La malattia mentale in ambito penale e penitenziario

Le malattie mentali
Disciplina normativa: Ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, art.222 codice penale
Nel caso di proscioglimento per infermità psichica (c.p.88), ovvero per intossicazione cronica
da alcool o da sostanze stupefacenti (c.p.95), ovvero per sordomutismo (c.p.96), è sempre
ordinato il ricovero dell’imputato in un manicomio giudiziario per un tempo non inferiore a due
anni; salvo che si tratti di contravvenzioni o di delitti colposi o di altri delitti per i quali la legge
stabilisce la pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore nel massimo a due
anni, nei quali casi la sentenza di proscioglimento è comunicata all’Autorità di pubblica
sicurezza .
La durata minima del ricovero nel manicomio giudiziario è di dieci anni, se per il fatto
commesso la legge stabilisce (la pena di morte o) l’ergastolo, ovvero di cinque, se per il fatto
commesso la legge stabilisce la pena della reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a
dieci anni.
Nel caso in cui la persona ricoverata in un manicomio giudiziario debba scontare una pena
restrittiva della libertà personale, l’esecuzione di questa è differita fino a che perduri il ricovero
nel manicomio.
Le disposizioni di questo articolo si applicano anche ai minori degli anni quattordici o maggiori
dei quattordici e minori dei diciotto, prosciolti per ragione di età, quando abbiano commesso
un fatto preveduto dalla legge come reato, trovandosi in alcuna delle condizioni indicate nella
prima parte dell’articolo stesso.
Problematiche di salute psichica
Problematiche psichiche
Nei detenuti sono stati riscontrati dei disturbi psicologici durante la detenzione, specie nella
fase iniziale. È possibile suddividere i disturbi mentali in due grandi categorie:
- disturbi da cause organiche: in questa tipologia di disturbi è riconoscibile un’alterazione
anatomica come esito di cerebropatia asfittica neonatale, da trauma, per problematiche
vascolari (arteriosclerosi cerebrale, ecc.), tossiche (etilismo cronico, ecc.), infettive (encefaliti
e loro postumi). Queste alterazioni organiche determinano disabilità diverse a seconda della
causa, della zona colpita, della gravità dell’evento, sono in genere associati a disturbi della
percezione, del pensiero, dell’area affettivo-emozionale e del comportamento di varia gravità e
genere.
- disturbi da cause non organiche: in questi disturbi non è stata identificata una causa riferibile
ad alterazione anatomica.
Psicosi carcerarie
Nelle istituzioni penitenziarie le manifestazioni psicopatologiche sono particolarmente
frequenti. Esse possono essere la continuazione o l’esacerbazione e di disturbi psichici
preesistenti, oppure la strutturazione di una risposta di tipo psicotico ad eventi particolarmente
traumatizzanti dal punto di vista psicologico, quali l’entrata in carcere, l’attesa di giudizio, la
previsione di condanna, la sentenza stessa.
Consideriamo la "sindrome da ingresso in carcere", come una serie di disturbi non solo
psichici, ma spesso psicosomatici, che compare tanto più frequentemente e pesantemente
quanto più elevato è il grado di educazione, di sensibilità, di cultura dei soggetti detenuti. Il
trauma da ingresso in carcere può diventare tanto più forte quanto maggiore è il divario fra il
tenore di vita condotto in libertà e quello carcerario. La risposta del soggetto si modula in base
alla sua struttura di personalità e alle abilità/capacità di adattamento in possesso, nonché
all’ambiente-cella e ai compagni.
La capacità di adattamento sarà superiore in un soggetto con esperienza di precedenti
carcerazioni, o che riesca a trovare nel carcere punti di riferimento (detenuti che
appartengono alla stessa banda criminale, alla malavita della stessa zona o più
semplicemente a piccola delinquenza dello stesso paese o quartiere).
È certo comunque che per molti soggetti alla prima detenzione, anche se per ciascuno in
modo diverso, l’impatto con la struttura carceraria costituirà uno dei momenti più drammatici
dell’esistenza. Vari tentativi di umanizzazione dell’impatto con il carcere e allo stesso tempo di
prevenzione dei comportamenti a rischio sono stati fatti. Il più importante è sicuramente la
predisposizione, attraverso la Circolare Amato del 30/12/1987 n. 3233/5683, del Servizio
Nuovi Giunti effettuato dagli psicologi del carcere attraverso un colloquio con ogni singolo
detenuto all’atto di ingresso in istituto; tale colloquio è volto a valutare la personalità del
soggetto soprattutto al fine di prevenire eventuali gesti autolesivi.
