Carlo Cunegato – Ylenia D’Autilia – Michele Di Cintio (a cura di) SIGNIFICATO E DIGNITÀ DELL’UOMO NEL CONFRONTO INTERCULTURALE ARMANDO EDITORE SOMMARIO Prefazione: Fine della cultura europea? STEFANO POGGI 11 Introduzione MICHELE DI CINTIO 15 Ringraziamenti MICHELE DI CINTIO 23 Filosofia occidentale e pensiero orientale MARCELLO GHILARDI 27 Confucianesimo e potere nella Cina d’oggi MAURIZIO SCARPARI 46 In dialogo con la filosofia indiana BRUNO LO TURCO 65 Filosofia occidentale e cultura islamica CARMELA BAFFIONI 80 Filosofia occidentale e cultura pellirossa MICHELE DI CINTIO 99 Linguaggi letterari a confronto ADONE BRANDALISE 122 Filosofia occidentale e cultura africana PEDRO F. MIGUEL 133 Per un approccio interculturale della filosofia GIANGIORGIO PASQUALOTTO 165 Postfazione: Dalla filosofia della comparazione a un approccio interculturale alla filosofia: una sintesi YLENIA D’AUTILIA 180 Appendice: Le frontiere didattiche della “filosofia come comparazione” MICHELE LUCIVERO 192 Gli Autori 201 Prefazione FINE DELLA CULTURA EUROPEA? Stefano Poggi La storia d’Europa si avvia forse ad essere la storia di una civiltà in decadenza. Le divisioni e le molte differenze che l’hanno segnata non sembrano potere essere superate in tempi brevi. Il rapporto con l’altra grande realtà della civiltà occidentale – e cioè con gli Stati Uniti d’America – si è fatto complesso e talvolta teso, sullo sfondo di una crisi che si intreccia con un conflitto non dichiarato, ma acceso che, di quella crisi, è anche in buona misura una causa: il conflitto tra il dollaro e l’euro. Non sembrano questi i tempi perché si rifletta sul senso e sullo stesso destino della cultura europea, dinanzi all’urgenza di scelte dettate dalla necessità di fare fronte al soddisfacimento di bisogni più elementari. Eppure non c’è dubbio che il deficit di politica che continua a mostrare di pesare sulle indispensabili risposte economiche da dare dinanzi all’urgenza di tali scelte nasce da un disorientamento culturale tanto evidente quanto sottovalutato. Disorientamento culturale percepibile a vari livelli, sia generazionali sia legati al grado di preparazione scolastica e che presenta caratteri di maggiore o minore intensità all’interno degli stessi Paesi dell’Unione Europea. Va riconosciuto che oramai da quasi due decenni non poco è stato fatto per avviare – in primo luogo con la circolazione degli studenti universitari – processi di superamento delle particolarità nazionali volti a favorire la formazione di una coscienza comune ai cittadini dell’Unione che nasca dallo scambio diretto delle idee, delle visioni del mondo, delle pure e semplici esperienze personali. Coscienza comune che chiede di essere fondata su dati, su fatti, su prospettive, che non può nutrirsi di retorica e deve anzi guardare nella direzione da cui più può ricevere di stimoli, di 11 suggerimenti, di conoscenze su cui riflettere. Volgere lo sguardo nella direzione delle scienze e del loro enorme potenziale tecnologico è stato così inevitabile, è stato e continua ad essere necessario perché è solo su un terreno del genere che l’Europa può in tempi ragionevolmente brevi confrontarsi con le sfide che vengono da altre aree del pianeta. Molta della retorica che ha sempre falsato gli appelli alla tradizione umanistica di buona parte del continente è stata così ridimensionata. È però anche vero che ciò ha sì favorito processi di omogeneizzazione anche produttivi dal punto di vista economico, ma ha condotto nel contempo a un notevole indebolimento della tradizionale capacità delle culture europee non solo di confrontarsi l’una con l’altra, ma anche di aprirsi allo scambio – scambio spesso decisivo – con culture di più lontana provenienza. Quegli scambi con culture di più lontana provenienza sono stati resi possibili anche dalle vele e dai cannoni delle flotte europee. E le vele e i cannoni sono stati il frutto dello sviluppo scientifico e tecnico. Ciò è innegabile e non deve fare deflettere da una politica che sostenga fortemente la ricerca scientifica e le sue applicazioni. Dinanzi alla necessità di procedere in tal senso, inutile insistere nella retorica di un umanesimo europeo che in realtà ha fatto il suo tempo perché non è mai esistito. Molto meglio, invece