Il patto neocoloniale. Le origini del sottosviluppo e l’emigrazione europea. 1. Il patto neocoloniale Intorno alla metà del XIX secolo, venuto meno l’apporto finanziario della Spagna, non più responsabile del mantenimento della struttura amministrativa dell’area latinoamericana, tutti i nuovi Stati (eccetto il Brasile) si trovano a dover affrontare crisi economiche dovute alla mancanza delle risorse necessarie al finanziamento della costruzione delle nuove strutture statali. Nonostante l’Inghilterra eserciti da tempo un controllo degli scambi commerciali con l’America Latina, a causa della situazione di forte instabilità politica presente nell’area in questo periodo né il governo né gli imprenditori inglesi accettano di assumersi il rischio di effettuare investimenti nei nuovi Stati. Tuttavia, l’atteggiamento dell’Inghilterra muta di fronte all’affermarsi delle grandi trasformazioni economiche introdotte dalla seconda rivoluzione industriale in Europa, che portano i paesi europei alla ricerca di nuovi mercati di sbocco per i propri prodotti e allo stesso tempo li costringono a garantirsi un afflusso costante di materie prime, indispensabili ai fini del processo produttivo. L’interesse inglese all’investimento di capitali nei giovani Stati latinoamericani, al fine di assicurarsi il controllo delle fonti delle materie prime, è all’origine di forti pressioni sulla classe dirigente dei singoli Stati perché venga garantita la stabilità interna. Allo stesso tempo, il bisogno di capitali esterni costringe i gruppi dirigenti latinoamericani a ricercare modalità di confronto più pacifiche, al fine di poter ottenere dall’estero le risorse economiche e finanziarie necessarie allo sviluppo delle nuove strutture. Per queste ragioni, nel riferirsi alla presenza inglese in America latina a partire dalla seconda metà dell’800 alcuni storici parlano di patto neocoloniale, piuttosto che di neocolonialismo. Con l’espressione “patto neocoloniale” si vuole sottolineare con forza il fatto che non è la Gran Bretagna, in questo periodo, ad imporre unilateralmente la sua presenza economica volta allo sfruttamento e al controllo delle materie prime (come invece è accaduto con la Spagna in precedenza), ma sono gli stessi gruppi dirigenti, le élites dei paesi latinoamericani, a farsi parte attiva nel sollecitare tale presenza. Si viene a creare, dunque, un accordo non formalizzato tra due parti, l’Inghilterra da un lato e gli Stati latinoamericani dall’altro, che riflette una combinazione dei propri reciproci interessi. In realtà, anche se la presenza inglese è preponderante, bisogna sottolineare la presenza attiva sul mercato latinoamericano di capitali francesi e tedeschi. In sostanza, dunque, in cambio del sostegno finanziario necessario per la costruzione delle strutture essenziali dello stato-nazione, e dell’aiuto per uscire dalla crisi economica, i gruppi dirigenti latinoamericani garantiscono ai paesi europei stabilità politica e offrono loro la possibilità di controllare le fonti delle materie prime. La realizzazione del patto neocoloniale coincide con l’affermazione dell’imperialismo, sancita dall’espansione coloniale delle potenze europee in Africa e in Asia. In America Latina, in nome dei principi del liberalismo e dell’indipendenza nazionale, la penetrazione europea si configura in modo molto diverso, con un controllo economico al quale non si accompagna, almeno sul piano formale, un controllo politico. E’ per questo che, se nel riferirsi all’espansione imperialista europea in Asia e in Africa ha senso parlare di “colonialismo”, in riferimento all’America Latina l’utilizzo di questa espressione non è corretto. Diversamente dalla prima rivoluzione industriale (che si dispiega come si è visto dalla seconda metà del ‘700 alla prima metà dell’800), che aveva avuto come elemento fondamentale la trasformazione delle relazioni di produzione, la seconda rivoluzione industriale si caratterizza per una radicale trasformazione delle tecniche e dell’organizzazione della produzione. L’applicazione ai vari rami dell’industria delle scoperte scientifiche e tecnologiche dovute al progresso delle scienze fisiche e chimiche degli anni ’50 e ’60 dell’800 - gli anni d’oro del