Inoltre sono state riscontrate alcune forme morbose psicopatologiche caratterizzate dal
legame esistente fra la loro insorgenza e lo stato di detenzione, ed è a queste particolari
patologie che gli studiosi si riferiscono quando parlano di psicosi carcerarie, cioè vere e
proprie forme psicopatologiche, con sintomi caratteristici, che insorgono in individui in
detenzione e che non si osservano in altri ambienti.
In tale senso Calzolari definisce le psicosi come "quell’insieme di malattie che pongono
l’individuo in una situazione, temporanea o permanente, di perdita più o meno totale della
capacità di comprendere il significato della realtà in cui vive e di mantenere tra se e quella
realtà un rapporto di sintonia sufficiente a salvaguardare un comportamento autonomo e
responsabile. In base ai fattori eziopatogenetici possiamo suddividerle in due gruppi; le psicosi
organiche (metaboliche, disendocrine, infettive, vascolari, degenerative, neoplastiche, posttraumatiche, genetiche) e le psicosi endogene (o funzionali), includenti le schizofrenie e i
disturbi dell’umore".
L’ambiente delle istituzioni carcerarie può favorire la "soluzione", in chiave di malattia
psichiatrica, a volte, ad una condizione di vita particolarmente difficile, nella fattispecie a
quella del detenuto: si sottolinea la deprivazione sensoriale, la mancanza di affetti, di rapporti
sociali, che caratterizzano l’isolamento carcerario. La situazione di "punizione" si alimenta con
il vissuto depressivo, che permea i rapporti personali, le vicende giudiziarie, le prospettive di
condanna e la stessa struttura penitenziaria, sviluppando processi di autocolpevolizzazione
che, a loro volta, sostengono quelle forme psicopatologiche che si ricollegano con i sentimenti
di colpa (ad esempio nevrosi o psicosi depressive).
La carcerazione, proprio per il suo essere un evento improvviso e destabilizzante, può favorire
lo sviluppo del meccanismo della psicosi a causa dello scompenso di un io, già fragile, che
non riesce più a mantenere più il suo già traballante equilibrio; può dare il via a forme di
schizofrenia che si sviluppano in tutta la loro sintomatologia dopo l’arresto, oppure in forme
border line che diventano chiaramente psicotiche.
Concludendo si vuole ricordare che tutte queste problematiche vengono curate ed assistite
all’interno del carcere dal personale medico, in particolare dallo psichiatra dell’istituto, in
quanto non è prevista una misura alternativa, che non sia quella del ricovero in O.P.G.. Dal
punto di vita umano queste sono situazioni drammatiche in quanto creano angoscia e
disperazione nei soggetti detenuti e producono effetti dannosi sulla psiche di un individuo, ma
non sono cosi "gravi" da concedere l’incompatibilità con il carcere.
Sindrome di Ganser
Continuando nell’analisi dei disturbi psichici, una peculiare forma reattiva alla carcerazione è
la sindrome di Ganser (pseudo demenza psicogena o stato crepuscolare isterico). È un raro
disturbo mentale che pur non presentandosi esclusivamente in carcere, si osserva
generalmente in soggetti detenuti in attesa di giudizio. Consiste in una reazione isterica
basata su di una motivazione inconscia del soggetto ad evitare la responsabilità. sforzandosi
di apparire infermo di mente.
Uno tra i sintomi psicopatologici più caratteristici è il fatto che i soggetti non sono capaci di
rispondere alle domande più semplici che vengono loro rivolte. sebbene dalle risposte è
evidente che hanno capito il significato della domanda e nelle loro risposte tradiscono una
sconcertante mancanza di conoscenze che essi hanno posseduto e che ancora, senza ombra
di dubbio, possiedono. Gli individui praticamente parlano fuori tema, a vanvera, trascurano la
risposta corretta e ne danno un’altra simile, ma inesatta. Calcolano di traverso nell’esecuzione
di calcoli semplici, mentre magari sono capaci di svolgere correttamente quelli più complessi e
difficili.
La sindrome di Ganser è caratterizzata da un comportamento bizzarro, da allucinazioni visive
ed uditive, da deliri, da disorientamenti, da amnesia, da convulsioni isteriche, da marcata
variabilità dell’umore.
