente dalla sua raggiungibilità. È evidente che
la nozione di bene richiama immediatamente quella di felicità definita
66
67
'Il risorgimento'
221
in tal modo da Boezio: "Liquet igitur esse beatitudinem statum bonorum
omnium congregatione perfectum." La speranza leopardiana è
chiaramente immanentizzata e perde la sua valenza di virtù teologica.
Gli spazi ultraterreni offerti dal cristianesimo non possono dunque
consolare l'uomo infelice.
Fin quando la vita alita nel cuore dell'uomo, la speranza, che
origina dall'amor proprio, non cesserà mai di sostenerlo. "La speranza
è come l'amore proprio, dal quale immediatamente deriva. L'uno e
l'altra non possono, per essenza e natura dell'animale, abbandonarlo mai
finch'egli vive, cioè sente la sua esistenza."
Il motivo della speranza è sconcertante nella sua prevalenza: "La
speranza è sempre maggiore del bene" (167). Anche nella speranza il
vago ritorna a prevalere. E inoltre, per il suo carattere indefinito, la
speranza prevale addirittura sul piacere stesso. Si giustificano così
espressioni come: "La speranza di un piccolo bene, è un piacere
assolutamente maggiore del possesso di un bene grande già provato."
E ancora:
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70
71
72
Dalla mia teoria del piacere seguita che l'uomo, desiderando sempre
un piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e
speri una cosa ch'egli non può concepire. E così è infatti. Tutti i
desiderii e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri più
determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai
assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre
un'idea confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce
confusamente. E perciò e non per altro, la speranza è meglio del
piacere, contenendo quell'indefinito, che la realtà non può contenere.
73
*****
L'uomo desidera instancabilmente la felicità di questa vita, né riesce a
trovare appagamento nella promessa del cristianesimo di una felicità
ultraterrena. Una natura "sorda," ingannatrice e priva di misericordia è
quella che non si preoccupa del bene, ma solo dell'essere, in una
divaricazione sconcertante tra due nozioni, che l'indirizzo prevalente del
pensiero classico aveva identificato:
L'uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della vita, ma
solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedano,
per conservarla [...]. L'esistenza non è per l'esistente, non ha per suo
fine l'esistente, né il bene dell'esistente; se anche egli vi prova alcun
Fernando Di Mieri
222
bene, ciò è un puro caso: l'esistente è per l'esistenza, tutto per
l'esistenza, questa è il suo puro fine reale.
74
Per Leopardi, il bene somiglia spesso a quello che in realtà noi diciamo
benessere individuale, anche se da non confinare, com'è ovvio,
all'aspetto
materiale
e
meno
che
mai
a
quello
grettamente
economicistico. Per parlare in termini più generali è la felicità terrena.
Nei versi che seguono assistiamo, com'è chiaro, ad un passaggio
dalla considerazione della sua storia personale a più ampie illustrazioni
della natura universale, che è natura impietosa, al pari dell'umanità,
incapace di riconoscere il valore dei grandi, al pari di occhi che
splendono senza amore.
Forse la speme, ο povero
mio cor, ti volse un riso?
Ahi della speme il viso
io non vedrò mai più.
Proprii mi diede i palpiti,
natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
l'ingenita virtù;
non l'annullar: non vinsela
il fato e la sventura;
non con la vista impura
l'infausta verità.
[...]
Che non del ben sollecita
fu, ma dell'esser solo:
purché ci serbi al duolo,
or d'altro a lei non cal. (vv. 105-124)
Giovane Santo Stefano lapidato dal dubbio fu chiamato da Melville
Giacomo Leopardi [...]. Egli aveva smarrito il senso delle parole che
in italiano distinguono e giudicano l'immaginativa disciplinata e
feconda dal vizio, e perseguì il "bello aereo, le idee indefinite," le
impressioni fuggitive. Fu salvato dall'oggettivo nitore della tradizione
linguistica italiana, a dispetto della sua modernità, la quale gli faceva
annotare nello Zibaldone: "La malinconia, il sentimentale moderno
e c , perciò appunto sono così dolci, perché immergono l'anima in un
abisso di pensieri indeterminati de' quali non sa vedere il fondo né i
contorni."
