Pensiero critico e cultura scientifica

Pensiero critico e cultura scientifica
di Lucio Russo
1. Il carattere della scienza 2. Le caratteristiche delle teorie scientifiche 3. L’origine del metodo
dimostrativo 4. Oggetti concreti e enti teorici 5. Verifiche sperimentali e dimostrazioni teoriche 6.
La scelta dei punti di partenza 7. Come è cambiato il significato delle parole ipotesi e
fenomeno 8. Rischi della divulgazione scientifica 9. La contraddizione è sempre nelle nostre
teorie, non nella natura 10. Scienze esatte e tecnologie 11. Metodo dimostrativo e fenomeni
naturali 12. Metodo dimostrativo e scienze naturali 13. Complessità e nuove sintesi
1. Il carattere della scienza
Il titolo di questo discorso parla di pensiero critico e cultura scientifica: le due cose possono
sembrare connesse in modo positivo e invece spesso esiste un modo di diffondere cultura scientifica,
soprattutto attraverso la divulgazione, che allontana dal pensiero critico.
Vorrei cominciare facendo alcune considerazioni su ciò che caratterizza la scienza.
Io credo che la scienza non sia formata da una serie di affermazioni che riguardano direttamente il
mondo della natura. L’uomo si è sempre interessato ai fenomeni naturali ma non sempre ha fatto
scienza. Pensate ad antiche civiltà, come, ad esempio, quelle egizia e mesopotamica, o anche a
civiltà recenti ma lontane dalla tradizione che a noi deriva dai greci: in esse troviamo molte
conoscenze sui fenomeni naturali e conoscenze tecnologiche, ma non quella che noi consideriamo
scienza.
Una volta fu chiesto ad Einstein come mai i saggi cinesi non avessero creato la scienza, pur essendo
così saggi e sapendo tante cose. Einstein rispose che il problema che ci dobbiamo porre non è "come
mai essi non l’abbiano fatto", ma "come mai una volta è avvenuto il miracolo della nascita della
scienza".
La scienza non consiste semplicemente in affermazioni sulla natura, ma nell'elaborazione di teorie –
quelle che si chiamano appunto teorie scientifiche – che permettono di parlare dei fenomeni naturali
usando due diversi livelli di discorso, anziché usarne uno solo, come si faceva nelle civiltà
pre-scientifiche; cioè si può parlare direttamente degli oggetti concreti oppure si può parlare
all’interno della teoria. Questo doppio livello caratterizza la scienza.
Il primo esempio, forse anche il più banale, che mi viene in mente è la geometria. Quando voi
parlate di un segmento, di un triangolo, di un angolo, non state parlando di oggetti naturali (non si
inciampa negli angoli per la strada), ma di concetti teorici che servono per descrivere, per offrire un
modello di oggetti o fatti naturali o tecnologici. La stessa cosa avviene nelle teorie fisiche. Voi non
vi imbattete in un’entropia o in un'accelerazione; si tratta di concetti teorici, cioè elaborati all’interno
di una teoria.
L'esistenza di questo doppio livello di discorso è una caratteristica essenziale della scienza, che
spesso viene però dimenticata, soprattutto nella divulgazione, in cui si tende a sovrapporre i due
piani, fingendo che si parli sempre di fenomeni reali, o confondendo i risultati scientifici con le
applicazioni oppure dando realtà a concetti teorici, ignorandone la natura e parlandone come se
fossero oggetti della vita di ogni giorno. Questa dimenticanza preclude la possibilità di riflettere in
modo critico sui risultati scientifici, perché ignorandone la natura teorica non è possibile capire la
relazione complessa delle teorie scientifiche con il mondo reale né riconoscerle come prodotto
culturale.
2. Le caratteristiche delle teorie scientifiche
Quando parlo di teorie scientifiche mi riferisco soprattutto alle teorie fisico-matematiche (il discorso
per le teorie biologiche o naturalistiche è un po’ diverso; per il momento vorrei tenerlo da parte).
Quindi per il momento quando parlo di scienza intendo la scienza esatta.
La prima caratteristica delle teorie scientifiche è il metodo dimostrativo (che temo sia oggi in
crisi), grazie al quale le varie affermazioni di una teoria non sono indipendenti ma si deducono
logicamente le une dalle altre, formano un’unica rete.
Anche qui naturalmente il caso più antico e più noto (almeno spero che sia ancora noto) è quello
della geometria, che è costituita da teoremi. Ciò significa che le affermazioni accettate e quindi
considerate vere sono o affermazioni iniziali della teoria (quelle che si chiamano postulati, assiomi,
o principi) oppure quelle dedotte logicamente, con il metodo dimostrativo, da queste prime. Non se
ne debbono accettare altre. Questa caratteristica dà una struttura rigida, in un certo senso, alla teoria.
Altra caratteristica della scienza esatta, che è strettamente legata a questa (cercherò poi di illustrare
in cosa consista il legame) è quella che ho già accennato prima, cioè la natura teorica degli enti
di cui si parla: una teoria scientifica dimostra teoremi su enti che non sono direttamente oggetti
naturali (facevo prima gli esempi dei segmenti o dell’entropia); non sono cose in cui ci si possa
imbattere passeggiando per la strada, ma enti interni alla teoria.
3. L’origine del metodo dimostrativo
Qual è l’origine delle teorie scientifiche? A quando risale il metodo dimostrativo? Non so se per voi
è ovvio; a me sembra molto significativo che il metodo dimostrativo nasca in un periodo abbastanza
ben databile, essenzialmente nel IV sec. a.C., nell’ambito della civiltà greca.
Come mai nasce allora e quali sono i suoi precedenti?
Tra i precedenti essenziali del metodo dimostrativo vi è, da una parte, la riflessione filosofica,
che in Grecia e nel mondo greco aveva già un’antichità di qualche secolo, e, dall’altra parte, la
retorica (soprattutto nelle democrazie siciliane del V secolo cominciano a svilupparsi scuole di
retorica).
Perché si sviluppano scuole di retorica? Che legame c’è tra queste e la democrazia? Questo mi
sembra un punto importante.
Se leggete un testo matematico (io veramente lo chiamerei pre-matematico) dell’Egitto faraonico,
non trovate in esso nulla che assomigli a una dimostrazione. Vi troverete dei problemi, l’esposizione
del metodo di soluzione, e, alla fine, una frase del tipo "se farete così, farete bene, altrimenti sarà
fatto male". Non c’è bisogno di spiegare perché bisogna fare così. Chi apprende deve semplicemente
sapere ciò che deve fare, non deve sapere perché deve farlo. Il metodo di trasmissione del sapere era
completamente autoritario, come autoritario era il sistema politico e la trasmissione delle conoscenze
tecnologiche e religiose.
