Tipi di segni In che consiste l`unità di Alla ricerca del tempo perduto

Tipi di segni
In che consiste l’unità di Alla ricerca del tempo perduto? Sappiamo almeno in che cosa
non consiste. Non consiste nella memoria, nel ricordo, sia pure involontario. L’essenziale
della Ricerca non sta nella “madeleine” o nei “paves”. Da un lato, la Ricerca non è
semplicemente uno sforzo per ricordare, una esplorazione della memoria: il termine «
ricerca» va preso nel suo senso più forte, come nell’espressione « ricerca della verità ».
D’altra parte, il tempo perduto non è semplicemente il tempo passato; e anche il tempo
che si perde come nell’espressione « perdere tempo ». La memoria, s’intende, interviene
come un mezzo nella ricerca, ma non è il mezzo più profondo; il tempo passato
interviene come una struttura del tempo, ma non è la struttura più profonda. In Proust, i
campanili di Martinville e la piccola frase di Vinteuil, che pure non fanno intervenire
nessun ricordo, nessuna resurrezione del passato, conteranno più della « madeleine » o
del selciato di Venezia, che dipendono dalla memoria e, a questo titolo, rimandano
ancora a una « spiegazione materiale ».
Si tratta, non già di una esposizione della memoria involontaria, ma del racconto d’un
« apprentissage»: quello, precisamente, di un letterato. Il versante di Méséglise e quello
di Guermantes non sono tanto le fonti del ricordo, quanto le materie prime, le direttrici
dell’apprendimento:i due versanti di una « formazione ».
Proust insiste sempre su un punto: in questo o in quel momento, il protagonista non
sapeva ancora una certa cosa, l’apprenderà in seguito; era vittima di una certa illusione,
di cui finirà per disfarsi. Da qui il movimento delle delusioni e delle rivelazioni, da cui è
ritmata l’intera Ricerca. Qualcuno invocherà il platonismo di Proust: apprendere è ancora
ricordare. Ma per quanto importante sia la sua funzione, la memoria interviene solo come
mezzo di un apprendistato che la sorpassa sia negli scopi che nei principi. La Ricerca è
rivolta verso il futuro, e non verso il passato.
Apprendere è cosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto
di un apprendimento temporale, non di un sapere astratto. Apprendere significa anzitutto
considerare una materia, un oggetto, un essere, come se emettessero segni da decifrare,
da interpretare. Non esiste apprendista che non sia « l’egittologo » di qualche cosa. Non
si diventa falegnami se non facendosi sensibili ai segni del legno, o medici, a quelli della
malattia. La vocazione è sempre predestinazione in rapporto ai segni. Tutto ciò che ci fa
apprendere qualcosa emette segni, ogni atto dell’apprendere è un’interpretazione di segni
o di geroglifici. L’opera di Proust non si basa sull’esposizione della memoria, ma
sull’apprendimento dei segni.
Funzione secondaria della memoria
I segni mondani e i segni amorosi ricorrono, per essere interpretati, all’intelligenza. E’
l’intelligenza a decifrarli: ma a condizione di « venire dopo », di essere in certo modo
costretta a mettersi in moto, sotto la spinta dell’esaltazione nervosa dataci dalla
mondanità, o, ancora più, del dolore ispiratoci dall’amore. L’intelligenza, senza dubbio,
mobilita anche altre facoltà. Vediamo ad esempio il geloso mettere tutte le risorse della
memoria a servizio dell’interpretazione dei segni dell’amore, vale a dire delle menzogne
dell’amato. Ma in questo caso la memoria, non essendo sollecitata direttamente, può solo
fornire un apporto volontario. E appunto perché soltanto volontaria, questa memoria
arriva sempre troppo tardi rispetto ai segni da decifrare. La memoria del geloso vuole
registrare tutto, perché il minimo particolare può rivelarsi un segno o un sintomo di
menzogna; vuole immagazzinare tutto affinché l’intelligenza disponga del materiale
necessario alle prossime interpretazioni. Perciò vi è qualcosa di sublime, nella memoria
del geloso: essa affronta i suoi stessi limiti e si sforza di oltrepassarli, tesa verso
l’avvenire. Ma arriva troppo tardi, per non aver saputo distinguere suI momento la frase
da ritenere, il gesto di cui non sapeva ancora che avrebbe preso un certo senso.