75
'Il risorgimento'
223
È l'indefinito che attrae irresistibilmente la sua anima, tutto ciò che
acquista contorni indeterminati. Lo abbiamo già visto a proposito della
speranza. Ma speranze e rimembranze si richiamano in un gioco di
rimandi e sono in egual misura attraenti appunto per la loro
caratteristica di etereità: "La rimembranza del piacere, si può paragonare
alla speranza, e produce appreso a poco gli stessi effetti. Come la
speranza, ella piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del
bene [...] che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perché in
lontananza sembra di poterlo gustare."
76
In un celebre passo dello Zibaldone, Leopardi chiarisce il valore
poetico e la natura della rimembranza:
Un oggetto qualunque, p. e. un luogo, un sito, una campagna, per
bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto
a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque,
affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La
rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per
altro, se non perché il presente, qual ch'egli sia, non può esser
poetico; e il poetico, in uno ο in altro modo, si trova sempre
consistere nell'indefinito, nel vago. 77
Naturalmente la rimembranza è l'evocazione di qualcosa di trascorso e
di irrimediabilmente perduto e che comporta il riconoscimento del
carattere transeunte delle realtà umane e terrene. Libera l'immaginazione
poetica, ora capace di trovare un raccordo, un motivo, un interesse,
qualcosa che ispiri dei versi: "Il passato, a ricordarsene, è più bello del
presente come il futuro a immaginarlo. Perché il solo presente ha la sua
vera forma nella concezione umana; è la sola immagine del vero: e tutto
il vero è brutto (18 Agos. 1821)."
Quasi crogiolandosi in questi torbidi stati indefiniti, Leopardi non
effettua una revulsione di piano per passare al Saturno degli autentici
contemplativi. Né si libera del sogno ad occhi aperti. Eppure egli aveva
chiara consapevolezza dei rischi spirituali che corre in particolare chi ha
troppo fertile fantasia e che ozio e solitudine sono i mali principali da
fuggire: "A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato
esteriormente [...]. Quanto più io era libero da fatiche e da occupazioni
estrinseche [...] tanto meno io era quieto nell'animo [...]. Le persone
massimamente di una certa immaginazione [...] hanno più che gli altri,
per viver quiete, necessità di fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo
di distrazione e di occupazione esterno."
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79
Fernando Di Mieri
224
È questo il pericolo, da sempre segnalato: per il proprio equilibrio
personale, è bene non avventurarsi nelle dimensioni della fantasticheria.
Proprio là dove Leopardi amava scorrazzare in un impasto di sensuale
ed indeterminato, al cui fondo si rileva l'amore schietto per la vita.
Proprio l'amore per la vita terrena, negata ο che almeno in parte
riteneva gli fosse stata negata, spiega tante sue posizioni.
Dalle mie vaghe immagini
so ben ch'ella discorda:
so che natura è sorda,
che miserar non sa. (vv. 121-124)
Proseguendo la nostra analisi del canto, assistiamo ad un passaggio
dalla visione filosofica di una natura indifferente alla felicità umana a
una considerazione dello stato in cui verso "il misero," l'eletto della
verità, nel contesto umano:
So che pietà fra gli uomini
il misero non trova;
che lui, fuggendo, a prova
schernisce ogni mortal.
Che ignora il tristo secolo
gl'ingegni e le virtudi;
che manca ai degni studi
l'ignuda gloria ancor. (vv. 125-132)
Non vi è spazio in questi versi per categorie "progressive," che con
le dovute cautele, i necessari distinguo, potranno essere usate nell'analisi
di altre composizioni. Manca la solidarietà di quanti vivono nel
"divertimento" verso chi ha scoperto la nudità ontologica della natura.
Né si fa cenno ad una comunione di spiriti eletti che possa sopperire
all'angustia dell'isolamento. Qui le espressioni sono nette: chi si innalza
per studi e per sapienza non trova accoglienza nel suo mondo.
