Postmodernità e pluralismo tra retorica e utopia: a proposito del

annuncio pubblicitario
Postmodernità e pluralismo tra retorica e utopia1
SILVIA VIDA
1. Modernità, postmodernità, pluralismo, globalizzazione, multiculturalismo, diritti
umani sono termini chiave del dibattito contemporaneo non solo in ambito filosofico,
ma anche in ambito sociologico e giuridico. Il contributo di Boaventura de Sousa Santos
a questo dibattito consiste soprattutto nell’aver associato a tali concetti alcune idee
teoriche mutuate dall’epistemologia (de Sousa Santos 1995). In questo saggio
cercheremo di ricostruire e analizzare le linee portanti e alcuni temi specifici del lavoro
di de Sousa Santos al fine di valutare i presupposti teorici e metodologici delle sue
analisi.
De Sousa Santos definisce la modernità come un paradigma socio-culturale,
emerso tra il XVI secolo e la fine del XVIII, che comprende in sé sviluppi assai
variabili, a volte contraddittori, riferibili ai due «pilastri» su cui tale paradigma si regge:
emancipazione e regolazione. La regolazione si basa su tre principi: il principio dello
stato formulato da Hobbes, il principio del mercato formulato in particolare da Locke e
Adam Smith, e il principio della comunità come emerge dalle teorie politico-sociali di
Rousseau. Di questi tre principi, quello solidaristico della comunità è uno dei progetti
inconclusi della modernità e deve trovare sviluppo e applicazione in epoca postmoderna.
In quanto società civile, inoltre, la comunità costituisce, assieme allo stato, una delle
dicotomie fondamentali della modernità, quella appunto tra stato e società civile. Se la
modernità ha visto l’egemonia dello stato in quanto centro di potere e di diritto, la
postmodernità dovrà riconoscere alla società civile la capacità di liberare le energie
emancipatorie occultate dall’azione regolatrice e dominatrice dello stato.
Il pilastro dell’emancipazione è invece basato sui tre principi della razionalità
individuati da Weber: la razionalità estetico-espressiva delle arti e della letteratura, la
razionalità cognitivo-strumentale di scienza e tecnologia, e la razionalità pratico-morale
di etica e diritto. Anche il principio estetico-espressivo, avendo trovato, al pari di quello
della comunità, uno sviluppo incompleto in epoca moderna, conoscerà, come vedremo,
una particolare applicazione in epoca postmoderna.
Ma ciò che caratterizza l’età della modernità, specialmente all’inizio del XIX
secolo, è qualcosa che la pervade come una sorta di nuova religione, e che estende la sua
egemonia a tutti gli ambiti socio-culturali: la religione della scienza. Tale ruolo
egemonico della scienza all’interno della cultura moderna si esprime in ambito giuridico
nelle dottrine formalistiche che caratterizzano un ampio spettro di pensiero, dal
movimento delle Pandette al movimento francese per la codificazione, fino alla dottrina
pura del diritto. de Sousa Santos individua quindi, come una delle fondamentali
caratteristiche della modernità, la relazione e la circolazione di idee e significati tra
conoscenza scientifica e diritto, relazione e circolazione che avvengono sotto l’egida
della scienza. In questo senso egli parla di isomorfismo strutturale tra diritto e scienza,
essendo il primo una sorta di alter ego della seconda. Fin dalla Scienza Nuova di Vico
(1725), l’idea che l’ordine sociale sia un ordine scientifico percorre il pensiero
giuridico-sociale da Montesquieu a Saint-Simon, da Bentham a Comte, da Beccaria a
1A proposito del testo di Boaventura de Sousa Santos, Toward a New Common Sense. Law, Science
and Politics in the Paradigmatic Transition, Routledge: New York/London, 1995.
Lombroso, caratterizzando tutto il pensiero sociale del XVIII e XIX secolo. A conferma
del profondo isomorfismo tra scienza e diritto moderni, l’autore sostiene che la
razionalità egemonica della scienza moderna e la identificazione del diritto moderno col
diritto statalistico sono due facce di uno stesso processo storico: il "collassare
dell’emancipazione sulla regolazione". Mentre la tensione tra emancipazione e
regolazione si esplica nel diritto moderno attraverso la ricezione del diritto romano, il
diritto naturale razionalistico e le teorie del contratto sociale, il processo storico che
porta alla riduzione dell’emancipazione alla regolazione è riconoscibile nelle tappe più
significative dello sviluppo capitalistico2.
Più in generale, la crisi dei fondamenti giuridici ed epistemologici del paradigma
moderno mette sempre più in rilievo la transizione paradigmatica in atto in ambito
epistemologico come in ambito sociale. La crisi delle risorse culturali e produttive della
modernità determina la transizione a una nuova realtà socio-culturale che evidenzia
come l’emancipazione sia collassata sulla regolazione. Il coincidere dell’emancipazione
con la razionalità cognitivo-strumentale della scienza corrisponde infatti alla riduzione
della regolazione al principio di mercato: queste sono, di fatto, le condizioni
determinanti del processo storico attraverso cui l’emancipazione è collassata sulla
regolazione. Il tempo attuale è quindi definibile come un periodo di transizione
paradigmatica; per esso si usa comunemente il termine postmodernità. Se la modernità è
un paradigma socio-culturale, la postmodernità si caratterizza come transizione
paradigmatica, ovvero come passaggio da un paradigma ormai obsoleto a un paradigma
nuovo e alternativo. Infatti, se la capacità di azione umana è cresciuta in ogni campo
grazie ai principi della regolazione e alla razionalità scientifica egemonica, ciò ha
prodotto, paradossalmente, un nuovo senso di insicurezza, in quanto a tale capacità non
si è associata una pari capacità di previsione delle conseguenze. Il nuovo ordine sociale
paradigmatico dovrà perciò provvedere a sviluppare le tendenze emancipatorie
occultate, o addirittura negate, dal prevalere delle spinte dal lato della regolazione.
Già Habermas (1983) ha identificato in regolazione ed emancipazione gli
elementi distintivi di un «progetto della modernità» come progetto emerso nel XVIII
secolo, che deve ancora giungere alla sua completa realizzazione. Esso si
configurerebbe come un grande sforzo intellettuale dei pensatori illuministi, per
"sviluppare una scienza obiettiva, una morale e un diritto universali e un’arte autonoma
secondo le rispettive logiche interne" (Habermas 1983, 9). Per il pensiero illuministico
si trattava di utilizzare l’accumulazione della conoscenza con l’obiettivo
dell’emancipazione umana e dell’arricchimento della vita di ogni giorno. Il controllo
scientifico della natura prometteva la libertà dalla povertà e dai bisogni, mentre lo
sviluppo di forme razionali di organizzazione sociale e di modi di pensiero razionali
prometteva la liberazione dalla irrazionalità del mito, della superstizione ma anche
dall’uso arbitrario del potere. Solo grazie a un tale progetto potevano rivelarsi le qualità
«universali eterne e immutabili» di tutta l’umanità.
