Psichiatri o sciamani - Dr. Giovanni Iannuzzo

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GIOVANNI IANNUZZO
Medico specializzato in Psichiatria ed in seguito in Sessuologia
Clinica, Medicina Psicosomatica e Medicina Transcultrole, é
attualmente Dirigente Medico Responsabile di un Centro di
Salute Mentale in Sicilia. Noto parapsicologo, é da anni impegnato in ricerca sperimentale ed é autore di numerosi libri ed
articoli sul/argomento. Membro della Parapsychological
Association. Da tempo si occupa di etnopsichiatria, interessandosi sia agli studi teorici sia alle ricerche sul campo e ponendo
grande attenzione agli aspetti clinici delle medicine trodizionali e
soprattutto alle relazioni fra cultura magica e terapia psichiatrica.
SIAMO PSICHIATRI
O SCIAMANI?
Strategie terapeutiche ai confini fra scienza e magia
Sul fatto che la psichiatria, fra tutte le specialità mediche, sia quella più "strana"
credo che esista un consenso unanime. Apparentemente si tratta di un luogo
comune, ma in realtà i motivi di questo stereotipo sono dovuti alla natura stessa
della psichiatria e del suo oggetto di studio e di applicazione clinica, forse persino alla sua storia.
La malattia mentale e il disagio psichico in tutte le sue forme, infatti, sembrano
differire da qualsiasi altro tipo di malattia o disagio. Si manifestano con turbe del
comportamento che non sempre è facile ricondurre ad una origine organica, sono
diagnosticabili quasi sempre solo mediante osservazione diretta, nella quale l'esperienza del medico gioca un ruolo fondamentale (non a caso si dice che è lo psichiatra stesso uno strumento di diagnosi e di terapia). Diciamocelo pure: la psichiatria non è rassicurante; non fosse altro che perché le linee di confine fra comportamento normale e comportamento patologico o, se volete, fra normalità, disagio e follia sono spesso incerte, sfumate, prive di quelle caratteristiche "demarcanti" che sono invece, in genere, proprie di altre forme di patologia. Vi faccio un
solo esempio.
Se io dico che una persona ha il diabete, mi riferisco a parametri chiari e inequivocabili, in prima istanza di ordine biochimico e poi clinico: una persona che
definisco "diabetica" ha, per cominciare, valori di glucosio nel sangue più elevati di quelli definiti normali. Se il signor A ha valori di glicemia di 100 mg/ml è
normale; se tali valori sono, poniamo, di 150 mg/ml, il signor A ha un problema
di iperglicemia. Sarà poi la storia clinica del paziente a stabilire se è diabetico o
meno ma, di fatto, esistono dati discriminanti fra chi ha la glicemia a posto e chi
no. Nel campo del comportamento la cosa non è così semplice. Se un paziente mi
dice che si sente depresso, ansioso, o che sente le voci, o che vede una inesisten-
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te immagine di donna che passeggia per il salotto di casa, di cui non si accorge
alcun altro, non ho. strumenti per decidere se quello che mi sta dicendo è vero o
falso. Posso pensare che sia andato fuori di testa, ma non ho modalità obiettive di
diagnosi. Posso suggerirgli di sottoporsi ad una TAC o una RMN, di fare decine
di analisi del sangue, ma non vedrò, generalmente, nulla. Vedrò solo un comportamento apparentemente anomalo. Ma quanto lo è? Questo potrò deciderlo solo
io, e non soltanto in base alle mie competenze ed alla mia esperienza clinica, ma
anche alla mia storia e ai miei vissuti personali. Esistono ovviamente un buon
numero di situazioni eclatanti, dove è chiaro che il comportamento di un paziente ha assunto connotazioni fortemente patologiche, ma vi assicuro che in un buon
numero di casi, la linea di confine fra normale e patologico è talmente sfumata da
essere davvero impercettibile.
Non è un caso che la psichiatria è l'unica specialità medica ad essere storicamente ancorata - e fortemente - a tradizioni magiche e popolari. Quando si parla
infatti di comportamento è inevitabile tenere conto di alcune variabili che non
sono rintracciabili in altri casi. Il diabete è sempre diabete sia a New York sia a
Kinshasa, a San Marino come a Katmandu. Ma la convinzione di essere in diretto contatto con gli spiriti dei propri antenati defunti ha una valenza completamente diversa in ciascuno di questi posti. Questo significa, ovviamente, che nella
patologia del comportamento esiste una variabile fondamentale: la cultura, in
senso etnologico.
Insomma, è una cultura a decidere spesso cosa è normale e cosa non lo è.
Voglio dire che la malattia mentale ed il disagio psichico nascono nel contesto
di una cultura specifica, e spesso è solo all'interno di quella cultura che vengono
definiti come malattia psichiatrica o disagio psichico, mentre nel contesto di culture differenti possono rappresentare altro, non necessariamente la normalità ma
comunque 'altro' rispetto alla definizione psicopatologica. E', in altri termini, una
cultura che stabilisce, in base ad una propria teoria di malattia (sickness theory),
che cosa è normalità e cosa è patologia. Ma se una cultura stabilisce una teoria ed
una definizione di malattia, stabilisce anche una teoria ed una definizione di terapia. Entrambe le teorie ed entrambe le definizioni possono non essere affatto
scientifiche, e ciò dipende dal fatto che quella data cultura adotti o no la definizione moderna di scienza, o che si concretizzi in un contesto nel quale tale definizione è dominante o subalterna rispetto ad altre definizioni. E' da questa constatazione che nasce in psichiatria un approccio particolare che, genericamente,
possiamo definire "etnopsichiatria", cioè la convergenza sul piano clinico, di
osservazione clinica e osservazione - e uso - di usi, costumi, tradizioni culturali,
convinzioni, visioni del mondo differenti.