Ed ancora, se "il misero" può essere ancora letto come "quel misero
Leopardi," ma anche chiunque altro viva la stessa condizione di
solitudine disperante, nei versi successivi si passa senz'altro ad una
condizione più personale, al distacco che nei suoi confronti mantiene
uno sguardo radioso, ma che irride ai sentimenti altrui:
'Il risorgimento'
225
E voi, pupille tremule,
voi, raggio sovrumano,
so che splendete invano,
che in voi non brilla amor.
Nessuno ignoto ed intimo
affetto in voi non brilla:
non chiude una favilla
quel bianco petto in se.
Anzi d'altrui le tenere
cure suol porre in gioco;
e d'un celeste foco
disprezzo è la mercé. (vv. 133-144)
Nonostante tutto ciò, le illusioni tornano a far sentire il loro impeto.
Un nonnulla, un ambiente nuovo e favorevole, la stanchezza di una
prostrazione a lungo vissuta fanno ritornare attuali questi segnali di vita.
È il cuore soltanto che gli dà nutrimento. Null'altro giustifica questo
risorgimento. Immutato è infatti il pensiero filosofico, immutate le
condizioni personali e affettive, immutate il corso che l'umanità tiene
nei confronti di che si eleva.
Pur sento in me rivivere
gl'inganni aperti e noti;
e de' suoi proprii moti
si maraviglia il sen.
Da te, mio cor, quest'ultimo
spirto, e l'ardor natio,
ogni conforto mio
solo da te mi vien. (vv. 145-152)
Mancano, dunque, all'anima, e Leopardi lo dichiara sintetizzando
in una coppia di versi quanto aveva in precedenza diffusamente detto,
sorte, natura, mondo e beltà. Ma se lo spirito, tetragono nella resistenza,
non cede ai colpi della sorte, se perciò il cuore continuerà a mostrare i
segni della vitalità, per quanto avverse siano le situazioni, che non gli
hanno fornito né buona sorte, né gloria, né bellezza, non sarà da
Leopardi detto "spietato" il cielo che lo fa vivere.
Mancano, il sento, all'anima
alta, gentile e pura,
la sorte, la natura,
Fernando Di Mieri
226
il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, ο misero,
se non concedi al fato,
non chiamerò spietato
che lo spirar mi dà. (vv. 153-160)
FERNANDO DI MIERI
Istituto Filosofico "San Tommaso d'Aquino,"
Napoli
NOTE
1
Per E. Severino, nel saggio Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi
(Milano: Rizzoli, 1997), la frammentarietà si presenta come un tratto generale
del nostro tempo. È l'analogo umanistico della specializzazione in campo
scientifico.
Si consideri, ad esempio, un termine centrale in Leopardi: natura. Vi è stato
chi, come Gioanola, ha potuto, forse esasperandone la pluralità semantica,
contestare il "pigro luogo comune da libro scolastico" del passaggio leopardiano
da una visione della natura come madre in matrigna. Lo stesso Gioanola deve
però segnalare che "nel significato di istintualità e vitalità che si oppone alle
razionalizzazioni della cultura, il concetto di natura rimane sempre positivo,
anche se il campo operativo di tale significato si va progressivamente riducendo
per il sovrapporsi dell'altro, della natura come Arimane, principio del male" (E.
Gioanola, Leopardi, la malinconia [Milano: Jaca Book, 1995], cit., in E. Fenzi,
"Leopardi, oltre la malinconia," Nuova Corrente XLIII [1996], 104).
Zibaldone, 3382-3-4, 8. Sett. Natalizio di Maria Vergine Santissima, 1823. In
un pensiero del 1821, Leopardi si esprime in questi termini a proposito di una
simbiosi tra filosofia e poesia nella modernità: "Malgrado quanto ho detto
dell'insociabilità dell'odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente
straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e quasi
dell'impossibile, e non consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque
ostacolo, ed essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente. Ma questa
cosa, come vicina all'impossibile, non sarà che rarissima e singolare (24 Luglio
1821)" (Zibaldone, 1383).