Analogamente, Cassirer (1960) sostiene che il pensiero illuministico abbraccia
l’idea di progresso e rottura con la storia e la tradizione, la desacralizzazione della
conoscenza, la razionalizzazione e l’organizzazione sociale al fine di liberare gli uomini
dalle loro catene. L’idea che a ogni domanda può esserci solo una risposta, che il mondo
2L’analisi assai dettagliata dello sviluppo del capitalismo, e la scansione di esso in tre fasi
fondamentali si trovano ampiamente analizzate in de Sousa Santos 1995, 71-90. Si veda anche § 2.1.,
infra.
2
può essere controllato e ordinato razionalmente solo se lo si descrive e lo si rappresenta
correttamente, e che vi è quindi un’unica modalità corretta di rappresentazione, sono le
stesse idee espresse da de Sousa Santos quando parla di modello globale e totalitario
della razionalità scientifica occidentale. Ma c’è di più: tale modello ha discriminato nei
confronti di tutto ciò che dovrebbe ritenersi non scientifico perché non sottoposto ai
principi epistemologici e metodologici imposti dalla razionalità scientifica. Così, il
senso comune, ma anche le scienze umane, si sono trovati ai margini della cultura
moderna.
I nuovi paradigmi scientifici definiti dalle teorie di Copernico, Galileo e Newton
vengono sanciti dal pensiero di Cartesio che, nel Discorso sul metodo (1637), realizza
che ciò che separa la conoscenza moderna dalla conoscenza tradizionale, ancora
dominata dal modello aristotelico, non è tanto una migliore osservazione dei fatti,
quanto, piuttosto, un diverso sguardo sul mondo e sulla vita. La lotta contro dogmatismo
e autoritarismo crea nel contempo uno iato tra conoscenza scientifica e senso comune,
da un lato, e tra natura e umanità dall’altro3. A differenza dell’aristotelismo, la scienza
moderna distrugge l’evidenza dell’esperienza immediata che diventa così puramente
illusoria. Le leggi scientifiche della scienza moderna, invece, attraverso le idee
matematiche e il rigore della misurazione e della quantificazione, scompongono e
ricompongono la natura per dominarla e controllarla. Stabilità, ordine, e ripetitività dei
fenomeni naturali sono le precondizioni per la trasformazione in senso tecnologico della
natura. Ma non solo. L’idea del determinismo meccanicistico è ciò che, a livello sociale,
induce il pensiero borghese a concepire la realtà in senso funzionalistico e utilitaristico.
La borghesia considera la società che essa comincia a controllare come lo stadio finale
dell’evoluzione dell’umanità. Ciò si ritrova, per esempio, nell’analisi comtiana dello
stato positivo, nell’idea di società industriale di Spencer, o ancora nel concetto di
solidarietà organica elaborato da Durkheim. L’illuminismo ha infatti creato le
condizioni per l’emergere delle scienze sociali nel XIX secolo. de Sousa Santos dedica a
questo tema interessanti osservazioni, rifacendosi anche a Kuhn (1962)4, ma accomuna
le scienze umane e sociali a quelle fisiche per il fatto che ne condividono la distinzione
umanità/natura, natura/cultura. Quindi, sebbene le scienze sociali anticipino in qualche
modo la crisi del paradigma moderno, esse condividono i presupposti egemonici della
scienza moderna, collocandosi a pieno titolo in tale paradigma.
E’ nel XX secolo che nasce la consapevolezza che gli esiti del progetto
illuministico vadano in una direzione diversa, e che tale progetto sia destinato a
ritorcersi contro se stesso e a trasformare la ricerca dell’emancipazione umana in un
sistema di oppressione universale. Espresso in altri termini, questo è il significato di ciò
che de Sousa Santos chiama il «collassare» della emancipazione sulla regolazione. Ecco
allora che il pensiero postmoderno insiste sulla necessità di abbandonare il progetto
illuministico in nome dell’emancipazione umana. Harvey (1990), per esempio, sostiene
che in seguito alla perdita di fiducia nell’ineluttabilità del progresso, si manifesta una
crescente insoddisfazione nei confronti della fissità categorica del pensiero illuministico.
Lo stesso capitalismo è degenerato nello sfruttamento di classe, nella discriminazione
sessuale e razziale, nel colonialismo e nell’etnocentrismo. La creazione di nuovi bisogni
e quindi l’esasperazione di insicurezza, instabilità e incertezza sono i suoi risultati. E ciò
3Questo aspetto è stato messo in luce anche da Husserl 1987, Parte II.
4Cfr. anche Kuhn 1969. Tali scienze vengono definite preparadimatiche; ma ciò si chiarirà alla luce
delle posizioni kuhniane considerate nel seguito (§ 3, infra).
3
a fronte di aspetti positivi della modernità capitalistica, quali il potenziale controllo della
natura, e quindi la riduzione dei limiti che la natura stessa impone necessariamente alla
nostra vita. D’altra parte, lo stato, come sostiene anche de Sousa Santos, ha
fiancheggiato il capitalismo, rappresentando un principio organizzativo con cui una
classe dominante ha cercato di imporre il proprio controllo non solo sui suoi oppositori
ma anche sui cambiamenti e sull’incertezza a cui la modernità capitalistica è sempre
soggetta. Il rapporto tra sviluppo capitalistico e stato deve essere quindi visto come un
rapporto di mutua influenza e mutuo sostegno.
Dopo paradigma e transizione paradigmatica, de Sousa Santos chiama in causa
la terza idea teorica della sua analisi: il senso comune. E lo fa richiamandosi a Rousseau,
che nel Discorso sulle scienze e sulle arti (1750) si chiedeva se il progresso delle
scienze e delle arti avrebbe portato con sé un miglioramento dei costumi o una loro
corruzione, se esistesse una relazione tra scienza e virtù, e se ci fosse una ragione per
sostituire al senso comune, che caratterizza la conoscenza della natura e della vita
condivisa da uomini e donne in società, la conoscenza scientifica che è privilegio di
pochi; si chiedeva, insomma, se la scienza avrebbe potuto costituire un ponte tra teoria e
prassi. Come noto, Rousseau diede a ognuna di queste domande una risposta negativa.
Ma dopo due secoli e mezzo le nostre domande sono le stesse di Rousseau. In
seguito alla crisi della scienza moderna, manifestatasi verso la metà del secolo e
considerata da de Sousa Santos come la causa di nuovi fermenti di trasformazione in
ambito sia sociale che tecnologico, siamo attualmente i protagonisti e i testimoni viventi
di queste trasformazioni, e abbiamo forte il senso di perdita e di mancanza di confidenza
con l’ordine scientifico delle cose. L’ambiguità e la complessità del tempo attuale
suggeriscono infatti l’idea, condivisa da molti e propugnata dall’autore, che viviamo un
periodo di transizione paradigmatica. Due secoli e mezzo dopo Rousseau, le nostre
domande vertono sulle relazioni tra scienza e virtù. Anticipando le conclusioni
dell’autore, potremmo dire che le nostre domande vertono, analogamente, sul rapporto
tra valori etici, diritto, e forme emancipatorie di potere.
