IDENTITA’ Abstract: L’identità non esiste se non c’è alterità: l’identità di un soggetto prende infatti sempre forma nella relazione con l’altro. Ci sono autori che sostengono che la nostra identità dipende dallo sguardo dell’altro, nel senso che noi ci vediamo riflessi nello sguardo dell’altro: come se chi ci sta di fronte fosse uno specchio in cui guardarci e riconoscere la nostra immagine. La costruzione dell’identità personale passa attraverso l’interazione della persona con l’ambiente e l’interiorizzazione del contesto sociale in cui si è inseriti. Il processo di costruzione dell’identità deve essere affrontato considerando sia la sua componente individuale sia quella sociale, riconoscendo l’estrema difficoltà ad operare qualsiasi ipotesi di netta separazione tra i due elementi. L’individuo, infatti, forma la propria identità differenziandosi dagli altri (e quindi attraverso l’elaborazione della diversità) e mantenendo una continuità con sé stesso, ma, contemporaneamente, ha l’esigenza esistenziale di essere riconosciuto da altri soggetti. E’ in questo continuo confronto tra uguaglianza e diversità e tra ciò che è percepito come espressione della propria esperienza individuale e ciò che invece viene proposto o indotto dall’ambiente sociale che si forma l’identità. Infine, l’identità è sempre appartenenza: a una società, a un sistema culturale, a un gruppo, a una famiglia, a un luogo. 1 L’identità della persona, dei generi sessuali, dei gruppi sociali e professionali, delle nazioni e delle etnie, costituisce oggi uno degli argomenti più studiati e più dibattuti dalle scienze sociali. In sociologia, antropologia e nelle altre scienze sociali il concetto di identità riguarda, per un verso, il modo in cui l'individuo considera se stesso come membro di determinati gruppi: nazione, classe sociale, cultura, etnia, genere, professione, e così via; e, per l'altro, il modo in cui i codici di quei gruppi consentono a ciascun individuo di pensarsi, muoversi, collocarsi e relazionarsi rispetto a sé stesso, agli altri, al gruppo a cui appartiene ed ai gruppi esterni percepiti e classificati come alterità (in questo senso, per esempio, storici o studiosi sociali e parlano di identità nazionale per gli abitanti di un particolare paese e gli esperti di pari opportunità parlano di identità di genere). Ma se da una parte, l’identità della persona non può costruirsi nel vuoto sociale, dall’altra essa non è determinata in modo esclusivo da forze sociali che schiacciano e riducono ad irrilevante le capacità di scelta del soggetto, del singolo: piuttosto, l’identità prende forma attraverso il dialogo serrato tra il singolo attore sociale ed il suo ambiente storico e culturale. Va sottolineato inoltre che l'identità è contestuale e relazionale, cioè essa può variare in base al contesto, al ruolo che il soggetto intende assumere in tale contesto ed alla posizione, che si gioca o ci viene fatta giocare dagli altri con le loro identità, all'interno della rete di relazioni e percezioni simmetriche ed asimmetriche al cui interno ci si trova inscritti ed attivi (per esempio: quando attraverso la dogana quella che conta è la mia identità nazionale e non quella religiosa o professionale). Tutti noi rivestiamo più ruoli, di conseguenza abbiamo un'identità multipla. Affronteremo di seguito il tema dell’identità, intesa come identità individuale, facendo partire la nostra analisi dei primi del ‘900, periodo in cui le scienze sociali hanno cominciato a interessarsi alla questione. Il nostro excursus parte dal sociologo statunitense Charles Horton COOLEY (18641929) che ha offerto interessanti intuizioni riprese poi da numerosi studiosi interessati all’argomento. Nel saggio Human Nature and the Social Order del 1902, Cooley ha elaborato la teoria dell’io come Looking-Glass Self: la società fornisce uno specchio in cui ogni individuo vede la sua immagine. La metafora utilizzata da Cooley è quella dell’io riflesso (il Looking-Glass Self, appunto), secondo cui ognuno si riconosce nell’immagine che gli altri hanno di noi. Nella prospettiva di Cooley l’identità si crea infatti a partire dalla reciprocità con l’altro. La società può essere considerata come uno