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Bellini e Vaccaj: peripezie di un finale
Nei Capuleti sonvi delle melodie veramente interessanti per la forma e l’ispirazione, e l’ultimo atto, che un’usanza antica fa sostituire dall’ultimo atto
dell’opera omonima di Vaccai (veramente sublime) ha delle particolarità drammatiche, espresse colle note in modo superbo, e il sentimento del dolore che
domina nella funebre scena ha per suoni delle vere lacrime. Noi non crediamo
il 3° atto di Bellini superiore a quello di Vaccai, e forse nemmeno suo pari, ma
riconosciamo che è desso una delle pagine di musica più sentita da lui scritta.1
Queste parole, che elogiano il finale dei Capuleti e Montecchi belliniani senza
però ritenerlo superiore a quello dell’opera di Vaccaj sullo stesso soggetto,
non destano particolare meraviglia se le si considera alla luce della prassi
ottocentesca. È noto a tutti che a un certo punto il finale dell’opera di
Bellini fu sostituito dalle pagine corrispondenti di quella di Vaccaj, e che
la sostituzione entrò da allora nell’uso comune; sono noti anche i giudizi
coevi sui due finali, che quasi sempre ritengono quello di Giulietta e Romeo
superiore a quello dei Capuleti e Montecchi. Non v’è dubbio che la prassi
della sostituzione fosse, all’epoca di Bellini, tacitamente accettata ed anzi
approvata, per quanto il fatto appaia, oggi, sconcertante: non solo in rapporto all’idea moderna della volontà d’autore e dell’autorialità dell’opera
d’arte, ma anche per il giudizio di valore che oggi è più facile formulare
sull’opera di Vaccaj, dopo che la ripresa moderna e l’incisione discografica
hanno messo il confronto alla portata di tutti, rivelando – tra l’altro –
quanto retrospettivo sia il linguaggio musicale e drammatico di Giulietta e
Romeo rispetto a quello dei Capuleti e Montecchi.2
1. Alfredo Soffredini, Vincenzo Bellini: l’opera d’arte, in Omaggio a Bellini nel primo centenario
della sua nascita, Catania, Circolo Bellini, 1901, pp. 17-44: 24.
2. L’opera di Vaccaj, Giulietta e Romeo, è stata rappresentata al Teatro Pergolesi di Jesi nell’ottobre del 1996; in quell’occasione ne è stata effettuata un’incisione dal vivo (compact disc
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D’AMORE AL DOLCE IMPERO
Se le affermazioni citate in apertura ribadiscono un’idea un tempo
ampiamente diffusa, sorprende constatare come esse furono formulate
non all’epoca di Bellini o nei decenni immediatamente successivi, bensì
all’inizio del Novecento, e per di più in un’opera dal carattere praticamente
agiografico, quell’Omaggio a Bellini che fu licenziato a Catania per le celebrazioni del primo centenario della nascita del musicista. Che l’idea della
superiorità del finale di Vaccaj e la prassi della sostituzione del finale belliniano persistessero così a lungo è fenomeno forse insospettato, e stimola
qualche riflessione. La questione solleva, innanzitutto, alcuni interrogativi.
È proprio vero (come sostengono tutti quanti deplorano il ‘sacrilegio’) che
la sostituzione fu dovuta al capriccio di una primadonna? Fu un evento,
in altri termini, semplicemente riconducibile alle solite ‘convenienze teatrali’, vincolanti in un genere in cui da sempre il momento compositivo
è fortemente sbilanciato in favore di quello esecutivo? Ed è vero che la
sostituzione fu universalmente accettata? Cosa spiega, inoltre, il successo
così duraturo di una prassi che all’epoca di Bellini era ormai obsoleta, che
infrangeva un principio – quello dell’intangibilità dell’opera – che in quegli
anni era in via di veloce affermazione anche nel campo del melodramma, e
che oltretutto colpiva un autore caratterizzato da una forte autocoscienza,
da un senso molto vivo della proprietà della creazione artistica e da una
decisa volontà d’imporre non solo il proprio dettato testuale, ma anche le
proprie idee ad ogni aspetto della rappresentazione operistica? Prima di
dare una risposta a questi interrogativi, vediamo brevemente come andarono le cose.3
Bellini compose I Capuleti e i Montecchi in un tempo per lui insolitamente breve, tra la fine di gennaio e l’inizio di marzo del 1830, e a seguito di
circostanze fortuite. Trovandosi a Venezia per curare un nuovo allestimento del Pirata alla Fenice, fu invitato a rimediare a un’inadempienza contratBongiovanni GB 2195/96-2). Inoltre nel 1988 è stata realizzata un’edizione discografica dei
Capuleti e Montecchi con entrambi i finali (compact disc RCA 09026 68899-2).
3. Per una trattazione più esaustiva dell’argomento rimando all’introduzione storica e
agli apparati dell’edizione critica, da me curata, dei Capuleti e Montecchi di Bellini, Milano,
Ricordi, 2003.
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tuale di Giovanni Pacini scrivendo, in tutta fretta, un’opera che sarebbe
dovuta andare in scena nel corso della stessa stagione. Bellini prese in
esame, dapprima, il libretto che Felice Romani aveva iniziato a scrivere per
Pacini (si trattava di Olga, o L’orfana moscovita); trovatolo insoddisfacente, e
mancando il tempo di approntare un nuovo libretto, si accordò con Romani per riutilizzare il testo che lo stesso librettista aveva preparato, qualche anno prima, per Giulietta e Romeo di Vaccaj. Per il libretto della nuova
opera di Bellini, Romani avrebbe mutato, oltre al titolo, alcune situazioni
drammatiche, avrebbe conservato molti dei vecchi versi ma ne avrebbe
creato dei nuovi;4 anche Bellini, del resto, si sarebbe facilitato il compito
recuperando parecchio materiale melodico dalla precedente Zaira, ritirata
dalle scene dopo l’insuccesso della ‘prima’ a Parma nel maggio 1829.
Riutilizzando un libretto di poco precedente, Bellini si esponeva a
critiche e confronti. Giulietta e Romeo di Vaccaj, rappresentati alla Canobbiana di Milano il 31 ottobre 1825, erano stati a loro tempo ben accolti e
circolavano ancora nei teatri italiani; l’opera costituiva perciò per Bellini
un rischioso termine di paragone. Per di più, il pubblico conosceva un’altra opera sullo stesso soggetto: si trattava del vecchio lavoro di Nicola
Zingarelli, anch’esso intitolato Giulietta e Romeo, rappresentato alla Scala
di Milano l’ormai lontano 30 gennaio 1796, ma rimasto in circolazione
fino ai primi anni Trenta dell’Ottocento grazie a cantanti celebri come
Girolamo Crescentini, prima, e Giuditta Pasta, poi, che ne avevano fatto
uno dei propri cavalli di battaglia.5 È noto che un soggetto drammatico
4. Le modifiche più vistose riguardarono l’eliminazione del personaggio di Adele, la madre di Giulietta (ciò che permise di sfoltire molti recitativi), e la riduzione del numero
complessivo dei versi (il nuovo libretto ne conta un buon terzo in meno). Elaborando il
nuovo libretto, Romani gli diede un taglio drammatico più stringato e moderno; tagliò
alcune scene, ne riassunse altre, e in generale concesse meno spazio alle arie solistiche.
A volte riutilizzò gruppi interi di versi del vecchio libretto, altre volte rielaborò i versi o
li riscrisse ex novo.