Cfr. Zibaldone, 1839 (4 Ott. 1821).
S. Givone, Storia del nulla (Bari: Laterza, 1996), p. 141.
Va ricordato che il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere
e il Dialogo di Tristano e di un amico, sono del 1832 (Cfr. la Notizia intorno
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Il risorgimento'
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a queste Operette, premessa all'Edizione Starita di Napoli del 1835, in
Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose [Roma: Newton Compton, 1997], p.
607).
Zibaldone, 4149 (Bologna, 3 Nov. 1825).
A Pietro Giordani, 6 Maggio 1825.
Zibaldone, 4174 (Bologna, 22 Apr. 1826). Si consideri ancora, circa la
bestemmia, quanto segue, che tra altri motivi fa accostare Leopardi a Giobbe:
"Oggidì (eccetto nei mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona
colpevole delle nostre miserie, ο tale che la Religione è impedisce in tutti i
modi di creder colpevole, e quindi degna di odio. Tuttavia anche nella
Religione di oggidì, l'eccesso dell'infelicità indipendente dagli uomini e dalle
persone visibili, spinge talvolta all'odio e alle bestemmie degli enti invisibili e
superiori, e questo, tanto più quanto più l'uomo (per altra parte costante e
magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi
bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita, ec. (15 Gen.
1821)" (Zibaldone, 506-7).
R. Verdirame, "La Virtù nova' e l''error beato.' Lettura del 'Risorgimento'
di Giacomo Leopardi," Le Forme e la Storia n. s. II (1990), 282.
Cfr. A Paolina Leopardi. 12. 11. 1827.
Ibid. 25. 2. 1828.
Sul soggiorno pisano si possono utilmente consultare: E. Giordano, La
carazza e la spada. Saggi leopardiani (Salerno: Laveglia, 1990), Leopardi a
Pisa, a cura di F. Ceragioli (Milano: Electa, 1997), R. Damiani, All'apparir del
vero. Vita di Giacomo Leopardi (Milano: Mondadori, 1998).
Cfr. W. Binni, "Scherzo," "Il risorgimento," in idem., Lezioni Leopardiane,
a cura di N. Bellucci, con la collaborazione di M. Dondero (Firenze: La Nuova
Italia, 1994), p. 469.
Cfr. Leopardi, Tutte le poesie [...], op. cit., p. 210 e Zibaldone 4271-4272.
Leopardi, "Scherzo," in Tutte le poesie, op. cit., p. 210.
Con buona probabilità il tempo della composizione va collocato nell'aprile
del 1828. È stato edito per la prima volta in Leopardi, Scritti vari inediti dalle
carte napoletane (Firenze: Le Monnier, 1906).
Binni, Lezioni Leopardiane, op. cit., p. 471.
Vi sono alcune differenze di vario genere tra "Il risorgimento" dell'edizione
Piatti di Firenze (1831), la prima, e l'edizione Starita di Napoli (1835).
Verdirame ritiene di cogliere nelle varianti sostanziali apportate successivamente
"l'enfatizzazione, attraverso un procedimento limpidamente ragionativo, della
lotta tra l'io eroico da una parte, la natura algidamente neutrale e la verità
individuata e segnalata come forza antagonista ed 'infausta,' dall'altra"
(Verdirame, op. cit., p. 295).
Leopardi, Tutte le poesie [...], op. cit., p. 1363.
Si può tuttavia concordare col giudizio espresso da Valeri sul diverso livello
artistico delle strofe: "[...] alla fine, dovremmo pur accedere, nonostante qualche
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riserva, al giudizio comune. Ma su una strofe dell'ultima parte, su una mezza
strofe, almeno, mi sia concesso di richiamare l'attenzione di chi legge [...].
'Forse la speme, ο povero, / Mio cuor, ti volse un riso? / Ahi, della speme il
viso / Io non vedrò mai più [...]'" (D. Valeri, "Il 'Risorgimento' di Giacomo
Leopardi," in Idem., Conversazioni italiane [Firenze: Olschki, 1968], p. 199).