specchio sul quale osserviamo le reazioni che gli altri hanno nei confronti del nostro comportamento. Da quanto viene riflesso ricaviamo l’idea che abbiamo di noi stessi e siamo in grado di giudicare le nostre azioni. Se riteniamo positivo ciò che vediamo nello specchio sociale, crescerà l’idea che abbiamo di noi stessi e probabilmente ripeteremo lo stesso comportamento. Se invece ciò che vediamo ci sembra negativo saremmo più propensi a modificare il nostro comportamento. Ma che sia esatta o meno questa lettura dell’io riflesso, secondo Cooley è attraverso questa interpretazione che apprendiamo qual è la nostra identità. 2 Va sottolineato però, che altrettanto rilevante nella costruzione dell’identità è il ruolo del riconoscimento. L’identità infatti non deriva automanticamente da ciò che gli altri pensano di noi, ma dal modo in cui noi pensiamo di apparire agli altri. Ciò che un soggetto vede nello specchio non è mai però del tutto uguale a come egli effettivamente appare agli altri, ma è sempre l’esito di una riflessione su di sé, di un’interpretazione, di un autoriconoscimento. All’opera di Cooley si richiama l’americano Georg Herbert MEAD (1863-1931). Nel libro Mente, sé e società del 1934, composto principalmente da raccolte di appunti di studenti che, accortisi dell’importanza del materiale esposto nelle lezioni di Mead (sempre tenute senza una scorta di appunti), ne fecero materiale prezioso, è sostenuta la tesi che il Sé nasce dall’interazione tra individuo e società, nel senso che l’individuo si percepisce solo tramite i giudizi che gli altri appartenenti al gruppo sociale si sono fatti su di lui. Per Mead l’identità è qualcosa che non esiste alla nascita, ma si sviluppa come risultato delle relazioni con gli altri, nell’interazione sociale: il Sé di ogni individuo è prodotto dall’interazione fra il soggetto stesso, fin dai primi momenti dopo la nascita, e gli “altri significativi” che costituiscono il suo ambiente. La costituzione del Sé si realizza attraverso tre modalità di interazione intersoggettiva: 1) il linguaggio 2) il gioco come play 3) il gioco come game Il linguaggio verbale è distintivo della specie umana e permette la prima interazione tra gli individui. La seconda forma di interazione è il gioco inteso come play, in cui il bambino imita l’adulto e ne assume il ruolo (gioca a fare la mamma, la maestra, il medico, il poliziotto, ecc.). La terza forma è il gioco come game, il gioco organizzato, in cui il bambino deve essere pronto ad interiorizzare regole e divieti. Considerare il Sé come un oggetto sociale può far pensare che venga determinato in modo esclusivo dall’influenza della realtà sociale: in altre parole si potrebbe pensare che la nostra identità sia determinata da come gli altri la definiscono. Ma Mead evita questo rischio distinguendo all’interno della struttura del Sé due elementi: il Me e l’Io. Gli elementi basilari del Me includono tutte le caratteristiche materiali (il corpo prima di tutto, ma anche ciò che il soggetto possiede), sociali (i rapporti e le relazioni del soggetto) e psicologici (i pensieri, i sentimenti, imeccanismi interiori). Secondo Mead “noi siamo individui nati in una certa nazione, situati geograficamente in un certo luogo, con rapporti familiari e politici di questo o di quel tipo”. Gli uomini nascono all'interno di strutture sociali che essi non hanno creato, vivono in un ordine istituzionale e sociale che essi non determinano, si trovano costretti entro i limiti del linguaggio, dei codici, dei costumi e delle leggi. Il Me è allora la componente sociale dell’identità: si definisce a partire dall’interiorizzazione di ruoli, comportamenti, valori di una società; riflette le leggi e i costumi, i codici organizzati e le aspettative della comunità. 