« Plus tard, devant le mensonge patent, ou pris d’un doute anxieux, j’aurais voulu me
rappeler; c’était en vain; ma mémoire n’avait pas été prévenue à temps; elle avait cru
inutile de garder copie».
Insomma, nell’interpretare i segni dell’amore, la memoria interviene soltanto in una
forma volontaria che la condanna a un patetico fallimento. Non è certo lo sforzo della
memoria, quale lo vediamo in ogni amore, quello che riesce a decifrare i segni
corrispondenti; ma solo la spinta dell’intelligenza, nella serie dei successivi amori, tutta
cosparsa di dimenticanze e d’incoscienti ripetizioni.
A quale livello interviene dunque la famosa memoria involontaria? È da notare
anzitutto che non interviene se non in funzione di una specie particolare di segni: i
segni sensibili. Percepiamo una qualità sensibile come un segno, e un imperativo ci
spinge a cercarne il senso. Può accadere allora che la memoria involontaria,
direttamente sollecitata dal segno, ci sveli questo senso (cosi Combray per la «
madeleine », Venezia per il lastricato..., ecc.).
In secondo luogo constatiamo che questa memoria involontaria non possiede il segreto
di tutti i segni sensibili: alcuni si riferiscono invece al desiderio, e a figure
dell’immaginazione (cosi i campanili di Martinville). È per questo che Proust distingue
con cura due casi di segni sensibili: le reminiscenze e le scoperte: le « résurrections de la
mémoire », e le « vérités écrites à l’aide de figures »
La mattina, il protagonista nell’alzarsi non prova in sé soltanto la pressione dei ricordi
involontari che si confondono con una luce o con un odore, ma anche lo slancio dei
desideri involontari che s’incarnano in una donna che passa — fornaia, lavandaia o fiera
giovinetta, « une image enfin »... In principio, non possiamo nemmeno dire da che parte
ci venga il segno. La qualità si rivolge all’immaginazione o semplicemente alla
memoria? Per scoprire la facoltà capace di svelarci il senso adeguato, occorre tentare
tutto. E in caso di insuccesso, non ci riesce nemmeno di sapere se il senso rimasto velato
era una figura di sogno, o un ricordo affondato nella memoria involontaria. I tre alberi,
ad esempio, erano un paesaggio della Memoria o del Sogno?
I segni sensibili che si esplicano mediante la memoria involontaria sono soggetti a una
duplice inferiorità, non solo rispetto ai segni dell’arte, ma anche ai segni sensibili che
risalgono all’immaginazione. Da un lato, essendo di materia più opaca e ribelle, trovano
una spiegazione troppo materiale; dall’altro, non superano che in apparenza la
contraddizione dell’essere e del nulla (come abbiamo visto nel ricordo della nonna).
Proust ci dice la pienezza delle reminiscenze o dei ricordi involontari, ci parla della gioia
ultraterrena che viene a noi dai segni della memoria, e del tempo che ci fanno ritrovare
all’improvviso. È vero:
i segni sensibili che si spiegano grazie alla memoria formano un « commencement d’art
», ci mettono « sur la voie de l’art ». Il nostro apprendimento non riuscirebbe mai a
sboccare nell’arte, senza passare attraverso questi segni che ci fanno pregustare il tempo
ritrovato e ci preparano alla pienezza delle Idee estetiche. Ma non possono che prepararci: semplice inizio. Sono ancora segni della vita, non segni dell’arte.
Superiori ai segni mondani, superiori ai segni dell’amore, tali segni sono tuttavia
inferiori a quelli dell’arte. E, anche nel loro genere, restano inferiori ai segni sensibili
dell’immaginazione, che maggiormente si avvicinano all’arte (pur continuando ad
appartenere alla vita) ~. Spesso Proust presenta i segni della memoria come decisivi; le
reminiscenze gli sembrano costitutive dell’opera d’arte, non solo nella prospettiva del
suo progetto personale, ma anche per i grandi precursori, come Chateaubriand, Nerval o
Baudelaire. Ma se le reminiscenze si integrano nell’arte come parti costitutive, ciò
avviene piuttosto nella misura in cui esse sono elementi conduttori, capaci di guidare il
lettore alla comprensione dell’opera e di portare l’artista a concepire il proprio compito e
l’unità di tale compito:
Ma solo l’arte compie pienamente ciò che la vita ha appena abbozzato. Le reminiscenze
della memoria involontaria sono pur sempre vita: arte a livello della vita, quindi cattive
metafore. Invece l’arte nella sua essenza, l’arte superiore alla vita, non riposa sulla
memoria involontaria; e neppure sull’immaginazione e sulle figure incoscienti. I segni
dell’arte si spiegano mediante il pensiero puro come facoltà delle essenze. Quanto ai
segni sensibili in generale, sia che si rivolgano alla memoria, sia anche
all’immaginazione, dobbiamo dire da un lato che precedono l’arte e che la loro funzione
sta solo nei guidarci ad essa; dall’altro che vengono dopo l’arte e ne captano solamente i
più vicini riflessi.