Tutto questo avviene ovviamente anche per altre malattie, co,q'Y'ead esempio i
disturbi legati all'alimentazione. Nel mondo occidentale esiste un prototipo di
magrezza (quella di Barbie, per intenderci), e la donna attraente ideale le somiglia. Nel mondo arabo la donna attraente e sana è al contrario piuttosto grassa,
garanzia questa di fecondità. Succede persino per la già citata glicemia, che pure
è un parametro obiettivo: per anni, negli Stati Uniti, una iperalimentazione gluci-
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dica era considerata un segno distintivo di benessere individuale e sociale. Una
cultura aveva così stabilito una teoria di salute e di malattia.
Possiamo figurarci, allora, quello che avviene nel campo della salute mentale.
Ogni cultura crea e stabilisce dei modelli che le sono propri per identificare cosa
sia normale e cosa non lo sia. I modelli dipendono da una serie complessa di fattori, storici e sociali, ma, quando sono fondati, essi divengono una norma inalterabile. Per cui ci sono anche modi "corretti" per comportarsi da folli. Questo non
vale solo per il comportamento sociale o per gli insegnamenti etici, bensì anche
per la distinzione di ciò che è normale da ciò che non lo è. In campo psichiatrico
questo si è sempre verificato; in ogni epoca storica, a ben pensarci, sono stati
imposti tre tipi di modello: il primo riguardante ciò che può essere definito salute, il secondo ciò che deve essere definito malattia, il terzo che regola le modalità in cui l'anormalità deve essere espressa. In altri termini è stato sempre sancito
ciò che è normale, ciò che è anormale e ciò che è deviante o patologico.
Gli esempi potrebbero essere moltissimi. Nell'Ottocento la masturbazione era
colpevolizzata e curata, così come venivano proposte teorie per la cura dell'omosessualità (oggi non è più considerata malattia dall'OMS). Nel Medioevo le isteriche dovevano essere per forza delle streghe, mentre agli inizi del '900 si erano
trasformate in donne sessualmente insoddisfatte e oggi semplicemente in depresse. I cambiamenti sociali determinano cambiamenti nella definizione del disagio
psichico e nel modo in cui esso deve esprimersi. Naturalmente a tutte queste
caratteristiche corrispondono dei "segni" precisi che sono stati codificati dalla psichiatria occidentale. Insomma, come dice Georges Devereux "L'individuo colpito da disturbi psichici tende a conformarsi strettamente alle norme del comportamento 'appropriato al pazzo' vigenti nella società in cui vive".
Così esistono non solo teorie, ma anche espressioni di salute e malattia mentale estremamente diverse in base alla cultura ove sono formulate. Queste forme
culturali di disagio psichico vengono definite "disturbi etnici" (cultural bound
syndromes).
Ma cos'è un "disturbo etnico"? E' una modalità di comportamento anormale con
connotazioni culturali specifiche, sancito cioè, dalla propria cultura. Dal punto di
vista della psichiatria occidentale, e anche dell'uomo medio, si tratta di forme di
follia; dal punto di vista delle culture nelle quali tali disturbi sono diffusi si tratta
di qualcosa d'altro, per indicare le quali il termine "follia" è sicuramente il meno
appropriato. Riporto a chiarimento alcuni casi esemplificativi.
LA CORSA DELL'AMOK. Nell'arcipelago malese un particolare disturbo psichiatrico veniva chiamato "la corsa dell'amok". Ovviamente non si tratta di una
competizione sportiva. Di fronte a gravi problemi che appaiono irrisolvibili il giovane malese ha una sola possibilità, fornitagli dalla cultura. E cioè iniziare una
corsa, reale, non metaforica, disperata, armato di un kris (il micidiale coltello serpentino), durante la quale è "costretto" a uccidere tutti coloro che incontra, sino a
quando non sarà egli stesso ucciso. La cultura malese non conosce altri modi
accettabili, e il corridore di amok sa perfettamente che la "crisi" sarà l'unica solu-
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zione possibile per dimostrare che è andato fuori di senno. Nella sua crisi il "folle"
uccideva chiunque gli si parasse davanti, e tanta era la furia del suo accesso di follia che, quando era colpito da mia lancia, si portava in avanti, lasciandosi trapassare da parte a parte, pur di avvicinarsi abbastanza al suo avversario e ucciderlo a
sua volta. I malesi avevano allora inventato delle speciali lance munite di due ferri
che si incrociavano a angolo acuto per impedire al corridore di amok colpito di
avvicinarsi troppo all'avversario.
La corsa folle dell'amok era diffusa anche presso i Moro, una popolazione delle
Filippine, dove comunque era nota col nome dijuramentado. L'individuo che sentiva di dovere "impazzire" chiedeva il permesso ai genitori, si faceva stringere in
un corsetto e adoperava tutti i mezzi disponibili per scatenare una crisi. Il juramantado coperto dI robusto corpetto antiproiettile, riusciva a continuare la sua
corsa anche se colpito da un proiettile calibro 38, quello delle pistole in dotazione ai militari americani di stanza nelle Filippine. Si racconta che sia stato per questo motivo che i militari americani abbiano sostituito quel tipo di arma con la più
potente calibro 45, che atterra l'uomo colpito anche se lo ferisce in modo lieve.
Il corridore di amok cerca la morte gloriosa nella sua follia, l'unica che gli sia
concessa dalla sua cultura. La crisi di amok era infatti fondata sul desiderio di una
morte gloriosa. Gli olandesi, nel tentativo di porre un freno a queste manifestazioni, utilizzarono invece uno stratagemma: rifiutarono ai corridori di amok la
morte gloriosa che questi cercavano. Quando li catturavano, li condannavano ai
lavori forzati. Sembra che questo stratagemma abbia diminuito notevolmente la
frequenza della crisi.