3 L’Io rappresenta, nel Sé, il principio dell’azione e dell’iniziativa: è quella parte del Sé che può incidere e modificare la realtà sociale e che ci differenzia dalla società e dagli altri, che ci rende unici. Se il Me è l’interiorizzazione della dimensione sociale, l’Io è la risposta che l’individuo dà al contesto sociale in cui si trova a vivere: è il modo in cui facciamo nostri cultura, ruoli, comportamenti, valori, regole, codici, aspettative di una società e come reagiamo ad essi. E’ la componente dell’identità legata all’esperienza individuale, alla creatività e all’iniziativa di ognuno. Ogni individuo dunque costituisce una realtà complessa. Il sociologo americano Talcott PARSONS (1902 - 1979) nell’opera La struttura dell’azione sociale del 1937 considera l’identità né un mero prodotto dell’interazione dell’individuo con il suo ambiente né un’autocostruzione. L’identità della persona consiste in un difficile equilibrio tra componenti sociali e componenti personali: ogni persona è figlia della propria cultura e della propria società, ma anche della specifica esperienza individuale. Nella formazione dell’identità un ruolo centrale spetta al processo di socializzazione che permette l’acquisizione degli orientamenti richiesti per fronteggiare il sistema delle attese collegate ad uno o più ruoli da svolgere. Nel corso della socializzazione primaria si forma la personalità di base attraverso l’interiorizzazione delle norme e dei valori espressi da coloro che socializzano il bambino. Parsons riprende da Freud il concetto di interiorizzazione (in Freud chiamato introiezione): ogni individuo impara a seguire certe norme e a vivere in società attraverso la formazione di un’istanza psichica, il Super-Io freudiano, che riproduce l’autorità inizialmente al di fuori di noi ma che poi noi interiorizziamo. Questa interiorizzazione delle norme e dei valori avviene nel corso del processo di socializzazione, che si realizza nell’infanzia grazie alla famiglia. Il ruolo della famiglia nell’ambito del sistema sociale è quello di educare i figli e socializzarli. La famiglia in Parsons è quella tipicamente americana, nucleare, composta cioè solo dai due genitori e dai figli, residente in un’abitazione indipendente mononucleare; all’interno della famiglia avviene una differenziazione di funzioni e ruoli: la moglie/madre assume il ruolo di casalinga che cura i figli e la casa; il padre/marito è il bread-winner, colui che porta il pane a casa, cioè che si procura di che da vivere, e il leader strumentale che si occupa dell’interazione tra famiglia e società. Questi due ruoli sono complementari, l’uno non esiste senza l’altro. I figli e le figlie svilupperanno una personalità che farà propri i valori dei genitori e la differenziazione dei ruoli tra i due genitori. Al di là del fondamentale ruolo della socializzazione primaria, secondo Parsone l’identità non è mai comunque acquisita una volta per sempre, ma è un processo aperto e dinamico che si costruisce nelle interazioni ed è continuamente rimessa in discussione La riflessione del sociologo tedesco Norbert ELIAS (1897 - 1990) offre una prospettiva di ricerca significativa sulla dialettica tra componente individuale e componente sociale dell’identità, tra quella che lui chiama “identità-Io” e “identitàNoi”. L’identità-Io è ciò che distingue un uomo dagli altri uomini. L’identità-Noi è ciò che lo accomuna ad essi. L’individuo può dire io soltanto se è capace di dire noi: l’identità personale ha come presupposti l’esistenza di altri e una serie di appartenenze sociali. Se si guarda alla 4 vita umana nella sua interezza, sembra difficilmente concepibile un’identità nei termini di un “io senza noi”. Benché la relazione tra individuo e società, tra identità-Io e identità-Noi sia costitutiva, il tipo di relazione cambia nelle diverse società e anche nelle diverse fasi della vita individuale. Dal punto di vista sociale, sostiene Elias, le società occidentali sono state interessate da una progressiva accentuazione dell’ identità-Io a scapito dell’identità-Noi e ad un’affermazione dell’individuo, dell’autonomia e dell’indipendenza come valori. In tema di identità individuale, la posizione sociologica assunta dal sociologo canadese Erving GOFFMAN (1922 - 1982) si rifà alla metafora della vita come teatro, per rendere conto del fatto che noi uomini dalla nascita alla morte portiamo una maschera, o meglio tante maschere quante lo richiedono le diverse situazioni della vita in cui ci imbattiamo. Nell'opera The Presentation of the Self in Everyday Life del 1959, tradotta in italiano con il titolo La vita quotidiana