Le malattie mentali Disciplina normativa: Ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, art.222 codice penale Nel caso di proscioglimento per infermità psichica (c.p.88), ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti (c.p.95), ovvero per sordomutismo (c.p.96), è sempre ordinato il ricovero dell’imputato in un manicomio giudiziario per un tempo non inferiore a due anni; salvo che si tratti di contravvenzioni o di delitti colposi o di altri delitti per i quali la legge stabilisce la pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore nel massimo a due anni, nei quali casi la sentenza di proscioglimento è comunicata all’Autorità di pubblica sicurezza . La durata minima del ricovero nel manicomio giudiziario è di dieci anni, se per il fatto commesso la legge stabilisce (la pena di morte o) l’ergastolo, ovvero di cinque, se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena della reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a dieci anni. Nel caso in cui la persona ricoverata in un manicomio giudiziario debba scontare una pena restrittiva della libertà personale, l’esecuzione di questa è differita fino a che perduri il ricovero nel manicomio. Le disposizioni di questo articolo si applicano anche ai minori degli anni quattordici o maggiori dei quattordici e minori dei diciotto, prosciolti per ragione di età, quando abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, trovandosi in alcuna delle condizioni indicate nella prima parte dell’articolo stesso. Problematiche di salute psichica Problematiche psichiche Nei detenuti sono stati riscontrati dei disturbi psicologici durante la detenzione, specie nella fase iniziale. È possibile suddividere i disturbi mentali in due grandi categorie: - disturbi da cause organiche: in questa tipologia di disturbi è riconoscibile un’alterazione anatomica come esito di cerebropatia asfittica neonatale, da trauma, per problematiche vascolari (arteriosclerosi cerebrale, ecc.), tossiche (etilismo cronico, ecc.), infettive (encefaliti e loro postumi). Queste alterazioni organiche determinano disabilità diverse a seconda della causa, della zona colpita, della gravità dell’evento, sono in genere associati a disturbi della percezione, del pensiero, dell’area affettivo-emozionale e del comportamento di varia gravità e genere. - disturbi da cause non organiche: in questi disturbi non è stata identificata una causa riferibile ad alterazione anatomica. Psicosi carcerarie Nelle istituzioni penitenziarie le manifestazioni psicopatologiche sono particolarmente frequenti. Esse possono essere la continuazione o l’esacerbazione e di disturbi psichici preesistenti, oppure la strutturazione di una risposta di tipo psicotico ad eventi particolarmente traumatizzanti dal punto di vista psicologico, quali l’entrata in carcere, l’attesa di giudizio, la previsione di condanna, la sentenza stessa. Consideriamo la "sindrome da ingresso in carcere", come una serie di disturbi non solo psichici, ma spesso psicosomatici, che compare tanto più frequentemente e pesantemente quanto più elevato è il grado di educazione, di sensibilità, di cultura dei soggetti detenuti. Il trauma da ingresso in carcere può diventare tanto più forte quanto maggiore è il divario fra il tenore di vita condotto in libertà e quello carcerario. La risposta del soggetto si modula in base alla sua struttura di personalità e alle abilità/capacità di adattamento in possesso, nonché all’ambiente-cella e ai compagni. La capacità di adattamento sarà superiore in un soggetto con esperienza di precedenti carcerazioni, o che riesca a trovare nel carcere punti di riferimento (detenuti che appartengono alla stessa banda criminale, alla malavita della stessa zona o più semplicemente a piccola delinquenza dello stesso paese o quartiere). È certo comunque che per molti soggetti alla prima detenzione, anche se per ciascuno in modo diverso, l’impatto con la struttura carceraria costituirà uno dei momenti più drammatici dell’esistenza. Vari tentativi di umanizzazione dell’impatto con il carcere e allo stesso tempo di prevenzione dei comportamenti a rischio sono stati fatti. Il più importante è sicuramente la predisposizione, attraverso la Circolare Amato del 30/12/1987 n. 3233/5683, del Servizio Nuovi Giunti effettuato dagli psicologi