Pasquale Serra
Hegel Heller Vico
Frammenti
di un nómos europeo
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ISBN
978–88–548–2286–3
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I edizione: febbraio 2009
INDICE
CAPITOLO PRIMO
Europa e Ottantanove .......................................................
9
CAPITOLO SECONDO
Mediazione e sovranità .....................................................
25
CAPITOLO TERZO
Sul nomos di Europa .........................................................
71
7
8
Capitolo secondo
CAPITOLO PRIMO
Europa e Ottantanove
Questo lavoro intende offrire uno schema di ricerca intorno
ad alcune questioni che ricorrono con più frequenza nell’ambito
della odierna riflessione sull’Europa (Europa e Ottantanove; il
problema della sovranità; la forma della potenza politica europea), le quali, nel loro insieme, formano un oggetto privilegiato
della filosofia politica e giuridica, oltre che della stessa storia
del pensiero politico, nel senso che l’«attuale congiuntura […]
ci obbliga non tanto a rinunciare al patrimonio concettuale ereditato da una storia molto lunga, ma a ripensarlo e a metterlo alla prova»1.
Da qui il titolo del libro, Hegel Heller Vico, che sintetizza,
credo efficacemente, la trama complessa di questo lavoro, il
modo stesso come, a partire dall’attuale congiuntura, occorre ridefinire il rapporto tra Europa e Filosofia, e dunque tra Europa e
Mondo.
La prima questione che occorre affrontare riguarda, dunque,
l’89 e il modo come si forma l’Europa per rapporto ad esso,
perché è sulle macerie del bipolarismo che non solo muta la collocazione e le finalità di Europa, ma cambia, anche, all’improvviso, la scena del mondo, il rapporto tra Europa e mondo, nel
senso che è proprio dal disordine degli spazi del mondo2 che nasce per l’Europa l’esigenza di prender coscienza di sé.
1
É. Balibar, Noi, cittadini d’Europa? Le frontiere, lo stato, il popolo (2001), Roma,
manifestolibri, 2004, p. 194.
2
Cfr. C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, il Mulino,
2001; B. de Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli, Guida, 2002; Id., La filosofia e l’Europa moderna, Bologna, il Mulino, 2004.
9
10
Capitolo primo
Qui è, a mio avviso, la premessa di ogni ragionamento sulla
questione europea, perché definire il rapporto Europa–Ottantanove significa comprendere il modo come l’Europa si colloca (o
si deve collocare) nella nuova struttura del mondo3.
Non si può, infatti, parlare di Europa tacendo dell’Ottantanove, ma non si può neanche parlare dell’Ottantanove sottacendo
la complessità di questa data, perché è esattamente su una interpretazione semplificatrice e unilaterale4, che non tiene conto
della complessità e della ambivalenza inscritta nel nodo Ottantanove, che si è costituita l’idea di un mondo senza sovranità (e
le utopie del tramonto di Europa ad essa connesse5) e, insieme,
3
Su tutta questa tematica rimando a P. Serra, Europa e Mondo. Temi per un pensiero politico europeo, Roma, Ediesse, 2004; Id., La funzione dello stato. Materiali per
una teoria dell’ordinamento europeo, Roma, Aracne, 2009.
4
Sulla nuova struttura che il sistema delle relazioni internazionali è venuto ad assumere dopo l’Ottantanove la letteratura è a tal punto sterminata da scoraggiare ogni
tentativo (anche approssimativo e generale) di fornire una qualche sintesi bibliografica:
I. Wallerstein (La scienza sociale: come sbarazzarsene, 1991, Milano, Il Saggiatore,
1995); F. Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992); E.J.
Hobsbawn, (Il secolo breve. 1914–1991: l’era dei grandi cataclismi, 1994, Milano,
Rizzoli, 1995); I. Wallerstein (Dopo il liberalismo, 1995, Milano, Jaca Book, 1998);
B.R. Barber (Guerra santa contro McMondo, 1995, Milano, Pratiche editrice, 1998);
S.P. Huntington (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, 1996, Milano,
Garzanti, 1998); M. Hardt–A. Negri, (Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione,
2000, Milano, Rizzoli, 2002), sono solo alcuni dei paradigmi principali e più influenti. I
riferimenti fondamentali verranno tuttavia richiamati e citati nel testo, nel quale verranno anche ricostruite e discusse le principali interpretazioni di questo evento, il quale non
solo rappresenta una frattura all’interno della storia contemporanea, ma specifica anche
i caratteri del tempo presente, il modo stesso come si coniuga o va coniugato oggi il
rapporto tra Europa e Mondo. Uno studio attento alla dimensione storica dei processi è
quello di M. De Cecco, I possibili volti del nuovo ordine economico internazionale, in
S. Romano (a cura di), L’impero riluttante. Gli Stati Uniti nella società internazionale
dopo il 1989, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 149–169. Spunti interessanti anche in F.
Tuccari, Dopo il 1989. Scenari della politica mondiale, in A. D’Orsi (a cura di), Guerre
Globali. Capire i conflitti del XXI secolo, Roma, Carocci, 2003, pp. 35–49. Un’utile ricognizione dei vari paradigmi è quella fornita da I.D. Mortellaro, Introduzione, in E.
Musci e G. Pentasuglia (a cura di), I nuovi mondi del millennio, Molfetta, Edizioni La
Meridiana, 2003, pp. 23–31, oltre che in altri scritti successivi. Cfr. anche il mio Europa
e Mondo. Temi per un pensiero politico europeo, cit., a cui rimando anche per la bibliografia sul tema ivi contenuta.