come rappresentazione, Goffman presenta una concezione dell'identità individuale secondo cui ciascun individuo è attore e personaggio di una perenne rappresentazione, allestita e riallestita giorno per giorno, ora per ora, istante per istante, metafora che sta ad indicare il contesto quotidiano di relazioni sociali con cui ogni individuo si trova a fare i conti. Secondo Goffman, l'individuo-attore, dotato di molteplici maschere, è talvolta supportato nella scena dal gruppo di cui fa parte e che presenzia alla rappresentazione ("performance team": gruppo di individui che coopera per mettere in scena uno spettacolo quotidiano come fanno, ad esempio, i componenti di una famiglia o di uno studio, se si considera l'ambiente di lavoro, davanti ad un pubblico, costituito da persone esterne al gruppo stesso). Ogni individuo è, però, concepito da Goffman al tempo stesso anche come personaggio. Quest'ultimo, infatti, è fisicamente lo stesso individuo (attore) anche se assume ruoli diversi nella società (personaggi che interpreta di volta in volta) che corrispondono alle diverse parti che si trova a recitare nella vita di ogni giorno. Non dobbiamo associare al termine "recitazione" quello di finzione: per Goffman attore e personaggio sono due punti di vista sull'individuo, uno per così dire esterno, ciò che mostra di sé agli altri (personaggio), e uno interno, ciò che è e che non manifesta (attore), che ci possono essere utili per comprendere il duplice carattere dell'identità individuale: essa è, da un lato, disposizione a mantenere una continuità con se stesso (attore), nonostante il trascorrere incessante del tempo e il mutare delle condizioni esterne e interne all'individuo, visto che l'identità si struttura e si ristruttura attraverso una continua elaborazione, e dall'altro negoziazione di sé nelle dinamiche relazionali della vita (personaggio). Gli statunitensi Peter L. BERGER (1929) e Thomas LUCKMANN (1927) nel loro scritto La realtà come costruzione sociale del 1966 affermano che “l’io è un’entità riflessa, che riflette gli atteggiamenti degli altri nei suoi confronti”. L’identità si forma nei processi sociali e viene continuamente rimodellata dalle relazioni sociali in cui gli individui sono coinvolti. Scrivono i due autori: “Il periodo durante il quale l’organismo umano si sviluppa fino a completezza in relazione all’ambiente è anche il periodo durante il quale si forma l’identità umana. La formazione dell’io, dunque, deve essere anche compresa in 5 rapporto al crescente sviluppo dell’organismo e al processo sociale in cui l’ambiente naturale e quello umano sono mediati dall’influenza degli altri. Lo stesso processo sociale (…) produce l’io nella sua forma particolare, culturalmente relativa. (…) L’io non può essere adeguatamente compreso indipendentemente dal particolare contesto sociale in cui si è conformato.” Nel processo di socializzazione primaria, il bambino forma la sua identità a partire dal fatto che assumere e farli propri i ruoli delle persone che si prendono cura di lui. L’identificazione con i genitori è praticamente automatica e insieme viene interiorizzata una certa visione del mondo, ovvero una certa cultura, un insieme di idee, regole, codici, valori, comportamenti. Nel processo di socializzazione secondaria propria dell’età adulta l’identità è già formata: il nuovo impatta con ciò che è stato già acquisito diventando parte integrante dell’identità. L’identità personale si costituisce, si conserva e si sviluppa all’interno di una trama di relazioni sociali che ha un centro, rappresentato dagli altri significativi, le persone più vicine e importanti (coniugi, genitori, figli, persone con cui si lavora astretto contatto, amici, ecc.) e un coro (parenti, colleghi con cui si hanno meno frequentazioni, vicini di casa, conoscenti, ecc.). La relazione con l’insieme di questi interlocutori contribuisce ogni giorno, in modo più o meno diretto e rilevante, a confermare, attraverso il riconoscimento, o a mettere in discussione, attraverso la critica, i tratti fondamentali dell’identità. Lo psicoanalista tedesco Erik H. ERIKSON (1902 - 1994) sostiene che l’identità consiste nella nozione di essere distinto e separato