Nelle democrazie greche appare qualcosa di radicalmente diverso: si costituiscono assemblee che
prendono decisioni a maggioranza; diventa allora importante saper argomentare in modo atto a
convincere gli altri della propria tesi. Chi vuol fare carriera politica deve saper convincere gli altri
che la propria tesi è superiore a quella opposta; deve quindi imparare a fare discorsi in grado di
convincere; nascono allora scuole di retorica che insegnano ad argomentare bene, ossia a
organizzare discorsi convincenti.
Naturalmente analizzare, studiare, insegnare l’arte dell’argomentazione non è la stessa cosa che fare
logica, perché argomentare in modo efficace in un'assemblea significa anche suscitare emozioni nel
modo giusto e avere il controllo psicologico dell'uditorio. Però anche l'aspetto logico
dell'argomentazione ha la sua importanza.
Circa un secolo dopo, dall’analisi dell’arte di bene argomentare, cominciano a nascere le opere di
logica, in particolare quelle di Aristotele.
Leggendo la Retorica di Aristotele il legame tra l’arte dell’argomentazione retorica, cioè l’arte del
discorso, e la logica appare chiarissimo. La logica (dal greco λοϖγο = discorso) si ottiene dall’arte
del discorso, ossia dall'arte di discorrere in modo argomentato, trascurando gli aspetti emotivi e
psicologici.
Nella logica aristotelica si comincia a sviluppare l’arte della dimostrazione, nel senso della
dimostrazione di sillogismi.
4. Oggetti concreti e enti teorici
Le teorie scientifiche, come le teorie fisico-matematiche, sono qualcosa di più di un insieme di
sillogismi. Una differenza fondamentale consiste nel fatto che mentre in ogni sillogismo vi sono due
premesse e una conclusione e ogni sillogismo costituisce un mattoncino staccato, con i quali non si
costruisce alcun edificio, in una teoria come la geometria di Euclide, da cinque frasi si deducono
centinaia e centinaia di teoremi, che costituiscono una rete unica.
L’altra differenza fondamentale è che mentre nei sillogismi aristotelici si parla di oggetti concreti,
propri della vita d’ogni giorno (si parla di cavalli, di uomini, di cose, …) le affermazioni delle teorie
scientifiche riguardano enti teorici.
Questa seconda caratteristica è strettamente connessa alla prima, cioè al metodo dimostrativo.
Questa connessione va sottolineata, perché credo che in genere non sia chiara ai ragazzi.
La decisione di accettare come valide solo le affermazioni che possono essere dedotte da poche
affermazioni iniziali cambia il significato dei termini usati, dando origine ad un processo di
sfrondamento del significato: nell’ambito semantico dei termini usati si ritaglia un ambito più
ristretto, che caratterizza il concetto teorico.
Vorrei ora fare un esempio: quando parlate di linea retta o di un trapezio non vi riferite a oggetti
concreti, ma a concetti teorici (c’è anche il trapezio del circo, ma è chiaro che quello è un significato
derivato; il primo significato è quello della geometria). Nella geometria greca quando e come sono
sorti questi concetti?
Trapezio è un termine greco che in origine significa panchetta, un termine della lingua concreta.
Retta per voi è una linea illimitata, è un ente della geometria, un ente teorico, un ente astratto.
L'espessione greca usata da Euclide è eujqei`a grammhv (linea diritta). La "linea diritta" è
originariamente quella che si disegna, che si incide, è un oggetto concreto. Una linea diritta ha molte
caratteristiche, per esempio può essere verde o viola, può essere più o meno spessa, può essere
zigrinata, o scritta con inchiostro di un certo tipo: tutte queste sono caratteristiche possibili di una
linea diritta.
Come sorge invece il concetto di retta in geometria? Sorge dal fatto che su questa "linea diritta" si
decide di accettare solo le affermazioni deducibili dai cinque postulati. Siccome nei cinque postulati
non si parla mai di colore, non si parla mai di spessore, non si dice mai se la linea è incisa o dipinta
con inchiostro e così via, le linee rette della geometria automaticamente diventano decolorate, prive
di spessore, prive di altre caratteristiche fisiche e quindi diventano enti teorici : rimane loro soltanto
una parte dell’ambito di significato iniziale, quello che in qualche modo può essere riferito ai cinque
postulati che si è deciso di accettare; di qui nasce il concetto teorico.
Il concetto teorico di retta mantiene però un legame trasparente con le "linee dritte" concrete; sennò
la geometria non sarebbe applicabile.
Per esempio, nel primo postulato di Euclide (è possibile tracciare una linea diritta da ogni punto ad
ogni punto –traducendo letteralmente dal greco: da ogni segnetto ad ogni segnetto) i "segnetti" e le
"linee diritte" hanno un significato concreto relativo all’attività del disegno, ma anche un significato
teorico, ottenuto privandoli di tutti gli attributi concreti.
Con il procedimento esposto possono costruirsi teorie in cui i risultati sono verificabili, (con una
certa approssimazione) in concreto e, allo stesso tempo, sono certi, cioè si può dimostrare se
un’affermazione è vera o è falsa, se è riferita ad enti che non sono reali, ma sono astratti dal reale. Il
processo di astrazione può essere ripercorso nei due sensi, cioè si sa astrarre dal concreto l’astratto e
si sa tornare al concreto per applicare il concetto astratto o il teorema che è stato derivato.
In questo modo si costruiscono modelli della realtà, per esempio modelli che si possono disegnare
con riga e compasso (è questo il caso della geometria). La stessa struttura descritta per la geometria
vale per varie teorie antiche che oggi diremmo "fisiche" (come la meccanica, l’idrostatica,
l’ottica…) e per la fisica moderna.
5. Verifiche sperimentali e dimostrazioni teoriche
Credo che in genere voi abbiate l’idea di una distinzione molto netta tra la Fisica e la Matematica,
che riteniate che la matematica si limiti a fornire un linguaggio, mentre la fisica descriva fenomeni
reali, concreti.
Questa distinzione tra fisica e matematica non esisteva nell’antichità classica e non è esistita,
secondo me, nei momenti migliori della scienza moderna. Non c’era, per esempio, in Poincaré, non
c’è stata nei migliori esponenti della scuola russa, ed è, io credo, almeno molto discutibile sul piano
teorico.