5
Le quali non solo considerano inutile e obsoleta la difesa della particolarità europea nel contesto della piena europeizzazione del Mondo, ma, proprio per questo, sostengono anche, come è per esempio nel caso di Cacciari, che solo se l’Europa tramonta è
possibile tornare di nuovo a vedere il mondo: «ora che la mente europea sembra essersi
impadronita del mondo, […] ora che non sembrano sussistere ulteriori confini da tra-
Europa e Ottantanove
11
e per reazione ad essa, l’idea di un mondo a una dimensione (e
la ripresa, in senso forte, della problematica schmittiana del
Nomos d’Europa, di un nuovo intreccio tra teologia politica e
teoria della sovranità come supporto per la costruzione dell’Europa politica6).
sgredire, e dunque è crollato ogni certo confine e con esso ogni integrità territoriale ―
finalmente gli elementi della contesa potrebbero riscoprire nella propria assoluta distinzione quell’esigente, indagante co–sofferenza per l’Inattingibile, capace di aprirli l’un
l’altro, senza sradicarli dalla verità delle proprie congetture, senza che l’esodo si trasformi in vaga Stimmung, in sentimento d’infondatezza e di abbandono. Per questo nuovo
inizio, è necessario che il contraccolpo d’Europa significhi il suo stesso tramonto […],
soltanto così sarà se stessa: poiché soltanto la mente europea può giungere a porre al
proprio centro il contraccolpo versus se stessa. La mente europea reca in sé, come promessa e pericolo massimi, il proprio tramonto» (M. Cacciari, Geo–filosofia dell’Europa,
Milano, Adelphi, 1994, pp. 157–158). Non dissimile la posizione di Hardt, per fare un
altro nome significativo del dibattito contemporaneo, nella cui ricerca, veramente, Europa e Anti–Europa si toccano. Promuovere, infatti, come fa Hardt, un’estensione indefinita «dell’idea di Europa politica verso un “progetto globale”, che comprenda tanto
gli europei quanto i non–europei», o sostenere la trasformazione del «concetto di Europa politica verso un più aperto processo globale», significa porsi «in contrasto con
la nozione di un’Europa politica», ma anche in contrasto «con quella che potrebbe essere definita come una “idea regionale” di Europa politica, in base alla quale l’Europa verrebbe vista come una potenza regionale come il Nord America e l’Est Asiatico» (M. Hardt, Un’Europa aperta al mondo, in H. Friese, A. Negri, P. Wagner (a cura
di), Europa politica. Ragioni di una necessità, cit., p. 159). Sulle teoriche dell’Anti–
Europa rimando a P. Serra, Anti–Europa, in Id., Europa e Mondo. Temi per un pensiero
politico europeo, cit., pp. 69–129, nel quale vengono ricostruite tutte le culture dell’Anti–Europa e, innanzitutto, le utopie del Tramonto di Europa, con particolare riferimento
alle posizioni di Cacciari, Balibar, Negri, ed anche di Habermas, sebbene la posizione di
quest’ultimo non sia del tutto incasellabile nei quadri di questo orientamento. Su un piano più generale, e da una diversa prospettiva, cfr. anche M. Iritano, Utopia del tramonto. Identità e crisi della coscienza europea, Introduzione di M. Cacciari, Bari, Dedalo,
2004.
6
Su questo orientamento confronta, almeno per quanto riguarda l’Italia, la ricerca di
Rita Di Leo (Il primato americano. Il punto di vista degli Stati Uniti dopo la caduta del
muro di Berlino, Bologna, il Mulino, 2000; Id., Lo strappo atlantico. America contro
Europa, Roma–Bari, Laterza, 2004), e soprattutto quella di Antonio Cantaro (in particolare Europa sovrana. L’Unione europea tra guerra e diritto (con Introduzione di P.
Barcellona), Bari, Dedalo, 2003, le cui tesi ho discusso in P. Serra, Ontologia di Europa. Considerazioni sul paradigma di Europa–Nazione, in Democrazia e diritto, 2003, n.
2, pp. 36–60), la quale ipotizzando che gli sviluppi politici che hanno portato alla formazione degli stati nazionali possano essere riprodotti su scala continentale, non solo
propone una sorta di Europa–nazione o Europa sovrana, difficilmente separabile dall’Europa potenza, ma configura anche il rapporto Europa–America in un modo che non
può che rappresentare o sancire la negazione della strutturale ambivalenza propria della
dimensione europea.
12
Capitolo primo
Infatti, è esattamente una interpretazione semplice dell’Ottantanove, una interpretazione, cioè, che legge questa data o come un capitolo di storia della libertà (nella chiave, cioè, di una
possibile riapertura democratica della storia mondiale, secondo
la quale la fine del bipolarismo apriva solo la possibilità di un
nuovo ordine mondiale e non anche dei vuoti nei quali si muovevano forze diverse, con fini diversi, come se, dopo la caduta
dei regimi comunisti, nel mondo, la lotta per l’egemonia si fosse definitivamente fermata) o come un momento del rafforzamento e della estensione globale della egemonia americana, che
ha prodotto entrambe queste idee di mondo e di Europa, le quali
vanno lette non come fenomeni differenti, ma come fenomeni
coesistenti e nel loro insopprimibile legame.
Il fatto è che,
la caduta del muro di Berlino ― come ha scritto Cerutti ― lungi dal
decretare univocamente l’avvento di un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal rapido progredire dei processi di democratizzazione, è
stata seguita da una stagione […], in cui nei processi politici ha cominciato a giocare in modo crescente la questione della definizione e
ridefinizione delle appartenenze7,
e, cioè, la riproposizione di un’idea monolitica e ontologica
di tradizione europea (Ontologia di Europa), che invece di contribuire all’apertura del mondo, ha spinto quest’ultimo verso
una politica dei confini, il più possibile protetti.
Quale la genesi di questo spettacolare rivolgimento che, nel
giro di un decennio, si è consumato di fronte ai nostri occhi? come è stato possibile passare, in così breve tempo, dalla ideologia della pace perpetua a quella della guerra preventiva, dall’enfasi sulla fine della guerra fredda alla ripresa di tale concetto su scala, per così dire, allargata, e mondiale?
Occorre dire, innanzitutto, che tale rivolgimento non nasce
fuori o contro il globalismo post–Ottantanove, ma dentro di esso, da uno slittamento di problema all’interno della teoria glo7
F. Cerutti, Introduzione, in F. Cerutti, D. D’Andrea (a cura di), Identità e conflitti.
Etnie nazioni federazioni, Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 7–8.
Europa e Ottantanove
13
balista, nel senso che man mano che la spinta verso l’unità del
mondo diventa più debole e il ruolo dell’elemento soggettivo (e
quello dell’avanguardia consapevole) diventa più forte, la guerra diventa l’equivalente funzionale della tendenza storica globalista8.