che sulla ineffabilità dell’individuo, insistere sulla indispensabilità della ragione critica. All’indebolimento della grande tradizione della cultura europea nel campo delle arti, della letteratura, della filosofia è possibile porre rimedio solo in questi termini – e ciò vale innanzitutto per il nostro Paese. Ciò significa quindi non limitarsi a conservare il nostro passato, ma studiarlo, approfondirlo per comprendere quanto siano lunghi i tempi richiesti perché i confronti, gli scambi, anche i conflitti con altre culture, con altri modi di vedere il mondo e di concepire i rapporti tra gli uomini diano i loro frutti. Ma la consapevolezza della lunghezza di quei tempi e della fatica che richiede la maturazione di quei frutti non può sgomentare. Anche su scala planetaria, il Vecchio Continente ha ancora un ruolo primario da svolgere, a patto di dare voce a questa esigenza di rinnovamento culturale, a patto di assumerla come uno dei criteri cui ispirare le politiche scolastiche di tutti i gradi, studi universitari compresi. Sarebbe un grave errore se il Vecchio Continente fosse tentato di rinchiudersi – e ciò vale ancora una volta di più per il nostro Paese – nel cinismo di chi ritiene di avere troppo vissuto e avere troppo veduto per tornare ancora una 12 volta ad illudersi. Dobbiamo avere ben chiaro che per noi europei ha senso riporre le nostre speranze solo in una apertura culturale che aiuti al confronto e allo scambio con modalità che integrino quelle con cui lo sviluppo della ricerca scientifica mostra già da tempo di condurre al superamento di molte barriere, dando però nel contempo luogo a processi di omogeneizzazione intellettuale non sempre saldamente radicati nelle realtà sociali, economiche, politiche. Se ciò non accade, noi europei – e in prima linea, esposti a questo pericolo, ci troviamo noi italiani – siamo destinati a divenire i gestori di una Disneyland culturale, fatta di musei straordinari e di incantevoli paesaggi, ma condannata al culto di un passato che non passa, alla celebrazione di glorie distanti di secoli, senza il diritto a nutrire una qualche legittima ambizione per il futuro. 13 INTRODUZIONE Michele Di Cintio* Diffidate degli stupidi, che sono più pericolosi dei malvagi: questi qualche volta riposano, gli stupidi mai. Anatole France Chiunque rivolga uno sguardo non superficiale all’epoca storica attuale certamente rimarrà sconcertato e turbato dalla complessità dei problemi, degli interessi e dalle interconnessioni che ne costituiscono la trama profonda. Da un lato, il processo di globalizzazione con i suoi effetti positivi, ma, soprattutto, negativi quanto più si leghi a mere logiche finanziarie e di mercato, dall’altro la sempre più stretta interdipendenza di un pianeta, i cui macroproblemi (dalle crisi energetiche ed ambientali all’incremento demografico ed alle sempre più massicce migrazioni) appaiono di una grandezza tale da non poter più essere affrontati in termini locali, nazionali e nemmeno continentali. A ciò si aggiunga, poi, ed è forse la dimensione più urgente e pericolosa, un quadro legislativo e sociale, che si dibatte fra nuovi equilibri di forza economica e politica, radicalismi e fondamentalismi religiosi e, in particolare, miopi localismi politico-ideologici con un sempre maggior pericolo di deriva razzista. Un tale panorama offre, sostanzialmente, due ordini di soluzione: la prima opzione è quella teorizzata da Huntington nel 1997 con il suo testo Lo scontro delle civiltà, nel quale si sostiene la quasi ineluttabilità * Presidente della S.F.I. Sezione Vicentina. 15 di un conflitto tra Occidente e mondo islamico in particolare, ma, in definitiva, tra quello e tutte le altre realtà politico-economico-culturali. Quali possano essere gli esiti di una simile scelta non è facile preconizzarlo (compresa la sconfitta dell’Occidente), quel che è certo è che si tratterebbe di una catastrofe planetaria di proporzioni immani e che, quasi certamente, metterebbe in pericolo la stessa sopravvivenza della specie umana. La seconda prospettiva di analisi e di intervento sulla situazione storica attuale si sviluppa sul piano culturale prima ancora che politico-economico-sociale: si tratta di avviare un serio, concreto e continuativo