Normalmente si pensa che il teorema di Pitagora appartenga alla matematica, perché si può
dimostrare e non c’è bisogno di verificarlo. Invece la legge di Biot–Savart è una legge fisica, perché
riguarda un fatto concreto e può essere verificata con un esperimento.
Vorrei farvi sorgere qualche dubbio su questa differenza.
Consideriamo, per esempio, il teorema di Pitagora. Esso può essere anche verificato, oltre che
dimostrato, e se pensate alla tesi del teorema (il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla
somma dei quadrati costruiti sui cateti), essa era nota nella matematica paleo-babilonese, in cui non
esisteva il concetto di teorema, né quello di dimostrazione. Per uno scriba mesopotamico era un
risultato sperimentale; egli lo verificava, esattamente come facciamo noi con una legge fisica.
D’altra parte se considerate la legge di Biot-Savart, oltre che verificata sperimentalmente, può essere
ricavata come teorema, assumendo le equazioni di Maxwell come postulati.
Quindi anche in questo caso si possono avere i due approcci: o quello sperimentale, o quello
dimostrativo.
Ci possiamo chiedere: "come arrivò Maxwell a scrivere le sue equazioni?" Certamente furono
indotte da risultati sperimentali e questa considerazione può sembrare una conferma definitiva del
carattere sperimentale della fisica.
Ma anche Euclide aveva indotto i suoi postulati da risultati sperimentali. Se non avesse avuto righe e
compassi e non avesse fatto disegni non avrebbe immaginato i cinque postulati e, allo stesso modo,
senza sviluppare apparecchi di tipo elettromagnetico non viene in mente una teoria basata sulle
equazioni di Maxwell.
In tutti e due i casi esiste il riferimento concreto: in un caso a certi esperimenti, in un altro caso ad
altri, ad attività tecnologiche. Anche il disegno è un’attività tecnologica; esiste la possibilità della
verifica sperimentale ed esiste la possibilità della dimostrazione teorica.
Quindi da un punto di vista di un greco, o di un fisico-matematico di fine Ottocento, non c’è nessuna
differenza tra i due casi.
Quello che ora a me interessa, soprattutto quando parlo di scienze esatte, è questo continuum che
può essere diviso con un taglio netto tra Matematica e Fisica solo danneggiando entrambe le
discipline.
6. La scelta dei punti di partenza
Vorrei ora accennare ad un altro aspetto essenziale delle teorie scientifiche, che è la scelta dei punti
di partenza
I punti di partenza hanno diversi nomi: se si decide che una certata teoria è matematica si chiamano
postulati o assiomi; se si decide che è fisica si chiamano princìpi; la differenza è terminologica.
Come si scelgono i principi di una teoria?
Un’idea abbastanza diffusa è che i princìpi siano di per sé evidenti (lo diceva, per esempio, Cartesio)
e che siano le affermazioni più semplici che si possano fare su una teoria.
Io credo che questo criterio non funzioni e sia sbagliato.
Per esempio Archimede parla del sistema eliocentrico che era stato introdotto da Aristarco di Samo
dicendo che egli aveva asserito come "ipotesi" (ossia come principio della sua teoria) che il Sole
fosse fisso e che la Terra girasse intorno al Sole e da questo principio aveva dedotto i moti
osservabili dei pianeti.
Ora è più semplice pensare che sia fissa la Terra piuttosto che sia fisso il Sole. Tra i due postulati
quello scelto da Aristarco certamente era il meno ovvio, il meno evidente; quindi non è vero che
viene scelto come principio l'affermazione più evidente.
Facciamo un altro esempio, tratto dalla biologia. Se pensate alle relazioni esistenti tra gli organi
degli animali e la loro funzione, il modo più semplice di spiegarle è una teoria teleologica,
finalistica, come la teoria di Aristotele: potete assumere che c’è stato qualcuno che ha progettato
l’organo in modo che svolga la sua funzione. I principi darwiniani della selezione naturale non sono
invece per niente ovvii, e non è affatto evidente che riescano a spiegare la relazione tra organi e
funzioni.
Un altro esempio interessante può essere preso dalla geometria. Qual è in questo caso l’ente più
semplice? Sembra ovvio che sia il punto. Quindi la cosa più semplice sembra sia quella di costruire
una geometria basata su affermazioni sui punti, dalle quali ricavare poi le altre affermazioni. È
questo in effetti il primo tentativo che è stato fatto, nella scuola pitagorica; il risultato fu però un
fallimento disastroso e allora si decise di partire direttamente dalle linee, che certamente sono meno
semplici dei punti.
Quindi i punti di partenza non sono né i più semplici, né i più evidenti. La loro scelta è uno degli
aspetti più difficili nella costruzione di una teoria
"Salvare le apparenze": il requisito fondamentale dei punti di partenza
Qual è il requisito fondamentale che deve essere soddisfatto dai postulati o dai principi?
Questo è un punto molto chiaro nella scienza antica, meno chiaro nella scienza contemporanea,
soprattutto se viene vista attraverso la lente della divulgazione.
Riprendo il bel passo in cui Archimede parlando di eliocentrismo dice che Aristarco aveva introdotto
questa ipotesi (che il Sole fosse fisso, che la Terra girasse su un’orbita circolare intorno al Sole, che
gli altri pianeti percorressero altre orbite circolari attorno al Sole) per salvare le apparenze
(φαινοϖµενα σωϖ/ζειν fainòmena sozein), cioè il pregio della teoria era che dalle ipotesi di
Aristarco si potevano dedurre, con metodo dimostrativo, i fenomeni osservabili, ossia ciò che gli
astronomi realmente osservano.
È interessante il significato della parola greca φαινοϖµενον, da cui noi abbiamo ricavato la parola
fenomeno, però cambiandone significato e in un certo senso banalizzandolo: φαινοϖµενον, da
φαιϖνοµαι, significa ciò che appare, ciò che viene visto, perciò nel caso dell’astronomia
φαινοϖµενα sono tutto ciò che si può vedere guardando il cielo, per esempio una retrogradazione
planetaria di Marte. La teoria deve essere in grado di salvare i fenomeni.
La teoria di Aristarco salvava i fenomeni. Se si suppone che il Sole sia fermo, che la Terra percorra
un’orbita circolare con moto uniforme attorno al Sole e che Marte compia anch’esso un moto
circolare uniforme intorno al Sole, si può dedurre sulla base di queste ipotesi come dovrebbe vedersi
muovere Marte dalla Terra: in particolare si deduce che Marte si muoverebbe facendo
retrogradazioni e stazioni planetarie, cioè si muoverebbe esattamente come viene visto muoversi
guardando in cielo. Ecco perché la teoria di Aristarco permette di salvare le apparenze (o i
fenomeni).
