I Capuleti e i Montecchi sono una di quelle opere capaci di rinnovare ogni volta, in teatro, l’emozione suscitata dalla tragica e commovente vicenda dei due giovani amanti veronesi. Eppure l’opera di Bellini – ancora oggi una delle composizioni più accattivanti e amate del suo catalogo – nacque da circostanze fortuite e incredibilmente sfavorevoli: si tratta di un’opera composta per caso, per rimediare a inadempienze altrui; di un impegno accettato controvoglia; di un lavoro svolto in precarie condizioni di salute e sotto l’assillo della fretta, riciclando melodie già utilizzate per un’altra opera. Vediamo, innanzitutto, come andarono le cose. Intorno alla metà del dicembre 1829 Bellini partiva da Milano per recarsi a Venezia, dove la presidenza del Teatro La Fenice l’aveva scritturato per mettere in scena Il pirata nell’imminente stagione di carnevale. Bellini, all’epoca, non era molto più che un esordiente nel mondo dell’opera italiana. Al suo attivo aveva soprattutto il successo delle due opere date alla Scala, Il pirata e La straniera; ciò era comunque bastato a creargli la fama del compositore emergente, dell’alfiere di un nuovo stile – fortemente drammatico e passionale – capace di interpretare le aspettative del pubblico che in quegli anni affollava i teatri italiani. Bellini appariva l’iniziatore di una nuova maniera, e non uno dei tanti emuli di Rossini. A Venezia non erano mai state rappresentate opere di Bellini, e il pubblico le attendeva con impazienza; ma la presidenza della Fenice aveva deciso, prudentemente, di mettere il compositore alla prova prima di commissionargli una nuova opera: così l’aveva invitato a curare l’allestimento del Pirata, riservandosi di valutare il talento del giovane musicista e l’originalità del suo linguaggio. Per quella stagione, dunque, era inteso che Bellini si sarebbe recato a Venezia per mettere in scena la sua vecchia opera, adattandola alla locale compagnia di canto; dopo di che sarebbe stato il turno di Giovanni Pacini, che per La Fenice s’era impegnato a scrivere un’opera su un libretto di Felice Romani dal titolo Olga, o L’orfana moscovita. Ma ai primi del gennaio 1830, a stagione iniziata, si cominciò a dubitare che Pacini potesse realmente tener fede all’impegno. Per la stessa stagione, il compositore aveva stipulato contratti con il teatro di Torino e con la Scala di Milano, per i quali era tenuto a comporre nuove opere, e con il San Carlo di Napoli, dove avrebbe dovuto recarsi per l’allestimento della ‘prima’ di un’altra opera ancora. Troppi impegni: l’appaltatore della Fenice e la direzione del teatro temevano, a ragione, che Pacini non avrebbe potuto rispettare l’impegno veneziano. Non appena i dubbi divennero certezza, cominciarono a fare pressioni su Bellini perché scrivesse, al posto del collega inadempiente, la nuova opera da mettere in scena nel corso della stagione. Nei piani della direzione, l’opera avrebbe dovuto essere presentata al pubblico veneziano entro il 23 febbraio 1830; il tempo a disposizione era dunque pochissimo, e Bellini – che non amava lavorare sotto l’assillo della fretta e temeva un insuccesso – si schermì. A questo punto le pressioni si moltiplicarono: le migliori famiglie veneziane, con le quali il compositore era in eccellenti rapporti, scesero in campo e lo convinsero infine a firmare un impegno con il teatro. Scrivere un’opera in un mese, o poco più, era impresa non da poco. Bellini aveva accettato a malincuore, ma contava di facilitarsi il compito utilizzando un libretto già pronto e, soprattutto, musica in parte già composta. Per i versi si accordò con Romani: avrebbero rimaneggiato il libretto di Giulietta e Romeo, preparato pochi anni prima per Nicola Vaccaj (l’opera