8
Il termine globalizzazione, lo vedremo più volte nel testo, è un termine vago, indeterminato, dato che esso può riferirsi a qualsiasi cosa (cfr. S. Strange, Chi governa l’economia globale, 1996, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 11–12; D. Held e A. McGrew, Globalismo e antiglobalismo, Bologna, il Mulino, 2000), dalla rete Internet ad un hamburger, come scriveva appunto Susan Strange. Ma non è di globalizzazione in generale che ci interessa qui discutere, ma del rapporto tra Ottantanove e globalizzazione, perché è solo attraverso tale rapporto che non solo è possibile specificare storicamente la globalizzazione (nel
senso che la globalizzazione ― che non rappresenta un fenomeno del tutto inedito, un
«completo rovesciamento delle regole del gioco della economia e della politica internazionale» e neanche un generico e generale declino dello stato: M. Cesa, Le vecchie novità della globalizzazione, in Rivista italiana di Scienza Politica, 2002, n. 3, p. 417 ― sta sempre
lì dove i rapporti di forza la collocano, ma è possibile anche definire il ruolo di Europa,
la forma della potenza politica europea, all’interno di essi. Infatti, «se è vero che la sovranità economica degli stati si è ridotta, all’interno della economia internazionale contemporanea, è tuttavia altrettanto vero che non tutti gli stati si vedono limitati allo stesso modo e
che molti di essi dispongono comunque ancora di strumenti che permettono loro di difendersi dalle intrusioni dei mercati» (M. Cesa, Le vecchie novità della globalizzazione, cit., p.
418), e occorre capire come, in questo scenario, si declina la forma della potenza politica
europea. E qui Watz può essere utile quanto Balibar, nel senso che i due approcci non rappresentano più principi reciprocamente escludentesi. Su questi temi è utile il volume di Di
Leo, Il primato americano. Il punto di vista degli Stati Uniti dopo la caduta del muro di
Berlino, cit. Sulla globalizzazione, e sul suo significato, cfr. D. Zolo, La globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma–Bari, Laterza, 2006, nel quale non solo viene ricostruito e discusso tutto il dibattito sulla globalizzazione, ma viene ricostruita e discussa
anche l’intera questione riguardante il rapporto tra Ottantanove e mondo nuovo. Utili U.
Beck (Che cos’è la globalizzazione, 1997, Roma, Carocci, 1999) e Z. Bauman (Dentro
la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, 1998, Roma–Bari, Laterza, 1999). Un
ricostruzione del tema è in S. Mezzadra e A. Petrillo, (a cura di), I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, Roma, Manifestolibri, 2000; F. Cerutti (a cura di), Gli
occhi sul mondo. Le relazioni internazionali in prospettiva interdisciplinare, Roma, Carocci, 2000; G. Cavallari (a cura di), Comunità, individuo e globalizzazione. Idee politiche
e mutamenti dello Stato contemporaneo, Roma, Carocci, 2001; A. Giovagnoli, Storia e
globalizzazione, Roma–Bari, Laterza, 2003; V. Cotesta, Sociologia del mondo globale,
Roma–Bari, Laterza, 2004. Importanti sono gli ultimi lavori di M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna, il Mulino, 2000; Id., Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Bologna,
il Mulino, 2002; Id., Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale,
Roma–Bari, Laterza, 2006; Id., Stati e processo di modernizzazione, in Scienza & Politica, 2006, 31, pp. 5–24. Una riflessione filosofica sulla globalizzazione in G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino, Bollati Boringhieri,
2003.
14
Capitolo primo
La linea di demarcazione tra una concezione della globalizzazione come dato oggettivo, inscritto in profondità nel movimento della storia, e l’enfasi via via assegnata all’elemento soggettivo e alle avanguardie consapevoli, ruota intorno al problema del mancato evento della unità del mondo e alla necessità di
dotarsi oltre che della decisione e purezza del volere, anche della teoria, di una scienza della politica, i cui incunaboli (strategia
e tattica) sono decisivi per il conseguimento del fine.
L’Europa, dunque, entra nel mondo nuovo su una interpretazione dell’Ottantanove in chiave di storia della libertà, e poi, via
via, scopre che esso è stato anche espansione del dominio.
Questo mutamento di giudizio sul globalismo, prodotto dalle
contraddizioni del globalismo stesso, rimette al centro, com’era
prevedibile (e coma ora è riconosciuto da tutti) il tema della sovranità e dello Stato, che è poi il tema del protezionismo, non
solo perché il liberismo ― come sappiamo ― non ha mai protetto nessuno, né tantomeno quei soggetti che possonono esistere solo se protetti, ma anche perché non può esistere Europa
senza l’eredità della sovranità statale.
Non è necessario ― come dirò più avanti ― scomodare
Hannah Arendt o Carl Schmitt per comprendere le ragioni che
spingono in questa direzione, dalla crisi degli stati al problema
delle immigrazioni, anche se sullo sfondo si intravede qualcosa
di più profondo, perché il ritorno delle nazioni risponde anche
ai problemi del mondo globale, onde la centralità di un nuovo e
potente radicalismo di destra, il quale coglie i problemi di
sopravvivenza per lo stato–nazione, che la trasformazione del
mercato internazionale viene ponendo9.
9
«Le visioni totali del novecento possono essere guardate anche da questo punto di
vista, altrimenti non si comprenderebbe[ro…] le scelte di alcuni grandi filosofi verso
forme di esistenza politica che sembravano garantire ai loro occhi una diga contro la politicizzazione e la secolarizzazione, restaurando la possibilità di un logos attraverso la
potenza. I casi di Gentile e di Heidegger sono emblematici, e guardati da questo punto
di vista fanno vedere curiosamente sguarnite tutte quelle tesi che riducono o escludono
un rapporto significativo fra la loro filosofia e le loro scelte politiche, pur diverse nell’intensità e nella costanza» (B. de Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, cit., pp.
61–62). Il richiamo alla vecchia cultura nazionalista, la quale, a sua volta, evoca il tema
del fascismo, il riferimento a Gentile e Heidegger, può dare l’impressione di un richia-
Europa e Ottantanove
15
Nel mondo a più destini, prodotto dalla globalizzazione liberista, che sta causando una diseguaglianza senza precedenti nel
mondo, cadono diritti e protezioni, la cui caduta, non più mitigata dall’azione pubblica10, spinge i perdenti del mondo globale
a federarsi intorno ad una inedita rinazionalizzazione dello Stato, che «riaccende le rivendicazioni assolute di identità, fino a
definire queste identità come civiltà tese ad affermare, con massima e assoluta asprezza, se stesse […]. Al globalismo privo di
dimensione politica, può corrispondere il fondamentalismo come atto assoluto»11.
