CITAZIONI - per “esprimere il mondo”

LIBRO ROSSO – ELEMENTI IN CORSO D’OPERA
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TEORETICHE
1. ARCHIVIO ... libro rosso – 2004/… – libro aperto
“…all’inizio sto nelle pratiche di cui nulla so, le esercito, nella fiduciosa speranza che
siano efficaci; poi, però, ne faccio l’inventario, mi tiro da parte, le guardo, cerco di sapere
queste stesse pratiche.” (Carlo Sini – archivio spinosa)
il nostro “ambiente”
URBANICITÀ È IL CONCETTO ADDENSANTE LE ASPETTATIVE TOTALI E ULTIME
DELL’UOMO
“URBANO”,
CIOÈ CIVILE E SOCIALE, CIOÈ CONTEMPORANEO E
STORICIZZATO, DOPO IL VENTESIMO SECOLO E LE SUE PURGHE ED OLOCAUSTI.
DOPO LA “FINE DELLA STORIA”, DOPO LA DECOSTRUZIONE, DOPO LA RETE, DOPO
LA FINE DELLA PRODUZIONE MATERIALE, DOPO LE
“FASI”
DEL TERZIARIO, DOPO
L’IMMIGRAZIONE E L’EMIGRAZIONE, DOPO L’ESPLOSIONE DEMOGRAFICA E LA
CONTRAZIONE, DOPO LA CINA, … . DOPO TUTTO QUELLO CHE È STATO IN QUANTO
RICONOSCIUTO, O ANCORA DA RICONOSCERE CERTO; MA SEMPRE CON
ATTEGGIAMENTO OPERATIVO E POSITIVO, COME DOVERE VERSO TUTTI E SE STESSI.
È SPERANZA DI CIVILTÀ COSCIENTE E SCIENTE, È RICONOSCIMENTO DEI FALLIMENTI
E CONTEMPORANEAMENTE ASSUNZIONE DI RESPONSABILITÀ, È APPARTENENZA AL
TEMPO ED ALLO SPAZIO/LUOGO TRA I TEMPI ED I LUOGHI, È IL RIFIUTO
DELL’AVANGUARDIA COME RIFIUTO DEL “PROPRIO” TEMPO E DEI PROPRI LIMITI E
CONSEGUENTE RIFIUTO DI RENDERSI UTILI, È L’IMPEGNO CONTRO IL DISIMPEGNO.
URBANICITÀ SIGNIFICA RIFIUTO DELLO PSICOLOGISMO UNIVERSALIZZANTE E
APPROPRIAZIONE DI SENSO DELLA
“PROPRIA”
VITA TRA GLI ALTRI. IN QUESTI
TERMINI LA CITTÀ NON È UN’INVENZIONE STORICA, È NELL’UOMO E NELLE SUE
COSTRUZIONI MENTALI, ANCOR PRIMA CHE FISICHE, E LA CITTÀ OGGI PRENDE
SENSO IN QUANTO URBANICISTICA, CIOÈ
“NON
DEMOCRATICA
…
SOLIDALE
…,
TUTTI SLOGAN” MA, DOPO L’AUTORICONOSCIMENTO DI INEVITABILITÀ
ESISTENZIALE E STORICA, IN QUANTO COSCIENTE DI SÈ PER IL PASSATO E PER IL
PRESENTE E CON GLI OCCHI A INSEGUIRE UN FUTURO. LA CITTÀ PUÒ ESSERE
ALLORA VIVACE/VIVIBILE, PROBLEMATICA/ACCETTATA, VIOLENTA/COSCIENTE,
RIFIUTATA/SPERATA,
…,
PERCHÉ È DEI SUOI
“CITTADINI
URBANI” LA COSCIENZA
PROBLEMATICA DELLA CITTÀ VIVENTE E DATRICE DI SPERANZA
(NUOVE
STAZIONI E
NUOVI CINEMA – NUOVE METROPOLITANE E NUOVI QUARTIERI - NUOVI IMMIGRATI E
NUOVI LAVORI – NUOVE LOTTE E NUOVE SPERANZE - NUOVI PROBLEMI E NUOVE
SOLUZIONI
-
NUOVE SFIDE E NUOVI UOMINI
- … “NUOVI
E NON RINNOVATI”). SI
RICONOSCE QUI CHE L’ESSERE DELLA CITTÀ È IL NUOVO COSTANTE COME
ATTEGGIAMENTO OPERATIVO, E QUINDI POLITICA, VERSO UN PRESUNTO
MIGLIORAMENTO CHE SOLO NELL’ANNUNCIARSI E POI NEL FARSI GENERA LA
SPERANZA NECESSARIA PER VIVERE E SOPPORTARE LE DELUSIONI E GLI ERRORI.
VALE
SEMPRE CHE “Per poter vivere assai più che di mete precise abbiamo bisogno di una visione” (Elias Canetti),
MA LA VISIONE IN QUESTIONE NON È, COME MOLTI FRAINTENDONO, LA VISIONE
SINGOLA INDIVIDUALE E PSCICOLOGISTICAMENTE AUTISTICA, NON È LA MIA FEDE O
LE FEDI DI OGNUNO, NON È LA MIA MISSIONE DI VITA O IL BISOGNO PERSONALE DI
CREDERE O SPERARE IN QUALCOSA, È QUELLA COSA CHE FA LE CIVILTÀ, NON
RIESCO A DESCRIVERLA MA LA SENTO, SENTO LE TENSIONI E LE SPERANZE CHE
GENERANO, E COME ME GLI ALTRI. CHE CI VOGLIA PER FORZA UNA GUERRA PER
RIAVERE LE SPERANZE DEL DOPOGUERRA?, UNA RIVOLUZIONE PER GENERARE
NUOVE SPERANZE E TENSIONI?, E QUINDI LA CADUTA ALL’INFERNO E IL DELIRIO
DEL MALE UMANO PER INNESCARE IL BUONO E IL BELLO DEGLI UOMINI?, NON È
COSÌ, NONOSTANTE LE TEORIE IMPERANTI. CREDO SIA
“SUFFICIENTE”
ELABORARE
E RIELABORARE LA GUERRA E IL MALE, È IL RICONOSCIMENTO DI CUI PARLAVO
ALL’INIZIO. MA CIÒ SIGNIFICA RICONOSCERE ERRORI PROPRI E DI TUTTI E GIORNO
DOPO GIORNO RICORDARE L’OLOCAUSTO E I GULAG, …, NON TUTTI SONO DISPOSTI
EVIDENTEMENTE, MA PERCHÉ NON SONO PRE-DISPOSTI, E PENSO ALLA SCUOLA E
AI NOSTRI FIGLI. DOBBIAMO DARE LORO LA COSCIENZA DELLA STORIA E SPERANZA
DEL FUTURO, AL DI LÀ DEL NOSTRO PESSIMISMO E DELLE NOSTRE VOGLIE,
DOBBIAMO KANTIANAMENTE DOBBIAMO. PUNTO.
(01.05)
GIANLUCA BRINI
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Mies van der Rohe dall’interpretazione di Massimo Cacciari
pubblicato gentilmente da Luigi Prestinenza sulla sua OTTIMA PresS/Tletter
Quando Kahn insiste su “ciò che le cose vogliono essere”, la mia preoccupazione è tutta volta a salvare la “libera”
volontà umana (quella particolare del singolo non del superuomo), cioè le cose vogliono essere per me una cosa diversa
da quello che vogliono essere per te e per lui; estremizzando il concetto di libertà a fronte dell’estremizzazione del
concetto dell’uomo come puro ascoltatore ricevente (“la verità è nell’essere e gli enti ne discendono: le cose vengono a
noi come sono”, in sintesi Heidegger - “siamo noi che andiamo alle cose”, in sintesi i neostoici). Parlo di estremi
proprio perché in vero le due posizioni sono molto più complesse e articolate di come possano apparire (e come pare
dimostrare la stessa evoluzione personale di Heidegger...)
L’intenzionalità pura non può risiedere che in un pensiero non solo antimetafisico ed antiontologico, ma anche
antiesistenzialista, in un pensiero o nichilista o caratterizzato dall’etica dell’eroismo come in Nietzsche ed anche in
Marco Aurelio; tuttavia, come non far precedere a tutto questo quel sentimento-volontà di libertà che fa l’uomo?
In prima istanza dirò, è semplificazione eccessiva ?, che una cosa è dire che l’agente può - anzi deve - scegliere,
che l’agente può - anzi deve - porsi fini; altro è accettare - anzi raggiungerne coscienza - che la verità non può
essere scelta e voluta (se non all’interno di una scelta religiosa cristiana, si dirà, ma nemmen questo è vero se
si ricorda che essa è soprattutto accettazione delle scelte della Verità), perché l’unico modo possibile di
concepire la scelta della verità, posto che esista “la verità”, è di concepire una sola scelta come “la scelta”, la
conoscenza della verità appannaggio di una piuttosto che di un’altra scelta; e ciò semplicemente non lo
possiamo accettare se avanti a tutto mettiamo libertà.
La verità perciò è aintenzionale quanto è intenzionale la sua ricerca , concetto ben diverso da sceltaconoscenza, della stessa. E per scendere ora ai piani bassi dei temi architettonici, che pur ci attengono, dirò
che così mi appare dimostrato come non si possa dare per esempio “la costruzione logica dell’architettura”,
perché, anche ammettendo (e io non lo ammetto) l’esistenza dell’architettura in sé, non sarebbe comunque data
la scelta-conoscenza dell’architettura (“una-unica-indivisibile”), ma solo la si potrebbe ricercare ottenendo
semmai quelle verità singole e parziali, sincroniche e localizzate, che sono le singole architetture.
Ma, pure, come non precipitare nel formalismo autopoietico e autistico, nel quale infatti, oggi, ci dicono siamo?
Cercherò di pormi dunque in ascolto di un altro sistema di critica e negazione dell’intenzionalità che sta nell’architettura
(altro ma non diverso rispetto a quello Kahniano, invero un po’ semplificato): è quanto con forza e stupefacente densità
emerge dall’articolo di Massimo Cacciari “Res aedificatoria. Il classico di Mies van der Rohe”, su “Paradosso” n. 9
del 1994 (abbiamo la fortuna che queste cose “non datano”):
“Formalismo significa porre la Forma come proprio fine: progettare la forma come télos del proprio fare. Formalismo
significa che l’agente si dà come proprio fine il conseguimento della forma. E’ il paradigma complessivo di questo fare o
produrre che Mies intende sottoporre a una critica radicale. L’accento non batte sul termine forma in quanto tale - ma sul
fatto che tale forma è posta dall’autore stesso come autonomo fine della propria opera. E cioè che il fine dell’opera
appare, nel formalismo conseguente, nient’altro che un’intenzione dell’autore. Nel formalismo si opera come se
(carattere convenzionale-funzionale di ogni formalismo e del principio stesso dell’ornamento!) il fine dell’opera potesse
essere veramente concepito come posto-prodotto dall’agente stesso: come una sua intenzione, null’altro che una sua
forma. Formalismo è pertanto intendere la forma dell’opera intenzionalmente, come qualcosa di intenzionato, qualcosa
di determinato dall’intenzione, di creato dalla libera intenzionalità del poietès. Insomma formalismo non significa produrre
questa o quella forma, non ha il significato primario ed essenziale di produrre forme non rappresentative delle esigenze
e delle decisioni della vita contemporanea - formalismo significa fare del télos dell’opera un prodotto dell’intenzione. Qui
sta la radicalità e la filosofica paradossalità della critica miesiana. ...E’ teoricamente identico porre come fine la pura
forma o porre come fine la perfetta adaequatio dell’opera alla forma tecnico-economica dei contemporanei rapporti
sociali. I due procedimenti presuppongono entrambi che il fine sia il semplice risultato dell’intenzionalità dell’agente che l’opera non sia altro che il prodotto di tale intenzionalità - che l’opera, in quanto fine-télos da raggiungere, dipenda
esclusivamente dal soggetto che la produce; più in generale ancora: che soggetto dell’opera non sia che l’agente. Per
Mies, invece, il fine non è posto, non può essere concepito come prodotto dell’intenzione. La verità dell’opera non può
essere intesa come manifestazione dell’intenzione dell’agente. Ecco il peso dell’affermazione di Mies : “unbedingte
Wahrhaftigkeit” - verità incondizionata può soltanto essere intesa come verità a-intenzionale. Carattere a-intenzionale
della verità...”