dialogo interculturale. Il che presuppone, quale ineludibile conditio sine qua non, una conquista sul piano della coscienza storicoculturale, – ci si augura soprattutto da parte delle giovani generazioni, che saranno protagoniste di tali cambiamenti e sconvolgimenti – che consista nell’accettazione, convinta e motivata, della pluralità delle storie e, quindi, della loro pariteticità sul terreno del percorso temporale dell’umanità. Si vuol sottolineare, cioè, che, senza un consapevole rispetto dell’alterità e la comprensione che, a nessun livello, sussiste o può sussistere un primato dell’una o dell’altra civiltà sulle altre, non si può sviluppare alcun serio tentativo di dialogo interculturale. Ciò, ovviamente, non vuol dire affatto che si debba rinunciare alla propria tradizione, ma questa va conosciuta e rielaborata in un orizzonte di conoscenza storica globale e critica, che permetta di cogliere la diversità, la pluralità e la varietà di sentieri che l’umanità ha tracciato nello spazio e nel tempo: se, da un lato, non conosco, e ri-conosco, le mia storia, nella sua specificità e relatività appunto spazio-temporale, non sarò mai in grado, dall’altro, di conquistare la consapevolezza della legittimità delle altre storie e della loro reciprocità, in quanto a dignità e rispetto, nei confronti della mia. È essenziale aggiungere, inoltre, che forse la stessa categoria di civiltà, come sostiene Amartya Sen1, è concettualmente superata in quanto non sufficiente ad abbracciare la vastità e la complessità della caratterizzazione e delle determinazioni delle storie. D’altra parte è fondamentale ricordare quanto sia porosa e permeabile, nella duplice direzione dell’acquisizione e dell’elargizione la 1 16 Cfr. A. Sen, Identità e violenza, Laterza, Bari, 2005. struttura di quelle che chiamiamo civiltà: esse nascono, si sviluppano, decadono e scompaiono, ma sempre all’insegna della relazione, dell’interconnessione e della comunicazione con le altre sia in ordine sincronico che diacronico. Il problema, di sicuro, sta nell’ignoranza anche delle linee essenziali delle diverse storie, ancor più dei loro nessi e del loro intersecarsi, ignoranza, che, d’altro canto, si accompagna sempre all’arroganza ed alla presunzione o, talvolta, alla vera e propria ingenuità culturale – gli antichi Greci avrebbero parlato di idiotismo – che conduce ad identificare la propria esperienza ed il proprio status storico con la condizione assoluta ed atemporale dell’umanità in quanto tale. Una simile follia autorappresentativa è, purtroppo, comunissima ed è l’infausta matrice dei localismi, dei particolarismi, dei razzismi fino a raggiungere il proprio acme, quando vi si accompagni la cieca fede religiosa, nei fanatismi e nei fondamentalismi. L’ignoranza genera la paura, che è sempre dell’ignoto: da ciò che noto e mi intimorisce, invece, cerco di difendermi ed attivo strategie di contrasto, mentre la paura genera l’odio; nel contesto storico attuale non credo proprio che ci si possa permettere di perseguire questa via e di attivare una conflittualità, i cui confini sono inimmaginabili nella loro pericolosità e tragicità. Resta, quindi, da intraprendere l’impervio cammino della costruzione di un valido dialogo interculturale, il cui fondamento non può che essere lo sforzo, onesto e consapevole, di mettere in gioco tutto il nostro modo d’essere, tutto il nostro patrimonio culturale, con il coraggio di assumersi la responsabilità dei propri errori (ci si riferisce, evidentemente, a quelle responsabilità storiche della nostra civiltà, che, comunque, ineriscono la nostra esistenzialità storica, pur oltrepassando la specificità individuale): d’altronde, se l’uomo è intreccio costante e dinamico di relazioni, come sosteneva Confucio e non solo, il concetto stesso di individualità va rivisto. La consapevolezza della nostra ineludibile storicità (questa sì universale!) ci pone nella condizione di superare la mitologia (pressoché tutta occidentale!) dell’individualità per addivenire alla più complessa, ma proficua, concezione della costitutiva interrelazionalità dell’esistere umano (cui forse possono anche condurre alcune teorie filosofiche europee incentrate sull’intersoggettività). Senza questa prospettiva di