5. Per una sommaria lettura dell’opera cfr. Claudio Toscani, Soggetti romantici nell’opera
italiana del periodo napoleonico (1796-1815), in Aspetti dell’opera italiana fra Sette e Ottocento: Mayr
e Zingarelli, a cura di Guido Salvetti, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 1993 (Quaderni del
Corso di Musicologia del Conservatorio “G. Verdi” di Milano, 1), pp. 13-70: 35-43. Sulla
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D’AMORE AL DOLCE IMPERO
tende a identificarsi, nell’immaginario collettivo, con un’opera singola e
solo con quella, almeno sino al momento in cui un’opera nuova giunge a
detronizzarla; è chiaro, allora, che la nuova impresa di Bellini poteva creare
frizioni con i suoi predecessori, relegando in secondo piano le loro opere
o scalzandole definitivamente dal repertorio. Non meraviglia perciò che
Vaccaj, apprendendo a Parigi che Romani aveva rimaneggiato per Bellini
il libretto scritto in origine per i suoi Giulietta e Romeo, considerasse l’operazione come uno sgarbo personale; né che quando gli venne proposto,
tempo dopo, un libretto sul soggetto della Straniera, fosse tentato di metterlo in musica per ripicca.6 Se Bellini non si fece troppi problemi con il
collega Vaccaj, dovette invece farsene qualcuno in più con Zingarelli, il suo
vecchio maestro del Collegio di San Sebastiano, nei confronti del quale
l’allievo di un tempo doveva conservare qualcosa dell’antica deferenza. Se
è vero ciò che riferisce Florimo, Bellini gli scrisse: forse non proprio per
chiedergli il permesso, ma almeno per informarlo che avrebbe messo in
musica il medesimo soggetto.7
All’epoca di Bellini, Giulietta e Romeo di Zingarelli venivano ancora rappresentati nei teatri italiani grazie alla Pasta, che amava esibirsi nei panni
di Romeo. L’ultimo atto dell’opera, in particolare, offriva alla cantante la
possibilità di mettere in luce le proprie doti d’attrice drammatica; ed erano
soprattutto queste scene finali che giustificavano la ripresa – di norma accompagnata da inserzioni estranee – di un’opera che il pubblico avvertiva
chiaramente come un prodotto ormai antiquato dell’antica scuola. Ancora
all’inizio del 1831, quando Giulietta e Romeo vennero rappresentati sulle
scene del Teatro Carcano di Milano, un recensore esprimeva tutta la sua
ammirazione per il finale dell’opera del vecchio maestro napoletano:
Giulietta e Romeo, musica di Zingarelli e parecchj altri. [...] Madama Pasta [...] ha
trovato il modo di produrre in tutta la parte di Romeo, e più poi nell’ultima
fortuna dell’opera cfr. Alessandro De Bei, «Giulietta e Romeo» di Nicola Zingarelli: fortuna ed
eredità di un soggetto shakespeariano, ivi, pp. 71-125: 80-97.
6. Cfr. Vita di Nicola Vaccaj scritta dal figlio Giulio, Bologna, Zanichelli, 1882, pp. 129-130.
7. Francesco Florimo, Bellini. Memorie e lettere, Firenze, G. Barbera, 1882, pp. 89-90.
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scena tanto eminentemente tragica, quell’effetto di cui nessuna delle grandi
attrici a noi note, ha mai prodotto il maggiore e lo ha fatto cantando con
quella semplicità, quella maestria e quel giudizio come già da un pezzo non
si suole più cantare. Ora questa scena che ha sì profondamente commossa
tutta l’udienza, è di quella fattura vecchia, del vecchio Zingarelli. Tanto è
vero che anche nelle arti che hanno un progresso v’è un bello permanente,
ed è quello che parla al cuore.8
È l’ultimo atto dell’opera di Zingarelli, dunque, che ancora a quell’epoca valeva come un modello d’arte drammatica, esemplare e collocato fuori del tempo. Si tratta del gruppo di scene che iniziano con l’arrivo di
Romeo nel luogo in cui è sepolta Giulietta, e vi si svolgono per intero.
L’atto consiste in una serie di recitativi accompagnati e di aperture ariose,
che si succedono in libera alternanza e tradiscono la ricerca di una certa
continuità drammatica; l’allentamento formale, il trapasso fluido di una
sezione nell’altra vi sono evidentemente funzionali al pathos del momento,
alla raffigurazione del dolore estremo. Per molti aspetti, l’atto presenta le
stesse caratteristiche di quella che in anni successivi verrà chiamata la ‘gran
scena’: il numero solistico dalla macrostruttura più ampia e più complessa
del solito, connotato da libertà morfologica, discontinuità, commistione
tra declamato ed espansione lirica, insomma da una forma dinamicamente
flessibile adatta a seguire i trapassi psicologici del personaggio in scena.
L’opera composta da Vaccaj sullo stesso soggetto, più recente, costituiva per I Capuleti e i Montecchi di Bellini un riferimento più immediato. Anche
in questo caso era il finale dell’opera a costituire un modello autorevole, e
assai apprezzato, d’arte drammatica.9 Il gruppo delle ultime scene di Giulietta
8. «L’Eco» n. 21, 18 febbraio 1831, pp. 83-84.
9. Fra le tante testimonianze è degna di nota quella di Rossini, che in una lettera al marchese Torquato Antaldi di Pesaro, in data 15 giugno 1851, esprime un giudizio lusinghiero
su Nicola Vaccaj e attesta quanto il nome del compositore fosse legato a quelle celebri
pagine: «Per quella cognizione che io tengo delle produzioni d’ingegno di codesto mio
illustre amico, posso asserire essersi il medesimo assai distinto nella parte sentimentale
congiunta ad una filosofia che fa l’elogio del suo giudizio. Ciò emerge singolarmente [...]
soprattutto dall’atto terzo dell’opera Giulietta e Romeo, che gli assicura un posto assai lu-
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D’AMORE AL DOLCE IMPERO
Tabella 1
Scene finali di Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj
(Milano, Teatro alla Canobbiana, 1825)
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R = Romeo, G = Giulietta, C = Capellio, L = Lorenzo
La denominazione dei ‘numeri’ musicali è tratta dalla prima edizione della riduzione per canto e
pianoforte: Giulietta e Romeo grand’opera del sig.r m.o Nicola Vaccaj composta per l’I. R. Teatro alla Canobbiana,
Milano, G. Ricordi, s.d. [1826], n.l. 2473-2491. La prima colonna della tabella indica, in numeri romani,
la scena del libretto; la seconda il metro del testo poetico (vs = versi sciolti, 7 = settenari, etc.).
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e Romeo è caratterizzato da un’articolazione formale molto chiara (tabella
1). Prende il via con il coro “Addio per sempre, o vergine”, intonato dai
familiari di Capellio riuniti intorno alla tomba di Giulietta, e prosegue con
una scena preparata da un’ampia introduzione strumentale e tutta intessuta
degli interventi solistici di arpa e corno. Segue l’aria di Romeo, costituita dal
cantabile “Ah! se tu dormi, svegliati” e da un tempo di mezzo che conduce
a una cabaletta (“Stagnate, o lagrime”), completa nel testo poetico ma solo
accennata in quello musicale, e subito dissolta nel recitativo seguente. È a
questo punto che entra in gioco Giulietta, risvegliandosi dalla morte apparente; dal suo intervento scaturisce senza soluzione di continuità un duetto nel quale sono riconoscibili le sezioni canoniche della ‘solita forma’. Al
termine del duetto Romeo muore e Giulietta si accascia, svenuta. In alcune
rappresentazioni, all’epoca, si fece terminare l’opera con questa situazione,
altamente patetica. La partitura originale di Vaccaj, tuttavia, prosegue con
un ultimo ‘numero’ chiuso, l’aria di Giulietta. Preceduta da una scena in cui
Lorenzo, giunto nel luogo funebre, scopre i corpi esanimi degli amanti e poi
riceve spiegazioni da Giulietta, l’aria inizia con il cantabile “Prendimi teco, e
involami”; nel successivo tempo di mezzo entrano in scena anche Capellio
e i suoi, hanno luogo nuove spiegazioni, finché l’aria si conclude con la cabaletta “Ah! crudel! se vuoi ch’io viva”. Giulietta muore, infine, e l’opera si
chiude con le invocazioni di Capellio e i commenti corali della sezione finale
(piuttosto lunga, se confrontata con la fulminea conclusione di Bellini).
Nell’insieme, le intenzioni di Vaccaj sono chiare: la struttura del finale si
spiega con l’esigenza di lasciare alla protagonista l’aria conclusiva, il tradizionale ‘rondò’, malgrado ciò determini un’evidente incongruenza drammatica
(cui pose a volte rimedio, come abbiamo ricordato, la prassi di chiudere
l’opera con il duetto di Giulietta e Romeo, tagliando l’aria finale). Al confronto, il finale dei Capuleti e Montecchi è molto meno condizionato dalla tradizione. D’impianto elastico, privo di articolazioni formali così nette, l’ultimo
‘numero’ dell’opera belliniana trapassa libero dal recitativo all’arioso; mostra
inoltre maggiore concisione e tensione drammatica, elimina spiegazioni e
lungaggini e chiude in poche battute, repentino ed efficace, con il rientro in
minoso tra i compositori di miglior rinomanza» (cit. da Luigi Rognoni, Gioacchino Rossini,
nuova ed. riv. Torino, Einaudi, 1977, p. 302).
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D’AMORE AL DOLCE IMPERO
scena di Capellio, di Lorenzo e del coro subito dopo la morte di Romeo e di
Giulietta. L’invenzione di Vaccaj, al contrario, è incanalata nelle forme della
tradizione italiana, caratterizzate da una chiara scansione e da passaggi ben
percepibili da una sezione all’altra; ciò permette al compositore, tra l’altro,
di mettere in risalto i momenti lirici, strutturati come pezzi chiusi e in sé
compiuti. Uno di questi, il cantabile di Romeo “Ah! se tu dormi, svegliati”,
fu sempre considerato il punto d’eccellenza del finale. Giudicato un vero capolavoro di espressione drammatica, rimase per anni nel repertorio di grandi
interpreti ed ebbe vita indipendente sia dall’opera di Vaccaj, sia da quella di
Bellini nella quale il finale venne trapiantato. Questa pagina ammiratissima
fu presa a paradigma di esemplare scrittura vocale; la naturalezza di un canto
moderatamente espressivo, che procede di preferenza per piccoli intervalli e
non acconsente a forzature, il giusto equilibrio tra effusione lirica e accenti
drammatici, ne fanno effettivamente un esempio magistrale dell’antica e gloriosa tradizione belcantistica italiana (esempio 1).