positivismo - sono all’origine dell’emergere di settori produttivi nuovi o profondamente rinnovati, tra cui in particolare i settori chimico, metallurgico ed elettronico. L’attivazione di questi nuovi settori richiede un apporto costante di materie prime, che può essere realizzato soltanto attraverso il controllo diretto delle loro fonti. Per l’attivazione e lo sviluppo dell’industria chimica inglese, ad esempio, sono necessari il guano boliviano e il salnitro cileno e peruviano, mentre per l’avvio dell’industria elettrica in Inghilterra, Stati Uniti e Germania è fondamentale la disponibilità del rame, prodotto in abbondanza in America Latina. In un contesto del genere, non è sufficiente lasciare alla dinamica commerciale, alla compravendita e alla negoziazione con i paesi stranieri l’acquisizione delle materie prime, bensì è necessario stabilire un controllo politico diretto quando è possibile, o un accordo di carattere economico che garantisca la continuità dell’attività produttiva attraverso l’afflusso delle materie prime. Altrettanto importante è la ricerca di mercati di sbocco, che acquista un peso ancora più rilevante in concomitanza con la svolta protezionistica sui mercati dei paesi europei, non soltanto per i propri prodotti, ma anche per i capitali finanziari accumulati, il cui investimento nei paesi extraeuropei garantisce larghi profitti. Le dinamiche indotte dalla seconda rivoluzione industriale spingono, dunque, le economie nazionali ad espandersi, ad uscire dai propri confini nazionali, sia per il bisogno di procurarsi materie prime e prodotti alimentari da altri paesi, sia per l’eccessiva ristrettezza del mercato nazionale per i propri prodotti e per i propri capitali. Inoltre, per i paesi europei è in molti casi indispensabile assicurarsi mercati di sbocco anche per la forza lavoro eccedente, il che è all’origine del vasto fenomeno dell’emigrazione europea verso il continente americano. Questo processo porta ad una razionalizzazione del panorama economico internazionale, in cui tutti i paesi acquistano un ruolo ed una funzione ben definita, secondo un processo spesso indicato come “divisione internazionale del lavoro”. In questo contesto, l’America Latina si inserisce nell’economia internazionale come area esportatrice di materie prime e di prodotti agricoli e importatrice di capitali, forza lavoro e prodotti industriali. In questa fase, l’impegno dei paesi latinoamericani è, infatti, quello di esportare materie prime (guano, salnitro, rame, stagno) indispensabili per i nuovi settori produttivi chimici ed elettrici, e prodotti agricoli destinati al consumo dei centri industriali europei. Progressivamente si viene realizzando all’interno dei singoli paesi una specializzazione delle colture, che si trasformano in monocolture destinate all’esportazione. Nel periodo che va dalla seconda metà dell’800, ossia dall’affermazione del patto neocoloniale, alla prima guerra mondiale, l’economia latinoamericana si caratterizza per essere una Economia hacia afuera (una “economia verso l’esterno”, e cioè un’economia esportatrice). Il modello primario esportatore caratterizzerà le politiche economiche dei giovani stati nazione. Come si vedrà successivamente, la crisi che si avvierà con lo scoppio della prima guerra mondiale, e che raggiungerà l’apice con il manifestarsi degli effetti della crisi del ’29, provocherà un riorientamento economico, per cui si parlerà di Economia hacia adentro o di modello per la sostituzione delle importazioni. 2. Il dibattito sull’origine del sottosviluppo latinoamericano A lungo si è pensato che, responsabili del ritardo nello sviluppo degli stati latinoamericani fossero state le particolari caratteristiche economiche della colonizzazione portata avanti dalla Spagna e dal Portogallo. Tuttavia, come si è visto in precedenza, nel corso del XVII e del XVIII secolo in America Latina non venivano prodotti solo oro, argento e derrate agricole destinati all’esportazione, ma si era creato un tessuto manifatturiero di non scarsa rilevanza. Infatti, i prodotti importati dall’Europa erano per lo più rivolti ad una ristretta quota del mercato, in quanto beni di lusso, mentre al contrario la manifattura destinata ai ceti popolari