coscienza globale e critica, non si riesce a pervenire alla interiorizzazione non solo teorica, ma anche etico17 esistenziale, della pluralità degli orizzonti, di cui ciascun uomo (sempre nella dimensione interrelazionale!) è portatore, così come ci spiega Gadamer2. Egli, inoltre, sottolinea come tali orizzonti mutino, ma soltanto per coloro che si muovono: ed è ovvio che non si tratti solo di un movimento fisico, bensì, prima ancora, mentale. Solo ampliando il più possibile i nostri orizzonti di conoscenza e di esperienza potremo affrontare, con cognizione di causa, i problemi del nostro mondo, così come dare senso e valore al nostro itinerario esistenziale. Ma c’è ancora di più: l’autentica capacità di confrontarsi con l’altro da sé, di mettersi in discussione ab imo si concretizza in un disvelamento degli elementi costitutivi più profondi e fondanti del nostro costituirci come entità collettiva storicamente determinata (che forse, possiamo ancora tentare di denominare come civiltà o cultura, ecc.), che non è mai realizzabile nel rispecchiamento di sé, in un atto, pur approfondito e sistematico, di autoriflessione. Soltanto lo stare di fronte all’altro, quale concretizzazione storica della diversità in una miriade di sfaccettature, permetterà di inquadrare, di evidenziare e di conoscere ciò che più profondamente mi caratterizza, ma che proprio per questo non si disvela, se rimango chiuso nell’ambito dell’autoriflessione, cioè nel contesto delle mie categorie, dei miei quadri di riferimento culturali, delle mie costruzioni linguistico-interpretative della realtà, delle mie esperienze emozionali, estetiche, etiche e così via. Venendo dalla Grecia, in quanto filosofo, e passando per la Cina, ho incontrato il punto di scarto, o di distacco, per rimettere in prospettiva il pensiero che ci appartiene, qui in Europa. Come noto, infatti, una delle cose più difficili da fare nella vita è di prendere le distanze nel proprio spirito. La Cina, appunto, ci permette di prendere le distanze dal pensiero da cui proveniamo, di rompere con le sue filiazioni, di interrogarlo dal di fuori. In altre parole, di interrogarlo nelle sue evidenze, in ciò che costituisce il suo impensato. […] La Cina ci fornisce così una sorta di punto di appoggio esterno, operante in maniera obliqua, per cercare di risalire nell’impensato del nostro pensiero, per ritornare su ciò che veicoliamo nel nostro spirito come qualcosa che va da sé, ma che una volta riscoperto a partire dal fuori 2 18 Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, Fabbri Editori, Milano, 1972. cinese viene percepito sotto una diversa luce, stupefacente, affascinante, spingendoci nuovamente a pensare3. L’intuizione, così acuta e feconda di Jullien, sulla possibilità di pensare l’impensato ma solo attraverso il fuori di una cultura profondamente altra rispetto alla nostra, è decisamente funzionale alla costruzione del dialogo interculturale; ne costituisce probabilmente la premessa indispensabile. Tuttavia occorrono impegno e volontà di mettersi in discussione, di scrutare nell’abisso del nostro impensato, che, a mio avviso, possono scaturire sia dalla consapevolezza della gravità della situazione storica attuale e dalla necessità di trovarvi delle soluzioni adeguate e responsabili sia, come già si accennava, dallo sviluppo di una coscienza storica globale e critica, che ponga su un piano di pariteticità e di simmetria di considerazione e di rispetto l’approccio con l’altro. In altri termini, la sfida dell’indagine dell’impensato, possibile solo attraverso il confronto con il fuori, con il totalmente altro, passa per le forche caudine di un assunzione di responsabilità etico-storico-teorica, intesa, in primis, come azzeramento, proprio sul piano della costruzione dell’immagine di sé, che inerisce alla dimensione storica di un soggetto e della collettività civile nel suo insieme, di qualsiasi presunzione di primato di qualsivoglia superiorità di una civiltà o di una cultura sull’altra. A questo proposito vorrei ricordare un passo illuminante di Giuseppe Semerari: Nell’antropologia contemporanea si è compiuta un’operazione in qualche modo analoga a quella della Scienza Nuova mercé la rimozione di un altro pregiudizio, che potrebbe