Più in generale, in questo periodo di transizione paradigmatica sentiamo ancora
la necessità di interrogarci sul valore della cosiddetta conoscenza del senso comune,
quella che creiamo e usiamo come esseri individuali e collettivi per dare significato alle
nostre azioni; quel tipo di conoscenza che la scienza considera irrilevante, se non
addirittura falsa, irrazionale e soggettiva se confrontata con l’obiettività e la razionalità
della scienza. In questo periodo di transizione paradigmatica ci troviamo quindi nella
necessità di chiederci se le aumentate conoscenze scientifiche corrispondano a un reale
aumento della nostra capacità di azione, e quindi a un reale arricchimento della nostra
vita, o non, piuttosto, a un impoverimento di essa e a una minaccia della nostra felicità5.
2. Nel suo saggio de Sousa Santos traccia quindi le linee della crisi della cultura della
modernità e i primi contorni della transizione culturale postmoderna in atto. Tale
transizione, che è epistemologica e sociale, viene analizzata attraverso i tre concetti
chiave della sua riflessione critica: diritto, potere e scienza. A loro volta, come abbiamo
visto, tali concetti sono chiariti e discussi alla luce delle idee epistemologiche di
paradigma, transizione paradigmatica e senso comune.
Le linee del paradigma dominante della modernità e della transizione
5de Sousa Santos sembra condividere la stessa opinione espressa da Feyerabend (1982, 1984) a
proposito dell’infelicità prodotta dalla scienza.
4
paradigmatica in atto vengono tracciate nella prima parte del libro. Come abbiamo visto,
la transizione è duplice a causa dell’isomorfismo che de Sousa Santos individua tra lo
sviluppo della conoscenza scientifica e i percorsi del diritto in età moderna.
Nella seconda parte del libro l’autore si dedica a una serie di analisi sociologiche
del diritto allo scopo di illustrare la crisi del paradigma giuridico-politico dominante.
Egli analizza perciò tre ambiti spazio-temporali della legalità: località, nazionalità,
transnazionalità, adottando la prospettiva dei gruppi sociali oppressi. E sono proprio le
diverse forme di oppressione a richiedere (e definire) l’esigenza di una transizione
paradigmatica.
Nella terza parte, la profonda crisi della modernità viene ribadita attraverso la
delinenazione delle diverse forme di oppressione in cui tale crisi prende corpo, e la
definizione delle lotte sociali e dei mutamenti epistemologici che devono verificarsi in
un periodo di transizione paradigmatica come quello in cui stiamo entrando. Per tale
analisi egli utilizza, rifacendosi a Perelman (1969), un espediente retorico tipico della
cultura dell’età postmoderna: la metafora spaziale. Egli identifica perciò sei spazi
strutturali tipici delle società capitalistiche, e le tre principali forme di regolazione del
sociale: potere, conoscenza e diritto.
Infine, nella quarta parte del libro vengono delineati gli sforzi emancipatori della
transizione paradigmatica. Essi implicano, innanzi tutto, un atto di trasgressione
epistemologica. Per questo, egli riesuma e rivaluta il pensiero utopico, produzione
secondaria del pensiero di tradizione moderna. Da un lato, l’utopia dovrebbe, per così
dire, "reinventare" gli ambiti sociali dell’emancipazione, dall’altro, ridefinire la
soggettività individuale e collettiva in grado di far emergere e sostenere la capacità e la
volontà di affrontare la transizione paradigmatica, esplorando fino in fondo le
potenzialità emancipatorie del paradigma emergente.
Come si chiarirà meglio in seguito, delineando il processo storico attraverso cui
sia la scienza moderna che il diritto moderno hanno portato alla perdita di equilibrio tra
regolazione sociale ed emancipazione sociale, de Sousa Santos perora la causa di una
nuova retorica dialogica. A differenza della nuova retorica di Perelman, che rivaluta
(come vedremo) l’argomentazione rispetto al ragionamento classico di tipo induttivo e
deduttivo, la nuova retorica dialogica ha a che fare con le topiche del diritto degli
oppressi, della transnazionalizzazione dello stato, della globalizzazione del diritto, e con
una concezione multiculturale dei diritti umani, quindi con nuovi modi di produzione
del potere sociale concepiti quali alternative alla dicotomia stato liberale/società civile.
Il percorso critico di de Sousa Santos si conclude con un capitolo «di rottura»
sull’utopia e sulle tre metafore (o metasimboli) rappresentative della nuova soggettività
emancipatoria: frontiera, barocco e Sud.
2.1. Prendiamo ora in considerazione i punti salienti delle quattro sezioni del testo.
Come abbiamo visto, la crisi del vecchio paradigma porta con sé il profilo del
paradigma emergente. Nella prima parte del testo, anticipando le proprie conclusioni,
l’autore descrive un nuovo paradigma che, a scapito del rigore scientifico, può essere
concepito solo come «conoscenza prudente per una vita decente» (prudent knowledge
for a decent life). Il paradigma emergente, infatti, non può essere semplicemente e
puramente scientifico, ma deve essere anche sociale. Esso si sostiene quindi su un tipo
di senso comune che privilegia la soggettività rispetto all’oggettività, il variegato e il
mutevole all’eterno e immutabile.
Se analizzata dal punto di vista degli oppressi, infatti, la scienza moderna appare
5
essenzialmente etnocentrica, androcentrica, e in netta opposizione al senso comune
considerato come mera opinione o pregiudizio. Nella transizione paradigmatica in atto
deve perciò avvenire una rottura epistemologica che trasformi la conoscenza scientifica
in un nuovo senso comune capace di arricchire le nostre relazioni col mondo. La
nozione stessa di senso comune deve quindi subire una trasformazione: contro la
tendenza conservatrice del senso comune moderno, quello postmoderno sarà «retorico e
metaforico» e, una volta trasformato dalla conoscenza emancipatoria postmoderna,
potrà essere la fonte di una nuova forma di razionalità. Non solo: favorirà l’azione, e
dovrà essere strumento di emancipazione di oppressi ed emarginati.
Dato che, come sostiene l’autore, ogni comunità culturale o sociale possiede un
proprio ambito retorico in cui si sviluppa un senso comune, poiché nella società
moderna capitalistica si possono individuare sei spazi strutturali in cui essa si dispiega
— vale a dire "casa", "lavoro", "mercato", "città", "comunità" e "mondo" —, a questi
spazi devono corrispondere sei sensi comuni come nuove forme di conoscenza
emancipatoria postmoderna. Questi sei sensi comuni sono caratterizzati in senso etico
dal principio di solidarietà (che è l’aspetto "inconcluso" del principio di comunità del
paradigma moderno), e, in senso politico, dall’idea di partecipazione, in quanto se la
politica in età moderna è stata confinata alla città, e se il diritto è stato confinato al
diritto dello stato, la retorica postmoderna dovrà mettere in discussione questa idea
restrittiva di politica e questa idea assolutista di diritto.