La reminiscenza propone molti problemi che non vengono risolti dall’associazione
d’idee. Anzitutto, donde ci viene la gioia straordinaria che già proviamo nella sensazione
presente? Gioia tanto violenta che basta a renderci indifferente la morte. In secondo
luogo, come spiegare che non vi sia solo una semplice somiglianza tra le due sensazioni,
presente e passata? Al di là di una somiglianza, tra le due sensazioni, scopriamo l’identità
di una medesima qualità, presente in ambedue. E finalmente, come spiegare che
Combray risorga, non quale fu vissuta in contiguità con la sensazione passata, ma in uno
splendore e con una « verità » che non ebbero mai equivalente nel reale?
Questa gioia del tempo ritrovato, questa identità di qualità, questa verità della
reminiscenza noi le proviamo, e sentiamo che vanno al di là di ogni meccanismo associativo. Ma in che modo? Non siamo in grado di dirlo. Constatiamo quello che avviene,
senza avere ancora la possibilità di comprenderlo. Sotto il sapore della « madeleine », è
sorta Combray in tutto il suo splendore; ma non abbiamo affatto scoperto le cause ditale
apparizione. L’impressione dei tre alberi resta inesplicata, mentre invece quella della «
madeleine » sembra spiegata da Combray. Eppure, restiamo allo stesso punto: perché
quella gioia, perché quello splendore nella risurrezione di Combray? (« J’avais alors
ajourné de chercher les causes profondes »)‘.
La memoria volontaria va da un presente attuale a un presente che « è stato », cioè a qualche cosa che
fu presente e non lo è piii. Il passato della memoria volontaria è dunque doppiamente relativo: relativo al
presente che èstato, ma anche relativo al presente rispetto al quale esso è ora passato. Vale a dire che
questa memoria non afferra direttamente il passato: lo ricompone per mezzo dei presenti. Per tale ragione,
Proust rivolge le stesse obiezioni alla memoria volontaria e alla percezione cosciente: questa crede di
trovare il segreto dell’impressione nell’oggetto, quella crede di trovare il segreto del ricordo nel succedersi
dei presenti; e sono precisamente gli oggetti a distinguere i presenti successivi. La memoria volontaria
procede per mezzo di istantanee: « Rien que ce mot me la rendait ennuyeuse comme une exposition de
photographies, et le ne me sentais pas plus de gofit, plus de talent, pour décrire maintenant ce que j’avais
vu autrefois qu’hier ce que j’observais d’un oeil minutieux et morne, au moment meme
E evidente che alla memoria volontaria sfugge qualche cosa di essenziale: l’essere in
sé del passato. Essa fa come se il passato si costituisse come tale dopo essere stato presente. Bisognerebbe dunque aspettare un nuovo presente perché quello precedente passi,
o diventi passato. Ma cosi ci sfugge l’essenza del tempo. Poiché se il presente non fosse
passato oltre che presente, se il momento stesso non coesistesse con sé come presente e
passato, esso non passerebbe mai, e non verrebbe mai a rimpiazzarlo un nuovo presente.
Il passato quale è in sé coesiste col presente che è stato, non gli succede. ben vero che
non possiamo cogliere un avvenimento come passato nello stesso momento in cui lo
proviamo come presente (salvo nei casi di paramnesia, cui forse corrisponde per Proust
la visione dei tre alberi) 2; ma ciò avviene perché le esigenze congiunte della percezione
cosciente e della memoria volontaria stabiliscono una successione reale là dove, pi<i in
profondità, abbiamo una coesistenza virtuale.