mo a qualcosa ritenuto tutto sommato irripetibile, ma che, fuori dal raggio di influenza
della teoria del fascismo di Renzo De Felice (la cui influenza negativa non si è avuta,
certo, sulla storiografia del fascismo ― il suo filofascismo è totalmente immaginario ―
quanto, piuttosto, sulla storiografia del secondo dopoguerra, perché ha imposto l’espulsione del discorso sul fascismo dalla discussione sulla crisi della democrazia. In realtà,
su questo punto la ricerca di Renzo De Felice ha contribuito in maniera rilevante a quell’opera di vero e proprio occultamento del fenomeno fascista, come, con più efficacia
dei critici di sinistra, hanno sottolineato i critici di destra: da G. Locchi (L’essenza del
fascismo, Napoli, Akropolis, 1981) ad E. Erra (Il fascismo tra reazione e progresso, in
Aa. Vv., Sei risposte a Renzo De Felice, Roma, Volpe, 1976, pp. 55–101), non ci sono
ragioni per dichiarare tale (è questa la tesi di studiosi di primo piano del fascismo come
Paxton, Griffin, Eatwel, ma anche di Sternhell, di Gregor e, forse, anche, di Mosse, anche se diversi o anche opposti sono i modi come questi studiosi declinano il rapporto
(decisivo sul piano analitico) tra fascismo e attualità. Una rassegna aggiornata delle più
autorevoli interpretazioni del fascismo è in A. Campi (a cura di), Che cos’è il fascismo?
Interpretazioni e prospettive di ricerca, Roma, Ideazione, 2003, il quale in una interessante e impegnativa Introduzione (pp. IX–LXX) non riesce a passare, dalla tesi secondo
la quale la varietà di espressioni e di manifestazioni con cui il fascismo si è presentato
sulla scena della storia non impedisce una rappresentazione unitaria e globale di questo
fenomeno, all’altra tesi, alla prima collegata, secondo la quale non va esclusa la possibilità che il fascismo faccia nuovamente la sua comparsa sulla scena politica contemporanea, perché non riesce a sottoporre realmente a critica la teoria del fascismo di Renzo
De Felice, il quale, non a caso, proprio sul rifiuto della prima tesi ha fondato la necessità
della seconda. Su questi temi rimando a P. Serra, Tra le due comunità. Singolarità e relazione oltre il paradigma di Marx, Roma, Ediesse, 2008.
10
I. Mortellaro, I signori della guerra. La Nato verso il XXI secolo, Roma, Manifestolibri, 1999, p. 29.
11
B. de Giovanni, L’atto «assoluto» e la storia, in Nuovi argomenti, 2001, n. 16, p.
49; Id., Dopo Manhattan, in Id., L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli, Guida, 2002,
pp. 301–306; Id., L’Europa e la guerra, in Italianieuropei, 2003, n. 2, pp. 115–123. Qui
è tutta la discussione tra Fukuyama e Huntington che andrebbe oggi ripensata oltre l’alternativa netta tra unificazione e differenziazione del mondo, perché il mondo globalizzato è sicuramente un mondo unificato, un mondo senza storia, ma è, insieme, anche un
mondo sempre più diviso e differenziato sul piano culturale e identitario, le cui differenziazioni sono inseparabili dal modo come abbiamo pensato il mondo dopo l’ottantanove
16
Capitolo primo
Come nel novecento: allorquando si passò all’Europa delle
nazioni non per la presenza dello stato–nazionale, ma per la sua
crisi, non per la presenza della sovranità, ma a causa del suo deperimento e, insieme, del suo bisogno di affermare se stessa con
nuovo vigore, di ribadire con forza la propria esistenza politica.
Infatti, tra questi due aspetti vi è un legame molto stretto,
perché a partire dalla critica radicale della sovranità non è difficile comprendere i motivi che spingono forze, culture e soggettività al rifiuto dello spazio globale, ad una vera e propria resistenza alla trascendenza12, nella speranza di poter ricollocare la
nostra esistenza sulla vita terrena, su quel nomos della terra,
dove l’uomo ― come scriveva Carl Schmitt in Terra e mare ―
«staziona, cammina e si muove sulla terra dal solido fondamento»13.
(Il riferimento è a F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, cit. e a S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, cit. Su tutta questa discussione
cfr. il denso e molto problematico studio di M. Tesini, Quale Fukuyama? La fine della
storia e l’11 settembre, in Democrazia e diritto, 2001, II trimestre, pp. 61–97, il quale,
pur tra molti distinguo, utili approfondimenti e precisazioni, non solo sostiene che dopo
l’ottantanove la storia sia felicemente giunta al capolinea della modernizzazione e della
democrazia liberale di tipo anglosassone e non ci sia di fatto più nulla da decidere, ma
in questa nuova lettura di Fukuyama, Tesini recupera anche la ambigua categoria di islamo–fascismo, una categoria utile solo: a) a spezzare il rapporto tra Occidente e critica (e a disegnare una perfetta identità tra Europa e Occidente, dove la prima viene considerata come parte del secondo); b) a riposizionare il concetto di Occidente e la sua
stessa identità, sul terreno dello scontro delle civiltà, e di quella guerra che oppone oggi
liberalism a terror, democrazia a tirannide; e, in ultima analisi, c) a infilare l’Occidente
in un settore complesso, non controllabile con la forza, come il medio oriente, senza, per
questo, sconfiggere il terrorismo e il fondamentalismo, perché una guerra fatta in nome
dell’Occidente non potrà che rilanciare la sfida terrorista alla globalizzazione. Categoria
ambigua quella di islamo–fascismo non solo per ragioni che attengono alla teoria del
fascismo, ma anche perché tramite essa si chiude l’Islam (?) in una storia separata, e si
dimentica il fatto che sono esattamente le guerre di globalizzazione che, umiliando il
medio oriente, ricostruiscono il mito delle culture omogenee e la teorica della loro incompatibilità, e producono il ritorno del terrorismo come atto assoluto, come l’introduzione dell’atto assoluto nella storia).
12
Cfr. E. Nolte, I tre volti del fascismo (1966), Milano, Mondadori, 1978, p. 597.
13
C. Schmitt, Terra e mare. Una considerazione sulla storia del mondo, a cura di A.
Bolaffi, Milano, Giuffrè, 1986, p. 34. Ora, è vero che il punto, quel punto dove l’uo-mo
staziona e cammina su un solido fondamento non esiste, ma è vero anche che per metterlo radicalmente in questione e per evacuare lo spazio storico ed esistenziale dentro il
quale esso si forma, occorre muoversi sul terreno di una prospettiva meno fallace e velleitaria dello sradicamento, perché è esattamente la rinuncia alle proprie radici culturali
nazionali e la totale fuoriuscita dall’orizzonte storico dello stato che produce quel desi-
Europa e Ottantanove
17
Questo punto è molto importante perché riguarda direttamente l’Europa, nel senso che tra «crisi dello stato» (e, insieme,
sua rinazionalizzazione) e tematica della Finis Europae vi è un
rapporto strettissimo.