Del resto, l’analisi dettagliata del capitalismo, il cui sviluppo è scandito
dall’autore in tre periodi — capitalismo «liberale», capitalismo "organizzato" e
capitalismo "disorganizzato" —, evidenzia il fallimento di tutte le promesse
capitalistiche, quali la distribuzione dei benefici sociali e un sistema politico stabile e
relativamente democratico. Nel capitalismo disorganizzato, che decorre dagli anni
Sessanta fino ai giorni nostri, si riconoscono l’aumento del mercato mondiale e
l’emergere del sistema di produzione mondiale, che minacciano la capacità dello stato di
regolare il mercato al livello nazionale. Lo stato sembra quindi aver perso lo status di
unità privilegiata di analisi, pratica e sociale. Su scala mondiale, ciò ha comportato una
disparità sempre più accentuata tra Nord e Sud, tra sviluppo e sottosviluppo, tra regioni
di frontiera (i margini del mondo) e regioni centrali (il cuore del mondo); quindi, oltre
alla disparità tra Nord e Sud, la discriminazione tra Ovest ed Est.
Se lo sviluppo del capitalismo promosso dal liberalismo è stato reso possibile
dalla promozione e dal controllo degli stati nazionali — tanto che lo stato costituzionale
del XIX secolo fu concepito come una macchina perfetta di ingegneria sociale —,
l’intensificazione delle interazioni transnazionali degli ultimi vent’anni ha rafforzato la
concezione alternativa (che appartiene soprattutto a storici e scienziati sociali come
Braudel (1979) e Wallerstein (1991)) secondo cui le società nazionali devono essere
intese come parti di un sistema molto più ampio, le cui dinamiche interne rendono
ragione della trasformazione sociale delle società nazionali. Quindi, la transizione
paradigmatica è un ampio processo storico, analizzato dall’autore nei suoi aspetti
epistemologici, sociali, e politico-culturali in genere, che trova nel diritto moderno un
punto di vista strategico da cui analizzare la sociologia di tale transizione, in vista del
più volte sottolineato isomorfismo tra diritto e scienza moderna. La crisi paradigmatica
della scienza moderna è quindi tale da coinvolgere la crisi paradigmatica del diritto
moderno. Le condizioni dell’una non sono, ovviamente, quella dell’altra, ma le due crisi
insieme possono far luce sui termini e sulle direzioni possibili della transizione verso un
nuovo paradigma sociale.
6
2.2. Nella seconda parte, de Sousa Santos analizza gli ambiti spaziotemporali del diritto:
località, nazionalità, transnazionalità. Se la nazionalità, intesa come stato nazionale, è
la dimensione esclusiva del diritto moderno — poiché la teoria politica liberale
stabilisce l’equazione tra nazione, stato e diritto —, località e transnazionalità sono le
due dimensioni alternative del diritto. Tutta la seconda parte del libro è dedicata
all’analisi di tali alternative nelle loro relazioni con la nazionalità. Nelle società attuali e
nel sistema mondiale la realtà giuridica appare infatti molto più complessa di quanto
non appaia al pensiero politico liberale, e si presenta come una "costellazione" di
differenti legalità che operano ai livelli locale o infrastatale, nazionale e transnazionale.
L’ampio concetto di diritto adottato dall’autore, e l’idea che tre sono le dimensioni
spaziotemporali del diritto, portano a concludere che, in realtà, le società moderne sono,
in termini sociologici, formazioni giuridiche o costellazioni giuridiche. Esse non sono
costituite da un unico ordine giuridico, ma da una pluralità di ordini giuridici
differentemente interrelati. Ciò, ovviamente, solleva il problema del pluralismo
giuridico, cui si associa l’idea che in una singola unità politica operi più di un ordine
giuridico.
A partire dalla distinzione operata da Merry (1988) tra due tipi di pluralismo —
quello post-coloniale e quello delle società capitalistiche moderne —, de Sousa Santos
sostiene che stiamo entrando in un terzo tipo di pluralismo, quello postmoderno. Esso si
configura come un dibattito tra ordini giuridici soprastatali-transnazionali che
coesistono nel sistema del mondo con gli ordini giuridici statali e infrastatali. A
esemplificare questa realtà pluralistica interviene la ricerca empirica. Il Capitolo 3 è
infatti interamente costituito dall’analisi di un case study: la situazione giuridico-sociale
di Pasargada, nome fittizio di un quartiere abusivo (favela) realmente esistente di Rio de
Janeiro, in cui vivono le classi popolari. A causa dell’inaccessibilità strutturale del
sistema giuridico, in Pasargada si sono create strategie di adattamento volte ad
assicurare per le relazioni comunitarie una condizione minimale di ordine sociale. Si
tratta di una legalità interna, infrastatale o locale, parallela a, ma a volte confliggente
con, quella dello stato. L’indagine sociologica condotta dall’autore attraverso
un’osservazione partecipante evidenzia appunto, secondo la prospettiva del pluralismo
giuridico, le relazioni che tale legalità infrastatale-locale intrattiene col sistema giuridico
ufficiale brasiliano.
De Sousa Santos analizza in seconda istanza lo spazio-tempo soprastataletransanzionale, vale a dire la dimensione in cui la produzione giuridica dello stato è
messa in dubbio non tanto dalla presenza della giuridicità infrastatale, ma piuttosto dalla
penetrazione, nell’ambito giuridico nazionale, di forme giuridiche transnazionali che si
dispiegano in complesse relazioni sia con l’ordine giuridico statale, sia con gli ordini
giuridici locali. In direzione opposta alla ricerca su Pasargada, l’autore compie quindi
un’analisi dei fenomeni di globalizzazione dell’ambito giuridico degli ultimi trent’anni,
fenomeni completamente nuovi e senza radici nel passato6.
Connessi ai diversi processi di globalizzazione sono i movimenti di frontiera, e
quindi tutti i problemi riguardanti i lavoratori immigrati, anche clandestini, i rifugiati
6I fenomeni e i processi di globalizzazione sono analizzati dall’autore in maniera assai approfondita
(de Sousa Santos 1995, 251- 377). Egli distingue, in particolare, tra diversi processi di globalizzazione,
chiamati globalized localism, localized globalism, cosmopolitanism e common heritage of humankind. Si
veda specialmente lo schema di p. 275.