Ho l’impressione che il rapporto tra fenomeni e teoria sia oggi spesso poco chiaro. Se chiedete a una
persona a caso, incontrata per strada, se la Terra gira intorno al Sole o se invece è il Sole che gira
intorno alla Terra, vi risponderà certamente che è la Terra a girare intorno al Sole.
Se però gli chiedete come fa a saperlo, vi dirà che è così, perché il Sole è fermo, è fisso e altre
tautologie. Se chiedete alla stessa persona cos'è una retrogradazione planetaria, con grande
probabilità non saprà rispondere. (Ho conosciuto professori universitari di materie scientifiche che
non sanno cosa sia una retrogradazione planetaria). La persona incontrata per strada conosce quindi
l'idea introdotta da Aristarco per salvare i fenomeni, senza sapere quali fenomeni Aristarco
intendeva salvare.
Una persona che non sa cos’è una retrogradazione e non ha alcun altro motivo per immaginare che
una teoria eliocentrica sia superiore ad una teoria geocentrica, dovrebbe accettare il geocentrismo
(che, se non altro, sembra corrispondere alle impressioni visive). Il fatto che sia convinta
dell'eliocentrismo dimostra solo che si tratta di una persona disponibile ad accettare un
insegnamento autoritario in modo acritico.
Faccio un altro esempio.
Tutti sanno che la materia è composta di atomi. Tutti sanno anche che gli atomi sono fatti da nuclei e
da elettroni. Partecipavo, circa un anno fa, ad un dibattito con Alan Sokal. (coautore di un libro
interessante che vale la pena di leggere). Alan Sokal, che insegna Fisica alla New York University,
disse che i suoi studenti di Fisica (all'inizio del corso) non conoscono alcun fenomeno capace di
giustificare la teoria atomica. Essi sanno dall’età di sei anni che tutta la materia è fatta di atomi, ma
cominciano a studiare Fisica all’università senza conoscere le basi sperimentali della teoria atomica,
cioè non sanno quali fenomeni sono salvati dalla teoria atomica.
Naturalmente la situazione statunitense è più degradata della nostra. Io spero che in Italia non si sia
ancora a questo punto; probabilmente gli studenti dei nostri licei sanno perché l’ipotesi atomica è
utile; però la tendenza ad anticipare l’insegnamento che esistono gli atomi sin dalle scuole
elementari tende a far dimenticare la relazione tra teorie e fenomeni, cioè il fatto che ha senso
imparare una teoria quando serve a spiegare una fenomenologia nota e non quando
serve a spiegare una fenomenologia ignota.
7. Come è cambiato il significato delle parole ipotesi e fenomeno
Il cambiamento di significato di alcuni termini passati dall'antica scienza greca alla scienza moderna
è particolarmente significativo, in quanto illustra l'abbassamento del livello critico.
La parola ipotesi
Vorrei soffermarmi ora sul cambiamento di significato della parola ipotesi.
υϑποϖθεσι∀ (upò-thesis) è una parola greca composta dal prefisso υϑποϖ, che significa sotto, e
dal verbo τιϖθηµι (tìthemi), che significa porre; l’ipotesi è quindi ciò che è posto sotto, ossia il
fondamento, la base di qualcosa, per esempio di un edificio. Quando Archimede dice che Aristarco
aveva assunto in certi suoi scritti l’ipotesi che il Sole fosse fermo e che la Terra gli girasse intorno
cosa vuol dire? Vuol dire che aveva sviluppato una teoria che aveva come proprio punto di partenza,
base, fondamento l’affermazione che il Sole fosse fisso e la Terra ruotasse intorno al Sole e che
anche gli altri pianeti ruotassero intorno al Sole.
La parola υϑποϖθεσι∀ viene usata anche da Teofrasto che parla di υϑποϖθεσι degli alberi,
intendendo la base degli alberi, le radici, il tronco, su cui posano poi le fronde. Aristotele parla di
υϑποϖθεσι τη πολιτειϖα (ypothesis tes politèias) intendendo il fondamento del governo. Il
termine era evidentemente usato in significati che hanno poco a che vedere con il significato attuale
della parola ipotesi.
Quand’è che la parola cambia significato?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima aprire una nuova parentesi sul metodo scientifico.
Come si fa a dire che un'affermazione scientifica, o un'intera teoria, è falsa?
Un’affermazione, accettata in un primo momento come scientifica, può rivelarsi falsa perché era
stata dedotta da affermazioni accettate commettendo un errore logico nella deduzione. (Ciò non
significa necessariamente che la conclusione sia falsa; anche conclusioni vere possono essere trovate
sbagliando, ma l'errore logico implica la falsità della deduzione e apre la possibilità che sia falsa
anche la conclusione).
Oppure un’affermazione può essere falsificata osservando che essa non corrisponde alle apparenze,
ossia non salva i fenomeni.
Le teorie scientifiche debbono superare questi due criteri; debbono cioè essere sia teorie coerenti sia
teorie che salvano i fenomeni.
Si può dare il caso che due diverse teorie siano ambedue coerenti e tutte e due salvino gli stessi
fenomeni. Ad esempio molti fenomeni di ottica possono essere spiegati sia con una teoria
corpuscolare sia con una teoria ondulatoria. Per esempio posso assumere come principi i principi
dell’ottica ondulatoria oppure i principi dell’ottica corpuscolare e in tutti e due i casi deduco la legge
della rifrazione. Allora, finché sono interessato solo alla rifrazione e non, ad esempio, alla
diffrazione, posso usare indifferentemente una teoria o un’altra. La possibilità che teorie diverse, che
partono da principi diversi, spieghino gli stessi fenomeni era chiarissima agli scienziati antichi.
Nasce per esempio in questo modo il concetto della relatività del moto, che probabilmente voi
conoscete senza avere avuto occasione di riflettere sulla sua origine storica.
I verbi di moto disponibili nella lingua greca, come i verbi di moto delle lingue moderne, erano
termini di ogni giorno, non tecnici, che riguardavano il moto assoluto: in italiano esiste la parola
fermo ed esiste l’espressione in moto; quindi un oggetto può essere detto fermo o in moto, senza
bisogno di specificare, almeno dal punto di vista linguistico, rispetto a cosa è considerato il moto.