Il detenuto può fare cose strane durante la visita: si può spogliare ed indossare gli abiti al
rovescio, chiedere un biglietto per il treno eccl2. Sul piano espressivo, non c’è dubbio che tale
condizione si presenti con un quadro di una certa gravità, ovvero apparentemente si qualifichi
per la ricorrenza di sensibili alterazioni delle funzioni psichiche (dell’orientamento, della
memoria, dell’attenzione). "Ma si tratta di sintomatologia "pseudo demenziale", a metà strada
cioè fra la simulazione e la reazione inconscia e con pressoché costante componente isterica
a sostegno; può apparire psicotica ma la somiglianza è solo superficiale, a meno che
naturalmente il quadro clinico non sia spia di una reale forma psicotica".
La sintomatologia è contraddistinta dal puerilismo che si nota dall’aspetto recitativo o
"bamboleggiante" che questi soggetti assumono. Si tratta di reazioni relativamente rare, che
compaiono per lo più in soggetti dotati di modesta intelligenza o con personalità premorbosa
di tipo isterico, che reagiscono a condizioni ambientali stressanti, o comunque vissute con
senso di pericolo o incapacità, con il ricorso a comportamenti apparentemente "folli", ovvero
che egli ritiene possano essere interpretati come tali, in maniera in parte conscia ed in parte
inconscia.
La sindrome ganseriana impone una diagnosi differenziale con la simulazione in quanto
restano dubbi circa il fatto che sia una simulazione cosciente o incosciente. È considerata di
difficile trattamento intramurario in quanto, per definizione, si risolve nella rimozione della
causa che l’ha prodotta.
Se la somiglianza con quadri più gravi (demenza o comunque deterioramento su base
organica da un lato e psicosi dall’altro) è solo superficiale, "se manca quell’uniformità
sintomatologica che riflette la globale, reale compromissione dello psichismo e che si traduce
in più gravi alterazioni del comportamento che tipicamente compaiono nelle condizioni alle
quali il Ganseriano tenta di assomigliare, il giudizio non potrà che essere negativo".
In altri termini, la sola ricorrenza dei sintomi più esteriori della Sindrome di Ganser, ovvero un
parziale disorientamento unito ad apparente perdita del patrimonio conoscitivo, non
costituisce condizione sufficiente ad integrare quei requisiti di particolare gravità richiesti dal
IV comma dell’articolo 275 codice di procedura penale.
I sintomi possono sparire d’improvviso quando il tribunale giunge ad un verdetto, anche se
questo è sfavorevole. Da sottolineare che la sindrome si presenta sempre dopo che il reato è
stato commesso, quindi la sua presenza non ha alcun effetto sul giudizio medico - legale circa
la responsabilità del soggetto e la sua imputabilità riferita al momento del fatto.
Sindrome da "prisonizzazione"
Una molteplicità di vissuti soggettivi sono alla base di quella che viene indicata, sul piano
nosografico, come sindrome da prisonizzazione, sindrome che si articola in una vasta gamma
di quadri psicopatologici che vanno dalla comune e breve reazione ansioso-depressiva sino
alla sindrome ganseriana.
Per Clemmer con il termine "prisonizzazione" si intende l’effetto globale dell’esperienza
carceraria sull’individuo. Indica l’assuefazione allo stile di vita, ai modi, ai costumi e alla
cultura generale. Quasi un percorso di adattamento progressivo alla comunità carceraria
culminante nell’identificazione più o meno completa con l’ambiente, con i suoi usi e costumi,
con le sue singolari abitudini, con la sua cultura, con il suo codice d’onore, con i suoi esempi
da imitare. Le esigenze di ordine, di controllo e di sicurezza inducono l’istituzione penitenziaria
a ricercare ed alimentare l’uniformità degli atteggiamenti e dei comportamenti dei detenuti,
attraverso l’imposizione di "valori" comuni. Questi "valori" altro non sono che i prodotti delle
finalità e delle funzioni carcerarie, indotti in vari modi, esplicitamente o implicitamente, tramite
un lento e spesso inconsapevole processo di assimilazione. I detenuti "acquistano familiarità
con i dogmi e i costumi esistenti nella comunità. Sebbene questi cambiamenti non avvengano
in tutti gli individui, tutti sono comunque soggetti a certe influenze che possiamo chiamare i
fattori universali della prisonizzazione.