era prodotta all’interno. È dunque al patto neocoloniale che va imputata l’origine di una tardiva attivazione del settore industriale negli Stati latinoamericani. Uno studio di Carmagnani dal titolo “Sviluppo industriale, sottosviluppo economico”, riferito in particolare alle vicende cilene, ma allo stesso tempo indirettamente all’America Latina nel suo complesso, si è concentrato sul periodo storico che si sta analizzando, focalizzando l’attenzione sull’aspetto economico. A questo proposito l’autore mette in evidenza come, nelle ex colonie spagnole, pur continuando ad esistere un tessuto manifatturiero e nonostante il consolidamento e l’ampliamento del settore edile, non si possa parlare, per l’America Latina, di decollo industriale. A partire dall’affermarsi della seconda rivoluzione industriale, si può parlare di decollo industriale o sviluppo economico di un paese soltanto nel momento in cui si assiste alla comparsa dei nuovi settori trainanti (in Italia, ad esempio, il decollo industriale si ha in età giolittiana, conseguentemente alla creazione delle acciaierie di Terni). La presenza di un settore tessile o di altre manifatture tradizionali non ha più la stessa rilevanza attribuitagli tra la fine del XVIII e l’inizio del XVII secolo, con la conseguenza che in riferimento alla situazione economica dei paesi in cui non vi è un’attivazione del settore dell’industria pesante (metallurgico e metalmeccanico), o di altri settori portanti, quali il chimico e l’elettrico, non si può parlare di sviluppo industriale. Come si è sottolineato, il ruolo che in questo periodo l’America Latina viene ad assumere nell’economia internazionale è funzionale non solo agli interessi europei, e inglesi in particolare, bensì anche a quelli delle oligarchie latinoamericane. L’esperienza europea, infatti, aveva dimostrato come al processo di industrializzazione fossero in genere strettamente associate profonde trasformazioni di carattere sociale. Essendo l’élite dominante latinoamericana essenzialmente agraria (la diversificazione degli interessi economici sarà, infatti, molto lenta), il mantenimento dello status quo sociale, ed il blocco di ogni possibile trasformazione che potrebbe mettere in pericolo la radicata posizione egemonica di tali élites, diventa l’obiettivo prioritario delle loro politiche, ed è compatibile con gli interessi inglesi. L’Inghilterra, infatti, si astiene dall’interferire nel settore agrario, che rappresenta la base materiale del potere economico e sociale delle élites. Questa non interferenza permette alle élites di garantire lo status quo, bloccando l’avvio di quei processi di trasformazione sociale che necessariamente lo sviluppo industriale innescherebbe; allo stesso tempo, le élites usufruiscono degli introiti statali provenienti sia dalle somme pagate dalle compagnie straniere per lo sfruttamento dei giacimenti, sia dai prestiti o dagli investimenti diretti che i governi europei fanno per sostenere le proprie imprese. La presenza inglese in America Latina in questi anni si delinea attraverso l’assunzione del controllo dei settori economici strategici per l’economia britannica. Ciò avviene attraverso cospicui investimenti di capitale in alcuni settori. In particolare: settore estrattivo, che però, nonostante la presenza di compagnie inglesi, rimane per la maggior parte sotto il controllo delle élites locali; settore commerciale, per lo più controllato dall’Inghilterra; settore finanziario e dei servizi pubblici, con la comparsa di banche inglesi alle quali quelle nazionali sono subordinate, e l’acquisizione di un virtuale monopolio dei servizi pubblici attraverso le società dell’acqua, del gas, dell’elettricità. infrastrutture, quasi interamente gestito dagli inglesi, funzionale al trasporto delle materie prime. I giacimenti minerari, infatti, sono situati nelle aree interne, con la conseguenza che per la loro commercializzazione ed esportazione necessitano di un trasferimento verso le aree costiere. Da qui, l’interesse verso la creazione di porti o la loro ristrutturazione, e di linee ferroviarie per favorire l’introduzione di manufatti e l’esportazione delle materie prime. Una caratteristica fondamentale delle prime reti ferroviarie