La “verità” dell’opera, che per me è quello che l’opera è per gli uomini, quindi tante verità quanti sono gli uomini,
non è, perciò, né quella che è per l’autore né una presunta verità data. Quindi inutile rincorrere un senso della
progettazione?, certo no, se l’intenzione dell’autore è un’intenzione sociale, cioè sta tra i problemi degli uomini e
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pretende di affrontarli, tutti, non darne “la soluzione”, e non pretende nemmeno di dare agli uomini quello che vogliono (e
torniamo ad Heidegger ed al facile sentimentalismo delle posizioni fenomenologiche).
In primo luogo, sulla libera intenzionalità del poietès: sostengo la libera (libera con tutto il carico di quello che siamo, non
liberi dai condizionamenti culturali, non liberi dai cromosomi che ci troviamo, …, cioè liberi di pensare ma dove siamo
come siamo quando siamo) intenzionalità di produrre forme, ma concordo sul riconoscimento che il tèlos dell’opera non
può essere prodotto dell’intenzione. Perché non ritenerci liberi di pensare intenzionalmente ad un determinato carattere
dell’opera?, come ritenere di converso che questo non sia semplicemente il nostro singolo punto di vista in merito alla
verità dell’opera seppure da noi progettata?; è bello poter liberamente pensare-immaginare-progettare forme, è falso e
stupido poter pensare che quelle siano le stesse forme per tutti, non esisterebbe allora nemmeno per noi il “liberamente”
(a meno di sostenere che solo io sono nella mia libertà il pensatore del vero). Pur avendo pensato forme
intenzionalmente ed orgogliosamente “volte a”, saprò sempre che ciò che codeste forme esprimono non è controllabile
dalla mia intenzionalità.
Nel riconoscere che l’espressione architettonica, al pari di tutte le espressioni, genera comunque stati d’animo che
hanno a che fare con le strutture fondamentali dell’essere dell’uomo nel mondo, in tal senso leggo “costruire ispirato” e
“la forma ispira il progettare” di kahn, la forma cioè non è il fine ma è, per così dire, il contesto del progetto, ed infatti è in
ogni caso “datrice di carattere ambientale”. Tuttavia, non è per la via “diretta” di colpire lo stato d’animo dell’uomo che si
può progettare, si torna infatti alla presunzione che l’autore ne sia “il conoscitore”. Forse in tutto questo il vero passaggio
chiave, tra tensione al vero (teorie, discipline, …) e rinuncia (espressionismo ed individualismo), sta nel
riconoscimento dei condizionamenti e nel riconoscimento di essere individui tra tanti, soli sì ma non autonomi.
Troppo banale?
IN SECONDO LUOGO, SUL TEMA PIÙ GENERALE DI VERITÀ E LIBERTÀ: SE “VERITÀ” ESISTE, L’UOMO È ALLA RICERCA DELLA
VERITÀ, CHE È, MA CHE È INCONOSCIBILE DAGLI UOMINI, A MENO CHE “GLI UOMINI” NON SIANO UN CORPO UNICO CHE COGLIE
“LA VERITÀ”, COSA CHE NON È, EVIDENTEMENTE, E MAI SARÀ. SE LE VERITÀ SONO PIÙ DI UNA, CIOÈ, NON ESISTE “LA VERITÀ”,
E QUI SIAMO SUL SICURO, MI PARE. IN TALE TRAGITTO DI RICERCA DI VERITÀ, O DI CONOSCENZA (ED È SEMPRE NIETZSCHE
CHE BEN HA SPIEGATO IL TENTATIVO DESTINATO A FALLIRE SEMPRE MA NECESSARIO E NON PRIVO DI SENSO = RICERCA
INEVITABILE E REITERATA CON INEVITABILE FALLIMENTO, PARI ALLA RICERCA MAI CONCLUDIBILE DI PLATONE), GLI UOMINI
COMPIONO PROPRIE SCELTE CHE LI PONGONO IN CONTATTO CON PROPRIE PARZIALI VERITÀ (ATTIMI DI GIOIA DEL “SENTIRSI
GIUNTI A”, SOLO ATTIMI PER L’APPUNTO, CHE SUBITO SI RIPARTE ALLA RICERCA DI). SONO SOLO SINGOLI UOMINI A
CONVINCERSI DELLA VERITÀ CHE CREDONO DI AVERE RAGGIUNTO, LE VERITÀ DI OGNI UOMO, CHE PURE HANNO L’ODORE
DELLA VERITÀ. IN TAL MODO TROVO ANCHE CONCILIABILE IL PENSIERO ONTOLOGICO, E LA LIBERTÀ-VOLONTÀ UMANA. SE LA
VERITÀ È PRESUPPOSTO (PER NON AFFRONTARE QUI IL PENSIERO PUR LEGITTIMO CHE NEGA L’ESISTENZA DELLA VERITÀ PER
VIA CONCETTUALE, E VALE PURE ESSO), VALE LA PENA DI SPENDERE LA VITA NEL TENTATIVO DEL SUO PARZIALE
DISVELAMENTO (PEZZI DI VERITÀ), CONSCI DI POTERLA SOLO ANNUSARE FORSE; NON VALE LA PENA DI AVERE LA
PRESUNZIONE DI AVERLA DISVELATA. IN OGNI CASO ANCOR MAGGIOR PRESUNZIONE OCCORRE IMPEGNARE PER CREDERE CHE
ESSA VENGA A NOI, OPPURE, ALL’OPPOSTO, CHE ESSA NON ESISTA. IN DEFINITVA, NON RIESCO CHE A PENSARE SEMPRE AD
UNA POSIZIONE CRITICA, RICERCA INCESSANTE, SEMPRE CRITICA, PIUTTOSTO CHE DEFINITIVA. INOLTRE, PER RIDISCENDERE
AL PROGETTO, QUALE POSIZIONE “DEFINITIVA” PUÒ NEL FARE PRATICO, AVERE PIENA GIUSTIFICAZIONE, SE NON HA, E NON
PUÒ AVERE, LA STESSA GIUSTIFICAZIONE PER TUTTI?.
INFINE, IN OGNI CASO, TRA L’AGNOSTICISMO DELL’ATTEGGIAMENTO ERMENEUTICO CHE IMPEGNA UNA VITA NEL SOLO STUDIO
INTERPRETATIVO ED ANALITICO DELLE COSE SINGOLE, SENZA ALCUNA PROSPETTIVA “OLTRE” (PENSIERO DEBOLE ALLA
MODA), E L’ATTEGGIAMENTO FRENETICAMENTE ATTIVO DI CHI TENTA DI PENETRARE IL SENSO DELLE COSE, FORSE
VANAMENTE, NON HO COMUNQUE DUBBI SULLA SCELTA! ANCHE L’AGNOSTICO SI SENTE ARRIVATO.
Costruzione fedele all’essenza del Bauen significa, dunque, costruzione fedele al carattere incondizionato della verità rifiuto di ogni concezione della verità come formale adaequatio della cosa - prodotta dalla “mente” che l’ha intenzionata.
Se ha un senso parlare del “platonismo”di Mies, può averlo soltanto in questo contesto interpretativo, o altrimenti è vana
assonanza. In questo contesto il riferimento è invece pregnante - e tale da costituire, a mio avviso, il basso continuo di
tutta la sua opera. La verità dell’opera non consiste nel risultato di una intenzionalità progettante, ma nella
manifestazione, nella “presentazione” di un incondizionato presupposto. La verità dell’opera non è semplicemente
immanente all’opera, ma l’opera la presuppone. L’opera non la produce in sé e da sé, ma la riflette, la imita e
riflettendola - imitandola la manifesta - realizza. Qualsiasi enfasi sul fine come fine posto, sullo scopo dell’opera in
quanto risolto nel suo progetto, tradisce o annulla questa dimensione del presupporre, del presupposto, della verità
come incondizionato presupposto dell’opera - su cui continuamente insiste il discorso di Mies. Discorso che solo in ciò
può dirsi a ragione “platonico”. L’ergon è inteso da Platone, infatti, come, secondo la sua idea, trascendente l’operari
dell’agente che di volta in volta lo manifesta. L’agente adtende l’opera.
Ripeto, Platone non si è mai dato per arrivato e nemmeno si è fermato ad attendere, come l’asceta, e né prima né
dopo di lui Socrate, i Preplatonici o Plotino, etc …
GIANLUCA BRINI
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Progetto come anamnesis dello stesso ricercato, della verità che è all’inizio, del risultato che è lo stesso principio. E
allorchè tale “incondizionato” si manifesta (allorchè “trova “ il proprio demiourgos capace davvero di servirlo”) si dà il
bello. Bella è l’opera che sta come immagine al servizio della vita compiuta. L’opera bella non sarà che l’opera
perfettamente informata dal Vero, e dunque salda sul suo presupposto, tale che nessuna moda, nessun movimentum
potranno “ammalare”. La bellezza è dunque bellezza effettuale, non gioco di forme, ma riflessione, speculazione
dell’effettivamente reale, cioè della verità stessa. L’immagine non è pertanto quella dell’astratta (moderna - troppo moderna) utopia o eterotopia, bensì quella, autenticamente platonica, del “mezzo” della nave che in quel mare è salda
abbastanza da poterci “salvare”. A questa immagine somigliano a mio avviso tutte le costruzioni di Mies: mezzi per
resistere e procedere. Ostinati tentativi di immaginare come vera vita questa esistenza - possibilità mai tradita di questa
immagine di “salvezza”.
Già così, relativizzata e posta sul piano di approdi temporanei, è molto più convincente.
Gemeinschaft è presupposto del cittadino (polites) in Mies, e non il suo prodotto - non è posta dal cittadino, ma pone il
cittadino. Perché vi è polis, vi sono cittadini, vi è uno spazio riconoscibile - leggibile dove le opere possono manifestarsi.