Da qui la rinnovata centralità dello stato, la sua stringente attualità, nel senso che senza stato non vi è Europa, perché è solo
la dialettica Europa–stati che ci consente di sfuggire all’alternativa tra Europa impolitica e Europa potenza, nel senso che l’Europa politica può separare il suo destino dall’Europa–potenza, e
ritrovare la sua destinazione alla pluralità, solo se mantiene dentro di sé quella varietà che solo la presenza degli stati può garantire.
Sul tema della sovranità occorre, dunque, soffermare l’attenzione, perché è intorno ad essa che si è giocata e si sta giocando
ancora oggi un conflitto economico mondiale (per adottare una
nozione proposta da Riccardo Parboni fin dai primi anni Ottanta14) o una lotta per l’egemonia tra Europa e America, innanzitutto, nel senso che la stessa disputa sulla globalizzazione, sul
modo, cioè, come si configura o va configurato il rapporto tra
bipolarismo e globalismo, non è altro che la forma nella quale si
svolge oggi la lotta per la sovranità e si ridefinisce il rapporto
Europa–Mondo.
Dichiarare la fine dello Stato o considerare anacronistica la
categoria di sovranità significa pensare un’Europa spoliticizzata
o un’Europa potenza, entrambe distruttive della cultura della
mediazione15, in assenza della quale non è pensabile sovranità.
derio su cui riflette Carl Schmitt: è il globalismo senza storia che produce il fondamentalismo, spingendo il mondo verso una politica dei confini, il più possibile protetti.
14
Il riferimento è a R. Parboni, Il conflitto economico mondiale, Milano, Etas, 1985.
15
Ma anche, forse involontariamente, accomunate, nel senso che una concezione dell’Europa priva di ogni referente materiale e oltre lo Stato, rimanda, appunto, a una Europa
decisionistica, così come l’ultrapoliticismo di quest’ultima si rovescia (secondo un tipico
modello di rovesciamento!) in una radicale filosofia dell’impolitico e nelle utopie del tramonto di Europa, e questo perché tra utopia di Europa e realtà dell’Europa (tra politica e
Europa) non c’è nessun ponte, nessun passaggio, ma solo un vuoto che entrambe possono
(e devono) riempire solo occasionalisticamente, e lungo un percorso o un crinale dove il
che cosa è Europa si disperde, fino a sparire. Se non si cerca di capire che cosa questa Europa (non un’altra!) può significare, si rompe il rapporto tra politica e Europa e si è destinati
a muoversi in uno spazio introverso, tra decadenza e potenza, tra due visioni del tramon-
18
Capitolo primo
E non è un caso che da «Hegel a Nietzsche, sottoposto al
fuoco della critica fu il principio della mediazione, e la caduta di
questo segnò la perdita delle relazioni fra tutte quelle connessioni vitali entro le quali si era incardinato il principio di sovranità», fino al punto di «pensare la sovranità nella sua immediatezza ― e si potrebbe dire come alternativa alla mediazione»16.
Infatti, la dissoluzione della mediazione coincide con la dissoluzione della sovranità, ovvero con un mondo senza nomos,
senza più forma, senza più ciò che lo fa stare, il quale, proprio
per questo, rappresenta «la vigilia di una catastrofe, […] il miglior alibi per l’esplodere della pura potenza»17.
E questo perché insieme alla mediazione (sovranità) si dissolve anche ciò che costituisce il carattere più proprio della coscienza europea, quella dialettica del riconoscimento così come
è descritta da Hegel nella sezione della Fenomenologia dello
spirito dedicata all’Autocoscienza, nella quali egli affronta il
conflitto servo–padrone, perché è esattamente da quella dialettica che nasce la forma della mediazione e, dunque, della sovranità (statualità)18.
Mediazione è, per Hegel, sovranità, e la sovranità è il luogo
essenziale della mediazione, nel senso che il principio di sovranità è costruito da Hegel come quel «momento dell’idealità delto ( B. de Giovanni, Hegel e Nietzsche: Europa e nichilismo, in Filosofia politica, 2003,
n. 1, p. 57. Sul tema della crisi della mediazione è fondamentale il lavoro di C. Galli,
Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna, il Mulino, 1996.
16
B. de Giovanni, Discutere la sovranità, in L. Bazzicalupo, R. Esposito (a cura di),
Politica della vita. Sovranità, biopotere, diritti, Roma–Bari, Laterza, 2003, pp. 5–6.
Anche se non vi è nulla di immediato, come sostenne Hegel nella Logica, e una alternativa alla mediazione e, dunque, alla sovranità, non è neanche pensabile (G. W.F. Hegel,
La scienza della logica, a c. e con Nota introduttiva di C. Cesa, 2 voll., Bari, Laterza,
1978).
17
B. de Giovanni, La filosofia e l’Europa moderna, cit., p. 358.
18
Su questo passaggio è sempre importante il volume di J. Hyppolite, Genesi e
struttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel (1946), Firenze, La Nuova Italia, 1972, un libro che ha fatto epoca, ma che soprattutto oggi risulta essere di grande utilità, non solo per le pagine straordinarie che in esso si trovano sul tema dell’autocoscienza, ma anche perché, reimpostando il rapporto Hegel–Kant (e leggendo Hegel, come farà Hyppolite sin dalle prime pagine di quest’opera, in continuità con Kant), ci offre un concetto di mediazione più complesso di quello in voga in Italia (e non solo) nei
primissimi anni settanta, quando il libro è stato per la prima volta tradotto.
Europa e Ottantanove
19
le cerchie e degli affari particolari»19 che costituisce l’essenza di
quella «specialissima tendenza verso l’esterno», che rappresenta
il cuore della tematica del riconoscimento, e «che manca alla vita asiatica: il procedere della vita oltre se medesima. Così la vita
statale europea ― conclude Hegel ― ha acquisito il principio
della libertà della persona singola»20.
19
Per cui, cioè, ― continua Hegel ― tale «cerchia non è un che d’indipendente, di
autonomo nei suoi fini e modi di operare, e che si approfondisce soltanto in se medesima; ma, in questi fini e modi di operare, è determinata e dipendente dal fine della totalità»: G. W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Roma–Bari, Laterza, 1974, par.