Il paragone con le due opere precedenti sullo stesso soggetto emerse già,
com’era naturale, alle prime rappresentazioni dei Capuleti e Montecchi. Benché
per la critica vagheggiare l’antico sia uno stereotipo, è significativo che pressoché tutti i recensori prendessero posizione in favore dei predecessori di
Bellini. Il luogo, in particolare, che più di ogni altro attirava l’attenzione e si
prestava a un confronto era il finale dell’opera. Dopo la ‘prima’ veneziana,
che cadde l’11 marzo 1830, sui giornali comparvero opinioni discordi: il
recensore dell’«Eco» scriveva che per questa pagina belliniana «l’entusiasmo
non ha più ritegno, e la delizia di quei mesti e veramente ragionati filosofici
concerti, sprigiona dal ciglio di chi ascolta le lagrime con tanto effetto che
quasi si vorrebbe che più lungamente durasse quella agonia per più lungamente provare quelle dolci sensazioni»; ma secondo un anonimo abbonato a
«I Teatri», che esprimeva in una lettera al giornale alcune riserve sulla nuova
opera, «questa scena riesce fredda anche per chi non conosce le Giulietta e
Romeo di Zingarelli e di Vaccaj».10
10. «L’Eco» n. 34, 19 marzo 1830, p. 136 (cit. da Luisa Cambi, Vincenzo Bellini. Epistolario,
Milano, Mondadori, 1943, pp. 244-246); «I Teatri» anno IV, 1830, fasc. X (cit. da Cambi,
Vincenzo Bellini cit., pp. 246-248).
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Giudizi non dissimili comparvero anche, alla fine di quell’anno, a seguito delle rappresentazioni dei Capuleti al Teatro alla Scala di Milano, dove
l’evento ebbe, sulla stampa, risonanza maggiore che a Venezia. Bellini presentava, a Milano, una versione rimaneggiata dell’opera, che aveva dovuto
essere adattata a una compagnia di canto parzialmente nuova; ai primi di
gennaio del 1831 (I Capuleti e i Montecchi avevano aperto la stagione la sera
di Santo Stefano) Bellini scriveva all’amico Giovanni Battista Perucchini
che «i giornali, in particolare Pezzi e Previdali, vogliono che l’opera ceda
di gran lunga a quella di Vaccaj pure non so il pubblico non sia stufo di
ascoltare una composizione sì debole e scevra d’intrinseco».11 Nei giorni
precedenti Francesco Pezzi e Luigi Prividali, che scrivevano rispettivamente sulle pagine della «Gazzetta privilegiata di Milano» e del «Censore universale dei teatri», avevano entrambi manifestato la loro preferenza per le
opere scritte dai predecessori di Bellini sullo stesso soggetto:
Tre opere abbiamo sulla catastrofe dei due infelici amanti di Verona. Quella
di Zingarelli, quella di Vaccaj, e quella di Bellini. Queste tre composizioni
stanno in ordine di data pel merito; in quanto all’effetto, se si giudichi dal
fatto, stanno in ordine inverso. Senza parlare della più vecchia, che la Pasta
sola ha potuto ringiovanire l’anno scorso, diremo che quella di Vaccaj, cede
a quella di Bellini nei pregi di dettaglio, ma che nell’insieme la vince. In quanto
all’ultima scena non regge la menoma idea di paragone. Vaccaj vi fece spiccare tutto il drammatico della sciagura con melodie che rapiscono; Bellini
che avea saputo vincerlo nell’aria finale della Straniera, dee darsi per vinto in
quella dell’amator di Giulietta.12
Inconsiderato doveva stimarsi per lo meno il divisamento di mettere una nuova musica in confronto di quella [di Vaccaj], che con tanto suo merito e con
tanta altrui soddisfazione vive tuttora sulle nostre scene. [...] l’ultima scena [di
Bellini], che per la poesia non potrebbe essere più bella, non ha di commovente che la dolorosa sua azione.13
11. Lettera del 3 gennaio 1830; cfr. Cambi, Vincenzo Bellini cit., pp. 264-265.
12. «Gazzetta privilegiata di Milano» n. 364, 30 dicembre 1830.
13. «Il censore universale dei teatri» n. 1, 1 gennaio 1831, p. 2.
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Esempio 1. Nicola Vaccaj, Giulietta e Romeo, II, 12.
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Considerazioni analoghe uscivano sulle pagine dell’«Allgemeine musikalische Zeitung», il cui corrispondente italiano, rilevando che a Milano
I Capuleti e i Montecchi erano piaciuti meno che a Venezia, giudicava l’opera
noiosa, ricorreva anch’egli al paragone con l’opera di Vaccaj e constatava la
preferenza generale per quest’ultima: «Mit der Musik dieser Oper ist man
sehr wenig zufrieden, und zieht Vaccaj’s Romeo e Giulietta mit Recht bey
weitem vor».14 Possiamo supporre che questi giudizi riflettessero un’opinione largamente condivisa. Il finale dell’opera di Vaccaj, con la sua chiara
scansione in ‘numeri’ e la loro tradizionale articolazione interna, con le sue
melodie accattivanti e ben individuate, offriva a pubblico e critica modelli
più familiari rispetto al finale di Bellini; se a ciò si aggiunge che le scene
finali dei Capuleti e Montecchi concedono ben poco alle velleità esibizionistiche di una primadonna – non solo per la mancanza della convenzionale
aria solistica con cui chiude l’opera di Vaccaj, ma anche per le scarse concessioni all’espansione melodica formalizzata – il quadro è completo. Le
smanie di questa o quella cantante, in ogni caso, non spiegano per intero
la sostituzione delle scene finali dell’opera di Bellini con le scene corrispondenti dell’opera di Vaccaj, presto divenuta prassi comune: il terreno è
preparato da un giudizio all’epoca ampiamente diffuso.
La sostituzione del finale belliniano avvenne quasi subito. Il 26 febbraio 1831, nel corso della stagione di carnevale, I Capuleti e i Montecchi andarono in scena al Teatro della Pergola di Firenze; a Pisa si diedero invece,
nella stessa stagione, Giulietta e Romeo di Vaccaj. Prividali ne approfittò per
mettere a confronto, sulle pagine del «Censore universale dei teatri», le due
opere concorrenti:
Giulietta e Romeo di Vacaj è una bell’opera che ha tutti i titoli per chiedere
l’approvazione degl’intelligenti e dei non intelligenti, è un’opera che per bella
sarà sempre stimata, e lungamente ancora gustata in teatro. Quella dei Capuleti e Montecchi di Bellini è un’opera sostenuta ancora per poco dal solo capric-
14. «Della musica di quest’opera si è molto poco soddisfatti, e a ragione si preferiscono
di gran lunga Romeo e Giulietta di Vaccaj». «Allgemeine musikalische Zeitung» xxxiii/11,
16 marzo 1831, col. 170.
BELLINI E VACCAJ: PERIPEZIE DI UN FINALE
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cio della moda, e vicina a perdersi con essa dalla memoria perfino di coloro
che la vorrebbero in oggi anteporre alla prima. Intanto finché dura la moda,
durerà la curiosità di volerla sentire, e questa curiosità l’ebbero i Fiorentini.