Se esiste una somiglianza tra la concezione di Bergson e quella di Proust, è a
questo livello: non a livello della durata, ma a quello della memoria. Non si risale da
un presente attuale al passato, né si ricostruisce il passato per mezzo dei presenti,
« Bastava questa parola a rendermi uggiosa quella città come una mostra fotografica; né io sentivo in
me maggior voglia, maggior disposizione a descrivere ora quel che avevo veduto in passato di quanta ne
avessi avuta il giorno precedente nel tentar di descrivere, sul momento stesso, quel che andavo
osservando con occhio meticoloso e tetro “
A questo « essere in sé » del passato, Bergson dava la definizione di virtuale. E
similmente si esprime Proust a proposito degli stati indotti dai segni della memoria: «
Réels sans étre actuels, idéaux sans étre abstraits»’. Ma a partire da questo punto, il
problema non è lo stesso per Proust e per Bergson: a Bergson basta sapere che il passato
si conserva in sé. Nonostante le pagine profonde sul sogno o sulla paramnesia, Bergson
non si domanda essenzialmente in qual modo il passato, quale è in sé, potrebbe venir
salvato a nostro profitto. Secondo lui, anche il sogno più profondo implica una degradazione del ricordo puro, una discesa del ricordo in un’immagine che lo deforma. Per
Proust, invece, il problema è appunto questo: come salvare per noi il passato, quale si
conserva in sé, quale sopravvive in sé? Avviene a Proust di esporre la tesi bergsoniana;
non direttamente, ma attraverso un aneddoto « del filosofo norvegese » che a sua volta lo
ha udito da Boutroux .E’ da notare la reazione di Proust: « Nous possédons tous nos
souvenirs, sinon la faculté de nous les rappeler, dit d’après M. Bergson le grand
philosophe norvégien... Mais qu’est-ce qu’un souvenir qu’on ne se rappelle pas? » Proust
domanda: come salveremo il passato quale è in sé? È a questa domanda che dà una
risposta la memoria involontaria.
CONCLUSIONI
L’immagine del pensiero
Se nella Ricerca ha grande importanza il tempo, è perché ogni verità è verità del
tempo. Ma la Ricerca è anzitutto ricerca della verità. In questo si manifesta la portata «
filosofica » dell’opera di Proust: essa rivaleggia con la filosofia. Proust traccia
un’immagine del pensiero che si oppone a quella della filosofia, prendendo di mira
quanto è più essenziale a una filosofia classica di tipo razionalista, e i presupposti stessi
di questa filosofia. Il filosofo presuppone volentieri che lo spirito in quanto spirito, il
pensatore in quanto pensatore voglia il vero, ami o desideri il vero, cerchi naturalmente il
vero. Egli si attribuisce in partenza la buona volontà di pensare; fonda tutta la sua ricerca,
su una « decisione premeditata ». Da ciò detiva il metodo della filosofia: da un certo
punto di vista, la ricerca della verità sarebbe la cosa più naturale e più facile; basterebbe
una decisione, e un metodo capace di vincere le influenze esterne che distolgono il
pensiero dalla sua vocazione e gli fanno prendere per vero il falso. Si tratterebbe di
scoprire e organizzare le idee secondo un ordine che sarebbe quello del pensiero, come
altrettanti significati espliciti o verità formulate che verrebbero a compiere la ricerca e ad
assicurare l’accordo tra gli spiriti.
Nel termine « filosofo » è incluso « amico ». È dunque importante che Proust rivolga la medesima
critica alla filosofia e all’amicizia. Gli amici sono, uno rispetto all’altro, come spiriti di buona volontà che
si accordano sul significato delle cose e delle parole: comunicano sotto l’effetto di una buona volontà
comune. La filosofia è come l’espressione di uno Spirito universale che si accorda con se stesso per
determinare significati espliciti e comunica-bili. La critica di Proust tocca l’essenziale: finché si fondano
sulla buona volontà di pensare, le verità restano arbitrarie e astratte. Solo il convenzionale è esplicito. Ciò
perché la filosofia, come l’amicizia, ignora le zone oscure dove si elaborano le forze affettive che agiscono
sul pensiero, le determinazioni che ci costringono a pensare. Per imparare a pensare, non è mai bastata la
buona volontà, né un metodo elaborato; né ci basta un amico per accostarci al vero. Gli spiriti non si
comunicano che il convenzionale; lo spirito genera solo il possibile. Alle verità della filosofia, manca la
necessità, e l’artiglio della necessità. Sta di fatto che la verità non si concede, si tradisce; non si comunica,
s’interpreta; non è voluta, ma involontaria.