278, p. 276. Sui Lineamenti, e più in generale, sulla filosofia del diritto di Hegel, con
particolare riferimento alla letteratura italiana (per evitare un eccessivo, ulteriore, appesantimento del testo) cfr. A. Negri, Stato e diritto nel giovane Hegel: studio sulla genesi
illuministica della filosofia giuridica e politica di Hegel, Padova, Cedam, 1958; M.
Riedel, Natura e libertà nella «filosofia del diritto» di Hegel (1974), in C. Cesa (a cura
di), Il pensiero politico di Hegel. Guida storica e critica, Bari, Laterza, 1979, pp. 35–
56; G. Calabrò, Il mondo del diritto, in AA. VV., L’opera e l’eredità di Hegel, Bari, Laterza, 1974, pp. 69–87; B. Romano, Riconoscimento e diritto. Interpretazione della Filosofia dello spirito jenese (1805–1806) di Hegel, Roma, Bulzoni, 1975; C. Cesa, Hegel
filosofo politico, Napoli, Guida, 1976; K.H. Ilting, Helgel diverso. Le filosofie del diritto
dal 1818 al 1831, a cura di E. Tota, Roma–Bari, Laterza, 1977; G. Marini, Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella «Filosofia del diritto» hegeliana, Napoli, Bibliopolis,
1978;; N. Bobbio, Studi hegeliani, Torino, Einaudi, 1981; G. Bonacina, Storia universale e Filosofia del diritto. Commento a Hegel, Milano, Guerini e Associati, 1989; P. Becchi, Le filosofie del diritto di Hegel, Milano, Angeli, 1990; G. Preterossi, I luoghi della
politica. Figure istituzionali della filosofia del diritto hegeliana, Milano, Guerini e Associati, 1992; R. Luparini, L’ombra del pensiero: logica, politica, diritto in Hegel, Pisa,
ETS, 1994; C. Menghi, Società o stato. Critica delle «lezioni» hegeliane di filosofia del
diritto (1817–1818), Torino, Giappichelli, 1994; L. Messinese, Libertà e stato: l’eticità
nei «Lineamenti di filosofia del diritto» di Hegel, Roma, Coletti a San Pietro, 1994; M.
Alessio, Azione ed eticità in Hegel. Saggio sulla filosofia del diritto, Milano, Guerini e
Associati, 1996; P. Becchi, Oltre le righe. Hegel e il dibattito intorno alle sue lezioni,
Napoli, Editoriale Scientifica, 1996; F. Sciacca, Imago libertatis. Diritto e Stato nella filosofia dello spirito di Hegel, Torino, Giappichelli, 1996; E. Cafagna, La libertà nel
mondo. Etica e scienza dello Stato nei “Lineamenti di filosofia del diritto” di Hegel,
Bologna, il Mulino, 1998. Una antologia ordinata tematicamente, e introdotta da D. Losurdo, delle lezioni di filosofia del diritto, tenuti da Hegel a Berlino, a partire dal 1817, è
quella a cura dell’Istituto per gli studi filosofici, Le filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale, Milano, Leonardo, 1989. Spunti interessanti su questa tematica in
A. Honneth, Il dolore dell’indeterminato. Una attualizzazione della filosofia politica di
Hegel (Introduzione di A. Carnevale), Roma, Manifestolibri, 2003 (2001).
20
G. W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, I, Firenze, La Nuova Italia,
1967, p. 271. Infatti, è esattamente nella società civile hegeliana che «l’esistenza, prima
immediata e astratta, del mio diritto individuale si muta nel significato dell’esser riconosciuto» (G. W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., par. 217, p. 214.
20
Capitolo primo
Questa è la «realtà della libertà concreta» di cui parla Hegel
nei Lineamenti, la quale «consiste nel fatto che l’individualità
personale, e gli interessi particolari di essa, hanno tanto il loro
pieno sviluppo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della famiglia e della società civile) quanto, in parte, si
mutano, da se stessi, nell’interesse della generalità, e in parte,
con sapere e volontà, riconoscono il medesimo, cioè in quanto
loro particolare spirito sostanziale, e sono atti al medesimo, in
quanto loro scopo finale; così che né l’universale ha valore ed è
compiuto senza l’interesse, il sapere e il volere particolare, né
gli individui vivono come persone private semplicemente per
quest’ultimo, e, senza che vogliano, in pari tempo, nel e per l’universale, e abbiano un’attività cosciente di questo fine»21.
Qui il riferimento critico è a Kant. Ma a quale Kant? Quale
aspetto del pensiero giuridico e politico di Kant è messo da Hegel radicalmente in questione?
Non certo, e questo mi sembra il punto di maggiore convergenza tra i due, la teoria kantiana di Europa (il realismo di
Kant), perché Kant non nega né lo Stato né la sovranità, e pensa, appunto, l’unità dell’Europa come equilibrio fra Stati, come
«separazione di molti Stati vicini e indipendenti fra loro», e non
come «fusione di tutti questi Stati per opera di una potenza che
soverchi le altre e si trasformi in monarchia universale»22, quanto, piuttosto, l’involucro cosmopolitico dentro il quale essa è
21
G. W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., par. 260, p. 246.
I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, in Id., Stato di diritto e società civile (a cura di N. Merker), Roma, Editori Riuniti, 1982, p. 197. L’Europa, scrive
Kant, è un solo Stato federato (una federazione di Stati), uno Stato composto da singoli
Stati (che non mette in questione la sovranità di essi), «sulla base di un diritto internzionale stabilito in comune» (I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, cit., p.
172. Insomma, tra Foucoult e Kant occorre decidersi per Kant, anche perché la prospettiva kantiana di un federalismo di liberi stati rifiuta, come abbiamo visto, una costituzione cosmopolitica sotto un unico sovrano, la quale rimane tutto sommato una forma tradizionale di stato unitario, e rimanda invece a quella teoria della sovranità condivisa che
rappresenta il portato migliore dell’odierna discussione sull’Europa (cfr. Globalizzati di
tutto il mondo, scegliete: Kant o Foucault?, dialogo tra T. Negri e D. Zolo, in Reset,
2002, settembre e ottobre, pp. 8–19. Su tutta questa materia cfr. D. Falcioni, Natura e libertà in Kant. Una interpretazione del progetto Per la pace perpetua (1795), Presentazione di R. Brandt, Torino, Giappichelli, 2000. Spunti interessanti in L. Bianchi e A. Postigliola (a cura di), “Un progetto filosofico” della modernità, Napoli, Liguori, 2000.