Parlando poi delle rappresentazioni fiorentine, Prividali riferiva che il pubblico mostrava di apprezzare ben poco il finale dell’opera di Bellini. A un
certo punto, per rimediare all’accoglienza fredda, Santina Ferlotti – che
vestiva per l’occasione i panni di Romeo – ebbe l’idea di sostituire il finale
belliniano con le scene corrispondenti dell’opera di Vaccaj, riscuotendo
con ciò l’approvazione generale:
Il primo atto di quest’opera ebbe moltissimi applausi, il secondo pochi, il
terzo non n’ebbe affatto. [...] Così proseguendo arrivò la sera di mercoledì,
9 corrente marzo, che fu in benefizio della signora Ferlotti, ed essa per ravvivare alquanto in tale occasione la scena, si avvisò di sostituire al terzo atto di
questo spartito la superba scena delle tombe di Vacaj; anche il tenore cantò
l’aria di Vacaj invece di quella di Bellini, ed ambi questi virtuosi si accorsero
dall’aggradimento generale quanto fosse stato sano il loro consiglio. [...] la
Ferlotti poi, e per verità di declamazione, e per dolcezza di espressione, e maestria di canto, fu portata alle stelle con gli applausi d’un vero fanatismo, che
diventarono anche più veementi, quando per compiacere il pubblico voto
eseguì la cavatina della Rosina nel Barbiere di Siviglia.15
15. «Il censore universale dei teatri» n. 22, 16 marzo 1831, pp. 86-87. La sostituzione, lo rivela l’articolo, avvenne per la prima volta a Firenze il 9 marzo 1831: è dunque falsa la notizia,
riferita da tutti i biografi, che fosse la Malibran a introdurre per la prima volta, a Bologna nel
1832, il finale di Vaccaj nell’opera di Bellini. Il riferimento del «Censore» a un «terzo atto»,
quando è noto che la partitura dei Capuleti è divisa in due atti e il libretto in quattro parti, trova spiegazione nella prassi di eseguire senza interruzioni le prime due parti, calando invece il
sipario dopo la terza: la quarta parte del libretto, perciò, si presta ad essere scambiata per un
terzo atto («abbiam diviso l’Azione in quattro parti [...]: nulla dimeno le due prime si fanno
di seguito per servire all’usanza d’oggidì, e alla terza soltanto si cala il Sipario per agevolare la
decorazione», scrive Romani nell’Avvertimento premesso al libretto a stampa). Anche Giulietta
e Romeo di Vaccaj è in due atti, ma il gruppo delle scene finali – prima del quale avviene un
mutamento scenico, con conseguente calata del sipario – è spesso chiamato «terzo atto».
208
D’AMORE AL DOLCE IMPERO
A questo punto il solco era tracciato. Nell’ottobre del 1832, a Bologna,
Maria Malibran si esibì nel ruolo di Romeo e sostituì anch’essa il finale di
Bellini con quello di Vaccaj (senza farsi scrupolo di introdurre nell’opera
pure un duetto di Mercadante e un altro di Celli); mantenne la sostituzione
in tutte le successive rappresentazioni delle quali fu protagonista, e il suo
esempio fece scuola. In più di un’occasione, la sostituzione fu effettuata
nel tentativo di rimediare a un insuccesso o perlomeno a un’accoglienza
tiepida. Così avvenne a Parigi, ad esempio, all’inizio del 1833, quando I
Capuleti e i Montecchi esordirono al Théâtre Italien con le sorelle Giulia e
Giuditta Grisi nei ruoli rispettivi di Giulietta e Romeo. Il pubblico riservò
all’opera una buona accoglienza, ma trovò debole il finale. Dalle pagine
della «Revue musicale» François-Joseph Fétis pose a confronto la nuova
opera di Bellini con quelle dei predecessori, riconoscendole un carattere
più drammatico; a proposito del finale notò, tuttavia, come il ricordo delle
scene corrispondenti nelle opere di Zingarelli e Vaccaj agisse, presso il
pubblico, a svantaggio di Bellini:
Quoi qu’on en ait dit, la musique de Zingarelli n’était pas à la hauteur de
ce sujet; elle était généralement faible de conception, et pour lui faire produire
autant d’effet qu’elle en a eu sur le théâtre de la cour, au temps de Napoléon, il
n’a pas fallu moins que le talens admirables de Crescentini et de Mme Grassini.
[...] A l’égard de la Giulietta e Romeo de Vaccai, c’est aussi une composition assez
faible, mais où l’on trouve cependant quelques parties dignes d’éloge. Les airs
en sont en général d’un beau caractère, et me semblent sous quelques rapports
préférables à ceux de Bellini; il ne leur manque que le caractère d’expression
dramatique que la musique de Bellini possède davantage. [...]
Le cantabile de Romeo près du tombeau de Juliette fait regretter l’air
célèbre Ombra adorata, aspetta, et même l’air de Vaccaj, que je trouve mieux fait
et plus conforme à la situation. Il n’y a point dans le motif de ce cantable de
douleur véritable, et malgré le talent que Mlle Judith Grisi déploie, il n’émeut
que médiocrement le public. La scène entre les deux amans, après le réveil
de Juliette, me paraît mieux sentie, et je crois qu’elle produira plus d’effet aux
répresentations suivantes qu’à la première.16
16. «Checché se ne sia detto, la musica di Zingarelli non era all’altezza di questo soggetto;
era generalmente debole di concezione, e per farle produrre l’effetto avuto al teatro di
BELLINI E VACCAJ: PERIPEZIE DI UN FINALE
209
L’effetto, peraltro, non si produsse affatto alle rappresentazioni successive,
e a un certo punto la direzione del teatro decise di sostituire il finale dell’opera di Bellini con quello di Vaccaj, incontrando il gradimento generale.17
Del tutto simili le reazioni del pubblico italiano. Fra i molti casi merita
di essere citato almeno quello della stagione autunnale del 1833 a Lucca, descritto in un articolo dell’«Allgemeine musikalische Zeitung» che restituisce
con estrema freschezza un quadro fedele della vita teatrale italiana nel primo Ottocento. In quella stagione Alessandro Lanari, l’appaltatore, essendo
impegnato a Foligno lascia il teatro di Lucca nelle mani del giovane figlio
Antonio. Scoppiano contrasti all’interno della compagnia di canto e la prima
donna, Amalia Schütz Oldosi, pretende la sostituzione del tenore Giovanni
Battista Millesi con tale Francesco Regoli. Come se non bastasse, in città ci
sono tensioni: il popolo protesta contro il potere ducale e trasporta in teatro
il suo malumore. La Schütz si ammala e la prova generale dei Capuleti, fissata
per fine agosto, è annullata. In teatro scoppiano tumulti, tanto che Lanari è
corte, al tempo di Napoleone, non ci sono voluti meno che il talento meraviglioso di
Crescentini e della Grassini. [...] Giulietta e Romeo di Vaccaj è anch’essa una composizione
piuttosto debole, nella quale si trovano tuttavia alcune parti degne d’elogio. In generale
le arie hanno un bel carattere e mi sembrano per qualche aspetto preferibili a quelle di
Bellini; non manca loro che l’espressione drammatica, che la musica di Bellini possiede in
misura superiore. [...] Il cantabile di Romeo presso la tomba di Giulietta fa rimpiangere la
celebre aria Ombra adorata, aspetta, come pure l’aria di Vaccaj, che trovo fatta meglio e più
adatta alla situazione. Nel motivo di questo cantabile non c’è autentico dolore, e malgrado
il talento di cui dà prova la sig.na Giuditta Grisi, non commuove il pubblico che in modo
mediocre. La scena tra i due amanti, dopo il risveglio di Giulietta, mi sembra più sentita,
e credo farà più effetto alle rappresentazioni successive che alla prima». «Revue musicale»
vi année, n. 50, 12 gennaio 1833.
17. «Les Capulets, opéra dans lequel Rubini, Mlles Judith et Julie Grisi s’étaient montrés si
admirables, a été couvert hier encore de nouveaux applaudissemens au Théâtre Italien; le
succès a été plus grand peut-être qu’aux représentations précédentes, et il faut l’attribuer
au troisième acte emprunté de l’opéra de Vaccaj, Giulietta e Romeo» [«Ieri I Capuleti, opera
nella quale Rubini e le signorine Giuditta e Giulia Grisi avevano destato tanta ammirazione, sono stati coperti da nuovi applausi al Théâtre Italien; il successo è stato forse ancora
maggiore che alle rappresentazioni precedenti, e va attribuito al terzo atto preso a prestito
dall’opera di Vaccaj, Giulietta e Romeo»]. «Vert-Vert» n. 156, 3 febbraio 1833.
210
D’AMORE AL DOLCE IMPERO
costretto a correre a Lucca per giustificare l’accaduto davanti al duca. Alla
prima rappresentazione il secondo atto è un fiasco totale; alla seconda le
cose non migliorano, e alla terza l’opera non giunge neppure alla fine. Si
tenta di correre ai ripari sostituendo il tenore e mandando in scena la Norma;
infine neppure il tentativo di salvare I Capuleti e i Montecchi, presentandoli
ancora una volta ma con il finale sostituito, ha fortuna migliore.
Lucca. Die obenerwähnte, von hier nach Florenz abgegangene Sängergesellschaft Schütz, Del Sere und Porto gab im September Bellini’s Capuleti und
Montecchi. Da ging’s aber gar arg zu. Erste Vorstellung: nach dem ersten
Acte rief man die Sänger hervor, der zweyte Act machte Fiasco. Zweyte
Vorstellung: immerwährendes Duett zwischen Beyfallklatschen und Pfeifen.