dagli altri. Il sentimento di identità è il risultato di un’interazione continua tra tre canali spaziale, temporale e sociale, che agiscono in modo interdipendente nel tenere insieme l’identità: - integrazione spaziale; - integrazione temporale; - integrazione sociale. Consideriamo come questi tre canali vengono colpiti in maniera in seguito all’esperienza migratoria. Prima di tutte ovviamente, è l’integrazione spaziale a venire alterata dall’esperienza migratoria, che porta con sé lo sradicamento e la sensazione di perdita del proprio spazio geografico, di spaesamento. In suo soccorso può andare l’integrazione temporale, che favorisce, utilizzando memoria e ricordo, la continuità tra le diverse rappresentazioni di sé nel tempo, creando la base del sentimento di essere se stessi anche quando si perde il riferimento spaziale; tuttavia anch’essa può spezzarsi quando il presente in cui ci si trova a vivere è tanto diverso dal passato che abbiamo vissuto. Ma più di tutte è l’integrazione sociale ad essere colpita durante un’emigrazione: tutto nell’ambiente di arrivo è sconosciuto, come sconosciuto è per l’ambiente il nuovo arrivato. Non sentendo legami di appartenenza con il nuovo ambiente, il migrante rischia di risolvere la propria identità in un “chi ero” e non in un “chi sono qui e ora”, finendo per sentirsi “nessuno”. Quelli che abbiamo presentato vogliono essere degli spunti di riflessione sul tema dell’identità. 6 La disamina di autori, teorie e contributi in proposito potrebbe continuare, e toccare i campi della filosofia, della psicologia, della psicoanalisi, dell’antropologia. Ma ci fermiamo qui, citando in ultimo tre contemporanei italiani. Adriana CAVARERO, figura di spicco del pensiero femminista, insegna Filosofia politica all’Università Statale di Verona. Nel suo libro Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione (1997) sostiene che l’identità corrisponde a una “storia di vita”. E dato che nelle nostre storie di vita noi non siamo mai soli, ma entriamo in relazioni più o meno strette, più o meno significative, con gli altri, l’identità è sempre relazionale. Il titolo curioso del libro, tenta di alludere a due aspetti fondamentali per la creazione dell’identità: da un lato, il bisogno dello sguardo dell’altro, dall’altro la necessità del racconto, della narrazione. La mia identità può essere esplicitata solo nella forma di una storia di vita raccontata da qualcun altro che non sono io. Adriana Cavarero parla di identità narrabile. Duccio DEMETRIO, docente di Educazione degli Adulti presso l'Università Statale di Milano - Bicocca, sostiene che ogni uomo, trovandosi a muoversi su più percorsi, intrecciando relazioni e storie, operando scelte, collocandosi in contesti differenziati, sviluppa diverse identità: come gli scenari della vita sono molti, così ognuno di noi è più di uno, è molti. L’Identità è multipla, perché si adegua al contesto e all’interlocutore e agisce in modi diversi a seconda degli scenari. A tenere insieme le nostre identità sparse contribuisce quello che Demetrio chiama Io tessitore, che produce di volta in volta nuove sintesi, a partire da esperienze diverse e contrastanti. Giovanni JERVIS (1933), docente di Psicologia dinamica all’Università di Roma, sostiene che l’identità è tutto ciò che caratterizza ciascuno di noi come individuo singolo e inconfondibile. E' ciò che impedisce alle persone di scambiarci per qualcun altro. Così come ognuno ha un'identità per gli altri, ha anche un'identità per sé. Quella per gli altri è l’identità oggettiva, l'identità per sé è l’identità soggettiva. L'identità soggettiva è l'insieme delle mie caratteristiche così come io le vedo e le descrivo a me stesso. L'identità oggettiva di ciascuno, ossia la sua riconoscibilità, si presenta secondo tre principali modalità. La prima modalità è l'identità fisica: questa è data soprattutto dalle caratteristiche della faccia, le quali ci permettono di non esser confusi con un'altra persona. La seconda modalità è l'identità sociale, ossia un insieme di caratteristiche quali l'età, lo stato civile, la professione, il livello culturale e l'appartenenza ad una certa fascia di reddito. La terza modalità è l'identità