L. Russo, I classici italiani (Firenze: Sansoni, 1966), Vol. IIΙ, p. 735.
Leopardi, Zibaldone, 702 (27 Feb. 1821). Russo insiste sull'esteriorità
dell'incontro tra Leopardi e Metastasio: "[...] anche in Leopardi era venuto
maturando, attraverso gli anni, una mitezza passionale, che è la caratteristica
costante dei melodrammi metastasiani, in cui si avvicendano e si armonizzano
gli impeti della passione e la saggia e chiaroveggente riflessione [...]. Ma
l'accordo era soltanto esteriore: il Leopardi restava profondamente un elegiaco
e non un idillico ο un epicureo patetico, come il poeta del Settecento. 'Il
Risorgimento,' in fondo, non è che una malinconica elegia, mentre in quasi tutti
i melodrammi del Metastasio c'è un poeta idillico soddisfatto che si compiace
e sensualmente assapora e vanifica il suo dolore" (Russo, I classici, op. cit., p.
736.
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G Giacalone, La pratica della letteratura. Seicento e Settecento (Napoli:
Fratelli Ferraro, 1996), p. 379.
Verdirame, op. cit., p. 288.
"L'analisi contenutistica dei 160 versi che costituiscono il componimento ne
evidenzia la struttura quadripartita, sapientemente disposta in segmenti paralleli
sistemati specularmente secondo un tracciato a chiasmo calibrato tra
rappresentazione e commento, per cui la prima sezione si connette alla terza
nella raffigurazione di una situazione individuale ed universale, la seconda e la
quarta sono accomunante dalla tensione riflessiva e lirica. Il quadro sinottico si
presenta perciò così articolato: a) resoconto di uno stato psichico di indifferenza
emotiva e freddezza sentimentale ( w . 1-80); b) interrogazione retorica di
stupefatta meraviglia sulla improvvisa rinascita del cuore (vv. 81-116); c) pittura
della natura indifferente e del genere umano sordo al dolore del poeta (vv. 117144); d) esaltato e coinvolto canto del cuore inopinatamente rinato agli affetti
(vv. 145-160)" (Verdirame, op. cit., pp. 283-4). Va da sé che altre suddivisioni
sono possibili. Ad esempio, sarei propenso a collocare il termine della prima
sezione della seconda parte al v. 104.
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Cfr. I Canti di G. Leopardi, commento di Alfredo Straccali, ed. corretta e
accresciuta da Oresti Antognoni (Firenze: Sansoni, 1920). Non ν ' è accordo
pieno tra i commentatori circa l'individuazione biografica delle tappe ripercorse
nel "Risorgimento" (Cfr. Valeri, op. cit., pp. 181-200). Straccali, ad esempio,
riteneva che i primi otto versi si riferiscano alla fase che giunge fin quasi alla
fine del 1819, mentre i versi dal nono al trentaduesimo richiamano il periodo
che va dalla fine del 1819 al 1822. I rimanenti versi della prima metà
andrebbero invece riferiti al periodo che va dal 1822 agli inizi del 1828.
Zibaldone, 51. Leopardi giunge a scrivere: "[...] il mezzo filosofo combatte
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le illusioni perché appunto è illuso, il vero filosofo le ama e le predica, perché
non è illuso; e il combattere le illusioni in genere è il più certo segno
d'imperfettissimo e insufficientissimo sapere, e di notabile illusione" (Zibaldone,
1715. 16 Sett. 1821).
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A Pietro Giordani, 19 Novembre 1819.
Verdirame, op. cit., pp. 291-2.
Leopardi, "Elogio degli uccelli," in idem., Tutte le poesie, op. cit., p. 571.
Sugli stessi temi, cfr. anche Zibaldone, 159 e 221.
"Nell'autunno par che il sole e gli oggetti sieno d'un altro colore, le nubi
d'un'altra forma, l'aria d'un altro sapore" (Zibaldone, 74).
Pensieri, VII, 24.
