01/09/13 Editoriale: Vol. I, Anno I “L’occhio vede solo ciò che la mente è preparata a comprendere” (H. Bergson) | Fieldworks Magazine EDITORIALE: VOL. I, ANNO I “L’OCCHIO VEDE SOLO CIÒ CHE LA MENTE È PREPARATA A COMPRENDERE” (H. BERGSON) di RICCARDO BONONI Ogni attività di ricerca è condizionata dalla percezione visiva, dall’osservazione dei fenomeni – fisici o sociali a seconda dell campo di interesse – alla rilevazione di ricorrenze. Nella ricerca sul campo, essendo implicata quella che Leonardo Piasere ha definito “curvatura dell’esperienza”[1], la visione diventa ancora più fondamentale, non indirizzando solo il ricercatore verso la conferma o il rifiuto di specifiche ipotesi di ricerca, ma orientando ogni suo passo nell’inedita complessità culturale in cui si trova ad operare: in assenza di riferimenti noti, quando la propria quotidianità fatica ad adattarsi al nuovo contesto, l’occhio è costretto ad un umile ritorno all’ingenuità primigenia, diventando di fatto il principale strumento di sopravvivenza, comprensione e interpretazione. Se è vero, come scriveva Henri Bergson, che l’occhio vede solo ciò che la mente è preparata a comprendere, nel contesto della ricerca sul campo si ha una temporanea fase di assestamento in cui la mente non ha avuto ancora il tempo di “prepararsi”, e lo “spaesamento” spesso comporta una parziale cecità cognitiva. Scriveva al riguardo Claude Meillassoux che la percezione dell’etnografo è soggetta ad un processo di sistematica correzione della percezione oculare ad opera della percezione morale (o ideologica, o culturale): il soggetto vede non quello che la realtà sensibile offre allo sguardo, ma quello che egli sa, o può, o vuole, vedere[2]. Questo, oltre a dimostrare la centralità della visione nei processi di acquisizione di conoscenza, ne dimostra allo stesso tempo anche l’eccezionale arbitrarietà. Eppure, proprio all’interno di questo biasdella visione umana, può nascondersi la più ricca risorsa per l’insegnamento e la riflessione nel campo dell’antropologia o della sociologia visuali: se la visione è un processo solo in minima parte biologico e condizionato in larga misura da costruzioni culturali, l’acquisizione di nuove e particolari conoscenze potrà coincidere con un’educazione allo sguardo, l’insegnamento di una specifica “grammatica del vedere”. Questa felice espressione, utilizzata nel 1980 nel saggio di Gaetano Kanisza[3] sulla psicologia della percezione, si basa sulla considerazione che la vista, al pari di un linguaggio, si basi su una grammatica specifica. Le conseguenze che accompagnano questa semplice intuizione sono sufficienti da sole a giustificare gli studi sulla visione, oltre a suggerirci anche il modo di procedere verso una possibile formazione nelle pratiche visuali: la prima considerazione è che anche la visione sia soggetta a regole, sia strutturata e abbia delle costanti e delle ricorrenze. E’ quindi possibile farne un oggetto di analisi scientifica. In secondo luogo che, come avviene per i linguaggi, esisterà una grammatica del vedere differente per ogni cultura. La costante è la presenza di regole e strutture, ma queste cambiano da paese a paese (o da epoca ad epoca). L’esistenza di diversi modi di vedere, se considerati come grammatiche differenti, implica anche la possibilità di una traduzione (se pur imperfetta e mai completamente realizzabile come qualsiasi altra forma di traduzione). L’ultima implicazione riguarda il fatto che la visione, in quanto soggetta ad una grammatica culturalmente determinata, non è qualcosa di innato, di spontaneo. Ad essere innata è la capacità biologica di vedere, ma il modo in cui si osserva è qualcosa che si impara (da bambini e poi si perfezione con il tempo). In L’Ojo intruso como pedagogia, la professoressa boliviana Silvia Rivera Cusicanqui ha riflettuto sulla propria esperienza di docente di Sociologia Visuale presso l’Universidad Mayor de San Andres a La Paz, consegnandoci dei preziosi appunti sulle possibilità di educare alla pratica dello sguardo. L’attenzione della Cusicanqui è rivolta in particolare alla fotografia, nel tentativo di avviare una riflessione critica sul ruolo dell’immagine nelle società contemporanee, alle complesse dinamiche e pratiche corporee nella mediazione tra fotografo e soggetto www.fieldworksmagazine.org/editoriale-riccardo-bononi/ 1/3 01/09/13 Editoriale: Vol. I, Anno I “L’occhio vede solo ciò che la mente è preparata a comprendere” (H. Bergson) | Fieldworks Magazine ritratto, nel tentativo di andare al di