Una situazione analoga sussisteva nella lingua greca antica. I Greci si accorsero però che se si
assume come ipotesi che io sono fermo e un certo oggetto si muove davanti a me, oppure si assume
come ipotesi che l’oggetto è fermo e io mi muovo rispetto all’oggetto, si possono salvare le stesse
apparenze, in quanto nei due casi vedrei le stesse cose. Allora le due ipotesi possono essere assunte
indifferentemente: posso cioè supporre che io sono fermo e l’oggetto si muove o che io mi muovo e
l’oggetto è fermo. Nel nostro linguaggio ciò significa che posso assumere o un sistema di
riferimento fisso con l’oggetto o un sistema di riferimento fisso con me. Ma l’idea di sistema di
riferimento è storicamente successiva. Il primo passo consiste nel rendersi conto che esistono
assunzioni diverse, apparentemente contraddittorie, che possono essere usate indifferentemente.
Quindi posso pensare, per esempio, che il Sole è fermo e la Terra si muove oppure che la Terra è
ferma e che il Sole si muove, ma il moto osservato del Sole nei due casi viene descritto allo stesso
modo.
Se posso considerare ipotesi iniziali diverse, da cui posso dedurre con coerenza le stesse apparenze,
le ipotesi iniziali non possono essere né vere, né false; debbono essere sostituibili.
L' idea che l’ipotesi è qualcosa di cui non è appurabile la verità o la falsità non può essere più capita
nel Seicento e si trasforma in un'idea molto più banale: quella che l’ipotesi sia qualcosa di
provvisorio, un'affermazione di cui non si sa ancora se è vera o falsa; in futuro saprò se è vera o
falsa. È questo ancora il nostro significarto del termine ipotesi.
Lo slittamento di significato si ha in epoca newtoniana e consiste, secondo me, in una
banalizzazione.
L’antica idea che sull’ipotesi non si possa emettere un giudizio di verità o falsità, perché teorie
diverse possono spiegare ugualmente bene le apparenze, fu recuperata tra la fine dell’Ottocento e gli
inizi del Novecento, in particolare da Duhem (studioso, fra l’altro, di scienza antica ed autore della
teoria della sottodeterminazione delle teorie scientifiche). Ma in una lunga fase iniziale della scienza
moderna il concetto di ipotesi fu banalizzato nel senso prima esposto.
La parola fenomeno
Un cambiamento di significato analogo a quello appena descritto riguardò il termine fenomeno. In
greco φαινοϖµενα sono le apparenze, ciò che appare.
Il termine fenomeno nelle lingue moderne è invece spesso usato per intendere un fatto. Naturalmente
non è così nel linguaggio filosofico, ad es. in Kant voi studiate fenomeni e noumeni. Per Kant, che
conosce molto bene il significato greco di questi termini, un fenomeno non è un fatto. Ma la cosa era
stata molto meno chiara a Newton.
Newton dice che la sua teoria è l’unica compatibile con i fenomeni e per fenomeni intende i fatti e
crede che i suoi principi siano assolutamente veri. Egli usa sia i termini fenomeno e ipotesi in un
significato lontano da quello originale, ottenuto banalizzando l'antico metodo scientifico e
immaginando che esistano e si possano osservare direttamente i fatti.
Il fenomeno antico era il risultato di un'interazione tra l’uomo che osserva e gli oggetti osservati.
Questo aspetto di interazione verrà recuperato molto tardi (fine Ottocento, inizi Novecento), mentre
nella prima età moderna si pensa che in qualche modo l’uomo possa rendersi conto direttamente dei
fatti oggettivi, dimenticando la sua azione di filtro.
L'antica idea greca, recuperata nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, ora, a mio parere,
rischia di essere dimenticata di nuovo.
8. I rischi della divulgazione scientifica
Vorrei fare qualche esempio, che spero sia utile per spiegare meglio quanto ho appena detto.
1. L’astrofisica televisiva
Ricordo una trasmissione in cui Piero Angela intervistava l’astrofisica televisiva sul colore vero
della luna. L'astrofisica spiegava che la Luna sembra bianca ma in realtà ha un colore diverso, non
identificabile con l'osservazione; in questo modo era trasmessa al pubblico l’idea che i sensi sono
ingannevoli e danno l’impressione di cose false. Per raggiungere la verità bisogna non fidarsi dei
propri occhi, ma dei conduttori televisivi. Gli scienziati sono i depositari della verità e, se sono
buoni, possono comunicarle per televisione alle persone, spiegando ad esempio che ai comuni
mortali sembra di vedere la luna di un colore mentre il colore vero è un altro. Ora è chiaro che il
colore è tipicamente un’apparenza, il risultato di una percezione visiva, cioè è uno dei fenomeni
(φαινοϖµενα) e i fenomeni sono certamente veri in quanto fenomeni, cioè apparenze e l’apparenza
è per definizione ciò che appare, ed è indiscutibile. (Gli antichi scettici affermavano che le apparenze
sono le uniche cose delle quali neppure loro dubitavano). Il compito dello scienziato è quello di
spiegare i fenomeni alla luce di una teoria e mai quello di negarli.
2. I libri di Hawking
In uno dei libri di divulgazione scientifica di Hawking si afferma che il mondo sembra avere tre
dimensioni, ma in verità ne ha molte di più. Non si spende una parola per spiegare da quali fenomeni
siano indotte queste dimensioni extra, ma alcune pagine sono impiegate a spiegare perché le
dimensioni in più non si vedono. Esse non appaiono, perché sono arrotolate in uno spazio
minuscolo, dell'ordine di un pentilione di centimetro e quindi è proprio impossibile
percepirle.Quindi viene affermato come vero qualcosa di cui si convince il lettore che non
corrisponde a nessun fenomeno. L'effetto di questo tipo di divulgazione è ancora l’idea di non fidarsi
dei propri sensi, perché la verità è qualcosa di incommensurabile con l'esperienza dei comuni mortali
e non ha nulla a che vedere con ciò che si vede. Ci sembra di stare in un mondo a tre dimensioni ma
in realtà il mondo ne ha cinquantotto. Gli "stregoni" che lo sanno vi possono dire che il mondo ha
cinquantotto dimensioni, ma non vi possono dire perché. Sarebbe troppo difficile e voi non ne
capireste niente. Dovete solo capire che le cose non sono così come appaiono, ma come sono
esposte, nei best-seller di divulgazione o alla televisione, dalle autorità che hanno accesso a queste
forme di comunicazione.