È nota la fermezza con cui Leopardi, in una lettera del 24 maggio 1832 al De
Sinner respinge la tesi, già al tempo avanzata, di una derivazione del suo
pessimismo dalle tristi condizioni fisiche: "Voi dite benissimo ch'egli è assurdo
l'attribuire ai miei scritti una tendenza religiosa. Quels que soient mes malheurs,
qu'on a jugé à props d'étaler et que peut-être on a un peu exagérés dans ce
Journal, j'ai eu assez di courage pour ne pas chercher à en diminuer le poids
ni par de frivoles espérances d'une prétendue félicité future et inconnue, ni par
une lâche résignation. Mes sentimens envers la destinée ont été et sont toujours
ceux que j'ai exprimés dans 'Bruto minore.' Ç'a été par suite de ce même
courage, qu'étant amené par mes recherches à une philosophie désespérante, je
n'ai pas hésité a l'embrasser toute entière; tandis que de l'autre côté ce n'a été
que par effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin d'être persuadés du
mérite de l'existence, que l'on a voulu considérer mes opinions philosophiques
comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l'on s'obstine à
attribuer à mes circonstances matérielles ce qu'on ne doit qu'à mon
entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la
faiblesse e de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s'attacher à détruire mes
observations et mes raisonnemens plutôt que d'accuser mes maladies." Se
queste parole vanno comunque tenute presenti, resta vero, tuttavia, che è da
considerare l'orgoglio di uno spirito che sentiva quotidianamente attacchi dalla
vita e titanicamente si adoperava per una ribellione. Dunque, non è da ascoltare
fino in fondo. Naturalmente è difficile stabilire percentuali di incidenza, ma non
è azzardato rilevare l'influenza delle condizioni fisiche.
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Quello della malinconia è uno dei tratti tipici della personalità leopardiana e
va a connettersi senz'altro anche con le esperienze familiari (cfr., in proposito,
Gioanola, op. cit.).
Zibaldone, 1340-1 (17 Luglio 1821).
Ibid., 1341-1342 (18 Luglio 1821).
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Ibid., 85. Il passo cosi prosegue: "prima di provare la felicità, ο vogliamo dire
un'apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo allentarci delle speranze,
e se queste son forti e costanti, il tempo loro è veramente il tempo felice
dell'uomo, come nella età fra la fanciullezza e la giovanezza. Ma provata quella
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Fernando Di Mieri
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felicità che ho detto, e perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e la
infelicità dell'uomo è stabilita."
"Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo
anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un'ora più quieta
conoscerò, la vanità e l'irragionevolezza e l'immaginario. Misero me, è vano,
è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s'annullerà,
lasciandomi in un voto universale, e in un'indolenza terribile che mi farà
incapace anche di dolermi" (Zibaldone, 72).
Ibid., 4099-4100 (2 Giugno 1824).
Ibid., 4177-78.
Ibid., 2936-37.
Cfr., Givone, op. cit. Emanuele Severino ha studiato il particolare nichilismo
leopardiano, inquadrandolo nella sua più generale visione filosofica della storia
dell'Occidente. Cfr. Severino, Il nulla e la poesia alla fine dell'età della
tecnica: Leopardi (Milano: Rizzoli, 1990); idem., "Leopardi e la tradizione
dell'Occidente," in idem., Pensieri sul cristianesimo (Milano: Rizzoli, 1995), pp.
256-64; idem., Cosa arcana e stupenda, op. cit.
G. Moretto, "Leopardi e la religiosità jobica," Humanitas LIII, n. 1/2 (aprile
1998), 330-1.