psicologica, ovvero la mia personalità, lo stile costante del mio comportamento. Alcuni aspetti dell'identità cambiano più facilmente di altri. L'identità sociale può cambiare rapidamente: se, ad esempio, un funzionario di banca va in pensione e si trasferisce in campagna, ecco che la sua identità sociale è cambiata ed egli non è più il tale funzionario benestante e abitante in città, ma diventa un pensionato, proprietario di un piccolo orto. L'identità fisica invece cambia gradatamente. E' probabile che a sessant'anni abbia più o meno la stessa faccia di dieci anni prima, anche se potrei avere una faccia alquanto diversa rispetto a trenta o quarant'anni prima. 7 L'identità psicologica cambia anch'essa piuttosto poco: ognuno ha una sua personalità, vale a dire una certa intelligenza, determinate attitudini e specifici tratti del carattere. La personalità dipende, in gran parte, da fattori genetici e assume caratteristiche stabili durante l'infanzia. I diversi punti di riflessione proposti sono stati selezionati con l’intento di rendere evidente come l’identità sia un’entità complessa, multiforme, sfaccettata e per certi versi sfuggente e contraddittoria. Si possono avere contemporaneamente più identità: individuale, familiare, di gruppo. Altre identità sono ancora quella di genere, l’identità etnica, religiosa, culturale, ideologica, nazionale, professionale. Queste diverse identità, cui ognuno di noi afferisce, possono anche essere in contrasto tra loro, qualche volta in modo produttivo, altre volte in modo controproducente. Così quando ci si sente sicuri all’interno di una collettività si tende solitamente ad affermare la propria individualità; al contrario, quando si vivono dei conflitti o ci si sente emarginati, si accentua il proprio bisogno di assomigliare agli altri, di fondersi con il gruppo. Tale gruppo, così come la società in senso più generale, fornisce dunque uno specchio (il Looking-glass Self di Cooley) attraverso il quale ogni individuo scopre la sua immagine. Può essere utile, in ultimo, discriminare tra identità e identificazione. Ogni volta che ci s’identifica in un’altra persona o in un gruppo, ci si appropria dei suoi valori e delle sue norme, il che rappresenta il contrario dell’identità intesa come espressione della propria singolarità. Tuttavia, nel corso della vita e in particolar modo nell’età evolutiva, l’identità passa proprio attraverso una serie d’identificazioni che promuovono la crescita e il benessere dell’individuo. Paradossalmente l’identità individuale, almeno nella sua dimensione psicologica e sociale, si comporta in maniera opposta all’identità biologica, che fin dalla sua ontogenesi tende alla costruzione di quell’invisibile parete che separa ogni organismo dall’ambiente esterno, e lo difende dalle possibili aggressioni e dalle contaminazioni patogene. Nella vita sociale, nei rapporti interpersonali, noi volgiamo che l’altro, l’ambiente esterno, penetri dentro di noi in profondità e alteri la nostra individualità (da La fatica di essere autentici, Luciano Di Gregorio, 2006). L'identificazione è un termine che ha due sensi e può significare due processi psicologici. In un senso, può significare l'azione di identificare (l'identificazione dell'altro), cioè di riconoscere qualche cosa da certi segni o caratteristiche per poterla classificare in una categoria. In un altro, può significare l'azione di identificarsi in qualcuno (l'identificazione nell'altro) o in qualche cosa. In questo secondo senso, l'identificazione è l’ assimilazione di un certo numero di caratteristiche di un altro diverso da sé. L'identificazione nell'altro è un processo psicologico con il quale un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo dell'altro e si trasforma, totalmente o parzialmente sul modello di questo. La personalità si costituisce e si differenzia per una serie di identificazioni. La dinamica identitaria implica però anche una seconda dimensione: nello stesso tempo che noi ci rendiamo simili ad altri, noi miriamo a coglierci come distinti. L'identità si costruisce per un processo di assimilazione e di differenziazione, dove la definizione di sé interferisce con la definizione dell'altro. 8