del carcere attraverso un colloquio con ogni singolo detenuto all’atto di ingresso in istituto; tale colloquio è volto a valutare la personalità del soggetto soprattutto al fine di prevenire eventuali gesti autolesivi. Inoltre sono state riscontrate alcune forme morbose psicopatologiche caratterizzate dal legame esistente fra la loro insorgenza e lo stato di detenzione, ed è a queste particolari patologie che gli studiosi si riferiscono quando parlano di psicosi carcerarie, cioè vere e proprie forme psicopatologiche, con sintomi caratteristici, che insorgono in individui in detenzione e che non si osservano in altri ambienti. In tale senso Calzolari definisce le psicosi come "quell’insieme di malattie che pongono l’individuo in una situazione, temporanea o permanente, di perdita più o meno totale della capacità di comprendere il significato della realtà in cui vive e di mantenere tra se e quella realtà un rapporto di sintonia sufficiente a salvaguardare un comportamento autonomo e responsabile. In base ai fattori eziopatogenetici possiamo suddividerle in due gruppi; le psicosi organiche (metaboliche, disendocrine, infettive, vascolari, degenerative, neoplastiche, posttraumatiche, genetiche) e le psicosi endogene (o funzionali), includenti le schizofrenie e i disturbi dell’umore". L’ambiente delle istituzioni carcerarie può favorire la "soluzione", in chiave di malattia psichiatrica, a volte, ad una condizione di vita particolarmente difficile, nella fattispecie a quella del detenuto: si sottolinea la deprivazione sensoriale, la mancanza di affetti, di rapporti sociali, che caratterizzano l’isolamento carcerario. La situazione di "punizione" si alimenta con il vissuto depressivo, che permea i rapporti personali, le vicende giudiziarie, le prospettive di condanna e la stessa struttura penitenziaria, sviluppando processi di autocolpevolizzazione che, a loro volta, sostengono quelle forme psicopatologiche che si ricollegano con i sentimenti di colpa (ad esempio nevrosi o psicosi depressive). La carcerazione, proprio per il suo essere un evento improvviso e destabilizzante, può favorire lo sviluppo del meccanismo della psicosi a causa dello scompenso di un io, già fragile, che non riesce più a mantenere più il suo già traballante equilibrio; può dare il via a forme di schizofrenia che si sviluppano in tutta la loro sintomatologia dopo l’arresto, oppure in forme border line che diventano chiaramente psicotiche. Concludendo si vuole ricordare che tutte queste problematiche vengono curate ed assistite all’interno del carcere dal personale medico, in particolare dallo psichiatra dell’istituto, in quanto non è prevista una misura alternativa, che non sia quella del ricovero in O.P.G.. Dal punto di vita umano queste sono situazioni drammatiche in quanto creano angoscia e disperazione nei soggetti detenuti e producono effetti dannosi sulla psiche di un individuo, ma non sono cosi "gravi" da concedere l’incompatibilità con il carcere. Sindrome di Ganser Continuando nell’analisi dei disturbi psichici, una peculiare forma reattiva alla carcerazione è la sindrome di Ganser (pseudo demenza psicogena o stato crepuscolare isterico). È un raro disturbo mentale che pur non presentandosi esclusivamente in carcere, si osserva generalmente in soggetti detenuti in attesa di giudizio. Consiste in una reazione isterica basata su di una motivazione inconscia del soggetto ad evitare la responsabilità. sforzandosi di apparire infermo di mente. Uno tra i sintomi psicopatologici più caratteristici è il fatto che i soggetti non sono capaci di rispondere alle domande più semplici che vengono loro rivolte. sebbene dalle risposte è evidente che hanno capito il significato della domanda e nelle loro risposte tradiscono una sconcertante mancanza di conoscenze che essi hanno posseduto e che ancora, senza ombra di dubbio, possiedono. Gli individui praticamente parlano fuori tema, a vanvera, trascurano la risposta corretta e ne danno un’altra simile, ma inesatta. Calcolano di traverso nell’esecuzione di calcoli semplici, mentre magari sono capaci di svolgere correttamente quelli più complessi e difficili. La sindrome di Ganser è caratterizzata da un comportamento bizzarro, da allucinazioni visive ed uditive, da deliri, da disorientamenti, da amnesia, da convulsioni