In der dritten Vorstellung war anfangs Windstille, aber beym Duett zwischen der Schütz und der Del Sere ging das starke Klatschen und Pfeifen
auf ’s Neue an, mit welchem Getöse der erste Act endigte; im zweyten Acte
aber wüthete der Beyfallsturm und das Pfeifen der ganzen Windrose so heftig, dass die Oper Schiffbruch litt und das plötzliche Herabfallen des Vorganges auf einmal ihren gänzlichen Untergang andeutete. Der Tenor Milesi,
zum Theil auch die Musik der Oper, war an dieser Catastrophe Schuld. Man
engagirte sogleich den Tenoristen Regoli und gab die Norma. Endlich wollte
man versuchen, abermals die Capuleti mit dem gewöhnlichen dritten Acte
von Vaccaj zu geben, was aber wegen Unpässlichkeit der Schütz nicht Statt
haben konnte.18
18. «Lucca. La compagnia di canto con la Schütz, la Del Sere e Porto, partita ora per Firenze, ha dato in settembre I Capuleti e i Montecchi di Bellini. Le cose sono andate in modo
pessimo. Prima rappresentazione: dopo il primo atto i cantanti furono chiamati alla ribalta; il secondo atto fece fiasco. Seconda rappresentazione: continuo alternarsi di applausi
e fischi. All’inizio della terza rappresentazione c’era bonaccia, ma al duetto della Schütz e
della Del Sere ricominciò il frastuono degli applausi e dei fischi, e in questo pandemonio
finì il primo atto; nel secondo l’uragano degli applausi e il fischiare di tutta la rosa dei venti
infuriarono così violenti, che l’opera fece naufragio e con l’improvviso calare del sipario
colò definitivamente a picco. Il tenore Milesi e, in parte, anche la musica dell’opera furono
le cause di questa catastrofe. Si ingaggiò prontamente il tenore Regoli e si diede la Norma.
Alla fine si tentò di dare ancora una volta I Capuleti col consueto terzo atto di Vaccaj, ma
la cosa non fu possibile per un’indisposizione della Schütz». «Allgemeine musikalische
BELLINI E VACCAJ: PERIPEZIE DI UN FINALE
211
Già nel 1833, come ci informa il passo citato, la sostituzione del finale belliniano era considerata abituale.19 La prassi restò in uso – stando
ai libretti in circolazione – sino alla fine dell’Ottocento, ed era talmente
scontata che sulle locandine teatrali non si citava più nemmeno il nome
di Vaccaj, né si riteneva necessario avvertire il pubblico della sostituzione.
L’innesto della musica di Vaccaj nell’opera di Bellini fu effettuato in diversi
modi, dando origine a commistioni varie tra le due partiture. La sostituzione dell’originario finale fu facilitata dal fatto che Romani non aveva solo
riutilizzato, per il libretto dei Capuleti e Montecchi, l’impianto drammatico e
le situazioni del vecchio libretto preparato per Vaccaj, ma ne aveva anche
ripreso gruppi interi di versi, lasciandoli immutati (in appendice è riportato il testo poetico dei due finali, con la segnalazione dei versi passati dal
vecchio al nuovo libretto). In genere si utilizzarono le scene omologhe
dell’opera di Vaccaj, a partire dal coro “Addio per sempre, o vergine” sino
alla morte di Romeo alla fine del duetto; è questa la versione che si trova
nella riduzione per canto e pianoforte stampata da Ricordi nel 1870, più
volte ristampata e tuttora in commercio, nella quale al termine dell’originale finale belliniano si trova quello di Vaccaj, accompagnato dall’annotazione «Da sostituirsi, volendo, come generalmente si pratica, all’ultimo pezzo
dell’opera di Bellini».20 La scena e l’aria finale dell’opera di Vaccaj vennero
in genere tagliate: una scelta che non meraviglia, in un’epoca in cui il rondò
Zeitung» xxxvi/32, 6 agosto 1834, col. 529. Sulla vicenda si possono anche consultare
i carteggi del Fondo Lanari presso la Biblioteca Nazionale di Firenze: cfr. Marcello de
Angelis, Le carte dell’impresario. Melodramma e costume teatrale nell’Ottocento, Firenze, Sansoni,
1982, pp. 38-41, e il catalogo del fondo: Le cifre del melodramma. L’archivio inedito dell’impresario teatrale Alessandro Lanari nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (1815-1870), a cura
di Marcello De Angelis, Firenze, La Nuova Italia, 1982.
19. «A cette époque [1849], le dernier acte de Vaccai avait remplacé celui de Bellini sur
tous les théâtres d’Italie et le remplaça également en France» [«A quest’epoca [1849] l’ultimo atto di Vaccaj aveva sostituito quello di Bellini in tutti i teatri d’Italia, e lo sostituì allo
stesso modo in Francia»]. «Revue et Gazette musicale de Paris» xxvi/37, 11 settembre
1859, pp. 301-302.
20. L’edizione reca il numero editoriale 42043. Al finale dell’opera di Vaccaj, che si arresta
alla fine del duetto, sono aggiunte sei battute per dare una logica conclusione al pezzo.
212
D’AMORE AL DOLCE IMPERO
finale della primadonna era sempre più percepito come una convenzione
ingombrante, di cui si avvertiva oltretutto l’incongruenza drammatica in
un’opera a finale tragico e ad azione praticamente conclusa.21 Dai libretti
emergono, comunque, varie soluzioni: a volte venne recuperato, dopo le
scene di Vaccaj, il ‘finalino’ belliniano con l’ingresso in scena di Capellio,
di Lorenzo e del coro, mentre altre volte se ne fece a meno.22
La sostituzione del finale di Bellini, in ogni caso, non venne sempre
accolta da pareri unanimi. Già alle rappresentazioni bolognesi del 1832,
che videro la Malibran esibirsi nei panni di Romeo, l’«Allgemeine musikalische Zeitung» levò la sua voce protestando contro quello che considerava
un abuso:
Nach den bereits angezeigten Opern gab man den 27sten Octbr. Bellini’s
Capuleti e Montecchi, zu welchen man den ganzen vierten Theil (Parte quarta = id est: die Grabscene) aus Vaccaj’s Romeo, überdies noch zwey Duetten
von Mercadante und Celli entlehnte. Dass Vaccaj’s letzte Scene jene von
Bellini weit übertraf, ist in Italien nur eine Stimme; die Flickerey von zwey
fremden Duetten erhielt die Capuleti eben jetzt zum ersten Male; was sie
ferner noch erleiden, muss die Zeit lehren; vielleicht bleiben von ihnen in
wenigen Jahren, so wie es schon mancher Rossini’schen Oper erging, kaum
zwey oder drey Stücke übrig. Sic transit gloria mundi.23
21. Così Prividali sul «Censore universale dei teatri» n. 39, 16 maggio 1832: «Maggiore sarebbe poi anche il chiasso alla fine, se un costume, che sensato divisamento è il cambiare, ed
ottimo sarebbe il distruggere, non avesse avvezzato l’uditorio a sentire prima che cada il sipario le variazioni della prima donna. L’uso di quei gorgheggi all’ultima scena, per agevolare
alla virtuosa la soddisfazione d’essere chiamata sul proscenio, cade certamente in discapito
dell’opera intiera, perché dà a tutte queste composizioni una stucchevole uniformità, perché
avvezza la cantante a risparmiarsi nei pezzi precedenti, onde brillare in quello».
22. Cfr. sull’argomento Alessandro Roccatagliati, Libretti d’opera: testi autonomi o testi
d’uso?, «Quaderni del Dipartimento di linguistica e letterature comparate» vi, Bergamo,
Università degli Studi, 1990 (Atti del convegno Le forme del testo, 15-16 marzo 1990), pp.
7-20. Roccatagliati esamina un gruppo di libretti delle due opere e ne prende in considerazione le varianti e le contaminazioni della parte finale.