…. Un lavoro non vano, una cultura non “estetica” appaiono solo così, oggi, in - formabili. Interessa l’idea del lavoro
simbolicamente connessa a questa idea del costruire. Un lavoro economico e chiaro, senza ornamento, ha come propria
trascendentale condizione la capacità di distinguere tra “id quod ostendit” e ciò che è mostrato, tra Luce e cose, e di
comprendere la Luce come riflesso, e di costruire con la Luce come riflesso, senza ridurla a vero elemento della
contraddizione. Costruire è dar - luogo, “aprire” a tale riflettersi del Vero per mezzo della Luce - non fare ostacolo alla
Luce, non murare il riflesso, ma all’opposto renderlo terso, chiaro. Più che specchio alla luce, la costruzione deve
finire col coincidere con la stessa luce, esserne un raggio.
… Il principio di questi edifici, di questi ritmi spaziali, è dar senso dando luce, riflettere luce, essere appunto riflessi che
ci danno luce: grandi attimi di luce di questa città - e nient’affatto quello di rivelare il proprio “interno” (ammesso ne abbia
uno che si possa definire con precisione) o la propria, come si dice, “struttura”. Il “principio trasparenza” è qui capovolto :
la luce non fa vedere “dentro”, ma dà a vedere intorno. Se sembra di veder trasparire un interno, è perché qui la
distinzione interno - esterno cessa di valere, in quanto questi spazi sono tutto riflesso a pari grado e di pari intensità,
macrospecchi in tutte le loro fibre e non soltanto per la loro “facciata”. E dunque, in questo senso, spazi senza qualità.
Verissima, e per certi versi sconvolgente, l’annullamento fattuale della tradizionale distinzione esterno ed interno, tanto
da non poter avere seguito, ad oggi.
… Ciò che ogni costruzione era - e che l’anamnesis dell’artefice deve di nuovo “immaginare” : ecco il vero senso della
mimesis (non riproduzione, come Octavio Paz meravigliosamente comprese, ma ricreazione di archetipi “più antichi” di
ogni lingua - immaginazione di un passato che è insieme eterno futuro di ogni lingua. Imitazione, pertanto, che è la più
originale delle creazioni ).
… La libertà per apparire deve apparire secondo misura. Libertà e legge; processo e armonia; dominio, signoria,
Herrschaft (capacità di fare, potere in tutti i sensi )e servizio. Questa è effettuale totalità, en - érgheia :una totalità non
chiusa, non rigida, non determinata una volta per sempre, ma totalità nel pieno dei suoi erga, totalità - che vive....
Anamnesis, che nulla ha di straccamente erudito, filologico, dei problemi classici del fare, della téchne, del costruire anamnesis dell’orizzonte che ancora tali problemi costituiscono, malgrado tutte le apparenze di moda...
Costruire, nella sua essenza, è dunque inquisitio: “amore” per l’indifferenza di libertà e legge....
… Costruire è servizio di canoni, schemata universali, ma di schemata che, proprio per la loro universalità, e non
malgrado essa, non possono definirsi in forme chiuse, non possono formalizzarsi. Se si formalizzassero, se si
chiudessero, diverrebbero nient’altro che “qualità” tra le altre....
Costruire è raggiungere il “punto” in cui così libertà e legge si danno nella loro originaria in - differenza, dove, cioè, la
loro differenza è da sempre compresa e destituita. Ma - attenzione - tale “punto” è perfettamente immaginario, cioè :
fictum....
Questo punto è un fuoco immaginario cui all’infinito convergono libertà e legge.
Questo è davvero quanto. (…04)
GIANLUCA BRINI
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lettura del progetto
“ Non bisogna mai esaurire un argomento al punto che al lettore non resti niente da fare. Non si tratta di far
leggere, ma di far pensare.” (C.-L. de Montesquieu) ovvero, offrire occasioni di abitabilità nuove e diverse, non
prefigurando soluzioni ma offrendo ipotesi.
… privilegiando piuttosto densità, spessore ed accumulazione concettuale rispetto a banale organizzazione
tematica … privilegiando la ricerca di nuove o migliori spazialità, la pretesa di fare sempre meglio, rispetto alla
ripetizione del modello commerciale, neanche più “tipologico”, quanto piuttosto “immobiliare”… aprire
argomenti piuttosto che pretendere di chiuderli (terrorismo ideologico)… giudichiamo perciò il progetto per il
rapporto densamente esistenziale e problematico, antropologico, che deve crearsi tra uomini abitanti,
architetture e oggetti, non con la presunzione disciplinare, … a partire dal “tutto solidale” e non dagli elementi
in sommatoria per individuare le risposte che racchiude – pensiero libero-critico-sincretico – intuizione globale;
MA … occorrerà cercare oltre l’emotività (oltre la spettacolarizzazione architettonica, oltre l’”evento”, …), oltre
la “fenomenologia dei sentimenti“ alla S. Holl, rimaniamo concettualizzanti e “architetti studiosi e dubitosi” vorrei dire nonostante tutto -, intersechiamo pure le linee di ragionamento Miesiane sull’opera ed il logos, le
linee di ricerca più aggiornate e specialistiche, recuperiamo il moderno e la geometria (per quanto mi riguarda
soprattutto la pre-decostruzione di Van Doesburg) poi dovremo sempre tornare agli uomini, se non altro perché
questo è un impegno preciso che abbiamo preso con l’assunzione della “delega al progetto”. E ci è richiesto
non di “dare case”, ma di riflettere su “la casa” ed offrire la qualità del progetto. E, d’altra parte, innanzitutto un
piccolo dovere “kantiano” al pensare, verso l’uomo che è in noi, ed un grande dovere civile verso gli uomini
fuori di noi, lo vogliamo sentire?!; e poi, al di là delle petizioni di principio, prendiamo teorie agli antipodi,
architetti alla moda che le incarnano, analizziamone gli esiti progettuali, per esempio Eisenman, Tschumi,
Koolhaas e Holl, …, intanto sono grandi progettisti, creativi e, vedi vedi …, le loro architetture, se solo le si
voglia vedere scevre dall’apparato teorico, beh, si assomigliano; anzi, meglio, parlano tutte lo stesso
linguaggio, sono tutte ricerche aggiornate, sono tutti esiti “positivi” (antipositivistiche o positivistiche che siano
le molle concettuali, si creda o no nella geometria compositiva, ci si senta moderni-postmoderni-surmoderni…). E questo è un bene, perché c’è speranza nella progettazione, c’è il progetto contemporaneo, ci sono le
architetture usate e vissute, ci sono progetti ed architetture problematiche ma vive, ci sono complessità e
confusione ma rigore e programmi, ci sono risposte parziali, ma cercate. Che bello. E poi e poi quanti Renzo
Piano - in potenza naturalmente - con la loro pragmaticità e capacità progettuale sempre e ovunque ci sono?;
per me tanti. Ma poi, alla fine, che sia poi anche ognuno manicheo, siamo tanti in questo mondo, ci possiamo
anche permettere il nostro singolo assolo, la nostra petizione, ma tante sono le case e gli uomini che le abitano
…
… appunto, Hadid Moneo Asympote … perché hanno stancato tutti?, certo per eccesso di successo/visibilità e l’invidia
che genera, ma, più in profondità, perché troppo manichei, ciascuno a modo proprio, toppo mono-toni, troppo
preoccupati a perseguire il proprio stile (non era morto già da un pezzo?! almeno dalla villette di Tschumi?! e poi,
veramente, che protervia solo nell’idea stessa). Gehry ed Eisenmann hanno già dato molto, è vero, ma mi pare che
siano costituzionalmente evolutivi, oltre che molto più complessi, ci aspettiamo cioè ancora molto, diversamente dai
primi. Libeskind forse paga l’eccesso di divinizzazione con l’eccesso di demonizzazione, ma, naturalmente è su
Koolhaas che c’è più da dire, e questo potrebbe bastare. A lungo ho sofferto, era l’età forse, la sua sincerità-onestà
intellettuale che non da riferimenti, il suo non stile e la sua non teoria, ma in realtà si scopre poi che solo su “campi
aperti” come questi si può “intervenire”, assimilare e dare qualcosa, si può discutere, non certo sulle posizioni blindate.
Perciò, se l’essenza del linguaggio è nella comunicazione, l’essenza dell’architettura, o meglio, preferisco, dell’insieme
delle architetture, non si rivela nella comunicazione (è stato detto e riconosciuto; con quale linguaggio e per chi?) ma
nel senso che la sua presenza ha per gli uomini.
Anche i significati simbolici, se isolati, come per ogni singolo isolato significato non inglobato nel tutto, non sono né
l’essenza né l’espressione dell’architettura, non più di quanto lo siano le regole disciplinari.
Le architetture rimandano sempre comunque alla propria presenza in rapporto all’uomo e alle situazioni esistenziali che
evocano, e sappiamo quanto questa affermazione “Heideggeriana-Kahaniana-…” sia vera e sia esagerata, allo stesso
tempo. È sufficiente non farne “la verità”, come sempre.
Il senso universale delle architetture è per gli uomini, cioè ciò che evocano nelle coscienze e ciò che rispondono alla
sollecitazione d’uso.
GIANLUCA BRINI
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Il progetto dovrebbe emergere solo in spirito “libero”, ma non “liberato” dai problemi.
Il progetto, perciò, non deve tanto prefigurare “la soluzione” ma “una soluzione”, quanto “liberare” idee, avere presa
esistenziale; che le forme giungano alla coscienza degli uomini, i valori siano “spaziali per tutti” e non solo linguistici per
chi sa leggere. In questo senso come dare torto alla “fine dello stile” di Tschumi? Ecco, lo stile non interessa più, e ci
siamo arrivati da due ricerche/versanti diverse, attraverso esistenzialismo e disciplinarismo, dall’esterno e dall’interno. E
così andiamo avanti, e non si contano più i progetti belli della nostra contemporaneità, convulsi e problematici, ma
profondi, attenti, creativi, pieni di valori positivi e liberi.
LE ARCHITETTURE POSSONO ESSERE EVENTI, MA SONO, VOLENTI O NOLENTI, MOLTO DI PIÙ, TENACI E PARZIALI RISPOSTE AD
ESIGENZE DEGLI ALTRI E NOSTRE DALL’ESITO PROBLEMATICO. Per essere significative all’uomo devono sempre essere
“pensate”, esse non si determinano con la pratica manualistica, con la semplificazione e la moderazione: formalismo
estetico e sviluppo delle regole disciplinari s’incontrano naturalmente sul piano dell’assenza di significati per gli uomini.
NON È NECESSARIO PROGETTARE SEMPRE TUTTO!