isteriche, da marcata variabilità dell’umore. Il detenuto può fare cose strane durante la visita: si può spogliare ed indossare gli abiti al rovescio, chiedere un biglietto per il treno eccl2. Sul piano espressivo, non c’è dubbio che tale condizione si presenti con un quadro di una certa gravità, ovvero apparentemente si qualifichi per la ricorrenza di sensibili alterazioni delle funzioni psichiche (dell’orientamento, della memoria, dell’attenzione). "Ma si tratta di sintomatologia "pseudo demenziale", a metà strada cioè fra la simulazione e la reazione inconscia e con pressoché costante componente isterica a sostegno; può apparire psicotica ma la somiglianza è solo superficiale, a meno che naturalmente il quadro clinico non sia spia di una reale forma psicotica". La sintomatologia è contraddistinta dal puerilismo che si nota dall’aspetto recitativo o "bamboleggiante" che questi soggetti assumono. Si tratta di reazioni relativamente rare, che compaiono per lo più in soggetti dotati di modesta intelligenza o con personalità premorbosa di tipo isterico, che reagiscono a condizioni ambientali stressanti, o comunque vissute con senso di pericolo o incapacità, con il ricorso a comportamenti apparentemente "folli", ovvero che egli ritiene possano essere interpretati come tali, in maniera in parte conscia ed in parte inconscia. La sindrome ganseriana impone una diagnosi differenziale con la simulazione in quanto restano dubbi circa il fatto che sia una simulazione cosciente o incosciente. È considerata di difficile trattamento intramurario in quanto, per definizione, si risolve nella rimozione della causa che l’ha prodotta. Se la somiglianza con quadri più gravi (demenza o comunque deterioramento su base organica da un lato e psicosi dall’altro) è solo superficiale, "se manca quell’uniformità sintomatologica che riflette la globale, reale compromissione dello psichismo e che si traduce in più gravi alterazioni del comportamento che tipicamente compaiono nelle condizioni alle quali il Ganseriano tenta di assomigliare, il giudizio non potrà che essere negativo". In altri termini, la sola ricorrenza dei sintomi più esteriori della Sindrome di Ganser, ovvero un parziale disorientamento unito ad apparente perdita del patrimonio conoscitivo, non costituisce condizione sufficiente ad integrare quei requisiti di particolare gravità richiesti dal IV comma dell’articolo 275 codice di procedura penale. I sintomi possono sparire d’improvviso quando il tribunale giunge ad un verdetto, anche se questo è sfavorevole. Da sottolineare che la sindrome si presenta sempre dopo che il reato è stato commesso, quindi la sua presenza non ha alcun effetto sul giudizio medico - legale circa la responsabilità del soggetto e la sua imputabilità riferita al momento del fatto. Sindrome da "prisonizzazione" Una molteplicità di vissuti soggettivi sono alla base di quella che viene indicata, sul piano nosografico, come sindrome da prisonizzazione, sindrome che si articola in una vasta gamma di quadri psicopatologici che vanno dalla comune e breve reazione ansioso-depressiva sino alla sindrome ganseriana. Per Clemmer con il termine "prisonizzazione" si intende l’effetto globale dell’esperienza carceraria sull’individuo. Indica l’assuefazione allo stile di vita, ai modi, ai costumi e alla cultura generale. Quasi un percorso di adattamento progressivo alla comunità carceraria culminante nell’identificazione più o meno completa con l’ambiente, con i suoi usi e costumi, con le sue singolari abitudini, con la sua cultura, con il suo codice d’onore, con i suoi esempi da imitare. Le esigenze di ordine, di controllo e di sicurezza inducono l’istituzione penitenziaria a ricercare ed alimentare l’uniformità degli atteggiamenti e dei comportamenti dei detenuti, attraverso l’imposizione di "valori" comuni. Questi "valori" altro non sono che i prodotti delle finalità e delle funzioni carcerarie, indotti in vari modi, esplicitamente o implicitamente, tramite un lento e spesso inconsapevole processo di assimilazione. I detenuti "acquistano familiarità con i dogmi e i costumi esistenti nella comunità. Sebbene questi cambiamenti non avvengano in tutti gli individui, tutti sono comunque soggetti a certe influenze che possiamo chiamare i fattori universali della prisonizzazione. L’accettazione