23. «Dopo le opere annunciate si diedero, il 27 ottobre, I Capuleti e i Montecchi di Bellini,
per i quali si presero in prestito l’intera quarta parte (cioè la scena della tomba) dal Romeo
BELLINI E VACCAJ: PERIPEZIE DI UN FINALE
213
Le affermazioni del periodico tedesco vanno inserite in un quadro
più ampio: le proteste contro le inserzioni estranee, la difesa dell’integrità
dell’opera e dell’autorità del compositore, che all’epoca emergono spesso dagli articoli dell’«Allgemeine» sull’opera italiana, sono sintomi di una
concezione dell’arte in forte contrasto con abitudini che nella penisola
potevano anche apparire obsolete, ma erano dure a morire, e che oltralpe
si era certamente meno propensi ad accettare.24 Ma neppure in Italia mancavano voci di dissenso. Nella primavera del 1834, alla Pergola di Firenze,
Giuseppina Ronzi De Begnis si oppose a una prassi ormai generalizzata
di Vaccaj, e oltre a ciò due duetti di Mercadante e Celli. In Italia, che l’ultima scena di Vaccaj superi di gran lunga quella di Bellini è solo una voce, ed è la prima volta che I Capuleti
vengono rappezzati con due duetti estranei; il tempo ci mostrerà ciò che l’opera dovrà
ancora sopportare. Forse fra pochi anni non ne resteranno che due o tre pezzi, come è già
accaduto a qualche opera di Rossini. Sic transit gloria mundi». «Allgemeine musikalische
Zeitung» xxxv/8, 20 febbraio 1833, col. 133. Anche in altre occasioni il periodico tedesco
diede prova di apprezzare l’originale versione belliniana. In seguito alle rappresentazioni
viennesi di fine 1832, ad esempio, scrisse: «In ästhetisch-dramatischer Beziehung gestaltet sich ganz meisterhaft der Schluss-Moment, wenn Julie, nachdem Romeo bereits die
Giftphiole geleert, vom Scheintode zu neuem Leben erwacht; da ist Alles, von der ersten
bis zur letzten Note, reines, unverkünsteltes Gefühl, und mit kräftig einfachen, naturgetreuen Pinselstrichen in Tönen ausgemalt» [«Il momento finale, in cui Giulietta si risveglia
a nuova vita dalla morte apparente, dopo che Romeo ha vuotato la fiala del veleno, è magistralmente raffigurato sul piano estetico e drammatico; qui tutto, dalla prima all’ultima
nota, è puro e spontaneo sentimento, dipinto in suoni con incisive pennellate semplici e
naturali»]. «Allgemeine musikalische Zeitung» xxxv/9, 27 febbraio 1833, coll. 147-148.
E dopo le rappresentazioni dei Capuleti a Weimar nel 1833-34: «Die gemässigte Parthey
fand hübsche Melodieen, Frische und Leben, einzeln gelungene Momente (der letzte
Act enthält deren wirklich mehre), einige glückliche Effecte (auszuzeichnen ist in dieser
Hinsicht das zweyte Finale)» [«Il partito dei moderati trovò melodie graziose, freschezza
e vivacità, singoli momenti ben riusciti (l’ultimo atto ne contiene davvero tanti), alcuni
effetti felici (in questo senso si distingue il secondo finale)»]. «Allgemeine musikalische
Zeitung» xxxvi/41, 8 ottobre 1834, coll. 675-676.
24. Sull’argomento cfr. Werner Friedrich Kümmel, Vincenzo Bellini nello specchio dell’«Allgemeine musikalische Zeitung» di Lipsia, 1827-1836, «Nuova rivista musicale italiana» vii/2,
1973, pp. 185-205, e soprattutto Michael Wittmann, Das Bild der italienischen Oper im
Spiegel der «Leipziger Allgemeinen musikalischen Zeitung», in Le parole della musica, ii, a cura di
Maria Teresa Muraro, Firenze, Olschki, 1995, pp. 195-226.
214
D’AMORE AL DOLCE IMPERO
e ripristinò il finale originale, ottenendo – stando alla sua testimonianza –
l’approvazione del pubblico. È Florimo che ce ne informa, trascrivendo la
relazione inviatagli dalla cantante:
[...] il terzo [atto] doveva cadere, ma non cadde. Qui si diceva che quella di
Vaccaj era meglio, e si voleva la Ronzi avesse fatto dei pasticci alla Malibran,
ma io risposi, se farà fiasco, almeno sarà tutto Bellini; ti assicuro che tremava,
perché i Fiorentini hanno il vizio di non ascoltare, e tu sai che in quel terzo
atto non vi son cose che grattino l’orecchio e per gustarne le bellezze sì della
musica che della declamazione bisogna fare un silenzio religioso. Questo
l’ottenni, ed il pubblico appena mi vide restò come immobile. Insomma, a
farla corta, fece gran piacere, e dopo fummo chiamati fuori. [...] Vi erano
persone che dicevano: come va che la Malibran cambia il terzo atto? Mi pare
che per una cantante, che si dice tanto attrice, dovrebbe esserne contenta,
che ti pare?25
Anche a Torino, nel 1836, ci furono voci fuori del coro. In gennaio
Giuditta Grisi fu Romeo nei Capuleti e Montecchi al Teatro Regio, e come al
solito concluse l’opera con il finale di Vaccaj. Romani, all’epoca direttore
della «Gazzetta ufficiale piemontese», innescò un’accesa polemica pubblicando un caustico articolo dal titolo I Capuleti e i Montecchi pot-pourri musicale, in cui, oltre a criticare la Grisi per la sua interpretazione, se la prese con
l’abitudine di manomettere il suo libretto e la partitura di Bellini:
Un giorno si trovarono insieme due buoni amici, un poeta e un maestro di musica, i quali concordemente divisarono di accomodare ai bisogni
del gran teatro di Venezia un melodramma intitolato Giulietta e Romeo, già
scritto dal poeta medesimo e vestito di note da Nicola Vaccaj. E si accinsero
all’impresa; e il dramma, in buona parte mutato, provvide alla musica altre
situazioni ed altra poesia, tranne la catastrofe che non si poteva cambiare; e il
lavoro, intendiamoci bene, dal lato della musica, ebbe lode in Venezia e piacque in altre città italiane e ottenne plauso sui teatri di Francia e d’Inghilterra,
sempre larghe di biasimo alle cose nostre.
25. Francesco Florimo, La scuola musicale di Napoli e i suoi conservatorii, 4 voll., Napoli, V.
Morano, 1880-1883 (rist. anast. Bologna, Forni, 1969), iii, p. 193.
BELLINI E VACCAJ: PERIPEZIE DI UN FINALE
215
Un altro bel giorno si trovarono insieme altri due buoni amici, la Malibran e il Capriccio, ai quali venne il ticchio di rifare il lavoro di quel poeta e
di quel maestro, e di raffazzonarlo in modo che più non si avesse a ravvisare.
E la Malibran proponeva una cosa e il Capriccio suggeriva un ripiego, e la
Malibran lo accoglieva; e la Malibran si adoperava da una parte e il Capriccio
da un’altra: e finalmente il Capriccio e la Malibran manipolavano insieme,
manipolavano, manipolavano, di maniera che da cotesti suggerimenti, da coteste proposte, da coteste manipolazioni ne venne imbandito un manicaretto, un intingolo, un cibreo, che fu meraviglia a vedersi. Brodo lungo di Celli,
gelatina di Pacini, droghe di Ricci, carote di Rossi... ci fu un po’ di tutto. Per
ultimo al quart’atto fu sostituito di pianta il terz’atto del Vaccai.
E la Malibran, bella come Circe, maga come Circe, potente come Circe,
presentossi in teatro a ministrare il manicaretto: e il Capriccio sparse i suoi grilli per le logge e per la platea; e la Ragione fuggì dalla platea e dalle logge; e gli
uditori, abbandonati dalla Ragione, governati dal Capriccio, lusingati dalla maliarda, attinsero al manicaretto, e furono allucinati... come i compagni di Ulisse.
Allora la Fama, che da molto tempo sta vegliando con tutti i suoi mille
occhi ai fasti delle eroine teatrali, imboccò la sonora sua tromba, e proclamò
l’incantesimo della Malibran. L’udì la magnanima Invidia, compagna indivisibile delle sublimi e delle basse virtuose, la quale andò in volta per quanto è
lunga e larga l’Italia, e pose sossopra e contralti e soprani, e mezzi soprani e
non lasciò loro riposo, finché non avessero emulato la Circe novella.
E il nobile desiderio si diffuse con la rapidità di un morbo endemico.
Il terz’atto di Vaccaj fu appiccicato all’opera di Bellini, come nel supplizio
di Mesenzio attaccavasi un corpo morto ad un vivo: da tutti i quattro venti
della penisola si udì cantare: “Ah! se tu dormi svegliati”: “Ah! se tu dormi” di
qua, “Se tu dormi” di là, “Svegliati” di giù, “Svegliati” di su, fu una smania,
una smania, un delirio come il famoso “Amore oh! amore” di Euripide fra
gli ammaliati Abderitani... e la Grisi, la Grisi medesima, sebbene ancor piena
degli allori ottenuti in Venezia nella musica di Bellini espressamente scritta
per lei, commossa ancora dalla semplice, ma bellissima preghiera: “Oh tu
bell’anima - Che al cielo ascendi”, così dolce e patetica sovra il suo labbro, nulla di meno fu presa anch’essa dall’universale vertigine; e comparve
anch’essa in teatro, invasata dal Capriccio della Malibran; e infedele a Bellini,
si diede a cantare, a gorgheggiare, a modulare: “Ah! se tu dormi svegliati”.