Questo è il grande tema del Tempo ritrovato: la ricerca della verità è l’avventura
precipua dell’involontario. Il pensiero non è nulla senza qualcosa che costringa a pensare, che faccia violenza al pensiero. Più importante del pensiero, è ciò che « fa pensare »;
più importante del filosofo, il poeta. Nei suoi primi poemi Victor Hugo fa della filosofia,
perché « pense encore, au lieu de se contenter, comme la nature, de donner à penser »‘.
Ma il poeta apprende che l’essenziale è al di fuori del pensiero, in ciò che costringe a
pensare. Il Leitmotiv del Tempo ritrovato, è appunto la parola costringere: impressioni
che ci costringono a guardare, incontri che ci costringono a interpretare, espressioni che
ci costringono a pensare.
« Le verità che l’intelligenza coglie direttamente, scopertamente, nel mondo della piena luce, hanno
qualcosa di meno profondo, di meno necessario di quelle che la vita ci ha comunicate, nostro malgrado,
in un’impressione, materiale in quanto entrata in noi attraverso i sensi, ma di cui possiamo enucleare
l’intimo spirito... Dovevo cercare d’interpretare le sensazioni come segni di altrettante leggi e idee,
sforzandomi di pensare, cioè di far uscire dalla penombra ciò che avevo provato. di convertirlo in un
equivalente spirituale... Si trattasse di reminiscenze sul tipo del rumore del cucchiaio, o del sapore della
“maddalena”, o di quelle verità scritte con l’ausilio di figure, delle quali cercavo di cogliere il
significato nel mio pensiero, in cui — campanili, erbe selvatiche — esse componevano un complicato e
fiorito libro di magia, la loro prima caratteristica era ch’io non ero libero di sceglierle, che mi venivan
date tali quali. E intuivo che proprio questo doveva essere il segno della loro autenticità. Non ero stato
io a cercare i due ciottoli ineguali del cortile, nei quali ero inciampato. Ma, per l’appunto, il modo
fortuito, ineluttabile, con cui ero incappato nella sensazione, garantiva di per sé la verità del passato che
essa resuscitava, delle immagini cui dava l’avvio, poiché noi sentiamo il suo sforzo per risalire verso la
luce, sentiamo in noi la gioia per la realtà ritrovata... Il libro interiore di tali segni sconosciuti (segni in
rilievo, sembrava, che la mia attenzione, esplorando il subcosciente, cercava, urtava, contornava come
un palombaro che scandagli), nessuno poteva aiutarmi con nessuna regola a decifrarlo: perché la sua
lettura consiste in un atto di creazione in cui nessuno può sostituirci, e nemmeno collaborare con noi...
Le idee formate dall’intelligenza pura posseggono soltanto una verità logica, una verità possibile, e la
loro scelta è arbitraria. Il libro dai caratteri figurati, non tracciati da noi, è l’unico libro nostro. Non che
le idee che noi formiamo non possano essere logicamente giuste; ma non sappiamo se sono vere. Solo
l’impressione, per quanto infima possa sembrare la materia e inafierrabile la traccia, è un criterio di
verità; e solo essa merita perciò di essere appresa dallo spirito, come la sola capace, qualora esso sappia
estrarne tale verità, di condurlo a una più grande perfezione e di offrirgli una gioia veramente pura”.
Quel che ci costringe a pensare è il segno. Il segno è l’oggetto di un incontro; ma è
appunto la contingenza dell’incontro ad assicurare la necessità di ciò che dà da pensare.
L’atto di pensare non deriva da una semplice possibilità naturale; è invece la sola
creazione autentica. La creazione è la genesi dell’atto di pensare nello stesso pensiero.
Ora, questa genesi implica qualche cosa che usa violenza al pensiero, strappandolo al suo
stupore naturale, alle possibilità soltanto astratte. Pensare è sempre interpretare, e cioè
spiegare, sviluppare, decifrare, tradurre un segno. Tradurre, decifrare, sviluppare sono la
forma della creazione pura. Nessun significato è esplicito, come nessuna idea è chiara;
non abbiamo che sensi implicati in segni; e se il pensiero ha il potere di spiegare il segno,
di svilupparlo in un’Idea, ciò avviene perché l’Idea è già presente nel segno, racchiusa e
avviluppata, nello stato oscuro di tutto ciò che costringe a pensare. Non cerchiamo la
verità se non costretti e sospinti, nel tempo. In cerca di verità è il geloso che sorprende un
segno di menzogna sul volto dell’amato. l’uomo sensibile, quando s’imbatte in una
impressione violenta. il lettore, è l’ascoltatore, in quanto l’opera d’arte emette segni e lo
spingerà forse a-creare come il richiamo del genio verso altri geni. Di fronte alle
interpretazioni silenziose di un amante, non valgono nulla le comunicazioni dell’amicizia
ciarliera. La filosofia, con tutto il suo metodo e la sua buona volontà, non vale nulla di
fronte alle pressioni segrete dell’opera d’arte. Sempre la creazione, in quanto genesi
dell’atto di pensare, parte dai segni. L’opera d’arte nasce dai segni, ma anche li fa
nascere; come il geloso, il creatore, divino interprete, sorveglia i segni attraverso i quali
la verità si tradisce.