locali, a dimostrazione della funzionalità del trasporto ferroviario al commercio internazionale, risiede nella loro specifica forma a ventaglio, che deriva dalla convergenza su un porto e dall’apertura verso l’interno. Le compagnie inglesi, come si è accennato, lasciano alle élites il controllo del settore agricolo e si astengono dal promuovere l’attivazione di processi che possano mettere in discussione le relazioni di produzione vigenti in America Latina. L’atteggiamento prudente e rispettoso delle relazioni socio-economiche esistenti nei vari Stati da parte degli uomini d’affari inglesi li porta addirittura ad introdurre nelle miniere da essi controllate forme simili di relazione, al fine di evitare tensioni e conflitti sociali. Nelle grandi salnitrerie o nei giacimenti di guano, i lavoratori non vengono retribuiti con denaro, bensì con “fichas”, una sorta di buoni con cui possono acquistare beni di prima necessità negli spacci gestiti dalla proprietà, sia essa rappresentata dai grandi latifondisti locali o dalle imprese inglesi. Di fatto, quindi, queste ultime, piuttosto che introdurre elementi di modernizzazione, si adeguano alle dinamiche vigenti in America Latina in materia di relazioni di produzione. Saranno successivamente i nordamericani ad eliminare il sistema delle “fichas”, introducendo il salario in moneta quale elemento di modernizzazione delle relazioni industriali. Diversamente dagli inglesi, infatti, i quali hanno una concezione “minimalista” del controllo, che li porta ad interessarsi esclusivamente ai settori strategici, gli statunitensi avranno una concezione totalizzante della propria penetrazione, che aspirerà a modificare le relazioni di produzione modellandole su quelle europee e nordamericane, ritenute più avanzate. Da questa diversa concezione della propria presenza economica, derivano importanti conseguenze sul piano politico. Nei rari casi in cui da parte dell’Inghilterra si verifica un intervento o un coinvolgimento nelle questioni politiche latinoamericane, interne o inter-statuali, tale intervento dipende sempre da uno stretto calcolo di opportunità economica. Ad esempio, all’origine della Guerra del Pacifico tra Perù, Bolivia e Cile, vi è la speranza inglese che il Cile riesca ad entrare in possesso dei territori peruviani e boliviani in cui sono presenti i giacimenti di salnitro, perché le imposte stabilite dal governo cileno per lo sfruttamento del minerale sono inferiori rispetto a quelle peruviane. Si può affermare, in conclusione, che l’Inghilterra sia in questi anni una potenza “rispettosa e dialogante” con le élites dei paesi latinoamericani; al contrario, come si vedrà, la presenza statunitense, più invasiva, sarà all’origine di forti contrasti con i ceti dominanti. 3. L’emigrazione europea. Non è possibile un approccio rigoroso allo studio dell’emigrazione europea negli Stati Uniti e in America Latina, se non attraverso la collocazione del fenomeno all’interno del quadro generale fin qui descritto. Operando semplificazioni, si è spesso portati ad imputare l’abbandono dei propri paesi da parte degli emigranti a scelte motivate da necessità individuali, o in molti casi familiari. In realtà, dietro i contadini italiani del sud e del Veneto, o i marinai Liguri, che decidono di emigrare, non vi è soltanto una scelta individuale o di gruppo, bensì una strategia più generale dei governi, che si delinea e rafforza in particolare durante il periodo della cosiddetta “grande depressione” ottocentesca, compreso tra il 1873 e il 1895. Originata da una caduta dei prezzi che si prolunga nei due decenni successivi, prodotta a sua volta dalle trasformazioni organizzative e delle innovazioni tecnologiche che permettono di ridurre i costi di produzione e di commercializzazione, la crisi di questi anni provoca un forte rallentamento nei ritmi di crescita, che, a seconda dei singoli Stati, è più o meno prolungato. Conseguenza della ridotta dinamica dell’economia è un aumento della pressione sul mercato del lavoro, e di difficoltà che rischiano di diventare esplosive in concomitanza con la trasformazione capitalistica delle campagne e con la conseguente espulsione di manodopera, che non riesce ad essere completamente assorbita