"La contraddittoria vicenda infinito-indefinito infinito-nulla, espressione della
fondamentale contraddizione vita-esistenza [...] segna in forme diverse fino
all'ultimo la poesia del Leopardi. Una configurazione molto particolare questa
dialettica infinitistica l'assume nei 'canti di Aspasia.' Qui l'infinito positivo,
risorgente con inaspettata e straordinaria intensità sotto la specie della passione
amorosa, si presenta in contrasto esasperato col motivo dell'infinito-nulla e della
finitezza dell'essere femminile. Solo al dileguarsi della passione il poeta
riacquista la giusta prospettiva, la demistificazione dell'infinito (amore)
costituisce, infatti, il nucleo tematico di 'Aspasia,' l'ultima poesia di questo
periodo. Soltanto nella 'Ginestra' non c'è più nessuna traccia d'infinito. Questo
tema, tuttavia [...] resta per così dire, presente nella stessa rinuncia sofferta e
attuale, se ancora nel 'Tramonto della luna,' l'altro componimento del 1836, il
poeta indugia nella descrizione del vago-infinito, sia pure lucidamente
analizzato e svelato, all'inizio della poesia, per un'illusione della poesia, per
un'illusione ottica" (A. Mariani, "Sulla tematica leopardiana dell'infinito:
dall'infinito-indefinito all'infinito-nulla," Italianistica V [1976], 268).
Zibaldone, 4233 (Recanati, 14 Dic. 1826). Cfr. anche Zibaldone, 4181
(Bologna 4 Giugno 1826).
Leopardi, "Ad Arimane," in idem., Tutte le poesie [...], op. cit., p. 472. Da
ricordare anche che, nella sua "Dissertazione sopra la virtù morale in generale"
(1812), Leopardi aveva scritto: "Leggi del Secondo Zoroastro. Il tempo non ha
confini, egli è increato, è Creator del tutto. La parola fu sua figlia, e da questa
poi nacquero il Dio del bene Oromaze, e il Dio del male Ariman" (cit., in
Leopardi, Tutte le poesie [...], op. cit., p. 710). Cfr., anche il già cit., Zibaldone,
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4174, che così conclude: "Non ardirei però estenderlo a dire che l'universo
esistente è il peggiore degli universali possibili, sostituendo così all'ottimismo
il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?"
Zibaldone, 4511.
Ibid., 376-390.
Ibid., 165.
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Nato nel 1811 a Napoli, fa sentire con forza la sua presenza culturale nel
contesto partenopeo dopo la fondazione della prestigiosa rivista La Scienza e la
Fede, che "ebbe per sottotitolo Raccolta religiosa, scientifica, letteraria ed
artistica che mostra come il sapere umano renda testimonianza alla religione
cattolica. Essa fu il primo esperimento, in tutta Italia, ed unico fino al 1850,
d'una rivista che si presentava con un programma ben determinato: difesa della
Religione. La sua periodicità fu mensile fino al 1860; indi divenne quindicinale
e visse al 1888. Rivisse col titolo Scienze e lettere riprendendo la pubblicazione
il 3 marzo 1900; si interruppe una seconda volta con febbraio 1909. Venne
ripresa col febbraio 1930 e durò fino al gennaio 1938. Finalmente rinasce col
nome di Asprenas nel 1953 e continua oggi" (Ρ. Orlando, Il tomismo Napoli nel
sec. XIX. La scuola del Sanseverino. I. Fonti e documenti [Roma: 1968], p. 19,
n. 13).
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Sanseverino, "Delle poesie di Giacomo Leopardi, ο sia esame del sistema di
coloro che pongono ogni felicità nella speranza," La Scienza e la Fede (Napoli
ottobre 1849), fasc. 106, 282-304.
Cicerone nelle Tusculanae Disputationes testimonia che a questo seguace
della scuola cirenaica fu proibito di insegnare da Tolomeo I, perché persuadeva
al suicidio. Diogene Laerzio (Π, 93-96) a sua volta riferisce che il pensiero di
Egesia, esposto nell'opera Colui che si lascia morir di fame, si fonda sul
principio generale della scuola cirenaica che il fine è il piacere, ma tale piacere
è irraggiungibile e relativo. "[Egesia e i suoi seguaci] ritenevano che nulla fosse
per natura piacevole ο spiacevole: per la rarità ο per la novità ο per la sazietà
accade che taluni godano e altri no [...]. Svalutavano anche le sensazioni, perché
non danno conoscenza certa, ma facevano tutto ciò che loro sembrasse
ragionevole [...]. La felicità è [...] irrealizzabile. Vita e morte sono da prendersi
senza preferenza [...]. Per l'insensato vivere può essere vantaggioso, per l'uomo
saggio indifferente" (Diogene Laerzio, II, 94) "La morte non deve dunque in
alcun modo essere temuta, perché non ci separa dai beni, bensì dai mali:
concetto, questo, che valse ad Egesia il soprannome 'persuasor di morte'" (G.