L’accettazione di un ruolo inferiore, l’acquisizione di dati relativi all’organizzazione della
prigione, lo sviluppo di alcuni nuovi modi di mangiare, vestire, lavorare, dormire, l’adozione del
linguaggio locale, il riconoscimento che niente è dovuto all’ambiente per la soddisfazione dei
bisogni, e l’eventuale desiderio di un buon lavoro sono aspetti della prisonizzazione che
possono essere riscontrati in tutti i detenuti. Questi, comunque, non sono gli aspetti che ci
preoccupano di più. Le fasi della prisonizzazione che ci preoccupano di più sono le influenze
che fomentano o rendono più profonda la criminalità e l’antisocialità e che fanno del detenuto
un esponente caratteristico dell’ideologia criminale nella comunità carceraria".
Attraverso la prisonizzazione l’istituzione penitenziaria tende ad eliminare le differenze
individuali nei ristretti, assimilandoli e fagocitandoli". I bisogni, i desideri e le esigenze
personali del detenuto sono, cosi, annullati e sostituiti da altri eteroindotti e più coerenti con le
finalità dell’istituzione. D’altro canto però Clemmer afferma anche che ogni individuo sente
l’influenza dei cosiddetti fattori universali, ma non ogni individuo diventa prisonizzato per altri
aspetti della cultura. Se una prisonizzazione avviene o meno - continua Clemmer - dipende in
primo luogo dall’individuo stesso, vale adire dalla sua sensibilità dalla cultura che a sua volta
dipende soprattutto dal tipo di relazioni che aveva avuto prima dell’incarcerazione, vale adire
dalla sua personalità. Sul piano clinico Catanesi sostiene che la comune reazione d’ansia
iniziale, a volte con spunti fobici e diverse manifestazioni somatiche, nel tempo di 2-3 giorni,
viene sostituita dalla sindrome da prisonizzazione vera e propria oppure il soggetto, per lo più
nei casi di recidivi, comincia a muoversi lungo le direttive di un progressivo adattamento. In
realtà il soggetto detenuto vive sensazioni angosciose ed opprimenti, può presentare tratti
fobici, che possono trasformarsi in paura per la propria incolumità fisica. Solitamente questa
fase, definita di "iperestesia" agli stimoli ambientali, si esaurisce in 2-3 settimane. Si nota
come all’ansia siano correlati sintomi quali insonnia, inappetenza e un’incapacità di gestire la
propria emotività. Queste sono le manifestazioni più dolorose sulle quali è necessario
intervenire non solo farmacologicamente, ma soprattutto psicologicamente, poiché in questo
momento il soggetto, sentendosi perso, può andare incontro ad improvvisi gesti autolesivi.
Il disturbo si trasforma poi in depressione caratterizzata dal ritiro in se stessi, la paura è
sostituita dallo sconforto, sono presenti idee di rovina. L’evoluzione e la capacità di far fronte a
questa forma depressiva dipendono dalla personalità, dalle risorse individuali, dal rapporto
con i compagni di cella e dal sostegno della famiglia che il detenuto è in grado di avere. Un
ruolo predisponente rivestono anche l’età, il recidivismo criminale, il condizionamento
regionale.
Si può, in accordo con Fratelli, applicare la teoria di Goffman, relativa alle "istituzioni totali"
(usata dall’autore in riferimento agli ospedali psichiatrici e la loro interazione con i degenti
dell’istituzione stessa), anche ai detenuti, in quanto i reclusi sono sottoposti ad un processo di
"spoliazione del sé", separati come sono dal loro ambiente originario e da ogni altro elemento
costitutivo della loro identità.
Sostiene sempre Goffman che all’interno dell’istituzione si verificano delle vere e proprie
"esposizioni contaminanti" dovute alla soppressione della privacy ed all’imposizione di
condizioni ambientali sfavorevoli e fonti di malessere. Questo perché:
tutte le espressioni della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto il controllo della stessa
autorità;
ogni fase delle attività giornaliere del detenuto si svolge in mezzo a tanti altri detenuti che
sono trattati nella stessa maniera e a cui si richiede di fare la medesima cosa;
tutte le fasi sono strettamente correlate e calcolate nel tempo.