dal settore manifatturiero o industriale. Ad aggravare il problema dell’eccedenza di manodopera è la crescita demografica tardo ottocentesca, che porta la popolazione europea a raggiungere, nel 1900, i 425 milioni. In Europa si registra in questi anni un incremento della vita media dovuto ai progressi della medicina e dell’igiene, nonché allo sviluppo delle tecniche di conservazione alimentare;. Di fronte a questa situazione, molti paesi europei elaborano politiche che favoriscono l’emigrazione, che sin dai primi tempi è diretta soprattutto verso il continente americano (e in particolare negli Stati Uniti). Tra il 1880 e il 1914 arrivano in Sud America circa 12 milioni di immigrati, diretti in un primo periodo verso l’Argentina, e poco dopo verso il Brasile e l’Uruguay; sebbene in misura minore, anche il Cile si trova ad accogliere una certa quantità di immigrati, che comunque si dirigono verso tutti i porti latinoamericani. Gli stessi governi di questi stati elaborano progetti per attrarre nel paese immigranti, soprattutto per far fronte alla necessità di popolamento dei territori semivuoti. Infatti, nonostante il fatto che dalla fase della conquista siano passati quasi tre secoli, alla fine del XIX secolo vaste zone dell’America Latina sono ancora disabitate, e questo rappresenta un problema, soprattutto perché il popolamento delle aree di frontiera degli stati è essenziale per la difesa dei confini nazionali. L’Argentina, ad esempio, di fronte alle mire espansionistiche del Cile, ha urgente bisogno di popolare la Patagonia; il Cile, da parte sua, tende anch’esso a promuovere il popolamento del sud. In questi Stati (e non solo in essi) le terre di frontiera saranno popolate e rese produttive grazie all’azione congiunta della migrazione europea e asiatica, cui si aggiungono le migrazioni interne, anch’esse in crescita in questo periodo in tutta l’America Latina. In Brasile invece, al problema del popolamento se ne aggiunge un altro, legato all’abolizione della schiavitù e al riorientamento dell’economia di piantagione verso la monocoltura del caffè: la necessità di manodopera da impiegare nelle fazendas. A questo proposito, è bene sottolineare la differenza tra le modalità di insediamento degli emigranti europei negli Stati Uniti e in America Latina. Negli Stati Uniti, infatti, con l’approvazione dell’Homestead Act del 1862 viene promosso un incremento della colonizzazione agricola, facilitando l’accesso alla proprietà della terra a chi è disposto a lavorarla; gli immigrati, che giungono in cerca di un miglioramento della propria condizione socio-economica, si trovano quindi a beneficiare di una politica governativa che organizza il loro inserimento nell’economia del paese. Inoltre, l’espansione progressiva della frontiera permette agli USA di offrire concrete possibilità ai nuovi arrivati di divenire proprietari terrieri. Al contrario, in America Latina la presenza del grande latifondo rende molto difficile il realizzarsi di un processo analogo. Qui soltanto una ridotta percentuale riesce a diventare proprietaria della terra che lavora; la maggioranza degli immigrati, infatti, viene impiegata nelle haciendas, nelle estancias e nelle fazendas per determinati periodi, finché, trovandosi spesso in condizioni peggiori di quelle di partenza, si riversa nelle città, che offrono maggiori possibilità occupazionali e salari più elevati. L’arrivo della popolazione europea non produce, dunque, modificazioni nell’assetto sociale, né va ad intaccare gli interessi delle tradizionali élites terriere, che al contrario trovano nell’immigrazione quella forza lavoro che serve a supplire la carenza di braccia necessarie a sostenere l’aumento della produzione agricola destinata all’esportazione. Conseguenza dell’arrivo degli europei è soprattutto lo sviluppo delle città, e in particolare una crescita elefantiaca delle capitali politiche dei vari stati (Buenos Aires passa da 178.000 abitanti nel 1869 a 1.576.000 abitanti del 1914, e Rio de Janeiro nel 1920 raggiunge il milione di abitanti); questa crescita contribuisce all’esasperazione delle tensioni nei centri urbani, e al consolidarsi di quell’antagonismo città e campagna che caratterizzerà il periodo successivo.