là della semplice testimonianza o della mera sperimentazione estetica. Sull’arbitrarietà della fotografia si pone anche la riflessione di Viviana Bosello in Raccontare la guerra attraverso la fotografia: l’estetica del conflitto nella fotografia di reportage, in cui vengono analizzati gli scatti di tre grandi fotografi di guerra: David C. Turnley, Ivo Saglietti e Lars Lindqvist. L’analisi cerca di portare a galla una tendenza, diffusa in ogni pratica fotografica, di raccontare il mondo secondo strategie visive specifiche: esisteranno quindi guerre raccontate dalle immagini degli scontri, dai soldati o dalle vittime. Altri conflitti invece raggiungono l’immaginario collettivo attraverso le immagini delle conseguenze, i profili dei palazzi sventrati, i profughi, la povertà. Alcune guerre sono rappresentate dagli sguardi provati degli anziani, altre ancora dalle vittime più indifese, i bambini. Proprio un fotografo di reportage aprirà la nostra sezione dedicata ai saggi fotografici: Alessandro Rampazzo, con Egitto, la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi, ci racconta attraverso i suoi scatti una visione e un’interpretazione inedita sulla storia recente della politica egiziana. L’intenzione di fondo è chiara sin dalle parole di Von Clausewitz richiamate dal titolo, l’esistenza, cioè, di una continuità di fondo tra la politica e la guerra, tra i tempi di pace e quelli degli scontri o, nel caso specifico egiziano, tra l’espressione di preferenza espressa nei seggi elettorali e quella urlata invece nelle piazze del Cairo: due forme tra loro non totalmente discrete di partecipazione attiva alla vita politica da parte dei cittadini egiziani, caratterizzate a fasi alterne da moti di iconofilia e di iconoclastia. Se i saggi precedenti introducono e criticizzano usi specifici della fotografia (la pedagogia e la ricerca nel campo della sociologia visuale, la fotografia di guerra e il photoreportage), sfatando il mito di un medium fotografico “neutrale”, con La fotografia come mezzo di conoscenza ed interpretazione del mondo: intervista a Francesco Cito (di Riccardo Bononi), si comincia ad indagare invece la figura del fotografo, dell’occhio dietro alla macchina fotografica. La video-intervista ad uno dei più grandi protagonisti del fotogiornalismo italiano è illuminante soprattutto per quanto riguarda il prodotto fotografico, che viene ridotto nell’esperienza di Francesco Cito “alla parte meno importante di tutto il processo fotografico”, composto principalmente dalla curiosità verso il mondo, dall’osservazione, dall’interazione partecipativa con i soggetti che si intendono ritrarre e, soprattutto, dalla comprensione dei fenomeni che il fotografo si trova a dover interpretare ben prima di cominciare a scattare la prima fotografia. L’esperienza fotografica è quindi descritta dalle vivide parole del fotografo come “un processo di conoscenza”, del quale allo spettatore comune non giunge altro che una minima parte. Notevolmente più introspettivo è invece l’approccio del fotografo montenegrino Andrija Lekic, intervistato dalla prof.ssa Francesca Bottacin in La fotografia post-strutturalista: Londra, Parigi e il Giappone dopo Fukushima: anche per Lekic la fotografia è un processo di conoscenza ma, a causa dell’autoreferenzialità che ogni autorialità comporta, la fotografia racconta prima di ogni altra cosa il fotografo, la sua percezione e particolare interpretazione del mondo. L’atto stesso di fotografare è un modo quindi per comprendere meglio se stessi. La fotografia di Andrija Lekic, intesa da Francesca Bottacin come una forma d’arte, è stata quindi analizzata cercando di comprendere come una coerenza di fondo tra forma e sostanza convivano in scatti apparentemente molto diversi, dalla devastazione dei paesaggi giapponesi post-Fukushima alla desolazione del paesaggio (questa volta umano) dei clochard parigini. La doppia funzione della fotografia, intesa come traccia fisica o documento riguardante i soggetti ritratti, ma anche come testimonianza della cultura di appartenenza e delle intenzioni di chi ha scattato le fotografie, è indagata da Vera Osgnach in Il ritratto come maschera: le immagini storiche del Kenya dall’Archivio Fotografico dei missionari della Consolata: grazie alla raccolta di scatti effettuati in Kenya da Filippo Perlo tra il 1902 e il 1925 sono descritti i radicali mutamenti avvenuti nel Paese in seguito all’arrivo dei primi missionari. La fotografia in questo caso non è semplice testimonianza del cambiamento, ma ne è