era stata rappresentata a Milano il 31 ottobre 1825), apportandovi alcuni mutamenti e cambiandone il titolo. Su questa scelta dovettero influire sia il tempo limitato, sia l’opportunità di adattare le parti della vicenda drammatica alla compagnia di canto allora disponibile. Nei primi giorni del 1830 Bellini era impegnato con le prove del Pirata, e aveva tutto l’agio di studiare le attitudini vocali e sceniche dei cantanti con i quali lavorava: dalle loro capacità dipendeva l’impostazione da dare al nuovo libretto. I principali ruoli vocali, nel Pirata, erano coperti da Giulio Pellegrini (Ernesto), Giuditta Grisi (Imogene) e Lorenzo Bonfigli (Gualtiero). Dopo la prima rappresentazione, il 16 gennaio, Bellini così giudicava i cantanti in una lettera allo zio Vincenzo Ferlito: «La prima donna ha sostenuto la sua difficilissima parte con tale eccellenza che è stata la colonna dell’opera: il tenore è un poco debole, ma ha destato piacere: il basso è un salame». Della Grisi, dunque, Bellini era soddisfatto; non altrettanto lo era dei ruoli maschili, sostenuti da Bonfigli e Pellegrini. Si spiega così il diverso peso delle parti vocali nell’opera che il compositore si accingeva a scrivere: nei Capuleti e Montecchi, infatti, Romeo (interpretato dalla Grisi) avrebbe avuto una parte preponderante, mentre la parte di Tebaldo sarebbe stata decisamente secondaria e quella di Capellio addirittura trascurabile. Che il personaggio del giovane amoroso fosse interpretato da un ‘musico’, cioè da una donna in abiti maschili, rispondeva a una tradizione di lunga data; sia nella vecchia opera di Zingarelli sullo stesso soggetto, sia in quella di Vaccaj, la parte di Romeo era affidata a una voce femminile, perché ritenuta più consona all’espressione dei sentimenti d’amore. Nel 1830 la prassi del travesti non appariva ancora antiquata; per un ‘musico’, infatti, Bellini aveva appena scritto la parte di Nerestano nella Zaira, e scriverà ancora quella di Ernani nell’opera abbozzata verso la fine del 1830 (nel ruolo principale avrebbe dovuto esibirsi Giuditta Pasta). Ma è anche vero che nel 1830 la vecchia prassi era ormai prossima a cadere definitivamente in disuso; I Capuleti e i Montecchi furono dunque una delle ultime opere nelle quali il protagonista maschile è interpretato da una donna. Bellini e Romani, accordatisi per il rifacimento del libretto che lo stesso Romani aveva scritto per Vaccaj pochi anni prima, procedettero di comune accordo: effettuarono tagli, cuciture, modifiche, valorizzarono certi aspetti della fonte piuttosto che altri, crearono nuovi motivi di contrasto interpersonale che andarono ad arricchire il conflitto drammatico nel plot. Per Romani, un’operazione simile dovette certamente essere fonte di un certo disagio, le cui tracce si colgono nell’Avvertimento dell’autore premesso al libretto a stampa: «Chi sa quanto costi camminare su tracce di già segnate, e sostituire nuovi concetti ai già scritti, che pur sempre ricorrono al pensiere, scuserà di leggieri i difetti di cui di certo abbonderà il mio lavoro». Anche Bellini, da parte sua, intendeva riutilizzare materiale già pronto: nei Capuleti confluì infatti parte della musica della precedente Zaira, opera che i veneziani non conoscevano, essendo stata ritirata dalle scene dopo l’insuccesso della ‘prima’ al Teatro Ducale di Parma nel maggio 1829. La composizione della nuova opera occupò Bellini, che vi si applicò subito alacremente, all’incirca tra il 20 gennaio e il 3 marzo. A testimoniarne le fasi restano alcune lettere a Giuditta Turina e ad Alessandro Lamperi, dalle quali emerge il quadro di un lavoro accanito e faticoso, accompagnato da preoccupazione, tensione nervosa, problemi di salute. «Fattigo dalla