dirsi “la boria delle civiltà”, consistente nel fissare come regola di giudizio una data civiltà e nel lasciare cadere sotto il titolo della “barbarie” tutto ciò che si presenta con caratteri difformi o antitetici rispetto alla civiltà assunta come regola. Il termine “civiltà” acquista, così, un rigido significato normativo e tra ciò che viene ritenuto autenticamente civile e ciò che viene ritenuto barbarie si fa correre una netta linea divisoria sia in senso diacronico, per cui le civiltà anteriori a quella presa come norma sono necessariamente considerate “inferiori”, 3 F. Jullien, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente, Laterza, Bari, 2006, pp. 10-11. 19 “primitive” o “selvagge”, sia in senso sincronico, perché restano necessariamente svalutate o disconosciute o rifiutate le civiltà diverse da quella privilegiata, sebbene con essa coesistenti. […] Grazie alla sua conoscenza relativistica, l’antropologia contemporanea, da una parte, respinge i concetti di civiltà assoluta e barbarie assoluta, riconducibili a posizioni-limite del concreto processo di costituzione, assestamento, svolgimento ed esaurimento delle civiltà – tutte più o meno “civili” e tutte più o meno “barbare” – e, dall’altra, promuove un significato il più neutro possibile e il meno aprioristicamente valutativo di civiltà. Si passa dal significato esclusivamente e prevalentemente normativo a un significato essenzialmente descrittivo, col quale si cerca di ottenere il più alto grado di obiettività e di comprendere il contenuto di civiltà senza uscire dal suo ambito e senza anticipare all’analisi un arbitrario e precostituito quadro di valutazione. […] Se non si deve più cadere nella boria delle civiltà, non ci si può nemmeno più accontentare di una descrittiva che si arresti alla giustapposizione agnostica delle civiltà, ciascuna fatta dogma a se stessa. […] Consegue da ciò che oggi si richiede a fondamento della critica della civiltà un criterio valutativo atto a evitare le opposte aporie del dogmatismo proprio della boria della civiltà e dell’agnosticismo scaturente dal relativismo. Criterio di tale efficacia è da ritenere quello di cultura, il cui concetto sovente, e soprattutto, in campo etno-sociologico, viene adoperato equivocamente e scambiato con il concetto di civiltà. […] Probabilmente la più efficace espressione dell’idea di cultura la suggeriscono alcune proposizioni del paragrafo 83 della Critica del Giudizio – là Kant intende per cultura «la produzione, in un essere ragionevole, della capacità di proporsi fini arbitrari in generale (e quindi nella sua libertà). Sicché la cultura soltanto può essere lo scopo ultimo che la natura abbia ragione di porre relativamente alla specie umana». […] Interpretando liberamente lo schema kantiano, si trova che, in quanto risiede nel processo per cui ciascun uomo, sul presupposto della esistenza oggettiva di una civiltà, acquista la capacità di progettare fini, scegliendoli da sé e in accordo con la ragione, la cultura fornisce con se stessa il criterio di valutazione della civiltà4. 4 20 G. Semerari, La lotta per la scienza, Silva, Milano, 1965, pp. 200-207. Ne consegue che, se la concezione normativa delle civiltà, basata appunto sulla boria della civiltà, è a fondamento di discriminazioni, violenze, ecc., che hanno ampliamente caratterizzato la storia, specie negli ultimi cinquecento anni, dall’altro lato un’idea puramente descrittiva e relativistica delle civiltà non permette alcuna possibilità valutativa nell’ambito del loro confronto: si cade, quindi, in ciò che definirei l’anarchismo delle civiltà. Tale concezione è forse meno nociva e pericolosa di quella normativa, ma è altrettanto sterile. Rifacendosi, invece, al concetto di cultura in senso kantiano, come suggerisce Semerari, si può individuare un terreno di confronto, di interazione e di elaborazione comune decisamente valido. La riflessione incentrata sulla cultura, intesa come capacità umana di scegliere i propri fini generali e pertanto di concretizzare così la propria libertà, quale piena autonomia, non può non accomunare in uno stesso orizzonte tematico-problematico anche le civiltà più diverse e lontane fra loro: infatti non vi può essere alcun contesto, che si possa