CANE PAZZO CHE VUOLE MORIRE. Presso i Crow esisteva un'altra sindrome, molto diversa formalmente ma non nella sostanza: quella di "Cane pazzo che
vuole morire". In quella cultura, di fronte a una grande delusione o comunque un
grosso trauma psichico, l'individuo poteva reagire solo in questo modo, con questa specifica forma di follia. Diventava, cioè, un Cane-pazzo-che vuole morire, un
guerriero dal coraggio temerario che si recava in battaglia soltanto con uno scudiscio e un sonaglio, alla ricerca di una morte gloriosa, diventando nello stesso
tempo pericoloso per la sua comunità a causa del suo comportamento irrazionale
e aggressIvo.
Si trattava di una "psicosi etnica", l'unico modo di diventare pazzo in maniera
rispettabile all'interno di quella cultura, che la controllava e accettava. Tanto che
la cultura Crow riservava uno spazio preciso, nel suo dispositivo militare, al
Cane-pazzo, sebbene questo non fosse di alcuna utilità tattica o strategica, ma
anzi, data la sua irrazionalità, potesse addirittura danneggiare il dispositivo bellico.
Naturalmente, per diventare un Cane-pazzo-che-vuole-morire, occorreva rispettare certe regole, quelle mediante le quali la cultura Crow stabiliva quali traumi
psichici fossero degni di indurre la follia. Lo stress, in altri termini, poteva ricevere una risposta "irrazionale" ma andava vissuto in maniera convenzionale. Solo
se la "delusione insopportabile" del Crow rientra nello schema convenzionale
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conveniente il guerriero Crow può diventare un Cane-pazzo-che-vuole-morire.
Ma la delusione, il trauma o la frustrazione devono rientrare nei modelli di "insopportabilità" per quella cultura.
Se per esempio un uomo della tribù doveva "semplicemente" rinunciare alla
propria moglie, pur essendo un trauma ch, da una prospettiva occidentale poteva
condurre a un comportamento "folle", non si trattava per i Crow di un trauma tale
da poter giustificare un comportamento da Cane-pazzo. In questo caso il Crow
sarebbe stato disprezzato dal suo popolo, perché era impazzito per motivi che non
rientravano nella giusta categoria. Infatti la sua cultura si aspetta che un uomo che
deve rinunciare alla propria moglie, per quanto possa amarla, reagisca con flemma. Era riconosciuto invece, ad esempio, il trauma psichico dovuto alla frustrazione dell'ambizione di diventare capo.
La crisi poteva essere momentanea. Se, prima che le foglie ingiallissero, Canepazzo non trovava la morte sul campo di battaglia, il suo comportamento poteva
cessare. Nello stesso tempo la sua cultura aveva dei modi specifici di controllare
questa forma di psicosi: il comportamento del Cane-pazzo era sostanzialmente
irrazionale, negativistico. Per controllarlo bastava allora che gli dicesse di fare
esattamente il contrario di quanto si voleva che facesse. Il che dimostra che ogni
società racchiude in sé una serie di norme per impazzire in maniera socialmente
accettabile, e per curare questa follia in maniera altrettanto accettabile.
CULTURE "ALTRE". Normalmente quando di parla di culture 'altre' ci si tende
a riferire a culture molto lontane da quella occidentale moderna (per esempio
quelle africane); in realtà questo discorso riguarda anche le infinite culture e sottoculture che coesistono nel moderno occidente industrializzato, ognuna con proprie caratteristiche, usi, costumi, credenze e visioni del mondo. Queste culture e
sottoculture sono comunemente disperse in una visione apparentemente globale,
totalizzante che, in realtà, è invece altamente differenziata, e che in certe zone (per
esempio le zone montane, ma anche i differenti quartieri di una metropoli) manifesta nel proprio contesto infinite variazioni.
In maniera più specifica diciamo pure che nell'arcipelago di culture e sottoculture che caratterizzano anche la realtà italiana esistono modalità di lettura, interpretazione e terapia del disagio psichico profondamente diverse da quelle che
caratterizzano la psichiatria per così dire" accademica". Esistono ancora radicate
modalità di interpretazione magica della malattia mentale, o semplicemente di
uno stato di disagio psicologico, ma anche della malattia organica. Ed esistono
terapie che sono ritenute efficaci, a fronte delle terapie mediche ritenute ':scientifiche" (oggi con un termine molto di moda diremmo evidence based).
Naturalmente le terapie scientifiche sono ritenute dominanti e quelle popolari,
magiche o tradizionali subalterne, insomma primitive o irrazionali. A questo contesto appartengono ovviamente non solo le credenze magiche, ma anche i fenomeni paranormali, la percezione extrasensoriale, la psicocinesi, come altrettanto
tutte le tematiche legate alla sopravvivenza, al rapporto con l'aldilà e con i defunti.
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Si discute da decenni sull'attendibilità scientifica di questi fenomeni, ed è una
discussione che ha ormai abbondantemente annoiato. Qualsiasi cosa ne possa
pensare la comunità scientifica, di fatto certi fenomeni sono presenti nella cultura umana ed esercitano i loro effetti di senso, con buona pace di tutti gli scettici
del mondo.
Come forse qualcuno sa, ho avuto grandi frequentazioni con la parapsicologia,
ben prima di diventare medico e" poi, psichiatra. Non ho quindi mai avuto grandi difficoltà nell'accettare l'esistenza di fenomeni psichici anomali o paranormali.
Il problema semmai è stato quello di mettere 'in concordanza' questi due filoni di
conoscenza, e tentare di unificarli nella pratica clinica. Per parodiare una famosa
battuta di Russel Crowe ne "Il Gladiatore", uno psichiatra clinico ha il grande
vantaggio di guardare il suo paziente negli occhi. Poiché ha pochissimi strumenti obiettivi, deve tentare di entrare attraverso questo mezzo non solo nella sua
mente, ma anche nella sua anima e nella sua cultura. Per poterlo fare deve solo
trovare la porta d'accesso a questo universo. Vi racconterò ora come penso di
averla, talvolta, trovata.