mattina alla sera e sarà un miracolo se me la sorto senza qualche malanno», scriveva alla Turina il 26 gennaio; e a Lamperi, pochi giorni dopo: «Io mi trovo affatigatissimo. Scrivere un’opera per esserne stato forzato dalle tanto gentili maniere, e scriverla in un mese che il solo doverla finire mi confonde le idee, è il mio soffrente martoro». A complicare le cose s’era aggiunto il freddo, davvero eccezionale, di quell’inverno veneziano, che causava non pochi problemi di salute al compositore; ma il motivo principale dell’affaticamento e della tensione nervosa risiedeva nella natura stessa del lavoro: Bellini non riutilizzava semplicemente musica già scritta, ma la rimaneggiava profondamente, sottoponendosi a un faticoso processo di vera e propria ri-creazione. Se il materiale melodico riversato nella nuova opera proveniva, in gran parte, dalla sfortunata Zaira, per uno dei numeri, la Cavatina di Giulietta nel primo atto, Bellini fece ricorso anche all’opera con la quale, al termine degli studi, si era congedato dal conservatorio napoletano: Adelson e Salvini. La natura della parodia è molto varia: si va dalla ripresa quasi letterale della melodia alla sua libera rielaborazione, che può portare anche molto lontano dall’originale. Al termine di un mese e mezzo d’intenso lavoro la nuova opera era terminata. Il 23 febbraio iniziarono le prove, e la sera dell’11 marzo I Capuleti e i Montecchi andarono in scena. Nei ruoli principali si esibivano il soprano Rosalbina Carradori Allan (Giulietta), il mezzosoprano Giuditta Grisi (Romeo) e il tenore Lorenzo Bonfigli (Tebaldo); completavano il cast il tenore Ranieri Pocchini Cavalieri (Lorenzo) e il basso Gaetano Antoldi (Capellio). Il pubblico veneziano accolse col più grande calore la nuova opera di Bellini. Una breve notizia, a firma Tommaso Locatelli, comparve subito – fatto alquanto straordinario – sulla Gazzetta privilegiata di Venezia del 12 marzo. Il recensore, nel riportare «l’esito più strepitoso e felice» e le «acclamazioni ed applausi senza fine al principio al mezzo ed al termine di ogni atto», riferiva che il pubblico si era entusiasmato soprattutto per pagine quali la cavatina del tenore e il finale del primo atto, «piene di ogni bellezza e novità di pensieri, di canto e di armonie»; anche «la scena e la grand’aria delle Tombe, sostenuta con quel magico potere dalla Grisi, e il duetto tra lei e la Carradori, che segue subito dopo, rinnovarono il premiero entusiasmo e sì il pubblico non fu contento finché al termine dello spettacolo, maestro e cantanti non si presentarono per ben cinque o sei volte sul palcoscenico». Un altro breve resoconto uscì, il 15 marzo, sull’Eco di Milano; il corrispondente del giornale – che in passato aveva espresso qualche perplessità sulla musa belliniana – lodava senza riserve la nuova opera, giudicandone la musica («bella, commovente, e tutta italiana») superiore a quella del Pirata e della Straniera. Dopo queste prime impressioni, recensioni più lunghe apparvero sulla Gazzetta privilegiata di Venezia, L’eco, I teatri, l’Allgemeine musikalische Zeitung; tutte concordavano nel riconoscere lo straordinario successo dell’opera, che crebbe ancora con la seconda e le successive rappresentazioni. La legittima soddisfazione di Bellini traspariva appieno dalla lettera che il 16 marzo mandava a Lamperi: «Io, mio buono amico, sono al colmo del contento: questo furore è stato sino a me stesso inaspettato». Al termine della terza recita il compositore fu accompagnato a casa alla luce delle fiaccole e al suono di una banda militare che intonava i pezzi favoriti delle sue opere; con manifestazioni analoghe si festeggiarono le due prime donne. L’entusiasmo del pubblico della Fenice toccò l’apice