Alla luce di queste tendenze dei media diviene ancora più importante recuperare i concetti
fondamentali da cui la scienza era nata:
•
• i punti di partenza sono i fenomeni
• • dei fenomeni non si discute. Ognuno sa ciò che appare a lui e su questo non può essere smentito da
nessuno
• • compito della scienza è quello di spiegare, render conto delle apparenze alla luce di una teoria che
sia più semplice possibile e più comprensiva possibile, cioè tale che possa spiegare il maggior
numero di apparenze sulla base del minor numero di principi.
•
3. La meccanica quantistica
Vorrei fare qualche riflessione su come viene spesso divulgata (e a volte anche inserita nei manuali
scolastici) la meccanica quantistica.
È molto difficile per persone che non hanno studiato fisica all’università avere un’idea corretta della
meccanica quantistica. Le idee diffuse largamente sono in genere negative. Sono cioè diffuse varie
idee sintetizzabili con l'affermazione che ciò che si capisce e si osserva è falso, come si sa grazie ad
una certa "meccanica quantistica" che non si capisce bene cosa sia. Scendendo nei particolari, una
delle idee più diffuse riguarda la doppia natura dell'elettrone. Esistono le onde, esistono le particelle,
ma se ci si chiede: "che cos’è un elettrone, Un'onda o una particella?"occorre dare strane risposte: si
parla di dualità e di complementarità. Sembra che vi sia una sorta di consustanziazione" (l’idea è
quella che viene dall’ostia consacrata, che contemporaneamente è una cosa e un’altra cosa
completamente diversa).
Non a caso Niels Bohr, che è stato il primo a enunciare il principio di complementarità si rifaceva a
teorie mistiche orientali; con lui comincia la contaminazione tra fisica moderna e teorie
misticheggianti.
A me sembra che la spinta all’irrazionalismo, che viene da questi discorsi sulla meccanica
quantistica, abbia la sua origine nel dimenticare quell’affermazione che avevo fatto all’inizio, cioè
che esistono due piani, quello degli oggetti concreti e quello delle teoria.
Una serie di esperimenti che si possono fare con gli elettroni non sono compatibili né con la teoria
classica corpuscolare, né con la teoria classica ondulatoria. Questo significa che né una teoria né
l’altra è sufficiente per spiegare questi fenomeni. Da ciò si può trarre la conclusione che è necessaria
una terza teoria, ma non che le due teorie classiche, che sono diverse, debbano essere combinate tra
loro in modo contraddittorio.
9. La contraddizione è sempre nelle nostre teorie, non nella natura
Vorrei fare due esempi per chiarire l'ultimo punto:
Il primo esempio riguarda la contraddizione apparsa nella scuola pitagorica, che riguardava il
numero di punti nella diagonale di un quadrato. Nella scuola pitagorica si dava per scontato che ogni
segmento fosse formato da un certo numero di punti. D'altra parte si sapeva che i numeri possono
essere o pari o dispari. Allora se si considera un quadrato che ha il lato formato da un numero dispari
di punti ci si può chiedere: " quanti punti formano la diagonale? Un numero pari o un numero
dispari?"
Con un ragionamento molto semplice, che probabilmente molti di voi già sanno, si vede che si arriva
a una contraddizione sia se si suppone che il numero dei punti sia pari, sia se si suppone che sia
dispari.
Volendo assumere un atteggiamento alla Bohr a questo punto si potrebbe dire: "il quadrato è
intrinsecamente contraddittorio; la diagonale è contemporaneamente sia pari che dispari; vale un
principio di complementarità tra pari e dispari". La vera soluzione è naturalmente un’altra e cioè che
non sono applicabili né il concetto di pari né il concetto di dispari, perché la diagonale non è fatta da
un numero definito di punti. Analogamente un elettrone non è contemporaneamente due cose
contraddittorie, ma più semplicemente non è né un’onda, né una particella.
Naturalmente per spiegare il comportamento dell'elettrone occorre elaborare una teoria nuova,
superando la contraddizione presente in una teoria provvisoria che tentava di combinare tra loro
nozioni classiche incompatibili.
Secondo esempio.
Per capire la natura di certi ragionamenti è utile riuscire a guardarli, per così dire, "dall’alto". La
cosa non è facile se le affermazioni riguardano la fisica moderna, ma diventa molto più semplice nel
caso di civiltà diverse e meno elaborate della nostra. Quindi da questo punto di vista può essere
molto utile lo studio di scritti molto antichi.
Un papiro faraonico, se ricordo bene del Medio Regno, fu scritto da uno scriba che era stato tra i
primi Egizi a visitare la Mesopotamia. Lo scriba aveva visto il Tigri, ne aveva osservato la corrente e
aveva fatto una relazione sul suo viaggio scrivendo che nella lontana Mesopotamia vi era un fiume
contraddittorio, in quanto la sua corrente andava controcorrente; il che è chiaramente uno scherzo di
natura, una contraddizione palese.
Probabilmente non avete capite che cosa ci fosse di contraddittorio. Non l'avete capito perché parlate
italiano e non l’antica lingua egizia dello scriba. Il problema nasceva dal fatto che nell’antica lingua
egiziana, che si era evoluta nella valle del Nilo, c’era un unico termine che significava sia "andare
verso nord" sia "seguire la corrente"; ovviamente perché il fiume era uno solo, il Nilo. Gli egiziani
parlavano della pioggia dicendo che gli dei erano stati così clementi da porre un Nilo nel cielo per
far sopravvivere le bestie e gli asiatici, che non potevano usufruire del vero Nilo. Poiché nel mondo
egizio esisteva un solo fiume, che scorreva verso nord, e il concetto di nord geografico coincideva
con il concetto di "seguire la corrente", se si voleva dire in che direzione scorreva il Tigri bisognava
dire che era una corrente che scorreva controcorrente, il che era evidentemente una contraddizione.
Naturalmente la contraddizione era nella lingua e non nel fiume. Una situazione del tutto analoga si
creò con gli esperimenti di diffrazione degli elettroni: si arrivò a una contraddizione, nel senso che si
scoprì che il nostro concetto di particella, come l’antico concetto degli antichi egizi di "seguire la
corrente" = "andare verso Nord", racchiude in sé caratteristiche che in altre situazioni debbono
essere disgiunte, in quanto nel caso dell'elettrone alcune sono verificate ed altre non lo sono.