di un ruolo inferiore, l’acquisizione di dati relativi all’organizzazione della prigione, lo sviluppo di alcuni nuovi modi di mangiare, vestire, lavorare, dormire, l’adozione del linguaggio locale, il riconoscimento che niente è dovuto all’ambiente per la soddisfazione dei bisogni, e l’eventuale desiderio di un buon lavoro sono aspetti della prisonizzazione che possono essere riscontrati in tutti i detenuti. Questi, comunque, non sono gli aspetti che ci preoccupano di più. Le fasi della prisonizzazione che ci preoccupano di più sono le influenze che fomentano o rendono più profonda la criminalità e l’antisocialità e che fanno del detenuto un esponente caratteristico dell’ideologia criminale nella comunità carceraria". Attraverso la prisonizzazione l’istituzione penitenziaria tende ad eliminare le differenze individuali nei ristretti, assimilandoli e fagocitandoli". I bisogni, i desideri e le esigenze personali del detenuto sono, cosi, annullati e sostituiti da altri eteroindotti e più coerenti con le finalità dell’istituzione. D’altro canto però Clemmer afferma anche che ogni individuo sente l’influenza dei cosiddetti fattori universali, ma non ogni individuo diventa prisonizzato per altri aspetti della cultura. Se una prisonizzazione avviene o meno - continua Clemmer - dipende in primo luogo dall’individuo stesso, vale adire dalla sua sensibilità dalla cultura che a sua volta dipende soprattutto dal tipo di relazioni che aveva avuto prima dell’incarcerazione, vale adire dalla sua personalità. Sul piano clinico Catanesi sostiene che la comune reazione d’ansia iniziale, a volte con spunti fobici e diverse manifestazioni somatiche, nel tempo di 2-3 giorni, viene sostituita dalla sindrome da prisonizzazione vera e propria oppure il soggetto, per lo più nei casi di recidivi, comincia a muoversi lungo le direttive di un progressivo adattamento. In realtà il soggetto detenuto vive sensazioni angosciose ed opprimenti, può presentare tratti fobici, che possono trasformarsi in paura per la propria incolumità fisica. Solitamente questa fase, definita di "iperestesia" agli stimoli ambientali, si esaurisce in 2-3 settimane. Si nota come all’ansia siano correlati sintomi quali insonnia, inappetenza e un’incapacità di gestire la propria emotività. Queste sono le manifestazioni più dolorose sulle quali è necessario intervenire non solo farmacologicamente, ma soprattutto psicologicamente, poiché in questo momento il soggetto, sentendosi perso, può andare incontro ad improvvisi gesti autolesivi. Il disturbo si trasforma poi in depressione caratterizzata dal ritiro in se stessi, la paura è sostituita dallo sconforto, sono presenti idee di rovina. L’evoluzione e la capacità di far fronte a questa forma depressiva dipendono dalla personalità, dalle risorse individuali, dal rapporto con i compagni di cella e dal sostegno della famiglia che il detenuto è in grado di avere. Un ruolo predisponente rivestono anche l’età, il recidivismo criminale, il condizionamento regionale. Si può, in accordo con Fratelli, applicare la teoria di Goffman, relativa alle "istituzioni totali" (usata dall’autore in riferimento agli ospedali psichiatrici e la loro interazione con i degenti dell’istituzione stessa), anche ai detenuti, in quanto i reclusi sono sottoposti ad un processo di "spoliazione del sé", separati come sono dal loro ambiente originario e da ogni altro elemento costitutivo della loro identità. Sostiene sempre Goffman che all’interno dell’istituzione si verificano delle vere e proprie "esposizioni contaminanti" dovute alla soppressione della privacy ed all’imposizione di condizioni ambientali sfavorevoli e fonti di malessere. Questo perché: tutte le espressioni della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto il controllo della stessa autorità; ogni fase delle attività giornaliere del detenuto si svolge in mezzo a tanti altri detenuti che sono trattati nella stessa maniera e a cui si richiede di fare la medesima cosa; tutte le fasi sono strettamente correlate e calcolate nel tempo. In questo sistema, in cui tutto è automatizzato, sono pochi i detenuti che reagiscono, che riescono a resistere e a vincere l’ambiente; molti, invece, sono quelli che lo subiscono, In ogni sistema penitenziario vi è purtroppo una duplice contraddizione di fondo duplice: si ha la pretesa di insegnare al detenuto il modo di vivere e di comportarsi nel mondo libero e nello stesso tempo lo si costringe a vivere nel carcere che di quel mondo è l’antitesi. - “Carcere: La salute appesa a un filo”. Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione (Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova) Alessandro Margara Io partirei cercando di percorrere rapidamente questo tratto di riflessione. L’altro giorno in televisione c’era una trasmissione che si intitolava: “È troppo facile uscire dal carcere”. Ovviamente si parlava dei casi più recenti e la domanda è molto difficile. Io non credo che sia molto facile tranne quando ci si accorge dei casi abbastanza difficili, in cui sembra appunto che sia troppo facile, quello che invece su cui bisogna rifletterci é che è facile entrarci. Allora parliamo di numeri: nel 1990 i detenuti erano 30.000 e le misure alternative erano 6.300; oggi i detenuti sono 57.000 e le misure 50.000 e soprattutto ci sono in attesa di decisioni circa 70.000 richieste di misure alternative. Allora l’area della penalità attuale, dalle 36.300 del 1990, in 15 anni è passata a circa 180.000 unità. Per il gruppo di 57.000 detenuti, la popolazione penitenziaria è rappresentata per i 2/3 da quella che possiamo chiamare detenzione sociale, ovvero detenzione che fa riferimento a fenomeni sociali trattati penalmente. Sapete che questo percorso è stato tracciato e seguito con molta determinazione dagli USA, è quello che viene sintetizzato dal sociale al penale, quindi il penale è usato come strumento di intervento sociale. Dunque i 2/3 dei detenuti sono tossicodipendenti, immigrati e tutte le altre varie criticità: dalle persone con problemi psichiatrici, alle persone con problemi di abbandono sociale, che sostanzialmente interessa appunto i 2/3, 38.000 persone su 57.000. Perché insisto su questo? Perché effettivamente riguarda un pochino ciò che sinteticamente potremmo chiamare “l’esplosione del penale” che si è moltiplicato in 15 anni di 5 volte tanto. Questo accade in conseguenza di una certa politica, che è quella che vi ho detto, che è sintetizzata bene dall’espressione “dal sociale al penale”. Ma che cosa comporta tutto questo? Comporta che abbiamo una popolazione penitenziaria in cui il grosso è rappresentato da persone che hanno problemi di adattamento sociale, difficoltà, disagi di carattere sociale che interessano appunto i tossicodipendenti, le altre aree di laicità e gli stessi emigrati. Quindi facciamo una riflessione: entrare in carcere, come è stato dimostrato nell’intervento precedente, è per la persona una fatica, una difficoltà. Queste crescono, e questo è stato chiarito anche nell’intervento precedente, se le carceri sono congestionate, difficili da gestire perché sono molto più affollate di quanto possano accogliere. Inevitabilmente la gestione diventa più difficile, ogni servizio diventa più complicato ed è ancor più difficile quando per molte di queste persone si aggiungono problemi di carattere sociale e di disagio A questo punto arriviamo quindi a dire che per la collettività intera è un problema difficile da affrontare, quindi c’è una grossa fetta del carcere che soffre particolarmente e che non ha risposte adeguate. Durante questo periodo, nonostante che la clientela interna aumentasse, le risorse d’aiuto a queste persone sono diminuite. Tutto l’intervento che riguarda l’aiuto sanitario alle persone, non solo è diminuito – le risorse sulla sanità sono diminuite di almeno il 30% in pochi anni – ma ciò è avvenuto mentre l’aumento della popolazione è cresciuto, come già prima ho accennato. Alcune iniziative legislative in corso non solo rischiano, ma hanno certamente come prospettiva quella di rendere ancora più difficile la situazione. Il progetto Fini sulle dipendenze inevitabilmente aumenterà l’area delle penalità; il progetto di legge che riguarda l’inasprimento della recidiva idem. Dobbiamo renderci conto che al fondo di tutto c’è una direttrice di marcia che va verso un’ulteriore esplosione della penalità, anziché il contenimento e la marcia indietro rispetto alla stessa. Bisogna comunque pensare a far fronte a questa situazione; l’impressione è che l’Amministrazione penitenziaria non colga tutte le possibilità che, tutto sommato, le sono