22
Europa e Ottantanove
21
posta, quell’universalizzazione del diritto pubblico europeo capace di liberare o di diminuire dalla storia dello stato il ruolo
della forza, quella degenerazione esclusivistica che nasce dal suo
stesso interno, e che sembra fino ad ora inseparabile da essa.
In questione è, dunque, la visione universalistica e cosmopolitica di Kant, quella «divaricazione tra l’infinito cosmopolitismo e la finita nazione»23 che la contraddistingue o quel continuo rimando tra cosmopolitismo e nazionalizzazione (tra logos
della potenza e logos del riconoscimento e della «universale ospitalità»24), al quale Hegel oppone un’altra forma di universalità, più vicina alla natura delle cose (alla vita concreta dello Stato), in quanto l’umanità si realizza solo se procede dentro la determinatezza delle forme politiche, e non, invece, in uno spazio
del mondo privo di ogni determinatezza25.
Scrive Hegel: «appartiene all’educazione, al pensiero, in
quanto coscienza del singolo nella forma dell’universalità, il fatto
che io sia inteso come persona universale, in cui tutti sono identici. L’uomo ha valore, così, perché è uomo, non perché è giudeo,
cattolico, protestante, tedesco, italiano etc. Questa coscienza, per
cui il pensiero ha valore, è d’importanza infinita; ― soltanto allo23
B. de Giovanni, La filosofia e l’Europa moderna, cit., p. 226.
Così come recita il Terzo articolo definitivo per la pace perpetua (I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, cit., p. 188). Di Kant sono da vedere i Principi metafisici della dottrina del diritto, in Id., Stato di diritto e società civile, cit., pp. 215–314.
25
Sulla filosofia del diritto di Kant, anche qui solo con particolare riferimento alla
letteratura italiana, cfr. per una prima approssimazione al tema i seguenti testi: N. Bobbio, Diritto e Stato nel pensiero di E. Kant, Torino, Giappichelli, 1957; D. Pasini, Diritto, società e Stato in Kant, Milano, Giuffrè, 1957; U. Cerroni, Kant e la fondazione della categoria giuridica, Milano, Giuffrè, 1962; A. Negri, Alle origini del formalismo giuridico. Studio sul problema della forma in Kant e nei giuristi kantiani tra il 1789 e il
1802, Padova, Cedam, 1962; L. Gasparini, Autorità e libertà in I. Kant, Padova, Liviana, 1978; D. Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Napoli, Bibliopolis, 1983; M.A. Cattaneo, Metafisica del diritto e ragione pura. Studio sul
«platonismo giuridico» di Kant, Milano, Giuffrè, 1984; A. De Luca, Giustizia e legalità
nella filosofia giuridica di Kant, Napoli, Editoriale scientifica, 1984; F. Papa, Tre studi
su Kant, Manduria, Lacaita, 1984; P. Manganaro, Libertà sotto leggi: la filosofia pratica di Kant, Catania, C. U. E. C. M., 1989; F. Gonnelli, La filosofia politica di Kant,
Roma–Bari, Laterza, 1996; L. Scuccimarra, Kant e il diritto alla felicità, Roma, Editori
Riuniti, 1997; Id., Obbedienza, resistenza, ribellione. Kant e il problema dell’obbligo
politico, Roma, Jouvence, 1998; Id., I confini del mondo: storia del cosmopolitismo dall’antichità al Settecento, Bologna, il Mulino, 2006.
24
22
Capitolo primo
ra è manchevole, quando come cosmopolitismo, si fissa allo scopo di contrapporsi alla vita concreta dello Stato»26.
È in questa connessione tra universalismo e politica che va
rintracciato il vero contributo di Hegel, perché è solo tramite essa che si può spezzare il legame tra Europa e cosmopolitismo
giuridico (l’universalismo astratto di Kant), e dislocare, invece,
in modo differente il rapporto tra ragione e potenza, tra universalità e particolarità o tra molteplicità e unità.
Ecco perché l’Europa non è mai un presupposto, ma ― come dirà Hegel ― una transizione, anche perchè in Europa «le
diversità della configurazione geografica non si contrappongono
in antitesi nette come in Asia, ma sono più mescolate» e assumono, appunto, «la natura della forma di transizione»27.
Ed è esattamente nel confronto con il governo asiatico che
Hegel definisce la differenza europea: mentre in Asia non è mai
all’opera la dialettica del riconoscimento, in Europa, invece, l’altro viene sempre riconosciuto e conservato, nel senso che «ciascun componente, conservandosi per sé, conserva, appunto perciò, nell’organismo razionale, gli altri nella loro peculiarità»28.
È questo il tema hegeliano dell’interiorità, che è poi il tema
della libertà.
Libertà e dialettica del riconoscimento, nel senso che è esattamente la rottura col principio orientale, di quell’«Uno corazzato nella propria identità, non bisognoso di riconoscimento, ma
autofondato nella sua “magnificenza”», che conduce diritti alla
libertà29.
26
G. W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., par. 209, p. 207.
G. W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, I, cit., p. 269. Su questa tematica cfr. M. Montanari, Introduzione a E. Balibar, Europa paese di frontiere (2005), Lecce, Pensa MultiMedia, 2007, pp. 7–19.
28
G. W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., par. 286, p. 286. «Lo Stato
concreto è la totalità organizzata nelle sue cerchie particolari» (G. W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., par. 308, p. 305). «Appartiene alle vedute logiche più
importanti, scrive ancora Hegel, il fatto che un momento determinato, il quale, in quanto
sta in antitesi, ha la posizione di un’estremo, cessi di esser tale e sia un momento organico, per la circostanza che esso è, nello stesso tempo, un mezzo» (G. W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., par. 302, p. 300).
29
«Dunque ― continua De Giovanni ― la lotta per il riconoscimento si sviluppa secondo una logica intrinseca che è la seguente: la vita deve diventare autocoscienza, co27
Europa e Ottantanove
23
Ed è il mare, metafora della libertà, appunto, che determina
questa differenza europea: «in Asia il mare non ha importanza:
anzi i popoli hanno chiuso le porte al mare. In India l’andar per
mare è tassativamente vietato dalla religione. In Europa, invece,
quel che conta è proprio il rapporto con il mare: questa è una
differenza costante. Lo stato europeo può essere veramente stato europeo solo quando è sul mare»30.