In questo sistema, in cui tutto è automatizzato, sono pochi i detenuti che reagiscono, che
riescono a resistere e a vincere l’ambiente; molti, invece, sono quelli che lo subiscono, In ogni
sistema penitenziario vi è purtroppo una duplice contraddizione di fondo duplice: si ha la
pretesa di insegnare al detenuto il modo di vivere e di comportarsi nel mondo libero e nello
stesso tempo lo si costringe a vivere nel carcere che di quel mondo è l’antitesi.
- “Carcere: La salute appesa a un filo”. Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione
(Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova) Alessandro Margara
Io partirei cercando di percorrere rapidamente questo tratto di riflessione. L’altro giorno in
televisione c’era una trasmissione che si intitolava: “È troppo facile uscire dal carcere”.
Ovviamente si parlava dei casi più recenti e la domanda è molto difficile. Io non credo che sia
molto facile tranne quando ci si accorge dei casi abbastanza difficili, in cui sembra appunto
che sia troppo facile, quello che invece su cui bisogna rifletterci é che è facile entrarci. Allora
parliamo di numeri: nel 1990 i detenuti erano 30.000 e le misure alternative erano 6.300; oggi i
detenuti sono 57.000 e le misure 50.000 e soprattutto ci sono in attesa di decisioni circa
70.000 richieste di misure alternative. Allora l’area della penalità attuale, dalle 36.300 del
1990, in 15 anni è passata a circa 180.000 unità. Per il gruppo di 57.000 detenuti, la
popolazione penitenziaria è rappresentata per i 2/3 da quella che possiamo chiamare
detenzione sociale, ovvero detenzione che fa riferimento a fenomeni sociali trattati
penalmente. Sapete che questo percorso è stato tracciato e seguito con molta determinazione
dagli USA, è quello che viene sintetizzato dal sociale al penale, quindi il penale è usato come
strumento di intervento sociale.
Dunque i 2/3 dei detenuti sono tossicodipendenti, immigrati e tutte le altre varie criticità: dalle
persone con problemi psichiatrici, alle persone con problemi di abbandono sociale, che
sostanzialmente interessa appunto i 2/3, 38.000 persone su 57.000. Perché insisto su
questo? Perché effettivamente riguarda un pochino ciò che sinteticamente potremmo
chiamare “l’esplosione del penale” che si è moltiplicato in 15 anni di 5 volte tanto. Questo
accade in conseguenza di una certa politica, che è quella che vi ho detto, che è sintetizzata
bene dall’espressione “dal sociale al penale”.
Ma che cosa comporta tutto questo? Comporta che abbiamo una popolazione penitenziaria in
cui il grosso è rappresentato da persone che hanno problemi di adattamento sociale, difficoltà,
disagi di carattere sociale che interessano appunto i tossicodipendenti, le altre aree di laicità e
gli stessi emigrati. Quindi facciamo una riflessione: entrare in carcere, come è stato dimostrato
nell’intervento precedente, è per la persona una fatica, una difficoltà.
Queste crescono, e questo è stato chiarito anche nell’intervento precedente, se le carceri
sono congestionate, difficili da gestire perché sono molto più affollate di quanto possano
accogliere. Inevitabilmente la gestione diventa più difficile, ogni servizio diventa più complicato
ed è ancor più difficile quando per molte di queste persone si aggiungono problemi di
carattere sociale e di disagio A questo punto arriviamo quindi a dire che per la collettività
intera è un problema difficile da affrontare, quindi c’è una grossa fetta del carcere che soffre
particolarmente e che non ha risposte adeguate. Durante questo periodo, nonostante che la
clientela interna aumentasse, le risorse d’aiuto a queste persone sono diminuite.
Tutto l’intervento che riguarda l’aiuto sanitario alle persone, non solo è diminuito – le risorse
sulla sanità sono diminuite di almeno il 30% in pochi anni – ma ciò è avvenuto mentre
l’aumento della popolazione è cresciuto, come già prima ho accennato. Alcune iniziative
legislative in corso non solo rischiano, ma hanno certamente come prospettiva quella di
rendere ancora più difficile la situazione. Il progetto Fini sulle dipendenze inevitabilmente
aumenterà l’area delle penalità; il progetto di legge che riguarda l’inasprimento della recidiva
idem. Dobbiamo renderci conto che al fondo di tutto c’è una direttrice di marcia che va verso
un’ulteriore esplosione della penalità, anziché il contenimento e la marcia indietro rispetto alla
stessa.