la sera del 21 marzo, data dell’ultima rappresentazione; poi, giunta al termine la stagione di carnevale, il teatro fu costretto a chiudere. Ai veneziani restò il rammarico di non poter godere più a lungo dell’opera cui avevano decretato un successo così completo. Il pubblico, i recensori e i corrispondenti da Venezia si trovarono concordi nel sottolineare la nuova strada imboccata dall’arte belliniana con I Capuleti e i Montecchi: «vi sono dei pezzi bellissimi e di un genere tutto nuovo, non istrepitoso, ma ragionato, armonioso, dolcissimo, e che fa sentire le voci senza opprimerle con gli strumenti», scriveva Gerolamo Perucchini a un corrispondente siciliano; e la Gazzetta privilegiata di Venezia annotava che «uno dei pregi della sua musica ell’è una certa soavità di maniere, certe facili melodie che rapiscono per non so quale loro dolcezza». Nei Capuleti e Montecchi, in effetti, Bellini attenua lo stile asciutto e la declamazione rigorosa della Straniera, ancora sensibili nella Zaira, per tornare a uno stile melodicamente espansivo, a un’effusione lirica che poggia su melodie morbide e seducenti, che nella loro dolcezza si adattano perfettamente alla tragica storia messa in musica. All’effusione melodica si accompagnano un canto altamente espressivo, un’attenzione estrema per il testo poetico intonato, forme nette e ben delineate (perfettamente aderenti ai modelli della tradizione italiana) e una strumentazione equilibrata, tesa a valorizzare il canto al massimo grado. Nei Capuleti è evidente, rispetto alla Straniera, anche il ritorno a un’articolazione più tradizionale del libretto e dei singoli ‘numeri’ dell’opera. I personaggi principali (Romeo, Giulietta e Tebaldo) si presentano in scena ciascuno con la propria aria di sortita, che li definisce dal punto di vista emotivo e psicologico e pone le premesse del dramma prima che l’azione entri nel vivo. L’assetto dei ‘numeri’ e la tradizionale scansione in momenti ‘statici’ (il cantabile, la cabaletta) e ‘cinetici’ (il tempo d’attacco, il tempo di mezzo), che già il libretto prefigura, non sono d’impiccio al musicista nella ricerca di una continuità drammatica: i momenti lirici sono inseriti coerentemente in scene più ampie, nelle quali si innestano preludi strumentali, recitativi e interventi corali. Memorabile, in questo senso, è l’ampio e articolato Finale primo. Nella stretta i due amanti, oppressi dallo scontro generale tra le fazioni nemiche, intonano una lunga e suggestiva melodia (“Se ogni speme è a noi rapita”); il tema (che proviene dalla Zaira) è pronunciato all’unisono dai due protagonisti, che danno voce in questo modo a una perfetta comunanza d’intenti e di sentimento e incrementano al massimo grado l’effetto della struggente melodia. Il passo suscitò l’ammirazione di uno spettatore come Berlioz (peraltro ben poco indulgente nei confronti di Bellini), che assistendo a una rappresentazione fiorentina dei Capuleti ebbe a dichiarare: «Queste due voci, vibrando assieme come una sola, simbolo di un’unione perfetta, danno alla melodia una forza d’impatto straordinaria. Sia per il modo in cui la frase melodica è incorniciata ed è ripresa, sia per la stranezza ben motivata di questo unisono che non ci si aspetta affatto, sia infine per la melodia stessa, confesso d’essermi commosso all’improvviso e d’aver applaudito con trasporto». Anche il finale dell’opera, con la lunga scena del sepolcro, è assolutamente degno di nota. D’impianto elastico, privo delle articolazioni formali così nette nel resto dell’opera, l’ultimo ‘numero’ dell’opera belliniana trapassa libero dal recitativo all’arioso, vigilmente attento ai trapassi psicologici del principale personaggio sulla scena. E chiude in poche