NON ESAURIRE TUTTO IL TEMA SUBITO, VEDI APPUNTO CHE SU QUESTA STRADA SONO MOLTI CHE SI SONO CONVINTI CHE
ALLORA VA BENE SEMPRE LO STESSO PROGETTO PERCHÉ È “IL PROGETTO” - NON SI TRATTA DI CONFEZIONARE UN PRODOTTO
FINITO PRENDERE O LASCIARE MA DI FAR PENSARE, DI PORRE/SI QUESTIONI E MODI DI AFFRONTARLE, METODI DI PROGETTO E PREFIGURAZIONI PARZIALI - DI ESITI. PREFIGURARE DA SUBITO UN FINITO E COMPLETO È SOLO ARROGANZA. MA, PER ESSERE
CHIARI, ESISTE, ECCOME, L’ARROGANZA DELL’ARCHITETTO INDIVIDUALISTA PERVICACEMENTE TESO A TRADURRE LA PROPRIA
IDEA, MA È DI GRAN LUNGA PIÙ ACCETTABILE, E PRODUTTIVA, DELL’ARROGANZA PERNICIOSA E IMMORALE DELL’ARCHITETTO
RINUNCIATARIO, CHE NON SENTE IL MANDATO, NON SENTE IL DOVERE, NON SENTE IL LAVORO …
“… TUTTI SIAMO AFFETTI DA QUEL GRANDE PREGIUDIZIO CHE FA DELLA PSICHIZZAZIONE E DELLA INTERIORIZZAZIONE
DELL’UOMO UNA OVVIETÀ UNIVERSALE, CUI CORRISPONDE, IN PERFETTO PARALLELISMO, IL PREGIUDIZIO DELL’ESISTENZA
OBIETTIVA E IN SÉ ASSOLUTA DELLE COSE…”(Carlo Sini) “DISTINGUENDO TRA UN’ATTIVITÀ PROCEDURALE CHE SI
ACCONTENTA DI PRODURRE <ONESTA EDILIZIA> E UN’ATTIVITÀ CULTURALE CAPACE DI RIMETTERE IN
QUESTIONE IL SENSO DELLA PROPRIA ESPERIENZA E LA PRASSI CONSOLIDATA DEL <SI FA> PERCHÉ <SI
DEVE>. ATTUARE QUESTA IMPRESA CONDUCE A RESTITUIRE AI TERMINI DI SPAZIO, CASA, SIMBOLO,
VUOTO, METODO, PROGETTO, ECC. UN SENSO ULTERIORE. QUEL SENSO CHE CI PERMETTE, COME
DICEVAMO, DI RECUPERARE LA DISTANZA TRA L’UOMO E IL MONDO DEI SUOI PRODOTTI, QUELLA
DISTANZA CHE SI MISURA NELL’INCAPACITÀ DI ANTICIPARE GLI EFFETTI DEL NOSTRO <FARE> (non mi
ricordo più chi l’ha scritto, comunque su una press-letter di LPP del 2004.)
QUESTO È ESATTAMENTE IL SENSO PROFONDO E PERÒ QUOTIDIANO DEL PRO-GETTARE.
Pur dando atto che sia comunque sempre possibile, ed anche assolutamente legittimo, nonché spesso utile ed
interessante, comprendere l’architettura anche “come arte pura, cioè pura forma, se è davvero un’opera d’arte” (H.
Hauser sull’arte in generale) e, su altro versante, come espressione tutta interna al suo essere, e mantenersi, disciplina
(come è evidente, tuttavia, restringendo e costringendo entro limiti e codici - non il codice - l’orizzonte concettuale;
restringendo cioè di fatto l’orizzonte speculativo alla sola conoscenza - ? - ed escludendo l’intelligenza, intesa come
“gli occhi dell’anima” di Platone); mi interessa uscire da questo schematismo, e così facendo sono andato cercando ed
approfondendo l’architettura evocativa, per poi ritrovarmi serenamente destinato alla ricerca di altro ed alla non scelta di
campo, tutta la vita!?
Definirò questa dimensione allargata, per così dire, del ragionare di architettura, in assoluto la più vasta possibile, anzi
dimensione totale, come una delle declinazioni possibili della ricerca sull’uomo (filosofia come impegno a
rappresentare in concetti i problemi universali dell’uomo).
La dimensione evocativa si pone dopo, come superamento (dopo l’apprendimento, dopo la “composizione”, dopo lo
sforzo progettuale) ed in antitesi, in primo luogo rispetto alla dimensione tecnico – analitico - disciplinare, o meglio alla
mistica disciplinare, vedi “il terrorismo del moderno”, intesa come coacervo di conoscenze e sapienze specifiche, di
principi che hanno il solo ma grande fascino di “norme e leggi” possibili per un fare che ne è disperatamente alla ricerca,
tutte cose utili e fors’anche necessarie in una prima fase per così dire didattico - formativa, ma di per sé non significanti
per gli uomini che esperiscono quotidianamente le architetture - architettura lingua morta; ed in secondo luogo rispetto
alla dimensione linguistica, alla mistica artistica in definitiva, con il corredo di stili - semantiche e superficialità varie architettura lingua muta. Ma la stessa poi, e torno all’esempio di Steven Holl perché per me svelatore del vizio, finisce
per autoregolarsi ed autogiustificarsi come le altre posizioni in ragione di proprie motivazioni e “teorie”, seppure fuori
GIANLUCA BRINI
LIBRO ROSSO – ELEMENTI IN CORSO D’OPERA
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dalla disciplina e dall’arte ma dentro il sentimento modaiolo e l’evento superficiale - architettura lingua banale – con
tutto il miele e la facilità del sentimentalismo.
L’UOMO E LA VITA - ARCHITETTURA SI GENERA, EVOLVE E MUORE COME RISPOSTA A FONDAMENTALI
ESIGENZE PRATICHE E SPIRITUALI DELL’UOMO (“ARCHITETTURA COME SOSTANZA DI COSE SPERATE” - E.
PERSICO).
Le premesse e le risultanze concettuali sono queste, ma quando il progetto c’è … esprime tutto.
In effetti “il discorso” da un lato può facilmente indurre a semplificazioni (che sono il mio terrore, meglio le
complicazioni), dall’altro può tuttavia risultare utile per farsi idee del mondo e il mondo in realtà è fuori, è sempre
così.
In questo senso occorre chiarire che evocativo potrebbe non essere concetto a supporto di un progetto volto a produrre
intenzionalmente determinati stati d’animo, bensì per studiare, capire, riconoscere che l’espressione architettonica, al
pari di tutte le espressioni, ma, soprattutto, di “tutte le cose”, genera comunque stati d’animo che hanno a che fare con le
strutture fondamentali dell’essere dell’uomo nel mondo. Ed uso “stati d’animo”, per definire in qualche modo un nodo
profondo che abbiamo dentro, si capisce, in senso infinitamente più denso e profondo di “sentimento”. Purtroppo poi ciò,
“nuovamente”, finisce per banalizzarsi nel momento in cui si fa “architettura”, evocativa sì, ma architettura e quindi
sempre e ancora “una” teoria che supporta e da ragione del progetto, come l’unica, ovvero una delle tante “uniche”
matrici concettuali ex post allo scopo di dare carattere ed aurea al progetto già fatto.
Già lo stesso Heideggerismo, che pure qui si va usando, andrebbe forse ricontestualizzato e, soprattutto, rimeditato e
quindi riformulato con il carico di dubbi e d’incoerenze sue proprie (che la fenomenologia applicata alle architetture si
possa risolvere nell’esperienza dello spazio architettonico? … che sia il voluto coinvolgimento il tratto dell’architettura?
… che la profondità e la poesia risiedano nello stimolo delle senzazioni, fino alla sensazionalità? … che retoricA!!! … sto
demolendo Holl? … E POI CHE SI FINISCA, sempre su questa strada, PER DEFINIRE “PROTOELEMENTI” O
“FORME ARCHETIPICHE” O “VOCABOLARI” VARI! … sempre forme pure e luoghi, sensazioni e percezioni, e poi idee
e fenomeni, sensi ed intelletto, soggettivo ed oggettivo, tutto un apparato “filosofico” datato per disgiungere ciò che
disgiunto proprio non è, e ricongiungere ciò che già è di per sé monadico, grazie al grande maieuta architetto – per
fortuna che arriva lui a disvelare il mondo “dei sentimenti”, solo quello.
Ma per fortuna che non ci sono solo architetti a questo mondo, perché i commercialisti non si possono fare idee del
mondo?
Allora è semplicemente e veramente solo una “strategia progettuale”, per quanto legittima. Ma quanto sono meglio i
progetti – contemporanei ricercati densi simili agli altri dello star sistem – di tutto questo!
Preferisco l’antropologico allo psicologico, rivelazione non è esattamente sentimento. L’esperienza disvelatrice non la si
racconta e, soprattutto, non la si progetta.
Mi verrebbe da consigliare la lettura di Saviane.
Anche lo spazio universale di Mies Van Der Rohe ha a che vedere con il senso antropologico, e non tettonico – tecnico
o linguistico, delle cose e del progetto, ma non se ne faccia una fede.
Ricordiamo che a partire da De Stijl parte la rivoluzione semantica “Il significato di ogni componente è dato
unicamente dal sistema delle relazioni sintattiche e dalla posizione” “…intenzione sistemica” (Marzot); è quanto
io chiamo ARCHITETTURE ED URBANISTICA DELLE CONNESSIONI, DEGLI ELEMENTI “A SECCO”, CONNESSI TRAMITE NODI, CIOÈ
RELAZIONATI, DELLE PARTI RICONOSCIBILI E AGGANCIATE, CHE NELL’AGGANCIARSI SI CONTAMINANO E SI RISIGNIFICANO
(COME SI POSSONO-DEVONO CONNETTERE ED AGGANCIARE LE DIVERSE ARTI O DISCIPLINE, CONTAMINARE I CODICI,…) –
CONNESSIONE DI IDEE, PROGRAMMI, ELEMENTI, MATERIALI, SPAZI, …
… “PRATICA CRITICA” DEL PROGETTO FUNZIONALE E RICONDUZIONE OPERATIVA DELLA DECOSTRUZIONE NELL’ALVEO DEL
MODERNISMO E DELLA PROGETTAZIONE POSSIBILE POSTAVANGUARDISTICA – “CRITICA DELL’ARCHITETTURA PURA “…
Nell’ambito del nostro sentimento-volontà di demolizione della prospettiva e della percezione bloccata che
comporta, a favore di una percezione dinamica asimmetrica e fluttuante, per un superamento delle tre dimensioni
rinascimentali riconoscendo finalmente la quarta dimensione, ricordo – a me stesso - il lavoro cubista di perdita del
punto di vista per la sovrapposizione e simultaneità di tutti i punti di vista possibili, il riempimento della tela
all’opposto del far convergere tutto verso il centro, la composizione periferica contro quella simmetrica, fino ad
uscire dalla tela e dall’edificio verso il paesaggio.