Il mare è, ovviamente, il Mediterraneo, «punto centrale della
scienza di sé, ma, nell’atto in cui ogni vita diventa coscienza di sé, la libertà di ciascuno
diventa la condizione della libertà di tutti. È naturale che ci si riferisca qui alla dialettica
servo–padrone dove si disegna l’orizzonte dell’Europa moderna. Il risultato di questa
dialettica, di questa lotta estrema, per la vita e per la morte, è appunto il reciproco riconoscimento, il cui germe è in quella origine che dice: mai l’identità è semplice identità
con se stessa, mai l’uno è semplice opposizione al molteplice. Il risultato è, dunque, che
solo chi riconosce sé riconosce l’altro, solo chi riconosce l’altro riconosce sé. La libertà
diventa mondo, ecco l’esito della “Filosofia della storia” e della lettura hegeliana della
rivoluzione francese»: B. de Giovanni, Le ragioni di Europa sono nella sua filosofia, in
D. di Iasio (a cura di), Il Mediterraneo. Fra tradizione e globalizzazione, Lecce, Pensa
Multimedia, 2007, p. 80. «Mentre, nei governi dispotici dell’Asia, scrive Hegel, l’individuo non ha in sé interiorità e diritto, l’uomo, nel mondo moderno, vuole essere onorato nella sua interiorità. Il legame di dovere e diritto ha il duplice aspetto, per cui ciò che
lo Stato esige come dovere è anche immediatamente il diritto dell’individualità, poiché
esso, appunto, non è se non l’organizzazione del concetto di libertà» (G. W.F. Hegel,
Lineamenti di filosofia del diritto, cit., aggiunta al par. 261, p. 432).
30
G. W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, I, cit., p. 271. La cosa, per noi,
particolarmente interessante, «sta nel fatto che la sua veduta si formò nella contrapposizione tra oriente–occidente, in una idea spaziale della filososofia della storia del mondo
[…]. Da Oriente a Occidente, si muoveva il corso della storia, secondo un moto che ha
nella libertà il principio che ne rappresenta la natura. Nell’Oriente, tutto è statico; in Occidente, quell’Uno immobile in se stesso si rompe nel molteplice, e si fa vita e divenire
[…]. L’Europa si forma per contrasto, per opposizione, distaccandosi da quella immobilità asiatica che voleva fagocitarla, e riconoscendosi in un altro logos, in un’altra forma
del ragionamento e del linguaggio che è data dall’Uno che diventa uno–molteplice […].
Lo strappo dell’Europa prende l’avvio non dalla semplice distruzione di quell’Uno, ma
dal suo moltiplicarsi, dal suo diventare uno–molteplice, uno che si rompe in sé stesso,
nella propria differenza. Insomma, il passaggio non è dall’Uno al molteplice, ma dall’Uno all’uno–molteplice, dove il primo termine non è se non nella differenza, e l’identità
non si chiude nella sua splendida magnificenza, ma si misura con la costruzione del
mondo. Uno–molteplice, dunque: è comparsa la Mediazione, ciò che deve tenere insieme gli opposti, quella Mediazione che non poteva comparire e rappresentarsi finchè
l’Uno si teneva stretto in se stesso, riparato e corazzato in sé. Ma l’ulteriore conseguenza, che Hegel sviluppa […] sta nel dire: se l’uno nasce come molteplice (è sempre molteplice), ciò indica che il momento dell’identità si può cogliere soltanto nel divenire, che
l’identità non “è” semplicemente, ma è non–essendo, è “divenendo”, è identità che è, insieme, non–identità» (B. de Giovanni, Le ragioni di Europa sono nella sua filosofia, in D.
di Iasio (a cura di), Il Mediterraneo. Fra tradizione e globalizzazione, cit., pp. 75–77.
24
Capitolo primo
storia del mondo», il mare della mediazione, che media, appunto, le terre, senza condurci «verso l’incerto» dell’oceano, verso
«ciò con cui l’uomo non ha che un rapporto negativo: esso invece addirittura invita l’uomo ad entrare in relazione con esso.
Il Mediterraneo è l’asse della storia del mondo», e proprio in
quanto artefice di libertà31.
31
G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, I, cit., pp. 234–235. Il Mediterraneo ― nota Hegel ― non «è quindi un oceano, il quale si presenta innanzitutto come
un’uscita, vuota e infinita, verso l’ignoto, nei cui confronti gli uomini hanno pertanto un
rapporto meramente negativo. C’è una grande differenza tra i popoli che entrano in rapporto col mare e quelli che se ne tengono lontani. Il mare Mediterraneo si offre da sé ai
popoli, spinge gli uomini a stringere con esso un rapporto perché ovunque questo rapporto è per l’uomo assai positivo» (G.W.F. Hegel, Filosofia della storia universale. Secondo il corso tenuto nel semestre invernale 1822–23, a cura, e con Introduzione di S.
Dellavalle, in Hegel, II, Milano, Mondadori, 2008, p. 164). Su questi temi cfr. G. Rametta, Tra America e Oriente: Hegel e l’Europa, in Quaderni fiorentini per la storia del
pensiero giuridico moderno, 2002, n. 31, II, pp. 781–799. La ragione dell’insistenza hegeliana su questo problema «è tutta inscritta nelle movenze concettuali con le quali Hegel ha posto il problema del “cominciamento” e ha criticato ogni rappresentazione statica e meramente identitaria della stessa origine. La ragione è inscritta, dunque, proprio
nell’instabilità del fondamento che dà vita a tutto, nel fatto che esso è un fondamento
che non fonda, o, per meglio dire, non è separato da ciò che fonda» (B. de Giovanni, Le
ragioni di Europa sono nella sua filosofia, cit., p. 78. Di De Giovanni cfr. anche La critica del fondamento nella «Logica» di Hegel, in Il Centauro, 1983, n. 8, pp. 145–162).
Il tema della mediazione mediterranea è fondamentale in F. Cassano, di cui si veda Il
Pensiero meridiano, Roma–Bari, Laterza, 1996; Id., L’Europa e il pensiero meridiano,
in Id., Paeninsula. L’Italia da ritrovare, Roma–Bari, Laterza, 1998, pp. 75–90; Id., Il
Mediterraneo contro tutti i fondamentalismi, in Id., Homo civicus. La ragionevole follia
dei beni pubblici, Bari, Dedalo, 2004, pp. 105–114; Id. Necessità del Mediterraneo, in
F. Cassano e D. Zolo (a cura di), L’alternativa mediterranea, Milano, Feltrinelli, 2007,
pp. 78–110.