battute, repentino ed efficace, con il rientro in scena di Capellio, di Lorenzo e del coro subito dopo la morte di Romeo e di Giulietta. Con il suo stile fortemente espressivo e patetico, con la sua concisa tensione drammatica, il finale belliniano diede subito origine a reazioni discordanti: di fronte a una minoranza che ne apprezzò la novità, vi fu una parte del pubblico e della critica che ne rimase sconcertata. La pagina finì per evocare l’ombra dei due modelli – all’epoca ben noti e apprezzati – che l’avevano preceduta, il finale delle opere di Zingarelli e di Vaccaj sul medesimo soggetto: e in genere il paragone si risolse, come vedremo, a sfavore di Bellini. Dopo la ‘prima’ veneziana, I Capuleti e i Montecchi s’inserirono rapidamente nel circuito teatrale italiano e straniero; entrata stabilmente nel repertorio, l’opera fu, in assoluto, tra le più rappresentate dell’Ottocento. Alla fine del 1830 I Capuleti e i Montecchi inaugurarono la stagione di carnevale al Teatro alla Scala di Milano. La compagnia di canto scritturata per l’occasione comprendeva, oltre a Bonfigli e alla Grisi (già protagonisti a Venezia), un’altra prima donna, Amalia Schütz Oldosi; perché quest’ultima, mezzosoprano, potesse sostenere la parte di Giulietta, scritta in origine per il soprano Rosalbina Carradori, Bellini dovette procedere a rimaneggiare ampie porzioni della partitura. Tale adattamento comportò l’abbassamento della parte della protagonista e l’aggiustamento delle altre parti vocali, il trasporto di alcuni brani, il rifacimento di alcune sezioni di raccordo, il ritocco della strumentazione. L’esito di questa versione rimaneggiata non fu particolarmente entusiasmante: Bellini, che vi assisteva, deluso e irritato per la cattiva prestazione dei cantanti non uscì neppure a ringraziare il pubblico che lo chiamava sul palcoscenico. Alle rappresentazioni successive le cose andarono progressivamente migliorando; il compositore era tuttavia insoddisfatto della nuova versione dell’opera, nella quale stentava a riconoscere il lavoro così entusiasticamente acclamato a Venezia. Miglior fortuna toccò ad altri allestimenti. Nel corso della stessa stagione di carnevale, I Capuleti e i Montecchi furono presentati alla Pergola di Firenze, al Carlo Felice di Genova, al Carolino di Palermo, al San Benedetto di Venezia. A Cremona, Rovigo e Udine l’opera arrivò con la stagione estiva; al San Carlo di Napoli, a Trieste, Novara e Dresda in autunno. In seguito, a partire dalla stagione di carnevale del 1831-32, la diffusione si fece ancora più capillare: grazie ai circuiti impresariali l’opera toccò tutti i teatri principali e secondari della penisola e arrivò, tradotta in varie lingue, in tutti i paesi europei nei quali si allestivano opere italiane. Nel 1833 approdò al King’s Theatre di Londra e al Théâtre Italien di Parigi. Intorno agli anni Quaranta dell’Ottocento, poi, in concomitanza con l’espansione dell’‘industria’ del teatro musicale italiano e la conquista di nuovi mercati (facilitate dalla costruzione delle vie ferrate e dall’istituzione di linee transoceaniche regolari), l’opera di Bellini giunse in centri remoti quali L’Avana, Città del Messico, New Orleans, Rio de Janeiro, Trinidad, Buenos Aires, Valparaiso. Nel 1859 l’opera belliniana fu rappresentata, col titolo Roméo et Juliette, all’Opéra di Parigi, tradotta in francese e trasformata in un grand opéra. Ai Capuleti e Montecchi legarono il proprio nome – oltre alle prime interpreti Giuditta Grisi, Rosalbina Carradori e Amalia Schütz – tutti i principali cantanti attivi fra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento. Nel ruolo di Romeo si cimentarono, tra le altre, Giuseppina Ronzi De Begnis, Almerinda Manzocchi, Maria