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classicismo e modernismo
“ Il classicismo si appoggia su un forte controllo della forma secondo criteri molto rigidi, basati sull’assialità,
l’uguaglianza, la ripetizione, nella cornice di una struttura gerarchica che garantisce l’unità del progetto….” MI CHIEDO, È
FORSE POSSIBILE CIÒ IN UN MONDO LIBERO?, DIAMO PIÙ VALORE A UNITÀ O A LIBERTÀ? “… LA MODERNITÀ ESTENDE IL
CONCETTO DI ORDINE, CHE DA QUESTO MOMENTO IN POI NON SI IDENTIFICA PIÙ CON LA REGOLARITÀ, SOSTITUENDO
ALL’ASSIALITÀ L’EQUILIBRIO, ALL’UGUAGLIANZA L’EQUIVALENZA, ALLA RIPETIZIONE LA SERIALITÀ. IN DEFINITIVA, SI
ABBANDONA LA GERARCHIA, CHE È SOSTITUITA DALLA CLASSIFICAZIONE, E SI RINUNCIA AL CRITERIO DI UNITÀ PER
ENFATIZZARE L’IDEA DI FORMA COME RELAZIONE CHE RACCHIUDE IN SÉ FIN DOVE ARRIVA LA CAPACITÀ DI PERCEZIONE DEL
SOGGETTO.” (HELIO PINON)
Se assumiamo che non più esistere un “indice”, ma solo “elenchi”, siamo a riconoscere che la contemporaneità è ancora
tutta ascrivibile al “salto” operato con il moderno, tale per cui a me pare che oggi si debba parlare più di modernismi che
non di altro dalla modernità. Ovvero: non è sostanziale il passaggio da equilibrio a squilibrio quanto la cesura con
l’assialità, non è sostanziale il passaggio da equivalenza a diversità quanto la cesura con l’uguaglianza, non è
sostanziale il passaggio da serialità a unicità quanto la cesura con la ripetizione, è sostanziale il passaggio da
unità a relazione. Il modernismo che qui intendo è, “semplicemente”, criticità costante, questo lo distingue dal
classicismo e questo lo porta sino ad oggi. Se poi per strada abbiamo perso i criteri-le regole-i principi-gli stili-le forme-le
regole-i tipi-le categorie-…, abbiamo solo fatto la strada tracciata. Non sono perciò originali le ricerche decostruttiviste o
neofenomenologiche o tutto ciò che oggi si vede, se intese come frattura del moderno, sono invece, si, sviluppi originali
di cervelli pensanti, finalmente “liberi” di individualizzare l’espressione del pensiero.
CRITICA DELLA FENOMENOLOGIA IN ARCHITETTURA
ARCHITETTURA CRITICA
SUPERAMENTO DELL’ARCHITETTURA EVOCATIVA
ARCHITETTURE <> ARCHITETTURA
ESPRESSIONE - COMUNICAZIONE - CONCETTO
Siamo un po’ incatenati al “moderno” ed all’occidente, abbiamo nel cervello e nell’animo una storia ed una geografia
limitate, ne terremo conto per quanto possibile; ovvero sappiamo che è così, ma, appunto, è così. Piano dunque con i
“significati universali”. Tuttavia, anche se abbiamo viva la convinzione di Nietzsche che la filosofia, massimo tentativo
umano di capire, massimo esercizio del pensiero, sia priva di oggettivi fondamenti, ma, soprattutto, sia priva anche di
fine ultimo, sappiamo che “dobbiamo”. Diceva Simmel che la filosofia è un “tentativo senza speranza, ma non privo di
senso”, ancor più “inevitabile” direi io. E, d’altra parte, ci aiuta Huizinga: “Un uomo indirizzato storicamente comprende
nella sua nozione di moderno un brano più grande del passato che non colui che vive nella miopia del presente”.
Si pone il seguente inevitabile primario eterno infinito … contrapposto, la demarcazione tra filosofia e scienza “l’una tesa
alla consapevolezza che l’uomo deve o dovrebbe avere del mondo come problema, l’altra allo studio pedissequo del
mondo come evento” (Di Giovanni); che poi, naturalmente, non è vero, ma è un’utile costruzione di confine. Si può
intendere l’architettura come problema-crisi-concettualismo oppure come evento-fenomeno-sentimento, da
Nietzsche ad Heidegger, da Eisenmann ad Holl (blasfemia necessaria). Sulla prima strada non c’è mai approdo, è vero,
ma l’approdo della seconda è solo un approdo. Il sentimento è per definizione passivo, si sente qualcosa a causa di
qualcosa, il concetto è conquista, visionario sforzo agonistico sempre senza soddisfazione. Come dire, dopo anni di
riflessione personale sull’architettura evocativa, dopo una sorta di inveramento riconoscibile nelle opere di Holl più
riuscite, ebbene, si passa e si va. È “IL PROBLEMA” IL PROBLEMA (“IL LATO PROBLEMATICO DELLE COSE”) NON
“L’EVENTO”, IL PENSIERO E NON L’ESITO. Ed ecco la citazione, come non approfittarne, “Per poter vivere, assai più che di
mete precise abbiamo bisogno di una visione” (Elias Canetti). La voglia di razionale e di mete non ci libera dalla pluralità
di senso e non riesce ad esorcizzare la profondità dell’animo, salvo i casi in cui la costruzione del consenso su “un
senso” pare temporaneamente avere effetti di massa tali da intorpidire il cervello, vanamente, tuttavia.
L’amministrazione del consenso quotidiano può forse coprire il dubbio per un attimo, ma il dubbio è irrequieto ed
instancabile, emerge e muove il pensiero. Beh!, Kant qualcosa ha insegnato.
Formalismo estetico e sviluppo delle regole disciplinari, arte e disciplina, si incontrano sul piano dell’assenza di
significati, gli unici significati ammessi sono solo quelli costruiti all’interno o dell’una o dell’altra. La fenomenologia ci
avvicina all’uomo, l’architettura evocativa si pone sul piano del rapporto uomo-mondo, ma ne indaga la psicologia
emozionale, si ferma ai sentimenti. Non provoca azioni attive di conquista di posizioni nobili nella scala della ricerca di
senso. La parte migliore di noi forse è la più problematica, non la più appagata.
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È evidente che non posso sopportare il progetto perfetto, le lezioni di Gregotti, la presunzione di Ungers, la sintesi, la
soluzione, “la verità”; e nemmeno, però, la rinuncia, la rinuncia preventiva a tutto questo; preferisco i progetti aperti, le
soluzioni possibili, le questioni irrisolte ma affrontate, preferisco gli stimoli alle soluzioni, gli esiti temporaneamente ed
accidentalmente felici alle soluzioni tipiche e sicure. Su questa strada è la concettualizzazione dei problemi che può
inventare soluzioni nuove e diverse, sempre transitorie, e vale “il discorso” quanto “il progetto”. Se quel progetto è
un’istantanea, una parziale e temporanea risposta, all’interno di un discorso costante ed aperto, è un passo solo ma è
un passo, non importa poi molto in quale direzione, se è invece una declinazione “necessaria” ed assoluta de “il
progetto”, sempre quello è, appunto. LE TEORIE ARCHITETTONICHE AUTOPOIETICHE SI ALIMENTANO DELLA
DISTANZA ASCETICA E SORDA DAL MONDO, NON HANNO ALCUN VALORE ESISTENZIALE; MA ANCHE
SVILIRE IL PROBLEMA DELL’UOMO E DEL MONDO AL DATO EMOZIONALE, È RINUNCIARE TROPPO PRESTO
ALLO SCANDAGLIO DELLA COMPLESSITÀ E PROFONDITÀ DELLE QUESTIONI, È UN LAVORARE
SULL’EVENTO E PERCIÒ INTENZIONALMENTE SOLO SULLA CRONACA, UN MODO DI ESPRIMERE
CONTEMPORANEITÀ LIEVE, UNA CONTEMPORANEITÀ CRONACHISTICA SENZA MODERNITÀ, UNA
VALUTAZIONE SULL’UOMO TALMENTE LIMITATA DA POTER ESSERE “OFFENSIVAMENTE OTTIMISTA”.
Anche in questo modo, come per via disciplinare o per via artistica, è facile poi “la bignamizzazione” degli esiti.
(…04)
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sullo “stereotipo”
Lo stereotipo n. 1 è “non essere <superficiali>, andare alla sostanza … <la forma segue la funzione>”, dalla
forma intesa in senso negativo-superficiale alla sostanza intesa in senso positivo-profondo (dal contenente ai contenuti
– dai segni ai significati – dalla forma alla funzione, ma anche dal linguaggio ai concetti, che poi comunque i concetti si
esprimono con linguaggi e le funzioni con forme …).
Lo stereotipo n. 2 è “non badare tanto ai contenuti che sono banali/scontati, quanto alla forma, perché è questa
che plasma il mondo, che fa l’arte … <la funzione segue la forma>” dalla funzione intesa in senso negativo alla
forma intesa in senso positivo (invertendo i termini-concetto del n. 1).
Tra questi due estremi, in realtà, sta tutto un mondo.
E poi a pensare forse ancora meglio, non sono estremi concettuali, ma solo mediatico-linguistici, che siccome si
esprimono con linguaggi sono parte della loro stessa presunta antiteticità, è stereotipato infatti il loro forzato e furbo
dualismo piuttosto che la loro proposizione.
Mi pare che da quando leggo e studio, naturalmente soprattutto in tema d’arte e d’architettura, la “moda” mediatica
cambi, o meglio si aggiorni, ma si giustifichi sempre solo in quanto alla fine sia possibile ricondurre le posizioni/pensiero
nello stare in posizione 1 o 2, nient’affatto in mezzo. In mezzo c’è tutto quello che non fa tendenza evidentemente,
ovvero, non viene captato come convenientemente adeguato al cicaleccio mediatico di molta “critica”, non tutta. Io, per
esempio, amo la critica quanto non amo l’utopia ed il suo esclusivismo (intanto perché la prima mi fa pensare e la
seconda pretende di farmi smettere di pensare), figuriamoci il fastidio della “critica utopistica od avanguardistica”, come
se poi si potesse fare critica dell’utopia o dell’avanguardia, mi pare proprio la più palese contraddizione in termini. Per
questo, forse, mi appassionano molto i veri temi/nodi concettuali più delle alte “tirate” autistiche che esprimono “la
verità”, peggio ancora quando si pretende di pre-figurare “la verità” futura; figuriamoci! Libertà e verità in tema di
architetture si escludono, evidentemente, salvo che la libertà non sia quella di “uno solo al comando …” o che la realtàverità sia una “lingua”(-linguaggio) piuttosto che un’altra. Preferisco le piccole rissose ma vere polemiche su press-letter,
apprezzo tantissimo il modo di fare critica e storia con la cronaca di V. P. Mosco, tema per tema, autore per autore,
opera per opera, mattoncini di riflessioni profonde con la pretesa d farsi leggere e capire; ribadisco, preferisco ragionare
delle architetture e dei discorsi attorno ad esse, piuttosto che dell’Architettura, ma solo perché con la maiuscola darei
soddisfazione ai dittatori della disciplina, alla Gregotti, per intenderci. A proposito, ma quand’è che questi stolti soloni,
poi fra l’altro professionisti di basso livello, non dico finiranno di tuonare, perché che ognuno dica la sua!, ma dico,
almeno di riempire ancora le pagine, e non solo quelle, …, e soprattutto, incredibile!, di avere estimatori. In realtà sono
appassionato ai grandi temi ed alle grandi domande, anzi, proprio non comprendo il “pensiero debole”: cos’è?, un
pensiero poco allenato o proprio nato sfigato?!; ma mi sconfortano le “grandi risposte” e le “verità”, e chi se ne arroga il
diritto; detto da un non relativista, ma evoluzionista si! Partito per la tangente, direi, ma, come dire, iniziamo pure l’anno
senza rimorsi.
La “farsa” degli stereotipi, piuttosto, mi serve per introdurre un tema di riflessione, che qualcun altro ci si cimenti?;
lanciamo il tema.