L’avventura dell’involontario si ritrova a livello di ogni facoltà. In due maniere
differenti, i segni mondani e i segni amorosi vengono interpretati dall’intelligenza. Ma
non si tratta più di quell’intelligenza astratta e volontaria che pretende di trovare da sola
delle verità logiche, di avere un suo proprio ordine e di vincere le pressioni esterne. Si
tratta invece di un’intelligenza involontaria, quella che, subendo la pressione dei segni, si
anima solo per interpretarli, salvandosi così dal vuoto che la soffoca, dalla sofferenza che
la sommerge. In scienza e in filosofia, l’intelligenza viene sempre prima; ma è proprio
dei segni fare appello all’intelligenza in quanto viene dopo, deve venire dopo’. Lo stesso
avviene per la memoria: i segni sensibili ci spingono a cercare la verità, ma mobilitano
cosi una memoria involontaria (o una immaginazione involontaria nata dal desiderio).
Infine i segni dell’arte ci spingono a pensare: mobilitano il pensiero puro come facoltà
delle essenze. Stimolano nel pensiero ciò che meno dipende dalla buona volontà: lo
stesso atto di pensare. I segni mobilitano, costringono una facoltà: intelligenza, memoria
o immaginazione. Alla sua volta, questa facoltà mette in moto il pensiero, l’obbliga a
pensare all’essenza. Sotto i segni dell’arte, apprendiamo che cosa sia il pensiero puro
come facoltà delle essenze, e come l’intelligenza, la memoria o l’immaginazione
diversifichino il pensiero rispetto alle altre specie di segni.
I termini « volontario » e «involontario » non indicano facoltà differenti, ma piuttosto
un differente esercizio delle medesime facoltà. Fino a che si esercitano volontariamente,
la percezione, la memoria, l’immaginazione, lo stesso pensiero hanno solo un esercizio
contingente; in tal caso, ciò che percepiamo, potremmo ugualmente ricordarlo,
immaginarlo, pensarlo; e viceversa. Né la percezione, né la memoria volontaria, né il
pensiero volontario sono capaci di darci una verità profonda: nient’altro che verità
possibili. Qui, nulla ci costringe a interpretare qualche cosa, a decifrare la natura di un
segno, nulla ci spinge a tuffarci come un « sommozzatore che operi un sondaggio ».
Tutte le facoltà si esercitano armoniosamente, ma sostituendosi a vicenda, nell’arbitrario
e nell’astratto. Invece, ogni volta che una facoltà assume la sua forma involontaria,
scopre e raggiunge il proprio limite, si eleva a un esercizio trascendente, comprende la
propria necessità come un potere insostituibile, cessando casi di essere intercambiabile.
Al posto di una percezione indifferente, ecco una sensibilità che afferra e riceve i
segni: il segno è il limite di questa sensibilità, la sua vocazione, l’estremo suo esercizio.
Al posto di una intelligenza volontaria, di una memoria volontaria, di una immaginazione
volontaria, sorgono queste stesse facoltà sotto la loro forma involontaria e trascendente:
allora ognuna di esse scopre di essere sola a potere interpretare, ognuna esplica un tipo di
segni che particolarmente le fa violenza. L’esercizio involontaria è il limite trascendente
o la vocazione di ogni facoltà. Al posto del pensiero volontario, tutto ciò che costringe a
pensare, tutto ciò che viene costretto a pensare, tutto il pensiero involontaria, che non
può pensare se non l’essenza. Solo la sensibilità s’impadronisce del segno in quanto tale;
solo l’intelligenza, la memoria o l’immaginazione spiegano il senso, ognuna secondo la
corrispondente specie di segni; solo il pensiero puro scopre l’essenza, è costretto a
pensare l’essenza come la ragione sufficiente del segno e del suo senso.