Uscendo dalla valle del Nilo occorre inventarsi parole e concetti nuovi, senza credere di scoprire che
la natura è contraddittoria, come aveva creduto lo scriba egizio.
10. Scienze esatte e tecnologie
La crisi del metodo dimostrativo non proviene solo da cattiva volontà di persone, ma anche da
difficoltà oggettive.
Se si scoprono molti nuovi fenomeni di cui non esiste una teoria che li spieghi può entrare
provvisoriamente in crisi il concetto stesso di teoria.
Analogamente credo che il cambiamento del rapporto tra scienza esatta e tecnologia avvenuto negli
ultimi tempi comporti delle difficoltà nella conservazione del metodo dimostrativo.
Metodo dimostrativo e progettazione tecnologica
Bisogna capire innanzi tutto come mai il metodo dimostrativo ha funzionato così bene per secoli
nelle scienze fisico-matematiche. La cosa non è ovvia. Più volte è stato osservato come qualcosa di
miracoloso il fatto che la matematica riesca a spiegare la fisica.
Vorrei dire la mia idea su questo punto. Parlavo prima di due piani: il piano del mondo concreto e il
piano della teoria. Abbiamo già notato che le teorie scientifiche hanno due caratteristiche principali:
1. il loro oggetto è costituito da enti teorici, che corrispondono agli enti concreti, nel senso che
esistono regole di corrispondenza: un triangolo corrisponde ad oggetti triangolari, ma un oggetto
triangolare non è un triangolo;
2. si estendono con il metodo dimostrativo, che permette di dedurre conseguenze necessarie dalle
premesse.
3. Sviluppando conseguenze, in modo deduttivo, da premesse che sono dedotte dall’osservazione si
può arrivare a ipotizzare mondi virtuali, che nella realtà non esistono.
Ci si può chiedere: "una volta che ho capito il principio della leva - come fece Archimede - posso
immaginare che cosa accadrebbe costruendo un certo ingranaggio che nessuno ha costruito finora.
Una volta che ho immaginato cosa accadrebbe, lo posso costruire anche di fatto e quindi riesco a
progettare tecnologia usando la scienza. In altri termini astraendo dal mondo concreto posso
costruire una teoria; poi posso sviluppare la teoria fino a zone in cui le regole di corrispondenza non
associano nulla di concreto. Posso allora immaginare e descrivere oggetti virtuali, che non esistono
nel mondo, di cui ho però il modello teorico, e posso infine costruirli. È chiaro che esiste un legame
stretto tra la possibilità di una scienza esatta basata sul metodo dimostrativo e la progettazione
tecnologica.
Il punto precedente è chiarissimo nella scienza antica; è meno chiaro nella scienza moderna in cui la
specializzazione disciplinare fa apparire lontane tra loro matematica, fisica e ingegneria.
L'aspetto costruttivo della teoria appare particolarmente chiaro leggendo Euclide.
Teoremi e problemi
Negli Elementi di Euclide sono presenti due tipi di proposizioni: quelle anticamente dette teoremi e
quelle che gli antichi chiamavano problemi. Questa terminologia per la verità non è euclidea, è in
autori più tardi (in particolare in Proclo); ma in Euclide i due tipi di proposizione sono distinte dalla
formula finale: alcune proposizioni (i teoremi) finiscono con l’affermazione "come dovevasi
dimostrare"; altre proposizioni, anche provviste di dimostrazione, finiscono con la affermazione
"come si doveva fare".
Quindi la geometria non si occupa solo di ciò che è vero ma anche di ciò che si può realizzare.
Per esempio la prima proposizione del primo libro (e quindi la prima proposizione assoluta) degli
Elementi di Euclide è l’affermazione "costruire un triangolo equilatero su un segmento dato" (cioè
di cui un segmento dato sia un lato). Euclide prima descrive la costruzione con riga e compasso, cioè
spiega come si deve fare, poi dimostra, sulla base di alcuni dei suoi postulati, che ciò che viene
costruito è veramente un triangolo equilatero e poi conclude "come si doveva fare".
La stessa formula e lo stessa struttura logica sono usate non solo per costruzioni geometriche ma
anche per costruzioni d’altro tipo.
Per esempio nella meccanica di Erone si trova una proposizione che è un problema, del tipo
"costruire con ruote dentate un ingranaggio che permetta di sollevare un certo peso con una forza
assegnata ".
Si tratta di costruire una macchina che abbia un "vantaggio meccanico" dato, assegnato a priori.
Erone descrive come devono essere realizzati gli ingranaggi, dimostra che una macchina con quegli
ingranaggi effettivamente solleva quel certo peso se si agisce con una certa forza e conclude "così si
doveva fare".
La struttura tipica del problema, formata da costruzione e dimostrazione, è usata non solo in
geometria e in meccanica, ma anche, per esempio, in ottica e in idrostatica.
Anche nell'opera di Erone sulla costruzione di automi, si pone prima il problema di costruire un
automa che svolga una certa funzione; dopo di che si spiega come deve essere costruito e si dimostra
infine che l'automa così costruito svolge realmente la funzione richiesta.
Credo che il legame diretto tra forma dimostrativa e progettazione tecnologica, che risulta chiaro
nelle antiche opere, offra la chiave per capire come mai il metodo dimostrativo ha funzionato così
bene in fisica.
Consideriamo, per esempio, l’elettromagnetismo classico (nel senso della fisica classica), sviluppato
con la teoria di Maxwell nella seconda metà dell'Ottocento.
All’epoca di Newton non si sapeva nulla delle teorie elettromagnetiche. Si conoscevano solo pochi
fenomeni: si sapeva che se si strofinava l’ambra o qualche altra sostanza si potevano attrarre piccoli
oggetti; si conoscevano le proprietà elementari delle calamite e si sapeva che durante i temporale
c’erano i fulmini; erano più o meno queste le conoscenze note all'epoca su quelli che poi sarebbero
stati detti "fenomeni elettromagnetici".
Se leggete un trattato di elettromagnetismo dei primi anni del Novecento vi trovate invece un
enorme numero di informazioni, quasi tutte ricavabili in modo deduttivo, grazie cioè a
dimostrazioni, a partire da poche affermazioni: le equazioni di Maxwell e poche altre.
In questo caso si è riusciti a elaborare una teoria scientifica (nel senso classico esposto prima: pochi
postulati, da cui si deduce, a cascata, una quantità enorme di affermazioni) che spiega moltissimi
fenomeni.
11. Metodo dimostrativo e fenomeni naturali
Come mai si riescono a dimostrare come teoremi tanti fenomeni?