Ah! se tu dormi svegliati una volta, o buon senso italiano, e non permettere più di essere raggirato in tal guisa dalla bizzarria dei virtuosi! svegliati, se
216
D’AMORE AL DOLCE IMPERO
tu dormi, o giustizia del pubblico, e non soffrire che vengano così traviate,
mutilate, guastate le più bell’opere dei nostri ingegni! svegliati, se tu dormi,
o verecondia, e grida ai cantanti essere ormai tempo che il teatro musicale
non sia più deturpato dalle loro stranezze, dai loro pasticci, dalle ridicole loro
convenienze! svegliati, o ragione, svegliati, o criterio, svegliati, o gusto, amor
del vero, desiderio del bello, risvegliati!26
All’attacco, virulento quanto inatteso, la Grisi replicò con una lettera
furibonda nella quale difendeva la propria scelta, che risaliva all’epoca in
cui la cantante si era esibita al Théâtre Italien di Parigi, e che era pienamente giustificata dalle reazioni del pubblico:
[...] l’origine del cambiamento del atto terzo deriva da Parigi, in detta Città
tutta l’opera già ebbe poco esito ma molto il terzo atto, e fui costretta dalla
impresa di sostituire quello di Vaccaj che io non conosceva nemmeno. [...]
Da quel momento non ho più cambiato perché ho trovato che avevano
ragione...27
Un sostegno inaspettato alla cantante venne dall’«Allgemeine musikalische Zeitung», che questa volta ribaltò il giudizio dato in più occasioni sul
finale dell’opera di Bellini:
Romani [...] witzelte in der Gazzetta piemont. darüber, dass man diese Capuleti mit eingelegten Stücken von Celli, Pacini, Ricci, Rossi gibt, deren Musik
er Gewürz, Gallerte, Rüben u. Spitalsuppe nennt; versetzt dabei Seitenhiebe
der Malibran als Urheberin des Unheils; tadelt die Giuditta Grisi (Romeo
- Hauptrolle) ganz unbarm-herzig. Allein ohne zu erwähnen, dass von benannten Maestri keine einzige Note in der ganzen Oper sich findet, dass die
26. «Gazzetta ufficiale piemontese», 18 gennaio 1836. Ampi stralci dell’articolo sono riportati da Maria Rosaria Adamo e Friedrich Lippmann, Vincenzo Bellini, Torino, ERI,
1981, pp. 137-138, e da Giampiero Tintori, Bellini, Milano, Rusconi, 1983, pp. 131-134.
27. Lettera di Giuditta Grisi a Romani del 18 gennaio 1836, Milano, Museo Teatrale alla
Scala. Stralci della lettera sono riportati da Tintori, Bellini cit., pp. 135-136, e Id., Lettere di
Bellini e su Bellini al Museo Teatrale della Scala, in Atti del Convegno internazionale di studi belliniani, Catania 4-9 novembre 1985, Catania, Maimone, 1991, pp. 157-174: 167-170.
BELLINI E VACCAJ: PERIPEZIE DI UN FINALE
217
Capuleti – wenigstens – ohne Vaccaj’s 3ten Act in Italien vielleicht schon
aus der Scene verschwunden sein würden, so hat auch die Grisi, wiewohl
keine Prima Donna ersten Ranges, jenen Tadel nicht verdient, und der immerwährende Beifall der Hauptsänger in dieser Oper war die beste Antwort
auf Romani’s Artikel.28
Le rivendicazioni di Romani non servirono a nulla, né ebbero alcun
esito le proteste di Florimo o, più tardi, l’appassionata difesa di Michele
Scherillo, che nel 1883 pubblicò sul «Preludio» un articolo dal titolo La
«Giulietta» di Vaccaj e «I Capuleti» del Bellini nel quale, mettendo a confronto
i finali delle due opere, mostrò il serrato carattere drammatico del secondo
e l’incongruenza dell’abituale trapianto.29 Per tutto l’Ottocento si continuarono ad eseguire I Capuleti e i Montecchi con il finale sostituito; fece anzi
notizia il fatto che per una rappresentazione dell’opera, nel 1895 al Teatro
Mercadante di Napoli (con Emma Carelli nei panni di Romeo e un giovane
Enrico Caruso in quelli di Tebaldo), venisse ripristinato il finale originario
di Bellini. Fu solo nel secolo successivo che il giudizio venne ribaltato; nei
suoi scritti del 1915, ad esempio, Ildebrando Pizzetti riconobbe al finale di
Bellini tutto il suo valore drammatico.30 Ma intanto I Capuleti e i Montecchi
erano usciti di scena: la prassi del travesti era da troppo tempo in disuso, e
28. «Romani [...] ha fatto dello spirito, nella «Gazzetta piemontese», sul fatto che questi
Capuleti si diano con pezzi sostitutivi di Celli, Pacini, Ricci, Rossi, la musica dei quali è da
lui considerata droga, gelatina, carote, brodo lungo; dà un colpo nei fianchi della Malibran
considerandola la causa del disastro; critica impietosamente Giuditta Grisi (nel ruolo
principale di Romeo). Anche senza ricordare il fatto che in tutta l’opera non c’è una sola
nota dei maestri citati, e che I Capuleti sarebbero forse già spariti dalle scene italiane senza
il terzo atto di Vaccaj, la Grisi non merita quelle critiche, benché non sia una stella di
prima grandezza, e i costanti applausi riservati ai cantanti principali sono stati la migliore
risposta all’articolo di Romani». «Allgemeine musikalische Zeitung» xxxviii/29, 20 luglio
1836, col. 483.
29. L’articolo fu ristampato in Belliniana. Nuove note, Milano, Ricordi, s.d. [1885].
30. Cfr. Ildebrando Pizzetti, La musica di Vincenzo Bellini, «La voce» vii, 1915, pp. 10701085, 1121-1157; rist. in Id., Intermezzi critici, Firenze, Vallecchi, s.d. [1921], pp. 33-112, e
Id., La musica italiana dell’Ottocento, Torino, Edizioni Palatine, 1947, pp. 149-228.
218
D’AMORE AL DOLCE IMPERO
il pubblico mostrava disaffezione per un’opera nella quale avvertiva un’eccessiva dose di inverosimiglianza drammatica. Solo dalla riproposta dei
Capuleti in occasione del centenario belliniano, nel 1935, scaturirono una
più corretta comprensione dell’opera – benché occorresse attendere ancora un paio di decenni per il suo stabile rientro in repertorio – e il definitivo
rovesciamento del giudizio sul finale.31
Che il pubblico e la critica del diciannovesimo secolo continuassero
a preferire le pagine di Vaccaj a quelle omologhe di Bellini non sorprende
troppo, se analizziamo la questione da un altro punto di vista. Abbiamo
già notato come Vaccaj adotti, per il finale della sua opera, un’articolazione formale chiara e tradizionale, con una calibrata alternanza di momenti
dinamici e di stasi liriche formalizzate; come mantenga, in altri termini,
la veste classica della tragedia per musica, nella quale il canto lirico interviene a tappe prefissate e prevedibili dell’azione, ed è incanalato in forme
retoricamente ordinate. Vaccaj si inserisce, così facendo, nella più pura
tradizione melodrammatica italiana, che subordina l’azione drammatica al
canto; la fattura delle sue arie è elegante, le sue frasi melodiche sono ben
tornite, ma sono pensate in primo luogo in funzione dell’esibizione vocale: l’effetto drammatico è certamente secondario.32 È presumibile che
31. Si veda, ad esempio, il giudizio di Guido Pannain: «[...] il momento migliore dell’opera, il solo che si faccia ricordare nel senso di un’autentica ispirazione, espressamente
concepito per I Capuleti, è costituito dalla scena finale, concisa, fervida, intensa nel moto
interiore, di calore affettivo» (Saggio critico, in Andrea Della Corte e Guido Pannain,
Vincenzo Bellini. Il carattere morale, i caratteri artistici, Torino, Paravia, 1935, pp. 77-123: 101).
32. A questo proposito è particolarmente rivelatore il confronto tra alcuni luoghi singoli
dei due finali. Al momento in cui Romeo annuncia a Giulietta, risvegliatasi dalla morte
apparente, che il veleno lo condanna («Restarmi io deggio / eternamente qui...»), Vaccaj
non sembra dare soverchia importanza: la linea vocale di Romeo non si sottrae agli stereotipi di un generico recitativo ed è assorbita nel flusso dei motivi circostanti. Ben diversa
è l’enfasi declamatoria con cui Romeo pronuncia le stesse parole nel Capuleti e Montecchi;
qui, inoltre, Bellini sottolinea il momento e ne accresce l’efficacia drammatica con una deviazione armonica e con uno scuro impasto timbrico, riducendo il sostegno orchestrale a
un accordo dei soli corni. Il passo fece effetto e fu notato già alla prima rappresentazione
dell’opera, quando Tommaso Locatelli scrisse sulle pagine della «Gazzetta privilegiata di
Venezia» (17 marzo 1830): «E quando l’infelice Romeo che già bebbe al nappo fatale esce
BELLINI E VACCAJ: PERIPEZIE DI UN FINALE
219
queste caratteristiche rendessero il finale di Giulietta e Romeo più gradito
agli interpreti di quello dei Capuleti e Montecchi («in quel terzo atto non vi
son cose che grattino l’orecchio», aveva sottolineato la Ronzi De Begnis
a proposito della musica di Bellini). Ed è ben noto come nella storia del
melodramma il ‘codice’ condiviso prevalga assai spesso sull’innovazione;
ciò che è familiare è più gradito, al pubblico del teatro d’opera, di ciò che
nega le sue aspettative, cosicché il sistema delle convenzioni e la ripetitività
delle formule possono comprimere – o addirittura sopprimere – la volontà
d’autore nei casi in cui questa contrasti apertamente con il codice stesso.