STORIA PERSONALE DI ORDINARIA FOLLIA
Dal 1984, anno della mia laurea, al 1990 studiai e lavorai presso l'Istituto di
Psichiatria del Dipartimento di Scienze Mentali dell'Università degli Studi di
Messina. Vi ricevetti una formazione complessa e molto articolata, e nel frattempo mi occupavo di ricerche psichiatriche formali. Fu in quel periodo che abbandonai la parapsicologia. Mi occupavo in particolare di epidemiologia psichiatrica
in generale e di quella della schizofrenia in particolare, di bio statistica e di genetica delle malattie mentali. Mi ero persino convinto che la psichiatria fosse davvero una scienza, con quelle bellissime molecole di mediatori chimici e neuro trasmettitori che regolano le nostre emozioni e il nostro umore, quei graziosissimi
grafici che descrivono il nostro comportamento come se stessimo parlando del
software di un computer. Tutto era certo, scientifico e razionale. Non c'era posto
per altre visioni del mondo Debbo ammettere che anche in quel periodo di assoluta sicurezza emergeva qualche dubbio, ma tutto sommato il sistema funzionava
e funzionava bene.
Poi, nel 1991, per motivazioni personali, lasciai l'Università ed entrai nei Servizi
Psichiatrici Pubblici e dopo una serie di vicissitudini che non sto a raccontarvi (un
anno nei servizi psichiatrici metropolitani, un anno come dirigente di un servizio
per le tossicodipendenze), nel giugno del 1992 mi trovai letteralmente catapultato in una zona montana a cavallo fra Sicilia Occidentale ed Orientale, nel territorio delle Alte Madonne, con l'incarico praticamente di organizzare, coordinare e
gestire gli appena nati servizi di salute mentale in quell'area geografica.
L'area geografica delle Alte Madonie insiste su un territorio montuoso molto
vasto, geograficamente collocato fra le province di Palermo, Enna e Catania, ed
esteso sulle catene montuose delle Madonie e, in parte, dei Nebrodi. Si tratta di
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un teITitorio impervio, con una viabilità difficilissima, e con condizioni climatiche particolari. Nonostante sia Sicilia, infatti, l'inverno è spesso durissimo, con
nevicate intense che riescono a bloccare i centri abitati anche per giorni interi. La
popolazione della zona, falcidiata dall'emigrazione, non conta più di trentamila
abitanti dispersi in nove piccoli comuni ed un numero enorme di frazioni, che
d'inverno, all'epoca delle grandi nevicate, possono restare isolati e iITaggiungibili anche per settimane. In alcune zone non acrivava ancora l'energia elettrica, nei
pesanti inverni ci si riscaldava con la brace di carbone messa a covare in un braciere coperto (la cosiddetta "conca"). [Il metano nei centri maggiori, deve ancora
aITivare]. Buona parte della popolazione locale era fortemente ancorata alle proprie visioni tradizionali, a credenze e convinzioni che non trovano sicuramente
riscontro nei paradigmi della moderna cultura medica e scientifica, permeata da
una antica visione magica delle cose.
Così, quando iniziai ad organizzare i servizi psichiatrici in quella zona, a comprendere come era culturalmente strutturato il teITitorio e, soprattutto, a vedere i
miei primi pazienti di quell'area geografica, mi resi conto che c'era qualcosa si
strano. Ero arrivato nelle Alte Madonie con tutto il mio armamentario di conoscenze neuroscientifiche e psicofarmacologiche, con tutta la mia formazione psicoterapica formale, insomma con tutte le più ortodosse conoscenze che derivavano dalla mia pratica di psichiatra universitario e di psichiatra clinico metropolitano, convinto che questi fondamentali strumenti, che questa mia dimostrata adesione al pensiero razionale e scientifico mi avrebbero tranquillamente permesso
di fare la mia professione con la massima precisione e competenza. Ma le mie
sicurezze vennero rapidamente messe in crisi quando mi trovai di fronte a nuovi
modelli di malattia e a nuovi metodi tradizionali di cura, entrambi a me sconosciuti. Ovviamente esisteva una patologia psichiatrica ortodossa: il depresso, lo
schizofrenico o l'ansioso non erano affatto delle rarità. Il problema era che, accanto a queste patologie, di abbastanza facile definizione e aggredibili con gli strumenti ortodossi della psichiatria ve ne erano altre, molto radicate in senso culturale specialmente per quanto riguarda l'eziologia riferita al magico.
Molti pazienti, per esempio, si venivano a lamentare di disturbi estremamente
vaghi, che sfuggivano a qualsiasi classificazione psichiatrica, o meglio, rientravano in troppe classificazioni per poter essere chiaramente definiti. Mi spiego: un
disturbo psichiatrico, per convenzione internazionale, per potere essere definito
tale deve rispettare dei criteri diagnostici precisi, e solo quelli e presentarsi con
caratteristiche altrettanto chiare. Nel caso in cui tali condizioni non siano rispettate, tecnicamente la diagnosi è impossibile. I pazienti che chiedevano una consultazione abbastanza spesso presentavano quadri clinici di questo tipo. Non sapevi dove inserirli, non sapevi come classificare i loro disturbi.
Uno dei quadri più frequenti era per esempio quello, rilevato specialmente in
donne abbastanza giovani, che viene dialettalmente
definito nirbatura.