Mi sembra che, almeno in larga misura, la risposta sia nel rapporto già esposto tra teoria e
tecnologia. Ci si può chiedere se il primo fenomeno naturale "elettromagnetico" osservato, che è
quello dei fulmini, fosse conosciuto meglio agli inizi del Novecento che non all'epoca di Newton o
agli antichi greci. La risposta è negativa.
Se ci si chiede, per esempio, perché il fulmine ha la sua tipica forma spezzata, si individua già un
problema che è stato affrontato solo di recente. All’inizio del Novecento ancora non si aveva idea su
come si potesse spiegare la forma dei fulmini, cioè del primo fenomeno elettromagnetico che era
stato preso in considerazione.
Qual era allora, - vi potete chiedere - il contenuto di un trattato di elettromagnetismo degli inizi del
Novecento? Di cosa si occupava?
Un tale trattato spiegava essenzialmente la tecnologia elettrica che era stata sviluppata nel frattempo;
spiegava cioè i principi di funzionamento dei motori elettrici, delle dinamo o, qualche anno dopo,
della radio. I principi di funzionamento di questa tecnologia sono stati sviluppati da persone che
contemporaneamente sviluppavano la teoria elettromagnetica "pura" e sono stati sviluppati sulla
base di tale teoria. Quindi non è strano che la teoria riesca ad organizzare logicamente, diciamo "a
cascata", tanti risultati deducendoli da pochi principi, visto che i risultati spiegati riguardano proprio
gli oggetti che l’uomo è stato capace di costruire a partire da quei pochi principi
Si parla spesso di natura tautologica della matematica. Nel senso appena visto un'analoga natura
quasi-tautologica è propria della fisica, grazie al rapporto che la fisica ha avuto con la tecnologia.
La struttura appena descritta è oggi in crisi.
Per individuare l'origine della crisi occorre innanzi tutto osservare che non in ogni campo è possibile
usare allo stesso modo il metodo dimostrativo e il rapporto, ad esso connesso, tra teoria,
sperimentazione e tecnologia.
Se, per esempio, vi occupate di Storia, non potete fare esperimenti sulla base di una teoria (Quando
qualcuno ci ha provato i risultati sono stati terrificanti).
Quindi non si possono dimostrare teoremi di Storia.
12. Metodo dimostrativo e scienze naturali
La biologia è parzialmente analoga alla storia. Se volete studiare il comportamento di una cellula,
non dovete dimenticare che la cellula è ciò che è non perché sia stata progettata sulla base di pochi
principi (come accade per un computer o una radio). La cellula è il risultato dell’evoluzione naturale;
è cioè il risultato di una serie di fatti, molti dei quali sono casuali, che hanno portato anche a risultati
diversi (esistono infatti molti tipi di cellule e inoltre esistono i batteri, i virus e altre cose). Per fare
un altro esempio, se volete sapere come funziona un cervello umano dovete capire il risultato di
un’evoluzione che ha molte analogie con l’evoluzione storica, essendo il risultato di moltissimi
fenomeni diversi. Poiché le strutture biologiche non sono prodotte sulla base di pochi principi, non
bisogna stupirsi se non si riescono a dimostrare teoremi di biologia, così come non si sanno
dimostrare teoremi di storia.
Il punto precedente richiede forse una precisazione. A volte si riescono a dimostrare teoremi che
valgono in biologia (esiste anche la "biomatematica"), ma si tratta sempre di risultati in qualche
modo esterni al corpo centrale delle conoscenze biologiche.
Nello studio dei fenomeni biologici occorre un grande rispetto per i fatti, così come si sono
determinati nel corso dell’evoluzione attraverso milioni o miliardi di anni.
Mentre la situazione descritta finora è quella "classica", la novità degli ultimi decenni è nel fatto che
anche nei sistemi ai quali non è applicabile il metodo dimostrativo classico --in cui cioè i risultati
interessanti non sono deducibili a cascata da poche affermazioni iniziali -- oggi riescono ad essere
trattati in modo quantitativo grazie alle nuove tecnologie informatiche. Chi studiava l’etologia
dell’elefante sapeva di coltivare uno studio senza alcuna relazione con le scienze esatte. Andare in
Africa, osservare gli elefanti e capirne il comportamento non richiedeva né la dimostrazione di
teoremi, né elaborazioni di dati numerici.
Le nuove tecnologie informatiche permettono di trattare in modo quantitativo non solo situazioni
come quelle classiche - in cui tutto ciò che interessa è deducibile da pochi principi -, ma anche
situazioni in cui le cose che interessano sono deducibili da centinaia di migliaia di informazioni
diverse (che possono essere tutte inserite nella memoria di un computer). Se ad esempio bisogna
scrivere tutta la successione del genoma lo si fa usando metodi chimici, fisici e informatici e il
risultato finale è una serie di informazioni che possono (e debbono) essere elaborate in modo
automatico.
La straordinaria fortuna dell’idea della complessità nasce proprio dalla nuova situazione appena
descritta.
13. Complessità e nuove sintesi
Si sente parlare continuamente di complessità. Ovviamente il mondo è sempre stato complesso; solo
che fino a qualche tempo fa le cose complesse si rinunciava a studiarle in modo quantitativo, mentre
adesso i metodi quantitativi invadono tutti i campi per le possibilità offerte dall'elaborazione
automatica.
Dobbiamo dedurne che il metodo dimostrativo deve essere abbandonato? Io credo di no. Credo che
bisognerebbe essere consapevoli innanzi tutto della natura di questi fenomeni e poi del fatto che in
qualche modo il numero degli strumenti a disposizione dell’umanità è aumentato. Accanto alla
possibilità di trattare in modo automatico centinaia di migliaia di dati rimane anche la possibilità di
fare teorie deduttive nel senso classico e in molti casi queste teorie funzionano.
Se dovete progettare una nave spaziale, potete usare ancora la meccanica classica basata su pochi
principi. Se dovete fare bioingegneria la situazione è diversa. Anche in questi casi è però importante
sviluppare teorie semplici, che anche se non saranno in grado di sostituire il trattamento automatico
di molti dati, possono essere utili per capire alcune strutture del fenomeno senza poterle dedurre
tutte. Credo che sia aumentata l’esigenza di costruire nuove sintesi che ammettano fin dall’inizio di
essere modelli parziali, lasciando al trattamento automatico dei dati una serie di compiti di dettaglio
e riservando a noi la parte intelligente del lavoro, cioè l'analisi della struttura qualitativa.