Malibran, Giuditta Pasta, Carolina Unger, Fanny Tacchinardi Persiani; in quello di Giulietta Luigia Boccabadati, Giulia Grisi, Sophie Dall’Oca Schoberlechner, Henriette Méric-Lalande; sostennero il ruolo di Tebaldo (pur meno gratificante) tenori del calibro di Domenico Reina, Giovanni Battista Rubini e Domenico Donzelli. In Germania, dove l’opera belliniana ebbe una diffusione immediata e capillare, furono celebri le esibizioni di Wilhelmine Schröder-Devrient (nei panni di Romeo), che fece dei Capuleti uno dei suoi cavalli di battaglia; dalla sua interpretazione fu vivamente impressionato, tra gli altri, Richard Wagner, che dedicò alla cantante righe di fervida ammirazione. Nel Novecento I Capuleti e i Montecchi furono ripresi dapprima a Catania nel 1935, in occasione del centenario della morte di Bellini, poi in vari teatri a partire dagli anni Cinquanta (alla Scala di Milano nel 1966, in un discusso allestimento diretto da Abbado, la parte di Romeo venne affidata al tenore Giacomo Aragall); oggi l’opera occupa nuovamente un posto stabile nel repertorio dei teatri lirici. In tempi recenti al ruolo di Giulietta hanno legato il loro nome Mariella Devia, Katia Ricciarelli e Cecilia Gasdia; a quello di Romeo Agnes Baltsa, Martine Dupuy e Diana Montague. Un capitolo a parte, nella storia della ricezione dell’opera belliniana, è rappresentato dalla sostituzione del finale. All’epoca in cui Bellini compose I Capuleti e i Montecchi circolavano nei teatri italiani altre due opere sullo stesso soggetto: il vecchio lavoro di Zingarelli del 1796, Giulietta e Romeo, e quello più recente di Vaccaj, dallo stesso titolo. La vecchia opera di Zingarelli era stata un cavallo di battaglia del sopranista Girolamo Crescentini; rimase in circolazione fino ai primi anni Trenta dell’Ottocento, quando a riprenderla fu Giuditta Pasta, che amava prodursi nei panni del giovane Montecchi. L’ultimo atto dell’opera, in particolare, offriva alla cantante la possibilità di mettere in luce le proprie doti d’attrice drammatica; ed erano soprattutto queste scene finali che giustificavano la ripresa – di norma accompagnata da inserzioni estranee – di un’opera che il pubblico avvertiva chiaramente come un prodotto ormai antiquato dell’antica scuola. L’opera composta da Vaccaj sullo stesso soggetto, più recente, costituiva per I Capuleti e i Montecchi di Bellini un riferimento più immediato. Anche in questo caso era il finale dell’opera a costituire un modello autorevole, e assai apprezzato, d’arte drammatica. L’invenzione di Vaccaj è incanalata nelle forme della tradizione italiana, caratterizzate da una chiara scansione e da passaggi ben percepibili da una sezione all’altra; ciò permette al compositore, tra l’altro, di mettere in risalto i momenti lirici, strutturati come pezzi chiusi e in sé compiuti. Uno di questi, il cantabile di Romeo “Ah! se tu dormi, svegliati”, fu sempre considerato il punto d’eccellenza del finale. Questa pagina ammiratissima, che rimase per anni nel repertorio di grandi interpreti, fu presa a paradigma di esemplare scrittura vocale; la naturalezza di un canto moderatamente espressivo, che procede di preferenza per piccoli intervalli e non acconsente a forzature, il giusto equilibrio tra effusione lirica e accenti drammatici, ne fanno effettivamente un esempio magistrale dell’antica e gloriosa tradizione belcantistica italiana. Il finale belliniano, al contrario, privilegia la concisione drammatica e non concede molto alle velleità esibizionistiche di una prima donna. È presumibile che queste caratteristiche rendessero più familiare e più gradito agli interpreti e al pubblico il finale di Vaccaj rispetto a quello dei Capuleti e Montecchi, che dalla tradizione è molto meno