7
politici e in cerca d’asilo. Questi problemi vengono ricondotti al dualismo
discriminatorio Nord-Sud e al tema dei diritti umani (cfr. de Sousa Santos 1997)7. De
Sousa Santos afferma che, nel contesto europeo, il tema dei diritti umani era al centro
degli sviluppi emancipatori del diritto moderno. Concettualmente, i diritti umani
simbolizzano la più alta consapevolezza emancipatoria del diritto e della politica
moderni, e sono intrinsecamente utopistici. Ma le recenti trasformazioni del sistema
interstatale (world system) rendono necessario un nuovo approccio ai diritti umani. Se il
sistema mondiale sta entrando in un periodo di transizione paradigmatica, è necessaria
una nuova politica dei diritti. Anche questa analisi, assai sentita e puntuale, ruota
comunque attorno al fondamentale fenomeno della progressiva erosione del concetto di
sovranità nazionale.
Infine, dopo Pasargada come esempio della dimensione locale o infrastatale del
giuridico, nelle sue relazioni col diritto statale nazionale, e dopo l’analisi dei processi di
transnazionalizzazione del diritto, con le sue ripercussioni nella giuridicità nazionale, de
Sousa Santos analizza lo spazio giuridico dello stato nelle sue relazioni con la
dimensione locale e transnazionale, mediante un ulteriore case study: la città brasiliana
di Recife.
2.3. L’ortodossia della modernità capitalistica, caratterizzata dalla riduzione della
conoscenza alla scienza, del diritto al diritto dello stato e dei poteri sociali alle politiche
liberali, è messa in discussione dall’autore. Alla pluralità delle forme di diritto
corrisponde una pluralità di forme di conoscenza e di potere caratterizzanti la vita
sociale. L’analisi delle tre dimensioni spaziotemporali del giuridico (località, nazionalità
e transnazionalità), e l’identificazione di una pluralità di ordini giuridici, oggetto della
seconda parte, continua nella terza, in cui viene tracciata una vera e propria
«cartografia» delle società capitalistiche, considerate come formazioni o costellazioni
politiche. Esse sono costituite da sei fondamentali modi di produzione di potere, che
generano sei forme di potere. Le società capitalistiche sono anche formazioni o
costellazioni giuridiche, costituite da sei fondamentali modi di produzione di diritto che
generano sei forme di diritto. In terzo luogo, le società capitalistiche sono formazioni
epistemologiche costituite da sei modi di produzione di conoscenza, che generano sei
forme di conoscenza8. Ovviamente, si tratta dei sei luoghi strutturali di produzione di
potere, diritto e conoscenza delle società capitalistiche, già identificati come
Householdplace, Workplace, Marketplace, Communityplace, Citizenplace, Worldplace.
La caratterizzazione dei luoghi strutturali delle società capitalistiche è intesa a
sottolineare le dimensioni di disuguaglianza e oppressione raggiunte dalle società
capitalistiche contemporanee e nell’intero sistema mondiale, nonché a far emergere
nuovi possibili ambiti per importanti lotte emancipatorie. Del resto, oppressione e
diseguaglianza sono l’esito ultimo di quel dualismo che de Sousa Santos ritiene
costitutivo del pensiero moderno occidentale, vale a dire il dualismo stato/società civile.
Contro questa dicotomia, la stuttura analitica proposta dall’autore risponde allo scopo di
dar rilievo, appunto, al communityplace, ovvero al principio della comunità
7Diritti umani e multiculturalismo sono oggetto di un recente articolo dell’autore comparso su
Sociologia del diritto 1(1997), in cui viene ripresa l'analisi dei processi di globalizzazione, secondo le
distinzioni di cui alla nota precedente.
8Tale cartografia è sintetizzata ed esposta, in forma di vera e propria mappa, in de Sousa Santos
1995, 417.
8
praticamente annullato dal principio dello stato moderno. La comunità deve infatti
essere considerata come luogo autonomo di relazioni sociali irriducibili alle relazioni
coalizzate dallo stato.
La costituzione di un nuovo senso comune giuridico è la sfida che si pone
all’attenzione in questa epoca di transizione paradigmatica. Infatti, per quanto riguarda
le diverse forme di conoscenza, de Sousa Santos vede i sei luoghi strutturali come
ambiti topici (topic fields) con sensi comuni specifici. E poiché la scienza è la forma
privilegiata di conoscenza dello stato, il compito della teoria critica postmoderna è
promuovere, attraverso la nuova retorica dialogica, sensi comuni contrari a quello
egemonico. Si tratta di sensi comuni emancipatori, che si sviluppano in ognuna delle sei
dimensioni del sociale, e che, è bene ribadirlo, devono essere improntati a una
"conoscenza prudente per una vita decente". Una razionalità debole, potremmo dire, non
egemonica, che lascia spazio a forme emancipatorie volte a un miglioramento della vita
e delle condizioni umane. Inoltre, se lo stato moderno assume il diritto come operante su
un’unica scala, quella dello stato, de Sousa Santos avanza una concezione alternativa
consistente in una pluralità di ordini giuridici che include, oltre il diritto nazionale o
dello stato, il diritto locale o infrastatale e i diritti transnazionali o soprastatali. L’intento
dell’autore è quindi offrire alla sociologia del diritto strumenti di comprensione della
realtà giuridica tipica del pluralismo.
2.4. Come abbiamo già più volte osservato, la transizione paradigmatica in atto è
epistemologica oltre che sociale. In quanto transizione epistemologica, essa si
caratterizza come passaggio dalla scienza moderna a un nuovo tipo di senso comune
emancipatorio — chiamato prudent knowledge for a decent life —, mentre come
transizione sociale si configura quale passaggio da un sistema capitalistico ingiusto a un
nuovo paradigma in grado di reinterpretare le lotte emancipatorie dei gruppi sociali
oppressi. Se ingiustizia e oppressione sono riprodotte nelle società capitalistiche a causa
del collassare della emancipazione sulla regolazione, e se tutte le soluzioni
emancipatorie approntate dalla modernità sono presto degenerate in nuovi strumenti di
regolazione, occorre un nuovo paradigma che rigeneri e rinvigorisca le spinte
emancipatorie alla luce dei problemi della società postmoderna.
Contro l’egemonia della razionalizzazione scientifica che, allontanandosi dai
problemi dell’uomo, lo ha reso schiavo anzichè emanciparlo dai propri limiti, la
soluzione intravista da de Sousa Santos è la creazione di nuove forme di conoscenza
basate su una nuova retorica dialogica che si costituisca essa stessa come emancipatoria
— ovvero come una topica di nuovi sensi comuni emancipatori. Lo scopo del percorso
critico-analitico dell’autore è il duplice rinvenimento, preteso dalla transizione
paradigmatica stessa, di un nuovo senso comune emancipatorio e di una nuova
soggettività, individuale e collettiva, dotata di volontà e capacità di emancipazione. A
tale rinvenimento è dedicato il capitolo conclusivo dell’opera, la quarta sezione del
testo. Per adempiere a tale compito non è sufficiente la critica del paradigma moderno
dominante, ma è necessario ricorrere, secondo l’autore, all’utopia, dove per utopia si
deve intendere "l’esplorazione, condotta attraverso l’immaginazione, di nuove
possibilità e stili di volontà umani, cui si accompagna il confronto, attraverso
l’immaginazione, con la necessità di ciò che esiste — proprio in quanto esiste — in
nome di qualcosa di radicalmente migliore, cioè un valore per cui si combatte, e cui
l’umanità ha pieno diritto" (de Sousa Santos 1995, 479).