Letteralmente, nel siciliano alto-madonita nirbatura significa nervatura, con un
generico riferimento proprio ai nervi in senso fisico, ma anche ad una condizione
di disagio difficilmente descrivibile. I sintomi presentati da queste pazienti com-
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prendevano sensazioni somatiche (tremori, vampate di calore, sintomi generici a
carico dell'apparato gastroenterico o genito-urinario, momenti di "mancamento")
e, dal punto di vista psichico, sensazione di perdere il controllo, attacchi improvvisi di pianto, grida incontrollabili, aggressività verbale. Altri sintomi meno
comuni possono comprendere cefalea e "male al cervello", irritabilità, mal di stomaco, difficoltà a dormire, nervosismo, facilità al pianto, difficoltà di concentrazione, tremori, sensazioni di ronzio e giramenti di testa con occasionale esacerbazione a tipo vertigine).
In genere queste risposte patologiche venivano attribuite, realisticamente, ad
una condizione di stress specialmente nell'ambito della famiglia o relazionale (la
notizia della morte di un parente stretto, la separazione o divorzio dal coniuge,
conflitti con il coniuge e i figli, oppure il fatto di assistere a un incidente che coinvolge un membro della famiglia, o ancora condizioni di conflitto con conoscenti
o amici). Non raramente le pazienti non ricordavano nulla dell'attacco di nirbatura, anzi le crisi si esaurivano con estrema rapidità nel giro di pochi giorni, anche
se avevano un forte carattere subentrante. In genere queste pazienti non presentavano alcuna apprensione, che invece era ovviamente dei familiari, quelli che in
realtà chiedevano la consultazione. In genere, infatti, è sempre presente una
menomazione del funzionamento lavorativo e sociale, oltre ai problemi che simili "crisi" provocano in generale sul funzionamento familiare.
La diagnosi formale è praticamente impossibile. Esistono una serie di condizioni psichiatriche che ricordano queste caratteristiche sindromiche (per esempio
gli attacchi di panico, i disturbi d'ansia, i disturbi dell'umore, persino per certe
caratteristiche i disturbi dissociativi, o quelli somatoformi, o i frequenti disturbi
dell'adattamento. In realtà il quadro che veniva descritto era una immagine caleidoscopica di sintomi e segni così strani, commisti fra loro, così vaghi e incerti sia
nelle manifestazioni stesse sia nella durata di esse da non potere essere definiti in
alcun modo: su qualsiasi aspetto ti andavi a soffermare, non riuscivi a mettere a
fuoco il vero problema, e andavi a trascurare altri aspetti. L'unica soluzione era
ammettere che queste persone soffrissero di almeno dieci disturbi psichiatrici
diversi, ma frammisti tra loro e senza una completa adesione ai quadri clinici classici. La cosa impossibile era fare quella che in medicina si chiama diagnosi differenziale: o un paziente ha questo o ha quest'altro o le ha tutte e due (il concetto di
comorbilità). In realtà un paziente avrebbe dovuto avere tutto, eppure continuare
a funzionare discretamente, in quanto questi disturbi avevano andamento periodico, e nei periodi per così dire intercritici funzionavano normalmente. Ma il vero
problema non era quello diagnostico, bensì quello terapeutico.
Se fare una diagnosi è difficile, o impossibile, si deve comunque intervenire,
specialmente se ti trovi di fronte ad una paziente che, finezze diagnostiche a parte,
prende la rincorsa e va a sbattere la testa contro il muro, o si mette improvvisamente a gridare o altre cose di questo tipo. La prassi consolidata in medicina è, in
questi casi, quella del cosiddetto criterio ex adjuvantibus, cioè in base a ciò che fa
effetto. E' forse il criterio più empirico della medicina, ma spesso funziona.
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Consiste nel fatto che comunque si può fare diagnosi in base ai farmaci che sono
efficaci, e quindi la diagnosi viene fatta non a priori bensì a posteriori. Sulla cartella clinica si scrive semplicemente "Diagnosi o condizione differita". Il problema in questi casi era però proprio questo: e cioè che gran parte di questi pazienti
non rispondevano come è prevedibile alle terapie. Erano spesso quelli che vengono definiti dei non responders. Insomma, per quanto utilizzassi i protocolli terapeutici più aggiornati, più ritenuti efficaci, con i farmaci più equilibrati, era come
se somministrassi loro dell'acqua fresca. Ma attenzione, non tutti. Una discreta
percentuale di pazienti rispondeva abbastanza bene, ma c'era una percentuale
piuttosto alta - che stimo approssimativamente del 40% - che non rispondeva
assolutamente alla terapia farmacologica. Provai allora con la psicoterapia, sia
personalmente sia mediante invio a colleghi dei più vari approcci. Ma anche in
quel caso restava uno zoccolo duro, un buon trenta per cento di pazienti che continuava a manifestare gli stessi quadri sindromici.
Mi chiesi allora cosa stesse accadendo. Passai giorni interi a studiare le storie
cliniche di questi pazienti. L'unico dato che emerse fu che si trattava di persone
fortemente radicate, ben più di altre, nella loro cultura tradizionale: contadini,
pastori, artigiani non erano scolarizzati, o lo erano scarsamente, e comunque aderivano perfettamente a modelli tradizionali estremamente forti. E allora cominciai
a chiedere a questi pazienti e ai loro familiari che cosa pensasse che fosse la loro
malattia. Mi si aprì, così, una via alla comprensione.
Esistono sostanzialmente due letture della nirbatura. La prima possiamo definirla naturalistica, sebbene non lo sia. E' collegata al concetto di collera, dalle
lontane origini galeniche. Fare collera significa esperire una intensa sensazione
di irritazione o di rabbia. La potenza della rabbia disturba gli equilibri del corpo,
e spesso scatena in maniera attuale predisposizioni preesistenti. Insomma, è un
fattore preesistente. Quando la sensazione di rabbia si attenua, i sintomi migliorano. C'è tutta una teoria sul fatto che esistono umori caldi o freddi, così come
situazioni materiali e spirituali. Questa spiegazione era tipica delle pazienti che
avevano risposto male ai farmaci, ma bene alla psicoterapia o a terapie combinate. [Sempre alla lettura naturalistica appartiene la teoria dell'esaurimento, cioè del
fatto che il cervello - considerato paradossalmente una macchina - esaurisca le sue
energie]. Ma la causazione più frequente era quella magica.