Reale, Storia della filosofia antica [Milano: Vita e Pensiero, 1996], Vol. ΙΠ, p.
58. Cfr. anche le pp. 56-9).
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"Egesia, com'è noto, fu della scuola di Aristippo e degli altri cirenaici, i quali
[...] riponevano tutta la possibile felicità dell'uomo ne' piaceri della presente
vita. Da tal principio la più parte de' discepoli di Aristippo dedusse, che per
esser felice era mestiero abbandonarsi del tutto in balia de' piaceri [...]. Però
altri, considerando che i piaceri attuali [...] non possono per verun modo
Fernando Di Mieri
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soddisfare a' desiderii del cuore umano, ma invece lo accendono [...]
conchiusero che la vita è un male, e che la morte è l'unico bene dell'uomo. Di
cotesta strana razza di filosofi, Egesia con altri sostenne, doversi dare la morte
con le proprie mani, onde fu detto dagli antichi persuasore di morte; altri [...]
insegnavano doversi tollerare la vita, come un indeclinabile tormento, ed intanto
invocare la morte [...]. Della prima sentenza si è fatto in questi ultimi tempi in
Italia propagatore il Foscolo [...] della seconda il Leopardi" (Sanseverino, op.
cit., pp. 283-4).
Zibaldone, 249.
Ibid., 167.
Ibid., 3497-98.
Ibid., 3715.
Pensieri, LXVIII, p. 640.
Zibaldone, 4302.
Ibid., 513-14.
Ibid., 4301.
Binni, "Scherzo," op. cit., p. 473.
Zibaldone, 4145.
Ibid., 162 (10 Luglio 1820).
Ibid., 169.
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Nella "Ricordanze," troviamo "Ο speranze, speranze, ameni inganni / della
mia prima età! Sempre, parlando / ritorno a voi: c h e per andar di tempo, / per
variar d'affetto e di pensieri, / obbliarvi non so [...] / [...] Ahi, ma qualvolta /
a voi ripenso, ο mie speranze antiche, / ed a quel caro immaginar mio primo."
E in "A Silvia": "Anche perìa fra poco / la speranza mia dolce: agli anni
miei / anche negaro i fati / la giovinezza. Ahi come, / come passata sei, / cara
compagna dell'età mia nova, / mia lacrimata speme, / questo è quel mondo?
Questi / i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi / onde cotanto ragionammo insieme?
/ Questa la sorte dell'umane genti? / All'apparir del vero / tu, misera, cadesti;
e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano."
Zibaldone, 3571.
Consolatio Philosophiae, ΠΙ, 2.
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Zibaldone, 3497-3509.
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Ibid., 2316.
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Ibid., 1464.
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Ibid., 1017.
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Ibid., 4169.
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E. Zolla, Storia del fantasticare (Milano: Bompiani, 1973), p. 155. Il passo
leopardiano citato è Zibaldone, 170.
Zibaldone, 1044. Così Leopardi definisce l'immaginazione e ne delinea le
caratteristiche essenziali: "Tanto la facoltà d'immaginare quanto di sentire sono
abiti" (Zibaldone, 1556) e "L'immaginazione per tanto è la sorgente della
ragione, come del sentimento, delle passioni, della poesia [...] Immaginazione
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e intelletto è tutt'uno. L'intelletto acquista ciò che si chiama immaginazione,
mediante gli abiti e le circostanze, e le disposizioni naturali analoghe; acquista
nello stesso modo, ciò che si chiama riflessione ec. ec. (20 Nov. 1821)"
(Zibaldone, 2133-2134).
Zibaldone, 4426 (Recanati, 14 Dic. Domenica 1828).
Ibid., 1521-22.
Ibid., 4259-60.
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