Allora, De Chirico disse esattamente: “andare sotto e oltre la crosta del mondo”, certo mi fa specie detto da un
incrostatore come lui, e infatti è significativo di come tutti noi, i “grandi” soprattutto però, poi ci facciamo sempre cogliere
dal morbo della convenzione, della frase fatta e della medierà, comunque è una posizione. Poi c’è un artista moderno
che di nome fa Nanni Menetti, che trovo casualmente su una rivista, è un pittore, che dice: “l’abitudine a privilegiare il
contenuto del discorso ci ha portato automaticamente a pensare il significante del segno come un puro mezzo del tutto
trasparente e non invece come un grumo fisico del tutto autonomamente attivo e, il più delle volte, refrattario
all’attraversamento che ne tentiamo”. Al di là del perdurante delirio Ecodipendente, nonché della proterva e disperata
lotta per l’autonomia dell’arte come unico mezzo al fine dell’autosostentamento (anche questa roba qui quando la
superiamo?) e proprio per questo in realtà, siamo alla descrizione pura e cristallina della “moda dell’architettura della
pelle” quando sostituiamo “pelle” a grumo. A me viene sempre in mente, dico sempre, il concetto del “rapporto
dialettico tra interno ed esterno” che Cesare Brandi individuava come la vera matrice dell’architettura. Ragiona che ti
ragiona, tolto al concetto “l’ambiente” di riferimento (quegli anni, la cultura della storia dell’arte, Argan …, etc…, sento
tutto un sistema …, ma non sono molto ferrato), tolta la patina “superficiale” di dentro-fuori cui mi pare si riferisse, preso
di petto come dialettica tra contenuto-contenente, significato-segno, funzione-forma, concetto-espressione,
utilità e strutture-linguaggi e simboli, monade-involucro (storia certamente nota, e infatti non è sulla dialettica che ci
vogliamo fermare, dialettica è un termine che chiude il discorso invece di aprirlo, mi pare) individua “semplicemente” il
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crinale sul quale pare che ci si fermi quando si fa architettura, per come la vedo io, proprio giorno per giorno. In effetti è
semplice, il problema è solo pensare al dentro e al fuori contemporaneamente, alla distribuzione ed alla forma, alla
costruzione ed all’immagine?; tanto semplice che per parlarne non se ne parla, è più semplice allora posizionarsi o di
qua o di là. In ogni caso, ammesso che poi il problema sia solo questo, e non lo è, ma ne è una bella parte, perché fare
architetture è un problema e ci sta occupando la vita, da secoli si può dire; tra stare di qua o di là o stare faticosamente
sul crinale, forse si può anche pensare di “scendere” dentro alle cose, anche con umiltà. E prendendosi tempo
(perché, tanto per -chiarire, per me il tempo è quello che ci si prende, cioè quello che “si nomina” -biblicamente-, si ha
quello che si qualifica/caratterizza, per esempio quello di questa mia). Quando ci si trovi ad arrovellarsi su questo
crinale, che è esattamente quello che sto facendo, ci si trova da un lato spiazzati perché i riferimenti “critici” stanno
appunto o di qua o di là, certo non tutti in assoluto, dall’altro si respira, come dire, la possibilità/necessità di “altro”, è
come stare seduti scomodi su un angolo, si annusa un grande “interno libero” nel quale buttarsi, attraverso un’apertura
nel crinale; certo è fatica non “scivolare o di qua o di là, bisogna forse prima essersi bene ancorati lassù.
Un tentativo di titolare un approfondimento: se è nella dialettica tra dentro e fuori, tra contenuto e immagine che
si deve penetrare, se si deve “decostruire” (per ricostruire?) questo crinale, dentro al quale andare a cercare
nuovi concetti e nuovi sensi, allora quale strumento adottare per penetrare?. O meglio, sia il versante della formalinguaggi-simboli-pelle sia quello della funzione-concetti-usi-corpo, fuori dalla stereotipia “linguistica”, sono appunto due
piani inclinati che fungono da involucri opachi di quanto essi stessi definiscono quando s’incontrano e si appoggiano a
triangolo bordo su bordo . Cosa racchiudono? Intanto uno spazio “triangolare” che all’infinito ha tutte e quattro le
dimensioni, mentre i due piani inclinati all’infinito ne hanno solo tre, manca infatti lo spessore. Tra tutto il ragionare di
contenuti e funzioni da un lato, di pelle ed immagine dall’altro, non si penetra lo spazio ed il volume. Ma sento
che c’è pure dell’altro lì dentro. Forse è proprio IL PROGETTO IN SÉ che occupa tutto lo spazio, ed infatti esso “è
indicibile” con altri linguaggi e forme se non le proprie sempre diverse volta a volta. Certo anche il progetto può essere
raccontato, si, ma non mentre si fa, o prima o dopo, tutti quelli che progettano lo sanno. Per inciso, tra la mania del
disegno-progetto tuttunotridimensionale, lay-out ipertecnologico (vedi ARCA) che si esprime con colori ed omini stirati e
straziati, sovrapposizioni e velature, dinamismi e cinematismi da film,…, e la malinconia del disegno a filo secco ed
altero, statico (certo più “divertente” il primo), se voglio dire la mia, sento più il disegno/progetto dei “piani” e delle
“lastre”, le “superfici” (ed i loro incastri e pieghe naturalmente, quelle che generano ombre) che poi sono gli elementi di
composizione dei volumi ed i supporti delle pelli. Disegnare/progettare, appunto, per lastre e per piani, per prospetti e
per sezioni, non è certo di moda, ma è quello che facciamo io e tanti altri, mi piace dire anche Renzo Piano. Non sono
proprio capace di gestire dei blob informi o di limitarmi al decoro della pelle superipermegaconcettualizzata e disegnata,
e contemporaneamente il “gioco dei volumi e degli spazi” e “le poetiche e le tecniche” non sono i soli elementi di
progetto. Il buon vecchio Van Doesburg non finisce di pungolarmi: “in ultima analisi, solo la superficie è decisiva in
architettura”, che io poi mi permetto di interpretare o tradurre come piano (ma perché non ho ancora letto, colpa mia
certo, qualcosa del tipo che il decostruttivismo architettonico contemporaneo nulla aggiunge al neoplasticismo, ovvero
ne è la riflessione reiterata, ?).
Il crinale di cui si dice, torniamoci, come di due carte da gioco appoggiate a formare appunto un crinale,
l’una come
l’altra con due belle facce in vista, colorate e note, piene di funzione-contenuto-tecnica-ingegneria l’una, di forma-pellearte-poetica l’altra, è debole in definitiva, basta una lama, un piano sottile appunto, o ancora meno un soffio, per secarlo
e andare a leggere cosa può esserci sotto e dentro, e qui lavorare nella massa spessa e monadica del progetto. Tolte di
mezzo le facce “note” e logore già dette e poi i loro “risvolti” di tecnica-codici-teorie-grammatiche-sintassi-disciplinetipologie-morfologie-verità-correttezza-scienza-linguaggio trasmissibile -comunicazione (i vari disciplinarismi e le “lingue
morte” di Rossi e Grassi, per esempio) e di arte-poesia-espressione-verità interiore-psicologia-intimo-genio-opinionecreazione-fenomenologia (tutte le poetiche storiche e poi decostruttivismo e postmodernismo, neoespressionismo e tutti
gli ismi infiniti vigenti), rischiamo sì di trovarci persi, ma anche di trovare “un mondo” enorme da esplorare con la serenità
dell’uomo “che fa”. Certo, ribaltate scienza e poesia, verità e genio, RESTA IL “MONDO DEGLI INTERROGATIVI” più umani,
per esempio: filosofia analitica come versante “pratico” e aggiornato della ricerca di conoscenza dell’uomo/poste e non
risolte ma affrontate le grandi domande/umiltà di un sapere parziale e limitato sempre profondo e unico, con e contro
tutti/sociologia pratica come dovere di risposta a richieste dell’uomo e degli uomini/antiesclusività della singola proposta
come una risposta corretta e relativa/scomposizione e ricomposizione di elementi primari necessari indagati tutte le
volte/ricerca faticosa continua che produce ESITI SINTETICI (IL PROGETTO) MA NON ULTIMI (si può e si deve
sempre fare meglio)/processualità/progetto aggiornato e contemporaneo non gestuale/minimalismo e razionalismo
depurati dall’etica e quindi “economici”. Mi pareva una strada il decostruttivismo, ma oggi devo riconoscerne
l’involuzione “poetica”, che è tutto fuorché un male, ma è solo per chi la sente, come tutte le poetiche. E poi, certo,
riferirsi ad una poetica è un po’ come “mettersi tranquilli”, beato chi ci riesce.
Credo di essere già andato oltre la mia testa, devo tornare a riflettere, alla prossima.
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P. S. una piccola gemma sull’utopia: “…le narrazioni utopiche tendono a essere esclusive. Non tollerano concorrenti.
Non sembra essere una buona utopia quella che si ammanta di modestia e lascia aperta la possibilità di un’utopia
migliore, alternativa. L’altra faccia di questa medaglia è l’assolutismo epistemico delle utopie: non ci può essere dubbio
riguardo all’assoluta necessità che l’utopia che difendiamo sia l’unica. Il che significa che la nozione di “utopia perfetta” è
un ossimoro. Non c’è uno spazio o una gerarchia di utopie.” Insomma, traduco, l’utopia è per definizione ignorante ed
intollerante. Non sono però a favore di un relativismo assoluto, sono piuttosto un tenace critico dubbioso studio, mai
sopito ma serenamente positivo, anche perché è un dovere, credo io. (01.05)
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sull’”EXTRA-architettura” argomento che ritorna
Questo testo rappresenta per noi il (di)svelamento/(ri)conoscimento di un punto d’arrivo (…sempre parziale e
transitorio…) della nostra reiterata e, recentemente, sempre più intensa, riflessione sulla ESISTENZA di
<Architettura> (come arte, disciplina, tecnica, …).
La riflessione parte dalla messa a sistema di tre sequenze concettuali cronologicamente orientate, in
stupefacente sincronismo reciproco e “fasate” sulla sequenza centrale della “storia”.
Premessa per la lettura è riconoscere
che evidentemente la prima sequenza non è nostra (è di Nietzsche);
che la seconda è il perno delle riflessioni “filosofiche” contemporanee, anche se linguisticamente
impostate su “post” (età postmoderna) e “fine” (fine della storia);
che la terza è la nostra interpretazione dell’attuale “climaterio” culturale a riguardo di Architettura a
partire dalla riflessione più vasta sui “tempi”.
I puntini che continuano oltre la terza fase indicano che tutto -comunque- continua …e scorre
…(Eraclito mi convinse subito, antropologicamente)
Le fasi non sono da intendersi come “ontologiche”, cioè “vere” in quanto ri-conosciute “essere” così,
lungi da noi l’arroganza dello scienziato “sicuro”; sono piuttosto concettualizzazioni necessarie al
discorso, che, appunto, continua … sempre con noi o senza di noi.
Ripeteremo poi, fino alla noia, che tutto ciò può valere solo per un piccolo pezzo di mondo e di
tempo, che è il nostro piccolo mondo occidentale del ventunesimo secolo e solo esso.
PRE-MORALE……………... MORALE………………………….
EXTRA-MORALE…………
PRE-(I)STORIA………….… STORIA…………………………...
EXTRA-STORIA…………..
PRE-ARCHITETTURA……… ARCHITETTURA…………………..
EXTRA-ARCHITETTURA….