Sebbene il pensiero utopico attraversi la cultura occidentale da Tommaso Moro
9
alle utopie socialiste del XIX secolo, tale pensiero è stato oscurato dal progresso della
scienza moderna e dalla conseguente razionalizzazione della vita sociale. Dopo la
retorica, quindi, recuperata quale parte secondaria della produzione culturale della
modernità, l’utopia. A entrambe spetta il compito di determinare il senso comune
caratterizzante la transizione paradigmatica e le sue spinte emancipatorie.
Parafrasando Cassirer (1960; 1963) e Toulmin (1990), de Sousa Santos afferma
che le due condizioni per l’utopia sono una nuova epistemologia e una nuova
psicologia. In quanto nuova epistemologia, l’utopia respinge la chiusura dell’orizzonte
di aspettative e possibilità note per offrire possibilità alternative; in quanto nuova
psicologia, rifiuta la soggettività della conformità e crea una soggettività dotata della
volontà di lottare per tali alternative. Inoltre, poiché la transizione paradigmatica è
duplice (epistemologica e sociale), essa ha un compito duplice: ridefinire i percorsi
dell’emancipazione sociale e la soggettività in grado di intraprenderli. Secondo l’autore
è quindi lecito parlare non tanto di un paradigma emergente, ma di "frammenti
preparadigmatici" accomunati dall’idea che il paradigma della modernità ha esaurito le
sue risorse. Questi frammenti costituiscono un paradigma solamente "virtuale", in
quanto non vi è certezza alcuna che al paradigma moderno se ne sostituisca uno
altrettanto totalizzante e coerente. Ciò che unisce le due transizioni è comunque il
concetto di soggettività; in altre parole, il lato emancipatorio della competizione tra il
vecchio e il nuovo paradigma è la costruzione paradigmatica del genere di soggettività
capace di, e intenzionato a, esplorare le possibilità emancipatorie della transizione
paradigmatica, un tipo di soggettività improntato alla "conoscenza prudente per una vita
decente".
De Sousa Santos distingue perciò sei forme di emancipazione sociale che
corrispondono alle sei forme di regolazione sociale. Queste sei forme di emancipazione
e le corrispondenti lotte emancipatorie sono però da intendersi come punti di partenza, e
non di arrivo, per pensare la transizione paradigmatica. La contraddizione e la
competizione tra il paradigma dominante e quello emergente si verificano al livello di
ognuno dei luoghi strutturali. L’attenzione dell’autore è focalizzata, ovviamente, sul
paradigma sociale emergente, e sullo specifico senso comune costruito attraverso la
topica retorica di volta in volta operante — in cui i topoi di democrazia e solidarietà
hanno una parte predominante. Vediamoli in sintesi.
Nell’householdplace, contraddizione e competizione si danno tra il paradigma
della famiglia patriarcale e il paradigma delle comunità domestiche basate sulla
eliminazione di ruoli stereotipati. Il nuovo senso comune emancipatorio è basato sulla
retorica guidata dai topoi di democrazia, cooperazione effettiva tra ruoli, e liberazione
della donna.
Nel workplace contraddizione e competizione si svolgono tra il paradigma
dell’espansionismo capitalistico e quello che fa capo a un nuovo senso comune
emancipatorio basato sul socialismo ecologico e sull’antiproduttivismo.
Nel marketplace, contraddizione e competizione si instaurano tra il paradigma
del consumismo individualistico e quello dei bisogni umani. Nel paradigma emergente il
mercato è solo una delle forme di organizzazione e consumo, e i bisogni sono concepiti
come esperienze soggettive che possono essere espresse in modi molto diversi a
secondo dei contesti e delle culture.
Nel communityplace contraddizione e competizione hanno luogo tra le comunità
esclusive che basano la loro identificazione sulla chiusura esterna, e che sono costituite
da gruppi sociali dominanti che danno per presupposta la loro superiorità a scapito
10
dell’inferiorità dei rimanenti, e le comunità che hanno identità multipla, inconclusa e
indefinita, aperta verso le altre, e in cerca di paragoni interculturali per un più profondo
significato della dignità umana.
Nel citizenplace contraddizione e competizione si danno tra il paradigma della
democrazia autoritaria, fondata su un obbligo politico verticale tra cittadino e stato, e
orizzontale tra cittadini e associazioni, e il paradigma emergente, che consiste nelle lotte
per le sei forme di democrazia che corrispondono ai sei luoghi strutturali. Ogni forma
democratica rappresenta una specifica articolazione tra obbligo politico verticale e
obbligo politico orizzontale; ogni forma democratica possiede la propria concezione di
diritti, cittadinanza, rappresentazione e partecipazione.
Infine, nel worldplace la contraddizione paradigmatica si sviluppa tra il
paradigma dello sviluppo diseguale e della sovranità esclusiva, e il paradigma dello
sviluppo democraticamente sostenuto e sovranità reciprocamente permeabile. Dal punto
di vista del paradigma emergente, la disparità Nord-Sud e lo sviluppo capitalistico
espansionistico su cui essa si basa costituiscono, nel panorama mondiale odierno, la più
massiccia violazione dei diritti. Secondo il paradigma emergente, tale disparità può
essere abolita solo attraverso un nuovo modello di sviluppo comunitario democratico,
che presuppone a propria volta un nuovo sistema di relazioni internazionali e
transnazionali. Nel nuovo modello la sovranità cessa di essere esclusiva e assoluta per
diventare reciproca e permeabile.
La soggettività emergente nel periodo di transizione rivaluta infatti le frontiere.
La frontiera è il simbolo di una forma privilegiata di socialità. La soggettività di
frontiera è nella posizione migliore per valutare le forme di oppressione che il centro del
mondo riproduce ai suoi margini per mezzo delle strategie capitalistiche egemoniche.
La soggettività della transizione paradigmatica è anche una soggettività barocca.
Tale aggettivo è ovviamente da intendersi in senso metaforico. Come la metafora della
frontiera, dei confini contrapposti al centro, il barocco esprime quel tipo di soggettività
capace di esplorare le potenzialità emancipatorie della transizione paradigmatica. La
soggettività barocca rifiuta la distinzione tra apparenza e realtà su cui è basata la scienza
moderna. Se la razionalità moderna condanna, in particolare dopo Cartesio, le emozioni
e le passioni quali ostacoli al progresso della conoscenza e della verità, esse devono
essere recuperate dal nuovo paradigma come forme di conoscenza.