Le ultime scene dei Capuleti e Montecchi mettono in discussione quella sorta
di sospensione temporale che si produce nel cantabile, che lo spettatore si
aspetta e percepisce all’istante grazie all’andamento regolare e simmetrico
delle frasi vocali, all’orchestra che si ritira ad eseguire formule d’accompagnamento, al giro sintatticamente chiuso delle cadenze. Il finale belliniano, con la sua elasticità formale, il trapasso libero dalla scena all’arioso, i
contorni sfumati, la stretta adesione della musica al testo poetico, indebolisce fortemente il carattere retorico-dichiarativo dell’espressione canora,
così evidente invece nell’opera del rivale; e l’indebolimento nel finale dei
Capuleti è tanto più evidente, dal momento che nel resto dell’opera Bellini impiega strutture assolutamente regolari, perfettamente ritagliate sulle
consuetudini morfologiche del melodramma italiano dell’epoca.
È alquanto sintomatico che uno storico e critico come Juste-Adrien
de La Fage, che su Bellini scrisse alcune tra le pagine più acute dell’Ottocento, si unisse al coro generale giustificando la sostituzione del finale
dei Capuleti e riconoscendo nelle scene conclusive dell’opera di Vaccaj un
modello inimitabile:
[...] les Capuleti furent assez bien reçus, mais on connaissait la musique de
Romeo et Giulietta, écrite quelque temps auparavant par Vaccai, et la supériorité
de certaines parties de son ouvrage avait laissé des souvenirs fâcheux pour
in questi dolorosi accenti a Giulietta: Restarmi io deggio / eternamente qui... chi non sentirà
commuoversi alla sublime ispirazione di quell’accompagnamento dell’orchestra, con cui
il maestro riuscì perfettamente ad esprimere tutta la compassione e l’orrore che stanno
chiusi in quell’avverbio tremendo?».
220
D’AMORE AL DOLCE IMPERO
Bellini. On concilia tout en formant une sorte de pastiche du travail des deux
compositeurs, et, ainsi arrangée, cette pièce a été depuis représentée avec un
grand et légitime succès sur plusieurs théâtres. Au reste, le rapprochement est
tout à l’avantage de Vaccai, puisqu’il présente ce que celui-ci a écrit de plus
remarquable, tandis qu’il n’offre que ce que Bellini a donné de plus faible. [...]
Les choeurs de la pièce de Vaccai méritent d’être étudiés, ils sont vraiment
d’une grande beauté; quant au dernier duo que tout le monde connait, c’est
un des chefs-d’œuvre de la scène lyrique; les mélodies y sont si pathétiques,
si entraînantes, l’affreuse situation des deux amants y est peinte avec des couleurs si vives, si frappantes, et en même temps les ressources de l’art y sont si
heureusement mises en œuvre, qu’il est impossible de rien concevoir au delà:
c’est tout à fait la perfection.33
La Fage, del resto, sapeva ben cogliere i tratti essenziali dello stile belliniano, quando metteva in risalto un atteggiamento – l’espressione semplice e
precisa, finalizzata alla precisione drammatica – che ben si adatta al finale
dei Capuleti e Montecchi, e che risaliva a una tradizione più antica, nel solco
della quale si collocava anche il finale della vecchia opera di Zingarelli:
[...] il possède un mérite qui lui est propre et qui a fait tous ses succès, celui d’une expression simple, juste, claire et précise. Pour retrouver en Italie
33. «[...] I Capuleti ebbero un’ottima accoglienza, ma era nota la musica di Romeo e Giulietta,
scritta qualche tempo prima da Vaccaj, e la superiorità di certe parti del suo lavoro aveva
lasciato ricordi incresciosi per Bellini. Si conciliò il tutto formando una sorta di pastiche
col lavoro dei due compositori, e così arrangiata quest’opera è stata rappresentata, in
seguito, con un grande e legittimo successo in numerosi teatri. Del resto, il confronto
va a tutto vantaggio di Vaccaj, poiché l’opera presenta ciò che questi ha scritto di più
notevole, mentre di Bellini non offre che le parti più deboli. [...] I cori dell’opera di Vaccaj meritano d’essere studiati, sono veramente d’una grande bellezza; quanto all’ultimo
duetto, che tutti conoscono, è uno dei capolavori della scena lirica; le melodie sono così
patetiche, così trascinanti, l’orribile situazione dei due amanti è dipinta a colori così vivi
e così impressionanti, e allo stesso tempo le risorse dell’arte vi sono messe in opera così
felicemente, che è impossibile concepire alcunché di superiore: è la perfezione assoluta».
Juste-Adrien de La Fage, Vincent Bellini, «Gazette musicale de Paris» n. 19, 13 maggio
1838; n. 20, 28 maggio 1838; rist. in Miscellanées musicales, Paris, Comptoir des imprimeurs
unis, 1844 (rist. anast. Bologna, Forni, 1969), pp. 186-221: 200-201.
BELLINI E VACCAJ: PERIPEZIE DI UN FINALE
221
des compositeurs qui aient adopté un semblable système, il faut remonter
presque à l’enfance de la musique dramatique, dont les premiers essais furent
inspirés par une pensée analogue à celle de Bellini et de M. Romani. [...] en
Italie [...] ce dernier point fut habituellement négligé, et l’on préféra la beauté
de la cantilène à l’exactitude dramatique. Les créations de Bellini ont été par
conséquent un retour momentané vers le passé; et, en ce sens, on peut prévoir qu’il ne fera point école.34
Anche queste affermazioni ci aiutano, probabilmente, a comprendere
meglio l’atteggiamento dei contemporanei di Bellini. Se il finale di Vaccaj
è espressione perfetta di una poetica classicista, che si esplica in forme
autodichiarative, quello di Bellini costituisce un’infrazione, almeno parziale, delle regole della rappresentazione classica, compiuta in virtù di quella
scansione logica e serrata che manca, invece, nell’opera di Vaccaj, e che è
ingrediente essenziale di una drammaturgia unitaria e coerente.
34. «Ha un merito che gli è proprio e al quale deve tutti i suoi successi, quello di un’espressione semplice, giusta, chiara e precisa. Per trovare, in Italia, compositori che abbiano
adottato un sistema simile, bisogna risalire quasi all’infanzia della musica drammatica, i
cui primi saggi furono ispirati da un pensiero analogo a quello di Bellini e di Romani. [...]
in Italia [...] quest’ultimo punto è stato solitamente trascurato, e si è preferita la bellezza
della cantilena all’esattezza drammatica. Le opere create da Bellini sono state, di conseguenza, un ritorno momentaneo al passato, e in questo senso è prevedibile che non
faranno scuola». Ivi, p. 218.
222
D’AMORE AL DOLCE IMPERO
Appendice
I testi qui di seguito presentati corrispondono alla parte finale dei due libretti
di Felice Romani stampati per la prima rappresentazione di Giulietta e Romeo di
Vaccaj e dei Capuleti e Montecchi di Bellini. Un doppio sistema di rinvii numerici
permette di cogliere la portata e la natura degli interventi di Romani. In entrambi
i casi, il testo è organizzato in cinque co­lonne. Nella prima da sinistra è collocata
la numerazione dei versi; nella seconda trovano posto gli interlocutori, nella terza
il testo poetico (nel quale i versi lirici sono rientrati, e i capoversi di ogni strofa
sono ulteriormente rientrati). La quarta colonna è riservata alle didascalie interne
e agli a parte. La quinta contiene i rinvii alla numerazione del testo corrispondente, posti tra parentesi quadre se la coincidenza dei versi è sostanziale ma non
assoluta, oppure se è solo parziale. Nel testo scritto per Vaccaj, la coincidenza
è ulteriormente sottolineata da un sistema di riquadri che incorniciano il testo
poetico e che evidenziano i ‘ritagli’, cioè le parti trasportate senza mutamenti nel
libretto per Bellini.
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D’AMORE AL DOLCE IMPERO
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BELLINI E VACCAJ: PERIPEZIE DI UN FINALE
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