INCOSCIENZA DI …
ESPLOSIONE DI …
La colonna centrale è la
PRESA DI COSCIENZA DI
il RICONOSCIMENTO DI
è quell’autocoscienza che chiamiamo
CIVILTÀ-SOCIETÀ
(CHE NON “PRE-ESISTONO”
MA “SONO” QUANDO SI AUTORICONOSCONO,
QUESTA E QUELLA NATURALMENTE,
CHE’ ESISTONO LE CIVILTÀ NON LA ..)
SI FORMANO “CORPUS” DISCIPLINARI
TRAMITE L’IMPLOSIONE-AGGRUMAZIONE
DELLE
ESPERIENZE-CONOSCENZE MATURATE
Quando siamo nelle condizioni attuali (noi occidentali oggi), possiamo dire di
essere culturalmente post-moderni (oggi si lo siamo, ma mi pare che la
riflessione - che è poi lo sguardo sull’oggi proteso sul domani - sul post-moderno
sia talmente esaurita che il “ritorno al moderno” diventi un rischio probabile), ed è
una riflessione dell’immediato, del guardare indietro solo fino al passo
precedente, se allarghiamo la riflessione alla “storia”, allora possiamo dire che
“la storia è finita”, che siamo oltre-fuori-extra da quello che era stata
riconosciuta come la Storia (della quale la cultura “moderna” <storica>
è appunto l’ultima fase riconoscibile-riconosciuta). La Storia è esplosa,
se non altro incominciamo a confrontarci con le storie. Questo
naturalmente non lo diciamo noi, ma in questa riflessione cogliamo la necessità e
l’urgenza dell’intelletto di-sperso di ricollocarsi.
Così la Architettura non solo è, in effetti, per mera cronologia,
postmoderna, ma soprattutto NON È PIÙ.
GIANLUCA BRINI
LIBRO ROSSO – ELEMENTI IN CORSO D’OPERA
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Nel momento in cui diventa evidente che non esiste più un corpus riconoscibile
come l’Architettura (appunto esplosa), solo i “deboli di pensiero” e gli opportunisti
possono o non accorgersene o tirare dritto. Esistono architetti ed architetture, ma
nessuno può, e dunque deve, dire cosa è Architettura e cosa no (voglio dare per
scontato che tutti abbiano capito che “lo stile è morto”, almeno questo!).
L’ESSERE AL DI LÀ DELL’ARCHITETTURA È LA CONDIZIONE ODIERNA DEGLI ARCHITETTI.
(Ri)conosciuto questo, è immediato ri-conoscere che se l’Architettura non può più essere quello che
deve essere, può solo essere ciò che vuole essere; e per noi è una prospettiva nient’affatto pessimistica
o negativa, anzi. La cosiddetta attuale mancanza di regole sia per fare sia per discutere di A., ha
letteralmente “liberato” i soggetti singoli; da un lato sottoponendo alcuni allo stress del sempre nuovodiverso-aggiornato-ricercato (è una pressione continua che può solo implementare le opzioni e stimolare le
menti – POSITIVITÀ DELLE SPERANZE), dall’altro relegando altri “fuori” dalla contemporaneità (fautori autistici
delle proprie regole –NEGATIVITÀ DELLE MALINCONIE E DEGLI OPPORTUNISMI); altri, come noi, a ricercare una
terza via, ma questa è, appunto, una altra storia (che, per inciso personale, riparte proprio dal recupero del
discorso moderno, ma non per il non auspicabile “ritorno” (mai più possibile), piuttosto invece perché è stato
e rimane appunto l’ultimo discorso coerente fatto – STOICISMO DELLA RIFLESSIONE CRITICA).
Si procede per scarti e per “critiche”, il progetto è creativo in quanto critico, perché non ha più alcuna regola
da dover rispettare.
È finita la possibilità delle architetture a catalogo, così come dell’Architettura disvelatrice del logos, oggi e qui
gli architetti si trovano a DOVER ESSERE NECESSARIAMENTE PROGETTISTI, A DOVER VOLERE UN’ARCHITETTURA
(SEMPRE CON LA a MINUSCOLA FINALMENTE). E tanti saluti agli “stilisti”, agli accademici, ai pensieri deboli, …
Oggi non è più un’opzione pensare per progettare, è necessario, e nessuno ha più spalle coperte. Coloro
i quali si ritirano autisticamente nel proprio orto artistico o tra le quattro regole della propria personale
disciplina se ne assumeranno le responsabilità di fronte agli uomini che a loro chiedono risposte, e che non
sono più disposti a non capirle.
“Ogni assolutezza inclina alla patologia”.
Tre righe finali ridondanti, di fatto ho già detto tutto, ma…per scaricare il peso:
tutto ciò non significa non - poter - avere una morale, al contrario dover sceglierne una;
non significa non - poter - vivere una storia, al contrario viverla con coscienza;
non significa non - poter - fare una architettura, al contrario farla criticamente;
tutto ciò significa fare le proprie scelte tra altre possibili e non pretendere l’esclusiva della legittimità.
… (08.05)
GIANLUCA BRINI
LIBRO ROSSO – ELEMENTI IN CORSO D’OPERA
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scritture
RIFLESSIONE SULLO SCRIVERE … ATTORNO ALLE ARCHITETTURE,
MA NON DI ARCHITETTURE
LE SPERANZE DELLA RAGIONE
È finita da tempo (non è affatto detto che sia una condizione definitiva ma certo è la condizione dell’oggi) la
possibilità delle architetture a catalogo, dello stile “condiviso”, insomma della composizione, che si basa
sull’esistenza e sulla vittoria dell’Accademia;
così come dell’Architettura disvelatrice del logo, che si basa sulla Dittatura;
ma non finirà mai la ricerca del logo, anche attraverso l’Architettura.
Conseguenza del primo assunto è che oggi e qui gli architetti si trovano a DOVER ESSERE NECESSARIAMENTE
PROGETTISTI, A DOVER VOLERE UN’ARCHITETTURA (SEMPRE CON LA A MINUSCOLA FINALMENTE);
conseguenza del secondo è che gli architetti NON POSSONO IMPORRE LE PROPRIE ARCHITETTURE PERCHÉ NON
ESISTE ALCUN POTERE CHE NE SOSTENGA L’ESSERE, LA LORO,” L’ARCHITETTURA”;
il terzo assunto non esclude che l’ Architettura possa essere uno degli strumenti di ricerca sul mondo, anzi,
ma il fatto che CI SARANNO SEMPRE UOMINI CHE CERCHERANNO ATTRAVERSO L’ARCHITETTURA IL LOGO , per
converso, NON CONCEDE LORO ALCUNA PATENTE DI PREMIERATO A RIGUARDO DELLE LORO ARCHITETTURE.
Si tratta di avere o, piuttosto, cercare e provocare idee, di analizzare problemi e proporre risposte fattuali
“coscienti” non banali o standardizzate, di affermare scienza e coscienza, …, in definitiva: oggi non è più
un’opzione pensare per progettare, è necessario, e nessuno ha più spalle coperte.
In questo momento non è ammissibile riconoscere patenti o timbri, se non altro perché non Esiste l’Autorità
emittitrice o dispensatrice del giusto e del corretto, meno che meno del bello, dell’utile e del solido.
Coloro i quali si ritirano autisticamente nel proprio orto artistico o tra le quattro regole della propria personale
disciplina se ne assumeranno le responsabilità di fronte agli uomini, che a loro chiedono alcune piccole
risposte comprensibili ed utili, e che non sono più disposti a non capire.
A meno, appunto, di non scegliere scientemente, con tutte le conseguenze di in-rapportabilità, la via
esaustiva e conclusiva dell’eremitaggio intellettuale, la via della riflessione solo teorica (non rapportata alle
pratiche) del tutto personalistica (personale lo è sempre, naturalmente) senza fine sull’uomo ed il mondo,
che non può, per definizione, “dare edifici <vivibili>”. L’unica condizione operativa, cioè la disposizione a
“fare qualcosa”, per esempio case o altro, è necessariamente antitetica alla ricerca del logos, per definizione
ricerca che non prevede risultati, se non “il” risultato, eventualmente, e quindi una volta per tutte; ,è invece,
basata sulla ricerca indagatoria costante, senza fine, del senso del nostro mondo e delle nostre pratiche
dentro quel mondo.
È, dunque, possibile “fare architetture” e contemporaneamente “riflettere sull’Architettura” come una delle
possibili vie di conoscenza/visione del mondo, sono solo due dei possibili mondi paralleli ma collegati che
consentono all’uomo di vivere (sopravvivere e sperare).
È certo “patologia”, siamo d’accordo, il filosofeggiare, come dice Luigi Prestinenza Pugliesi, da parte degli
architetti a riguardo dei loro edifici; laddove, occorre specificare, trattasi di “filosofia tradizionale” o, meglio
direi io, delle filosofie.
Diego Caramma ci ricorda anche che in fondo “… è – solo, nel mondo <reale> (n.d.r.) – questione di
fashion.” Certo che qui parrebbe davvero chiudersi il cerchio: ma quali dibattiti tra scienza e filosofia?.
IL PROBLEMA:
basta con la filosofia, e pure basta al triste mercato del consenso greve che annulla la cultura nel fashion,
filosofie comprese; non ci resta, dunque, che discettare sulla triade vitruviana, cioè sul nulla?.
Insomma, a noi pare che ci sia tanta voglia di concretezza, ci sia persino necessità di “realismo”, ma che
tanta premura, in questo caso, sia facilmente foriera di superficialismo.
L’APPROCCIO, RISOLUTORE (?):
Sini, a dare una possibile soluzione disvelatrice addirittura duplice, una di metodo ed una di sostanza:
“2.40 Nella scrittura, intesa come iscrizione di mondo nelle sue molteplici raffigurazioni, accade la
decontestualizzazione delle pratiche dalla loro relazione gestuale in risposte al mondo.
Una porzione di mondo viene così fissata per diventare la cosa che riproduce il mondo come
raddoppio di mondo.
GIANLUCA BRINI
LIBRO ROSSO – ELEMENTI IN CORSO D’OPERA
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2.41 La scrittura disegna dunque il significato come corpo scritto dando concretezza
all’ultrasensibile della cosa che a questo punto si trasforma in figura indipendente e autonoma
rispetto al proprio evento gestuale.
Nella scrittura accade propriamente il sapere come raddoppio del mondo.
2.42 …
2.43 …
Questa è propriamente l’esperienza del concetto che sa le cose perché sup-pone che l’im-posizione
sia un riconoscere il porsi della distinzione, nelle cose, di significati.
Invece è la materialità della scrittura che consente alle cose di essere quella cosa nella sua identità
di riflesso visibile del significato. Prima di questo atto non esistono cose, ma esperienze gestuali in
corpo di mondo.
Paradossalmente è la nostra consuetudine alfabetica a rendere cieca la pratica usuale di
decontestualizzare in segni scritti la rappresentazione del mondo.
2.44 La scrittura appare così nel suo evento di verità: peculiare articolazione pratica della voce
nell’emergere della dimensione del significato come decontestualizzazione del mondo di cui la civiltà
alfabetica evidenzia uno degli esiti destinali.”
Sta tutto nel concetto di SAPERE COME DOPPIO DEL MONDO, INDIPENDENTE DAL MONDO.