Il Sud è il terzo topos che de Sousa Santos propone per la costituzione della
soggettività della transizione. Egli vede nel Sud una sorta di metatopos, un metasimbolo
che presiede alla costituzione di un nuovo, etico senso comune. Come la frontiera e il
barocco, il Sud è inteso come metafora culturale, ovvero come topos privilegiato in cui
rinvenire le energie emancipatorie e la soggettività caratterizzanti la postmodernità. Il
Sud (come l’Est) è un prodotto dell’imperialismo e del capitalismo, che ha creato la
doppia gerarchia tra Ovest-Est, e Nord-Sud, e in cui Est e Sud sono in posizione
marginale e subordinata. Mentre l’Est suggerisce l’idea di una subordinazone culturale e
sociale, il Sud suggerisce soprattutto l’idea di una subordinazione di tipo economico. In
quanto regioni periferiche del sistema del mondo, l’Est e il Sud diventano vittime della
dominazione sia culturale che economica da parte dell’Ovest e del Nord. Stando a
fondamento della metafora della soggettività emergente, il Sud è concepito come
simbolo delle forme di subordinazione e dominazione proprie del sistema capitalistico
della modernità imperialistica (espropriazione, diseguaglianza, sofferenza umana); è il
terzo mondo che si sviluppa in seno alle regioni centrali del mondo capitalistico, e in cui
si generano forme estreme di disuguaglianza e oppressione.
11
La soggettività emergente fiorisce quindi nel Sud. Essa costituisce il momento
solidaristico nella costituzione di una topica per l’emancipazione, e incarna la capacità e
la volontà di un vasto esercizio solidaristico che presiede alla eliminazione di ogni
gerarchia e di ogni subordinazione. I metasimboli rappresentati da frontiera, barocco e
Sud caratterizzano la soggettività volta a esplorare le potenzialità emancipatorie della
transizione paradigmatica. Nessuno di questi metasimboli può dirsi esclusivo. Al
contrario, la soggettività emergente è una combinazione dei tre. Entro ognuno dei sei
spazi strutturali, tale soggettività, costituita da una costellazione specifica dei tre
simboli, è causa di contraddizione e competizione paradigmatica.
Retorica e utopia, quindi, quali tradizioni marginali della cultura moderna e nelle
nuove accezioni indicate dall’autore, costituiscono gli strumenti per descrivere i compiti
emancipatori implicati dalla transizione paradigmatica. Il collasso dell’ordine esistente
pone infatti l’opportunità di lanciare una sfida verso una emancipazione autentica. Tale
sfida non si baserà su un nuovo pensiero illuminato, ma sul semplice senso comune, in
grado di cogliere e risolvere pragmaticamente i problemi caratterizzanti la transizione
paradigmatica postmoderna. Ma costruire una tale utopia come senso comune
pragmatico non è facile, né si può dire che tale costruzione sia un compito completato
una volta per tutte.
3. E’ ora possibile tentare alcune considerazioni critiche rivolte in particolare ai
presupposti concettuali e metodologici delle tesi dell’autore.
Innanzi tutto, la terminologia di de Sousa Santos, in cui predominano i concetti
di paradigma e transizione paradigmatica, induce a un inevitabile raffronto con la teoria
epistemologica che ha dato origine a tali concetti. L’ovvio riferimento è Thomas Kuhn
(1962). La mutuazione di questa terminologia, che originariamente si riferisce in modo
esclusivo all’ambito epistemologico, può offrire comunque il destro per qualche
osservazione rivelatrice.
In tale saggio, geniale e per i tempi innovativo9, Kuhn sostiene che il procedere
della scienza non è lineare né cumulativo, ma è un procedere attraverso rivoluzioni e
rotture paradigmatiche. In sostanza, Kuhn sostiene che vi sono particolari schemi
concettuali che assurgono al ruolo di paradigmi condivisi da più teorie, e che
costituiscono modelli e regole (nel senso più ampio del termine) dell’attività scientifica.
Esempi di paradigmi sono l’analisi aristotelica del movimento, il calcolo tolemaico della
posizione dei pianeti, la teoria elettromagnetica, la chimica di Lavoisier, la gravità di
Newton, e così via. Se una teoria scientifica è un modo di interpretare il mondo, il
paradigma in cui essa è calata è un criterio per selezionare i problemi che sono ritenuti
solubili. Il paradigma è quindi qualcosa di sovraordinato rispetto a leggi, concetti e
teorie scientifiche. Lo status dei paradigmi è uno status di priorità rispetto a regole e
assunti largamente condivisi. Non tutte le teorie scientifiche, infatti, sono teorie
paradigmatiche.
Di fronte a novità fondamentali, l’atteggiamento della scienza è per sua natura
conservatore, e solo quando non è più possibile resistere agli assalti di tali novità, nuovi
schemi si sostituiscono a quelli vecchi e nasce una nuova scienza, incompatibile e
9La teoria epistemologica di Kuhn è stata da molti accomunata al carattere altrettanto innovativo
dell’epistemologia "anarchica" di Feyerabend 1982.
12
incommensurabile con quella alla quale si sostituisce10. Le conseguenze più immediate
sono il cambiamento dei problemi da proporre all’indagine conoscitiva, e il
cambiamento dei criteri con i quali la scienza stabilisce che cosa si deve considerare
come problema ammissibile o come soluzione legittima. Infatti, ogni rivoluzione
scientifica, ogni passaggio a un paradigma nuovo, trasforma il punto di vista sul mondo,
e, di fatto, il mondo su cui indaga. Paradigmi successivi ci dicono cose differenti sugli
oggetti che popolano il mondo, e determinano i metodi, i problemi, e i modelli di
soluzione accettati. Ogni transizione da un paradigma all’altro implica quindi una nuova
ontologia, una nuova metodologia e una nuova etica. Ma su questo punto dovremo
ritornare.
Se per paradigma si intende comunemente un modello o uno schema accettato in
modo assai restrittivo (in modo "analogo a un verdetto giuridico accettato", dice Kuhn)
per risolvere i problemi che si presentano all’attenzione della scienza, vi sono comunque
problemi straordinari che sfuggono alla soluzione e quindi al paradigma vigente. In
riferimento all’analisi di de Sousa Santos questi sono i più importanti. Per Kuhn essi
emergono in circostanze speciali prodotte dal progresso della ricerca. Per de Sousa
Santos, sono i problemi che sfuggono al paradigma della modernità e che sono nati al
suo stesso interno, come degenerazione di esso e come conseguenza del collassare delle
spinte emancipatorie su quelle della regolazione; quegli stessi problemi che causano la
crisi del paradigma moderno e la conseguente transizione praradigmatica postmoderna.