Esistono almeno tre cause eziologiche dei disturbi nervosi nel territorio alto
madonita, ed in particolare della nirbatura, in dipendenza della gravità del quadro clinico e comportamentale. Ve le elenco in ordine crescente di importanza.
1. SCANTU ("spavento"). Consiste nella convinzione che uno spavento, di
qualsiasi ordine e tipo, possa indurre sintomi della nervatura. E' considerata la principale causa di malattia nervosa nella Alte Madonie e riguarda sia
i bambini sia gli adulti. Lo spavento infatti implica teoricamente la fuga
dell'anima dal corpo e, come conseguenza, la malattia. Lo spavento non
deve necessariamente essere forte, ma essere forte proporzionalmente alla
capacità del soggetto di esserne sensibile. Gran parte dei soggetti con ner-
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vatura hanno nella loro storia un episodio di spavento, i cui effetti possono
manifestarsi anche a distanza di anni dall'evento. Talvolta può essere talmente intenso da provocare la morte. Gli effetti dello "scantu" infatti non
sono solo psichiatrici, per quanto lo siano prioritariamente. Una signora
molto anziana, una volta mi disse di essere affranta dalla morte della figlia,
avvenuta per una leucemia. Mi spiegò che secondo lei si era presa un grande spavento, dal quale non si era mai più ripresa. La cura consiste ovviamente nel rivolgersi ad un professionista e farsi "cirmare" , ovvero togliersi i vermi ma anche esorcizzare. Questo implica che l'anima rientri nel
corpo e ne ristabilisca l'equilibrio.
2. MALOCCHIO E FATTURA. Si tratta di una serie di interpretazione più
profondamente magiche. Nel caso del malocchio è l'effetto malevolo, anche
inconsapevole, di una persona che 'guarda male' un'altra persona, specialmente per sentimenti di invidia. Riguarda i bambini soprattutto (che infatti
tradizionalmente non vengono fatti vedere a persone non sicure), ma può
riguardare anche gli adulti. Il malocchio va tolto seguendo norme molto specifiche e precise, con rituali codificati nei secoli. La fattura è invece intenzionale e rituale. Qualcuno, cioè, utilizza riti magici per produrre danno (in
genere espresso dalla malattia); allora la nervatura è un prodotto di questi
rituali. Per guarire bisogna "togliere la fattura" e quindi rivolgersi ad uno
specialista in questi rituali. Qualsiasi altra strategia è ritenuta inutile.
3. SPIRDI (spiriti). Il concetto di spiriti è molto esteso. Esso può implicare
che, in relazione o meno con pratiche magiche, lo spirito di un defunto possa
condizionare la vita del paziente e la sua salute, con una sindrome che è
spesso caratterizzata dalla nervatura. Questa condizione può implicare la
comunicazione, anche attraverso il sogno, con parenti defunti; può essere
associata a brevi e periodici cambiamenti nella personalità, ma anche implicare fenomeni di infestazione ambientale; può essere responsabile di stati
dissociativi o psicotici reattivi, e questa è comunque considerata una delle
cause maggiori della nervatura. Il concetto di spirdi ovviamente implica
anche quello di possessione, e di singoli episodi particolari, come il "blocco
degli spiriti", che consiste in un improvviso collasso, talvolta preceduto da
sensazioni di galleggiamento o capogiri (insomma una specie di vera aura):
il soggetto comprende benissimo, lucidamente, quello che gli accade intorno, ma non riesce a muoversi. Il disturbo implica, anche in questo caso, un
intervento professionale per ripristinare il normale rapporto con gli spiriti
dei defunti.
Raccolsi queste informazioni in decine e decine di conversazioni informali. Solo
molto raramente ho potuto utilizzare questionari strutturati, e questo per il semplice fatto che i pazienti si vergognavano di queste loro credenze, per quanto pro-
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fondamente radicate fossero. Allora occorreva entrare in quel contesto di pensiero e le domande dovevano essere molto soft. Per esempio: visto che il suo disturbo (o quello di sua cognata, di sua sorella, e via dicendo) non guarisce, lei pensa
che esista un motivo? Naturalmente la gente mi guardava con stupore. Un medico, depositario della saggezza scientifica, che scendeva al livello di credere alle
loro impressioni? Debbo ammettere che forse era comunque proprio questa umiltà, espressa nella stessa lingua, descritta comunque nel rispetto dello stesso sistema di credenze, che mi guadagnò la fiducia di molti pazienti. Facciamo ora attenzione: non stavo facendo una indagine accademica. Ero lì, sul campo, sguazzando nello stesso fango, e stavo semplicemente chiedendo ai miei pazienti o ai loro
familiari cosa secondo loro fosse importante per curare o guarire certi disturbi
dall'effetto comportamentale dirompente, laddove i nostri potenti strumenti scientifici si erano rivelati inefficaci. Credo che sia stata questa modestia ad ingraziarmi tanti pazienti, che ben presto collaborarono alla grande. Tenete presente che il
servizio che dirigevo aveva in carico circa millecinquecento pazienti. Il venti per
cento significa almeno trecento pazienti che non rispondevano alle cure. Non
sono cifre da sottovalutare. Ma il problema, anche lì, non era né la cifra né la diagnosi: era, molto più semplicemente, la terapia. Insomma, non mi sembrava che
appartenere ad una cultura tradizionale fosse motivo sufficiente perché delle persone che esperivano forme di disagio psichiatrico non dovessero guarire...