Bisogna comunque pensare a far fronte a questa situazione; l’impressione è che
l’Amministrazione penitenziaria non colga tutte le possibilità che, tutto sommato, le sono
offerte. In alcuni casi la regione sta assumendosi la spesa farmacologia, e quindi una parte
considerevole della spesa sanitaria, che viene sostenuta, attraverso convenzioni dirette tra
Amministrazione e regione. In Toscana attualmente sta partendo un’esperienza, già sostenuta
in precedenza con fondi dell’Amministrazione, per l’aiuto al disagio psichico, quindi mettendo
a disposizione personale apposito destinato alle situazioni di difficoltà delle persone. Questa
esperienza è sostenuta dai
fondi regionali. Io ho l’impressione che, se volesse,
l’Amministrazione potrebbe cogliere il momento per risolvere questo problema, che era stato
tracciato dalla legge del 1988 e dal decreto legislativo del 1999, e che prevedeva il passaggio
delle funzioni della sanità penitenziaria dal ministero di Giustizia, al sistema regionale. Esiste
anche una legge della Regione Toscana che sostiene la competenza definita dalla regione in
materia di sanità penitenziaria, e quindi una legge che regola direttamente il passaggio.
Non mi soffermo su queste cose, è un discorso leggermente complicato che comunque trova
nella competenza sanitaria delle regioni, riconosciuta dall’articolo 117 della Costituzione. La
possibilità di soluzione, quindi sarebbe ora di affrontare e di risolvere questo discorso che
viene strascicato da anni senza effettivamente concludersi. Ne verrebbero dei vantaggi sicuri?
Non lo so. Anche perché poi questo discorso del passaggio della sanità penitenziaria al
Servizio sanitario pubblico è sempre stato considerato un passaggio a costo zero, il che è
difficile da riconoscere e da accettare. Il problema in cui ci si imbatte non è solo quello del
morire di carcere, ma sopratutto del non vivere in carcere. La non vita che il carcere dà in
molte strutture in cui non ci sono risorse di lavoro, dove la vita si trascina in una cella tutt’altro
che vuota, ma sovraffollata. Con poche ore d’aria, che sono l’unica risposta che viene data;
con scarsi interventi di carattere generale e scarse possibilità.
Questa è la situazione che interessa una parte notevole della popolazione penitenziaria. Ecco
questa non vita è il fondo su cui ci si muove, è la patologia di fondo che bisognerebbe curare.
Assistere il disagio psichico, diciamo, aiutando coloro che non reggono una certa condizione,
e assistere la patologia. Bisognerebbe che la patologia venisse meno, che ci si interessasse
effettivamente di cambiare le cose, che ci fosse da lavorare, da muoversi, da vivere fuori dalla
cella. Queste dovrebbero essere risposte fondamentali. Il disagio psichico ha purtroppo dei
limiti e sono la possibilità che consiste solo nel parlarne, che è già qualcosa, nel prendere atto
di un contatto con le persone.
Dopo di che cosa succede? È stato citato prima il servizio dei Nuovi giunti, è quello che più o
meno si ispira a questo intervento per il disagio psichico di cui ho parlato e che attiva anche la
Regione Toscana nell’ambito dei suoi istituti. Ma che cosa può fare se praticamente il resto
rimane quello che è attualmente? Se gli operatori diagnosticano, danno delle indicazioni, ma
quelle indicazioni poi non possono trovare le modalità di attuazione? Se si dice che una
persona deve essere impegnata, deve fare qualcosa, avere delle prospettive e non si è in
grado né di dargli delle prospettive né il lavoro? Gli impegni, il discorso rimarrà
drammaticamente lo stesso.
Ecco, con qualche difficoltà io penso che si debba dire che si sta battendo contro un muro,
che è tutto abbastanza difficile, ma voglio anche dire che bisognerebbe affrontare alcuni
problemi cruciali che sono quelli del contenimento della penalità e del cambio della vita in
carcere. Per quanto riguarda il contenimento della penalità, un’ultima considerazione. È chiaro
che intervenire sul Codice penale è fondamentale, ma la risposta sul Codice penale riguarda
la criminalità effettiva, la criminalità che tradizionalmente è considerata delinquenza. Qui noi
abbiamo questo oggetto continuo di penalità che ci viene da leggi specifiche che riguardano
settori specifici: la punizione della dipendenza, la punizione della immigrazione, tutte queste
sono cose che richiedono o la riforma del Codice penale, si intende estesa anche a questa,
oppure il nodo maggiore che determina l’esplosione della penalità resta irrisolto.