offerte. In alcuni casi la regione sta assumendosi la spesa farmacologia, e quindi una parte considerevole della spesa sanitaria, che viene sostenuta, attraverso convenzioni dirette tra Amministrazione e regione. In Toscana attualmente sta partendo un’esperienza, già sostenuta in precedenza con fondi dell’Amministrazione, per l’aiuto al disagio psichico, quindi mettendo a disposizione personale apposito destinato alle situazioni di difficoltà delle persone. Questa esperienza è sostenuta dai fondi regionali. Io ho l’impressione che, se volesse, l’Amministrazione potrebbe cogliere il momento per risolvere questo problema, che era stato tracciato dalla legge del 1988 e dal decreto legislativo del 1999, e che prevedeva il passaggio delle funzioni della sanità penitenziaria dal ministero di Giustizia, al sistema regionale. Esiste anche una legge della Regione Toscana che sostiene la competenza definita dalla regione in materia di sanità penitenziaria, e quindi una legge che regola direttamente il passaggio. Non mi soffermo su queste cose, è un discorso leggermente complicato che comunque trova nella competenza sanitaria delle regioni, riconosciuta dall’articolo 117 della Costituzione. La possibilità di soluzione, quindi sarebbe ora di affrontare e di risolvere questo discorso che viene strascicato da anni senza effettivamente concludersi. Ne verrebbero dei vantaggi sicuri? Non lo so. Anche perché poi questo discorso del passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario pubblico è sempre stato considerato un passaggio a costo zero, il che è difficile da riconoscere e da accettare. Il problema in cui ci si imbatte non è solo quello del morire di carcere, ma sopratutto del non vivere in carcere. La non vita che il carcere dà in molte strutture in cui non ci sono risorse di lavoro, dove la vita si trascina in una cella tutt’altro che vuota, ma sovraffollata. Con poche ore d’aria, che sono l’unica risposta che viene data; con scarsi interventi di carattere generale e scarse possibilità. Questa è la situazione che interessa una parte notevole della popolazione penitenziaria. Ecco questa non vita è il fondo su cui ci si muove, è la patologia di fondo che bisognerebbe curare. Assistere il disagio psichico, diciamo, aiutando coloro che non reggono una certa condizione, e assistere la patologia. Bisognerebbe che la patologia venisse meno, che ci si interessasse effettivamente di cambiare le cose, che ci fosse da lavorare, da muoversi, da vivere fuori dalla cella. Queste dovrebbero essere risposte fondamentali. Il disagio psichico ha purtroppo dei limiti e sono la possibilità che consiste solo nel parlarne, che è già qualcosa, nel prendere atto di un contatto con le persone. Dopo di che cosa succede? È stato citato prima il servizio dei Nuovi giunti, è quello che più o meno si ispira a questo intervento per il disagio psichico di cui ho parlato e che attiva anche la Regione Toscana nell’ambito dei suoi istituti. Ma che cosa può fare se praticamente il resto rimane quello che è attualmente? Se gli operatori diagnosticano, danno delle indicazioni, ma quelle indicazioni poi non possono trovare le modalità di attuazione? Se si dice che una persona deve essere impegnata, deve fare qualcosa, avere delle prospettive e non si è in grado né di dargli delle prospettive né il lavoro? Gli impegni, il discorso rimarrà drammaticamente lo stesso. Ecco, con qualche difficoltà io penso che si debba dire che si sta battendo contro un muro, che è tutto abbastanza difficile, ma voglio anche dire che bisognerebbe affrontare alcuni problemi cruciali che sono quelli del contenimento della penalità e del cambio della vita in carcere. Per quanto riguarda il contenimento della penalità, un’ultima considerazione. È chiaro che intervenire sul Codice penale è fondamentale, ma la risposta sul Codice penale riguarda la criminalità effettiva, la criminalità che tradizionalmente è considerata delinquenza. Qui noi abbiamo questo oggetto continuo di penalità che ci viene da leggi specifiche che riguardano settori specifici: la punizione della dipendenza, la punizione della immigrazione, tutte queste sono cose che richiedono o la riforma del Codice penale, si intende estesa anche a questa, oppure il nodo maggiore che determina l’esplosione della penalità resta irrisolto.