Per questo occorre sempre praticare filosofia, non basta averla fatta una volta, non basta avere appreso o
capito o acquisito una rappresentazione del mondo, quella è sempre già morta, non operante per
definizione, perché sarà sempre quel doppio indipendente fissato quella volta.
Con le filosofie assunte non si sta attaccati al mondo, anzi, come è tautologico, ci se ne distacca per
perdersi nell’autoreferenzialità in-contemporanea.
Ma se non si cerca di “darsi” una rappresentazione del mondo non lo si “conosce”!
Così anche la scrittura diventa un EVENTO DI VERITÀ, e non chiacchiere.
Stessa interpretazione, a riguardo della pittura “conoscitiva” di Klee, e il passo all’architettura è davvero
immediato anzi “è già architettura”, leggo in un bellissimo articolo di Cappelletti:
“… Dal paradosso non si esce: il mondo è l’irrafigurabile, ma il mondo è solo in quanto raffigurato. Il
paradosso va vissuto. L’evento del mondo non c’è, se non all’interno della seriosi infinita che è sempre una
miniaturizzazione, una schematizzazione, la realizzazione di un orbis pictus. Il che significa scrittura di
mondo, foglio mondo. … Pensare la pittura in quanto scrittura è proprio un modo d’intendere il foglio-mondo,
ovverosia pensare il fare e il saper fare quali momenti complementari dello stesso gesto: il gesto che traccia
e di-segna il mondo.”
Ricordo che per questa via Klee non ha fatto pittura, ed egli ben lo sapeva e nemmeno certo aspirava a
questo, ed è escluso che si possa fare architettura, sia perché il fine della seconda è l’essere abitata sia
perché il gesto o la filosofia sono a-convenzionali. Le architetture, paradossalmente, esistono solo se
“convenzionali”. Ciò non esclude affatto, anzi!, la ricerca e la contemporaneità, nemmeno l’avanguardia,
esclude invece l’arroganza del gesto definitivo ed unico e la possibilità di ottenere il vero ed il giusto; ciò che
in definitiva giustifica ed anzi causa, appunto, la ricerca operativa dinamica in-finita.
La decontestualizzazione del mondo per coglierne la verità, cioè dargli un significato, e fissarlo per
concetti con la scrittura nella sua rappresentazione, sapere, è meccanismo cognitivo sapienziale,
non risultato. È il meccanismo “filosofico”, appunto, qui declinato a dar conto dell’importanza della
parola scritta per l’uomo, quella che ha dato esistenza alle cose-concetti, spingendoci OLTRE I GESTI
ED I SENTIMENTI.
Questa è la parola scritta, ci ricorda Sini, e non è poco.
Per inciso, la polemica da cui siamo partiti ci riporta alla “pura” gestualità.
E la scrittura, mi pare dica Sini, non è solo quella alfabetica, tanto per non tranquillizzarci. Ed infatti se porto
alle conseguenze operative la scrittura che non è solo gesto, o solo descrizione del sentimento, non è solo
registro del parlato, arrivo a pensare la scrittura come pro-getto.
Il pro-getto, tutte le volte che agisce, decontestualizza il mondo e lo riscrive come proprio mondo,
dandogli il senso transeunte del momento. Per questo il pro-getto, come noto, esprime tutto un
mondo. È, infatti, un “progetto di mondo”; quando non è solo “tecnico”.
Ecco perché non sopportiamo le “scritture” di tecniche e di stili (manuali), le composizioni, queste cose si
riferiscono all’apprendimento ed all’insegnamento di lessici, a metodi e sistemi linguistici, non a concetti
cognitivi. All’interno di questi sistemi, strutturati come gabbie di regole autopoietiche, e solo al loro interno,
esiste l’Architettura; sono cose che partecipano a fare le architetture, ma non riguardano certo la “scrittura
della rappresentazione del mondo”. Più semplicemente, e senza il portato di una definizione,
GIANLUCA BRINI
LIBRO ROSSO – ELEMENTI IN CORSO D’OPERA
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rappresentazione del mondo, che forse a qualcuno ricorda troppo certe “storie”, potremmo parlare di “visione
del mondo”. Ecco, chi non è portatore della propria?.
Non diversamente si inquadra il riferimento alle filosofie ed alle scienze (intese come “queste e quelle …”),
ché tutto ciò assieme rientra nel nostro mondo quando ci accingiamo a scrivere e di volta in volta farne il
doppio. Ma non è di “queste cose” che si innerva la scrittura, non delle esperienze e delle pratiche note, se
è, o meglio tende ad essere, “evento di verità”; quindi, per definizione, a-convenzionale in quanto tesa
proprio oltre le convenzioni.
TROVO ora in Sini quella corrispondenza “scritta”, rileggibile e riflettibile, di quanto ho diversamente sempre
cercato “scrivendo”: non raccontare, cioè, o descrivere, o “rappresentare” (convenzionalmente), non
sostenere assunti o dare risposte, ma fare altro: cercare altri concetti e significati, decontestualizzare, cioè
aprire, il mondo, e ricavarne visioni sempre nuove e diverse, in-seguenti il mondo.
Già detto tempo fa di una scrittura come pro-getto, allora: È pensabile, ancorché dicibile, una
rappresentazione/visione del mondo data, una volta per tutte?; È data l’Architettura?; è certo sempre
possibile una “risposta architettonica convenzionale” ai problemi del mondo, questo sì.
Oppure, l’Architettura, Esiste se Esiste una Rappresentazione del mondo vincente, e con essa le sue
“derivate” nelle pratiche.
”SCRITTURE”
1.
SULLA DICOTOMIA FILOSOFIA - SCIENZA:
Si può intendere
l’Architettura, l’Arte, il Mondo
come problema-crisi-concetto
oppure
come evento-fenomeno-cosa.
Sulla prima strada non c’è mai approdo, gli esiti sono per natura “incompiuti”; l’approdo della seconda è solo
un approdo (buono per una e sola occasione, un po’ troppo consolatorio in definitiva, ma utile se, per
esempio, si deve “realizzare” una casa).
Non poi che sia, come sembra, “immediatamente” declinabile nella pratica la seconda via, e ciò dovrebbe di
molto far riflettere, e non la prima. Tutto quanto ci hanno mostrato le nostre poche esperienze, anni ‘90 e
seguenti, passa attraverso la pratica “non mediata” della CRISI (postmodern e decostruttivismo), come
dell’EVENTO (fenomenologia e neoespressionismo).
Tutte queste manifestazioni sono semplicemente e puramente “primitive”, solo “gestuali”, anche se tentativi
“necessari”.
Diceva Simmel che la filosofia è un “tentativo senza speranza, ma non privo di senso”.
Si pone il seguente, forse non inevitabile, … contrapposto, tra filosofia e scienza: “l’una tesa alla
consapevolezza che l’uomo deve o dovrebbe avere del mondo come problema, l’altra allo studio pedissequo
del mondo come evento” (Di Giovanni); il che poi, naturalmente, non è vero, ma è un’utile costruzione di
confine.
Il “sentimento” (etimologicamente da “sentire”), che innerva la seconda condizione, è per definizione
passivo, si sente qualcosa a causa di qualcosa - si cerca poi di descriverlo; il concetto è conquista, visionario
sforzo agonistico sempre senza soddisfazione - si cerca un colpo di fulmine.
È “il problema” il problema (“il lato problematico delle cose”) non “l’evento”, il pensiero e non l’esito.
La voglia di razionale e di mete non ci libera dalla pluralità di senso e non riesce ad esorcizzare la profondità
dell’animo, salvo i casi in cui la costruzione del consenso su “un senso” pare temporaneamente avere effetti
di massa tali da intorpidire il cervello; vanamente, tuttavia. L’amministrazione del consenso quotidiano può
forse coprire il dubbio “atavico” ed antropologico per un attimo, ma il dubbio è irrequieto ed instancabile,
emerge e muove il pensiero.
Ma non si spacci l’afflato filosofico, la volontà di pensare, per fondamento di pratiche, anche di Architettura,
ché l’etica del fare non corrisponde a certezze intellettuali ma ad atteggiamenti di responsabilità.
Voglio dire anche che tra l’agnosticismo dell’atteggiamento ermeneutico che impegna una vita nel solo
studio interpretativo ed analitico delle cose singole, senza alcuna prospettiva “oltre” (pensiero debole alla
moda), e l’atteggiamento freneticamente attivo di chi tenta di penetrare il senso delle cose, forse vanamente
- sempre parzialmente - sbagliando per definizione - osando per incapacità a non farlo - …, trovo utile il
primo ma necessario il secondo.
2.
SULLE PAROLE:
GIANLUCA BRINI
LIBRO ROSSO – ELEMENTI IN CORSO D’OPERA
18
Ciascuno pensi alle differenze che sente tra “espressione” e “comunicazione”, vero è che se si può anche
parlare nel vuoto, la comunicazione richiede per definizione almeno un ascoltatore comprendente quello che
voglio comunicare; quanto la prima può essere autistica, tanto la seconda s’inquadra in un ambito chiuso.
Insomma, corre una bella differenza tra linguaggio e pensiero, e non tutto il pensiero è “comunicabile”,
qualsiasi sia il linguaggio.
Brevemente: “è un grosso abbaglio considerare un termine semplicemente come l’unione di un certo suono
con un certo concetto. Definirlo così, significherebbe isolarlo dal sistema di cui fa parte; significherebbe
credere che si possa cominciare dai termini e costruire il sistema facendone la somma, laddove, al contrario,
è dal tutto solidale che bisogna partire …”(De Saussure); e a seguire, attraverso Merleau-Ponty e poi Cesare
Brandi si arriva dritti al dunque: “La struttura è un semplice sostituto della nozione di essenza … nel pensiero
strutturalista si scopre un nuovo modo di vedere l’Essere.” (M. P.), “A questo punto e solo a questo punto ci
si spiega la lenta illuminazione che ha guidato, come una calamitazione invisibile, le scienze dell’uomo a
perseguire un concetto che oltrepassasse, inglobandole, sistema e organizzazione, ed evitasse il
determinismo, facendo risalire ad un livello che, senza esigere di disseccare la realtà per vedere come è
fatta, desse il modo di possederla dall’alto, come concetto e non come fenomeno.” (C. B.).
Schematicamente: pensiero > espressione > scrittura è la linea dei concetti, del pensabile e ri-pensabile, del
ri-flettibile, non necessariamente comunicabile, è la linea dei problemi; linguaggio > comunicazione >
messaggio è la linea della lingua, del “fenomeno” descrivibile e comunicabile, finito nel momento in cui
arriva.
MA, soprattutto, non c’è mai da stare tranquilli:
“… TUTTI SIAMO AFFETTI DA QUEL GRANDE PREGIUDIZIO CHE FA DELLA PSICHIZZAZIONE E DELLA
INTERIORIZZAZIONE DELL’UOMO UNA OVVIETÀ UNIVERSALE, CUI CORRISPONDE, IN PERFETTO PARALLELISMO, IL
PREGIUDIZIO DELL’ESISTENZA OBIETTIVA E IN SÉ ASSOLUTA DELLE COSE…”
(Carlo Sini). (3.05)
GIANLUCA BRINI