Misi allora da parte per un po' i più aggiornati trattati di clinica e terapia dei disturbi psichiatrici, e cominciai a studiare le terapie tradizionali locali. Ma come
fare? Ovviamente non potevo chiedere al paziente: "Scusi, ma secondo lei come
si dovrebbe agire in questo tipo di disturbo?". Avrei fatto, a dir poco, la figura
dello scemo. Bisognava trovare altre risorse. E le trovai infatti nei miei colleghi
del Centro di Salute Mentale, tutti di origine madonita e in tutta una serie di altri
personaggi che comunque ruotavano intorno a questa struttura. Devo ammettere
che quando iniziai timidamente a fare qualche domanda e a chiedere qualche
delucidazione su come tradizionalmente si curavano i disturbi psichiatrici nella
loro cultura, ebbi l'impressione che non pochi mi abbiano considerato se non proprio matto, almeno sulla buona strada per diventarlo. Un dirigente medico, uno
specialista, ex universitario, responsabile per giunta di un grosso Centro di Salute
Mentale, che all'improvviso si mette a fare strane domande su come si curava lo
"spavento" o la "nervatura" può creare qualche legittima perplessità...
Riuscii a superare questa difficoltà, non vi dico come. Così, mi si aprì un mondo
assolutamente nuovo, di rituali, pratiche, strategie. Non solo, ma scoprii che,
paradossalmente, proprio gli operatori del mio servizio credevano fermamente in
certe tecniche terapeutiche, sebbene la loro formazione professionale avesse tentato di relegarle in un contesto assolutamente secondario. Feci in definitiva un
vero apprendistato culturale: parlai con anziani guaritori, feci domande ed ottenni risposte. Dopo parecchi mesi di questo "tirocinio" la mia formazione era sufficientemente ampia. Restava solo da metterla in pratica.
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SUL CAMPO: DALLA TEORIA ALLA PRATICA
L'esperienza così acquisita (una specie di master in terapie tradizionali) mi consentì non solo di valutare diversamente un certo numero di patologie, ma anche
di cominciare ad affrontarle con metodi diversi, talvolta da solo talaltra in collaborazione con guaritrici tradizionali. Ho già pubblicato altrove diversi casi difficili risolti utilizzando le strategie psichiatriche tradizionali. Diciamo che esse
implicavano spesso non solo il ricorso ad una farmacopea tradizionale che si rivelava molto più efficace di quella "ufficiale", ma anche il ricorso a forme rituali di
terapia.
Dal punto di vista farmacologico, per esempio scoprii che esiste un rimedio
popolare contro tutti i quadri clinici collegati con "u scantu", lo spavento. Casi che
resistevano ad alte prescrizioni di alprazolam o farmaci inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), trovavano grande beneficio dalla somministrazione di
"vinu stutato" (letteralmente, vino spento), vino cioè nel quale sono stati messi a
spegnere alcuni carboncelli degno di sarmenti d'uva, specialmente se somministrato non molto tempo dopo dall'evento che aveva causato lo spavento.
Molto più complesse erano invece le pratiche da utilizzarsi nel caso in cui era
presente la convinzione che le cause della nervatura fossero magiche. In questi
casi bisogna tenere conto di una serie di convinzioni fortissime, la più forte delle
quali è comunque quella secondo cui la "comunità" non è fatta solo da persone
viventi ma anche dagli spiriti dei trapassati, che continuano ad essere presenti in
essa. Inoltre esiste un sistema di forze ed energie - entrambe sia buone sia cattive-, tensioni magiche che possono egualmente influenzare l'esistenza individuale e la coesione stessa del gruppo. La strategia terapeutica in questi casi deve essere capace di trovare forme di mediazione con il mondo degli gli spiriti, attraverso
rituali spesso complessi, o comunque di trovare modalità per un riequilibrio delle
forze magiche che possono agire sull'individuo.
La causazione presente nelle pratiche psichiatriche tradizionali è magica, fondata sulla convinzione che il mondo è popolato di esseri umani e non umani, in
una stessa comunità ideale. Ma se è così e se, per il gioco di forze magiche che
condizionano l'esistenza, sia gli esseri umani sia quelli non umani possono essere all'origine di disagio e malattia, anche gli esseri non umani (che sono comunque e sempre dotati di intenzionalità) devono essere identificati per una terapia
efficace. D'altra parte, proprio perché la natura stessa è animata (e quindi possiede un suo spirito) l'individuo non è responsabile del proprio destino. Il disturbo
psichiatrico allora può essere prodotto da questi esseri non umani. Le strategie
terapeutiche efficaci devono pertanto stabilire delle relazioni di scambio con i non
umani per influenzarli o convincere: si può negoziare con loro, li si può sedurre,
ingannare, supplicare, o li si può rispettare e pregare. Di fatto tutte queste azioni
rappresentano una strategia terapeutica che spesso si rivela ben più efficace di
quelle moderne. Ma, nel momento in cui si utilizzano queste strategie, non partiamo dalla constatazione che è scientificamente dimostrato che il mondo è così
come è descritto nei sistemi di credenza tradizionale, anzi, dobbiamo prendere
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atto del fatto che all'interno di quel sistema di credenza le cose vanno così, e noi
semplicemente le utilizziamo. Ma in che modo?
Si tratta di modalità complesse di rapporto, che possono solo essere esemplificate dai casi clinici. [Per motivi di spazio e di tempo abbiamo scelto di non
includere la descrizione dei casi clinici, così come l'iconograjia, in questo testo,
consegnato in data antecedente ai lavori del congresso. Il presente testo è quindi centrato esclusivamente su questioni teoriche e di metodo, N.d.A.]