definire civile, il quale non si ponga il problema e non lo consideri, al contempo, il proprio fondamento, di quale possa essere (e di come lo si possa rappresentare) il significato più profondo dell’essere uomo e di quali siano le caratteristiche che rendono l’agire dei soggetti storici degno di tale denominazione. È questa la motivazione principale del titolo di questo convegno, il cui fine sta nel compiere un primo passo, ma di per sé molto significativo, nella direzione di un confronto interculturale, che si ponga nella corretta prospettiva del reciproco rispetto e della pariteticità della considerazione, in termini storici, di ogni civiltà. Le differenze, da questo punto di vista, assurgono alla dimensione di elemento di arricchimento e di positività nel proseguire un percorso interrelazionale ed interattivo, che superi, finalmente, ogni pretesa di superiorità degli uni sugli altri con le conseguenti strumentalizzazioni, ecc. Certo non è facile destratificare una massiccia concrezione di pregiudizi, di stereotipi, che si è venuta accumulando nel tempo e che spesso coincide con sopraffazioni e violenze perpetrate da una civiltà, in particolare quella occidentale, su altre. L’aver voluto includere, ad esempio, in questo tentativo di riflessione e di confronto anche la voce della civiltà dei pellirosse nordamericani o quella africana (fermo restando che non si vuol mai generalizzare o sminuire realtà culturali molto variegate e complesse!) è significativo di un consapevole intendimento, finalizzato alla 21 rimozione di posizioni teoriche pregiudiziali, molto diffuse a livello di collettività sociale, ed ancora presenti in ambiti culturali più qualificati. Nel caso della cultura dei pellirosse è evidente che questa, in linea di massima, va ancora affrancata dall’etichetta di realtà selvaggia e primitiva con l’aggravante che tale ipoteca di significato è stata posta anche da uno strumento di divulgazione e di comunicazione di immensa efficacia quale il cinema (sebbene negli ultimi decenni vi sia stata una inversione di tendenza nella considerazione delle vicende del genocidio dei pellirosse); per quanto concerne, invece, la storia africana e le conoscenze relative alle molteplici culture di quel continente, con particolare riguardo per il contesto subsahariano, mi duole ancora ripetere, come è avvenuto in altri miei scritti, che non si sono compiuti molti passi in avanti rispetto alla storiografia romana classica, che risolveva il problema con il suo hic sunt leones. Una sottolineatura è necessaria riguardo alle scelte organizzative del convegno: questo è stato indirizzato, in primis, agli studenti delle ultime classi dei Licei della città di Schio e di altre vicine, compresa Vicenza; ciò non ha impedito la partecipazione, ampia, di docenti e di un pubblico eterogeneo, tuttavia il fine era quello di coinvolgere con una partecipazione, la più motivante possibile, i giovani. Le ragioni sono varie: sia, ed è ovvio, perché si tratta di quella generazione che costituisce l’immediato futuro della nostra società e della nostra civiltà, alla quale spetta, quindi, di diritto la massima cura ed attenzione, sia per supplire, sebbene in piccola parte, ad una carenza profonda nella manualistica storica e filosofica delle nostre scuole, così come nell’impostazione culturale dei nostri percorsi di studi (e sarebbe ora che su questo si aprisse un attento e continuativo dibattito!) ed infine perché si è convinti che la curiosità, l’entusiasmo e l’impegno dei giovani abbiano soltanto bisogno di essere adeguatamente stimolati e, soprattutto, motivati seriamente attraverso scelte culturali sensibili e qualificate. Non è stata casuale, perciò, la scelta di approfondire le tematiche affrontate al mattino nelle relazioni con i laboratori pomeridiani, che hanno visto una partecipazione, specie da parte degli studenti, altamente motivata, per non dire entusiastica, ad ennesima dimostrazione di quanto la nostra visione della gioventù attuale sia inficiata di pregiudizi e di stereotipi. Ne è risultata un’atmosfera di compartecipazione e di interazione eccezionale, che ha dimostrato, ancora una volta, quanto avesse ragione Platone quando nel Fedro affermava che «per insegnare ci vuole eros». 22