condizionato. Fu così che a un certo punto il finale dell’opera di Bellini fu sostituito dalle pagine corrispondenti di quella di Vaccaj. La prima sostituzione avvenne quasi subito. Nel corso delle rappresentazioni fiorentine iniziate il 26 febbraio 1831, la protagonista Santina Ferlotti sostituì il finale dell’opera di Bellini, poco apprezzato dal pubblico, con le scene corrispondenti dell’opera di Vaccaj, suscitando la più viva approvazione. Anche Maria Malibran, esibendosi nel ruolo di Romeo a Bologna nell’ottobre del 1832, sostituì il finale di Bellini con quello di Vaccaj (né si fece scrupolo di introdurre nell’opera un duetto di Mercadante e un altro di Celli); mantenne la sostituzione in tutte le successive rappresentazioni cui prese parte, e il suo esempio fece scuola. La sostituzione, tuttavia, non venne affatto accolta da pareri unanimi. E nella primavera del 1834, alla Pergola di Firenze, Giuseppina Ronzi De Begnis andò controcorrente e ripristinò il finale originale, ottenendo – a quanto pare – l’approvazione del pubblico. Ciò non impedì, tuttavia, che sino alla fine dell’Ottocento I Capuleti e i Montecchi venissero di norma rappresentati con il finale sostituito; fece anzi notizia il fatto che per una rappresentazione dell’opera, nel 1895 al Teatro Mercadante di Napoli (con Emma Carelli nei panni di Romeo e un giovane Enrico Caruso in quelli di Tebaldo), venisse ripristinato il finale originario di Bellini. Ma intanto I Capuleti e i Montecchi erano usciti di scena: la prassi del travesti era da troppo tempo in disuso, e il pubblico mostrava disaffezione per un’opera nella quale avvertiva un’eccessiva dose di inverosimiglianza drammatica. Solo dalla riproposta dei Capuleti in occasione del centenario belliniano, nel 1935, scaturirono una più corretta comprensione dell’opera – benché occorresse attendere ancora un paio di decenni per il suo stabile rientro in repertorio – e il definitivo rovesciamento del giudizio sul finale. È ben noto come nella storia del melodramma il ‘codice’ condiviso prevalga assai spesso sull’innovazione; ciò che è familiare è più gradito, al pubblico del teatro d’opera, di ciò che nega le sue aspettative, cosicché il sistema delle convenzioni e la ripetitività delle formule possono comprimere – o addirittura sopprimere – il testo di un autore nei casi in cui questo contrasti apertamente con il codice stesso. Le ultime scene dei Capuleti e Montecchi mettono in discussione quella sorta di sospensione temporale che si produce nel cantabile, che lo spettatore si aspetta e percepisce all’istante grazie all’andamento regolare e simmetrico delle frasi vocali, all’orchestra che si ritira ad eseguire formule d’accompagnamento, al giro sintatticamente chiuso delle cadenze. Il procedimento è tanto più evidente nel finale dei Capuleti, dal momento che nel resto dell’opera Bellini impiega strutture assolutamente regolari, perfettamente ritagliate sulle consuetudini morfologiche del melodramma italiano dell’epoca. Il finale di Vaccaj offre allo spettatore più legato alla tradizione esattamente ciò che si aspetta: arie dalla fattura elegante, frasi melodiche ben tornite, che sono pensate in primo luogo in funzione dell’esibizione vocale, lasciando l’effetto drammatico in secondo piano. Oggi, ripristinata definitivamente nei Capuleti la lezione belliniana, siamo in grado di apprezzare in pieno il pathos drammatico di una pagina che all’epoca dovette apparire, forse, troppo innovativa. L’afflizione estrema e l’esaltazione più intensa del sentimento, l’elegiaco delirio amoroso espresso dalle linee vocali, discretamente punteggiate dall’orchestra, costituiscono senza alcun dubbio uno dei vertici assoluti dell’arte di Bellini. Claudio Toscani