QUESTIONI DI METODO
Quando parlo di questi argomenti, quando faccio una conferenza, un seminario o
semplicemente seguo una tesi di laurea, mi sento spesso chiedere: liSi, quello che
racconta è bellissimo. Ma come si fa? ". Insomma un richiamo, anche questo culturale, alla filosofia del know how, del saper come, anziché del sentire come. Di
fronte all'evidenza di una cultura diversa e della propria teoria del mondo si pone
come indispensabile l'accettazione dell'alterità. Ma, nel parlare di accettazione di
una cultura e della conseguente teoria di malattia, non ci si riferisce ad una operazione puramente teorica e formale, bensì ad una lettura globale, complessa, e
che implica quindi anche uno spazio emozionale, affettivo, simbolico. Significa,
cioè, acquisizione di un modello etnologico in tutti i suoi aspetti; modello che
contiene una propria teoria culturale della malattia mentale, comprensiva di fatti
interiori: schemi mentali, sistemi di rappresentazione della realtà, comportamenti, idee, rappresentazioni.
Se è una data cultura a decidere cosafa ammalare, sarà la stessa cultura a decidere cosafa guarire.
Un approccio efficace deve allora adeguarsi ad una realtà molto più ricca e complessa di quella descritta dai sistemi scientifici. In qualsiasi cultura tradizionale
sembra prevalere una modalità di approccio sincretistica, olistica, globale. Allora,
lo psichiatra efficace deve possedere la capacità di leggere segni e decifrare messaggi, percepire il silenzio che è sotteso al frastuono nonché l'impensabile rumore dei silenzi. Egli è quindi anzitutto un interprete, che deve conoscere la lingua
magica parlata dal proprio paziente. Egli deve prima di tutto scoprire in se stesso tutto ciò che gli consente un dialogo con l'altro, sul piano culturale. Deve
"sospendere il giudizio" e leggere nell'interlocutore il senso del disagio, la categoria alla quale esso appartiene, le strade percorribili per risolverlo. Il passo successivo dovrà essere quello di lavorare come "terapeuti" nel rispetto della teoria
di malattia del paziente. E' così che il terapeuta diviene una vero e proprio trasduttore messo in connessione tra disagio e cultura del paziente, inconsapevole,
per decodificare quegli aspetti simbolici e pragmatici che trovano nel sistema culturale modelli terapeutici efficaci.
Certo, possono essere solo credenze, e forse io sono matto visto che vado loro
dietro. Ma le stesse credenze possono essere oggetto di valutazione scientifica.
Persino la stessa American Psychiatric Association (APA) ha dato una qualche
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forma di attendibilità alle credenze e ai modi diversi di vedere il mondo, non solo
enfatizzando nel DSM IV la dimensione "culturale" dei problemi psichiatrici, ma
anche evidenziando che certi fenomeni, di presumibile natura paranormale (per
esempio i fenomeni di trance e di possessione) vanno considerati fenomeni patologici solo se la cultura dominante non li accettai.
Così, gli stati di trance o di possessione devono essere ritenuti patologici solo
nel caso in cui essi causino evidente disagio nei soggetti che ne sono affetti. E'
ovviamente un grande passo avanti nella definizione psichiatrica di una serie di
condizioni che attengono al paranormale. La distinzione viene infatti posta non
tanto sulla natura del fenomeno, quanto sul fatto che il fenomeno sia per così dire
"distonico" rispetto alla realtà individuale e culturale del soggetto che lo esperisce. E' un esempio del modo in cui si possono valutare eventi strani, sul piano
medico, e intervenire in maniera altrettanto strana. Certo, si richiede per questo
una discreta adesione a paradigmi per così dire "paranormali". [Ho altrove
descritto un concetto che può comunque fornire un supporto, quello di "proto-evidenze", al quale rimando per eventuali approfondimenti chi fosse interessato].
E' pur vero che questo metodo non è esattamente quello che ci viene proposto
e imposto dalle Università. Un medico che fa lo sciamano, che utilizza precetti e
strategie tratte da antiche tradizioni, che si occupa di spiriti non fa parte sicuramente dell'immaginario collettivo. Ma un medico così "folle" - e assolutamente
contento di esserlo! - sta semplicemente mettendo in pratica un principio fondamentale dell'etnopsichiatria, espresso in maniera quanto mai suggestiva da Tobie
Nathan:
"Non si tratta di discutere il grado di 'verità' delle interpretazioni ma di osservare
le conseguenze della loro messa in atto". Insomma, non è importante il fatto che
si stia parlando di un dato scientifico. Qualsiasi cosa funzioni deve essere usata
per il benessere del paziente.
Bene, io l'ho fatto e, secondo il codice deontologico della mia professione, l'ho
fatto "secondo scienza e coscienza". Lo so, forse non è scientifico; ma so anche
che la scienza presenta spesso limiti, e vi assicuro che vedere un paziente che guarisce, qualsiasi mezzo voi utilizziate, è una esperienza profonda, unica, irripetibile.
Ed è questa la cosa più importante e indispensabile per chi cura: l'esercizio dell'umiltà. Mi ricorda una iscrizione trovata nell'ambulatorio di un medico missionario in Africa. Diceva: "Donaci, o Signore, un conveniente senso della nostra
impotenza terapeutica; conservaci umili o Signore. Amen". E' un pensiero che
I Ecco, per esempio, quanto il DSM IV afferma per lo stato di trance:
"La manifestazione essenziale è uno stato involontario di trance, che non è previsto dalla cultura
della persona come parte normale di una pratica culturale o religiosa, e che causa disagio clinicamente significativo oppure menomazione funzionale. Il disturbo qui proposto non dovrebbe essere
preso in considerazione per i soggetti che entrano volontariamente in stato di trance o di trance di
possessione, non provano disagio, e agiscono nel contesto di pratiche culturali e religiose che
sono ampiamente accettate dal gruppo culturale della persona. Tali stati volontari e non patologici
sono comuni, e costituiscono la stragrande maggioranza degli stati di trance e di trance di possessione che si incontrano nelle diverse culture".
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dovrebbe attraversare la mente di ogni medico, ogni giorno. Sciamano o psichiatra, questo è un pensiero che non mi abbandonerà mai.
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