addirittura un mezzo: le pose, i ritratti, l’uso didascalico della fotografia prevalentemente a scopo di educazione religiosa o di prova dei progressi ottenuti da restituire in patria, rappresentano una serie di meccanismi di addomesticamento delle www.fieldworksmagazine.org/editoriale-riccardo-bononi/ 2/3 01/09/13 Editoriale: Vol. I, Anno I “L’occhio vede solo ciò che la mente è preparata a comprendere” (H. Bergson) | Fieldworks Magazine pratiche corporee da parte del potere coloniale, una forma di ritratto (che ricorda da vicino quello di Dorian Gray) in cui i kenyioti, considerati personaggi più che esseri umani, vengono fatti sempre più assomigliare nella propria quotidianità a quelle maschere vuote in posa di fronte alla macchina fotografica. Una parte consistente del corpus fotografico messo a disposizione dall’archivio storico dei Missionari della Consolata, e pubblicato qui per la prima volta in Kenya 1902 – 1925: diario di un’evangelizzazione nelle foto di Filippo Perlo, costituirà anche il materiale del secondo photo-essay della rivista, una sorta di diario visuale dell’incontro/scontro storico tra due culture agli antipodi. Con La Senso-poiesi nell’istituzione totalizzante: esperienza di campo in una casa circondariale italiana Valentina Rizzo ha condiviso una parte del proprio percorso di ricerca lavorando con i giovani detenuti, in particolare concentrandosi sulle sfumature che il termine “percepire” assume in un contesto chiuso ed autoreferenziale come quello carcerario. Vedere, ascoltare, toccare assumono all’interno del carcere delle valenze del tutto particolari, assumendo le sfumature proprie della monotonia, della coercizione e della privazione. Il ruolo centrale dei sensi nella costruzione identitaria di un individuo fa sì che l’identità del detenuto sia costruita per difetto, con un processo sottrattivo: in condizioni di prigionia, ad esempio, non si impara a vedere il mondo diversamente, ma si impara a vederlo meno, contestualmente ad una prograssiva chiusura delle architetture cosiddette “totalizzanti”. Con l’ultimo articolo di questo primo numero dedicato al visuale, Note sul genere documentario: la realtà è talmente inverosimile che per renderla verosimile è necessario mescolarla a qualche menzogna, Toni Andreetta (docente di Teoria e pratica del documentario presso l’Università di Padova) introduce sezione della rivista, quella dedicata al materiale audiovisivo, alle video-interviste e ai documentari: attraverso un’analisi storica del genere documentario è rappresentato uno dei suoi caratteri più centrali (e ancora maggiormente quando esiste un carattere di scientificità, come nel caso del documentario etnografico), il rapporto con la verosimiglianza dei contenuti e l’artificialità che ogni forma espressiva possiede. Il primo documentario presentato dalla rivista è un ottimo esempio di storia vera, girata con l’intima partecipazione e il coinvolgimento attivo del videomaker, ma caratterizzato da un approccio stilistico e interpretativo personalissimo: in Filioque di Enrico Mazzi, mentre le riprese “naturali” della steadycam spingono ad immedesimarsi con i personaggi e le situazioni, l’autore è sempre presente, ricordandoci che anche il documentario più realistico è in fondo una finzione narrativa frutto di continue scelte personali. Enrico Mazzi ha inseguito la propria viva curiosità per raccontarci la storia della “generazione perduta” serba, cresciuta tra le guerre e il conflitto con i genitori: se i padri hanno sviluppato un convinto ateismo con il socialismo di Tito, i figli riscoprono ora la religione ortodossa, spinti da un crescente nazionalismo romantico. Ne deriva un contrasto generazionale (opposto a quello che ha ad esempio caratterizzato l’Italia del dopoguerra) in cui i figli scappano di casa, dai propri genitori “senza Dio”, per prendere i voti. NOTE [1] Piasere parla di curvatura dell’esperienza in riferimento al viaggio nella pratica etnografica, il progressivo allontanamento da sistemi di riferimento noti che consente il distacco necessario ad un’analisi dall’“esterno”. In: Leonardo Piasere, L’etnografo imperfetto, 2002 Laterza. [2] Claude Melliassuox, “La vita dei mostri. Le immagini dell’Altro nella letteratura antropologica”, in: Ugo Fabietti (a cura di), Il sapere dell’antropologia. Pensare, comprendere, descrivere l’Altro, 1993 Mursia, pp. 114-115. [3] Gaetano Kanizsa, Grammatica del Vedere. Saggi su percezione e gestalt, 1980 il Mulino. www.fieldworksmagazine.org/editoriale-riccardo-bononi/ 3/3