Se la scienza è per lo più portata ad accantonare problemi e fatti straordinari in
nome della "normalità" della ricerca, la diserzione dal paradigma provoca quella che
Kuhn chiama rivoluzione scientifica11. Infatti, una volta raggiunto lo status di
paradigma, una teoria scientifica è dichiarata invalida solo se esiste un’alternativa
disponibile che ne prenda il posto. La decisione di abbandonare una teoria è perciò
sempre, al tempo stesso, la decisione di accettarne un’altra. Abbandonare un paradigma
senza sostituirgliene un altro equivale ad abbandonare la scienza stessa.
La transizione da un paradigma in crisi a uno nuovo si configura come
un’articolazione del campo di indagine su nuove basi. Durante il periodo di transizione
vi sarà una sovrapposizione abbastanza ampia, ma mai completa, tra i problemi che
possono venir risolti col vecchio paradigma e quelli che possono essere risolti col
nuovo, ma vi sarà anche una netta differenza nei rispettivi modi di risolverli. La
tradizione della scienza che emerge dopo una rivoluzione scientifica non è quindi solo
incompatibile, ma spesso di fatto incommensurabile, cioè inconfrontabile, con quella
che l’ha preceduta. Da questo punto di vista, l’analisi della competizione e opposizione
tipiche della transizione paradigmatica da parte di de Sousa Santos sembra essere
10Questo modo di concepire il passaggio da una scienza a un’altra è paragonabile alla posizione
espressa da Feyerabend 1982. Egli sostiene che in ambito scientifico il mutamento determinato dal
progresso si configura sempre come passaggio da un punto di vista costituito da una teoria (o sistema di
riferimento, o cosmo, o modo di rappresentazione), i cui elementi (sia fatti che concetti) si combinano con
principi di costruzione, a un diverso sistema di riferimento, che col primo non condivide né concetti, né
oggetti, né linguaggio, né principi fondamentali. Una nuova scoperta appare quindi "incommensurabile"
col sistema di riferimento dato, perché scoprire qualcosa significa violare i principi della teoria senza
necessariamente contraddirli, ma, piuttosto, "sospendendoli". Come egli stesso scrive, "la consuetudine è
sospesa", e ciò rende la teoria scientifica precedente intraducibile, "incommensurabile" con la nuova. A
ogni nuova teoria corrisponde perciò una specifica visione del mondo.
11Come casi particolarmente famosi di rivoluzione scientifica o mutamento di paradigma Kuhn
indica la nascita della astronomia copernicana che soppiantò il sistema tolemaico, oppure la crisi che si
verificò nella fisica alla fine del XIX secolo e che preparò la via all’emergere della teoria della relatività.
13
coerente con gli assunti di Kuhn.
Il raffronto con Kuhn non intende verificare se l’uso di certi schemi concettuali
da parte di de Sousa Santos è corretto dal punto di vista della teoria di Kuhn.
Quest’ultima, del resto, è stata concepita come teoria delle rivoluzioni scientifiche,
mentre l’analisi della transizione dalla scienza moderna a quella postmoderna è solo uno
degli aspetti della transizione paradigmatica delineata da de Sousa Santos, il cui scopo è
offrire strumenti di comprensione della realtà giuridico-sociale tipica del pluralismo. Il
riferimento a Kuhn si giustifica invece con l’indagine sulla plausibilità, o meno, di
considerare la modernità, e con essa la postmodernità, come paradigmi. Infatti, anche
ammettendo un uso metaforico della terminologia di Kuhn, e quindi una legittima
latitudine nell’uso dei termini ‘paradigma’ e ‘transizione paradigmatica’, è opportuno
chiedersi se l’analisi sociologica di de Sousa Santos raggiunga lo scopo che si è prefissa.
Torniamo ad Harvey (1990). Egli parla della postmodernità come di una
reazione alla (o allontanamento dalla) modernità. Se la modernità è vista come
positivistica, tecnocentrica, razionalistica, come fede nel progresso lineare, nelle verità
assolute e universali, come pianificazione razionale di ordini sociali, come
standardizzazione della conoscenza e della produzione (tutti aspetti messi in luce da de
Sousa Santos), la postmodernità, al contrario, prediligerà eterogeneità e differenza come
forze liberatrici del discorso culturale. Frammentazione, indeterminatezza, sfiducia in
tutti i linguaggi totalizzanti o universali, enfasi posta sulla discontinuità, sulla pluralità,
il riemergere dell’etica, della preoccupazione per la validità e la dignità dell’"altro".
Anche queste considerazioni ricorrono nell’indagine di de Sousa Santos. La cultura
della società capitalistica avanzata ha infatti conosciuto un profondo cambiamento nella
struttura del sentire. Harvey afferma, per esempio, che la trasformazione culturale delle
società occidentali fa pensare non solo a un cambiamento del paradigma dell’ordine
culturale sociale ed economico, ma anche a un netto cambiamento di sensibilità, attività
e linguaggio. Tale mutato modo di sentire è conseguenza della crisi del pensiero
illuministico. La postmodernità può quindi essere concepita come una rottura radicale
con la modernità e i suoi presupposti imperialistici e universalizzanti. In essa emerge
l’idea che tutti i gruppi abbiano il diritto di parlare per sé, il che è essenziale per la
posizione pluralistica del postmodernismo; in tale concezione della postmodernità
possiamo infatti ritrovare considerazioni affini a quelle enunciate da de Sousa Santos.
Ma è anche vero che accettazione della frammentazione, del pluralismo,
dell’autenticità delle altre voci e degli altri mondi pone acutamente il problema della
comunicazione e della produzione di informazione e conoscenza. Il relativismo è il
pericolo che si affaccia, e che, ad esempio, porta Habermas a difendere il progetto
illuministico attraverso la rivendicazione "dolce" della ragione, che deve essere
riconosciuta ogniqualvolta vi sia azione consensuale (Habermas 1982). La "teoria
dell’agire comunicativo" di Habermas insiste sulle qualità dialogiche della
comunicazione umana in cui chi parla e chi ascolta sono necessariamente orientati al
compito della comprensione reciproca. Da questo processo, secondo Habermas,
emergono affermazioni consensuali e normative che instaurano il ruolo della ragione
universalizzante della vita quotidiana e scongiurano il relativismo.
La retorica dialogica, invece, reca come conseguenza la compresenza di sei
ambiti retorici che presiederebbero alla creazione di sei sensi comuni quali forme di
conoscenza proprie della transizione postmoderna. E’ difficile capire come diversità e
particolarismo di tali sensi comuni facciano della postmodernità un paradigma
condivisibile. Da un lato, infatti, vi è il pericolo di relativismo, dall’altro, l’alternativa
14
costituita da un discorso globalizzante e totalizzante al pari di quello della modernità, e
per questo non meno insidioso. de Sousa Santos ricorre infatti a certi metatopoi, o
metasimboli — sintetizzati nel metasimbolo per eccellenza che è il Sud —facendo quasi
intendere che, al pari della modernità, anche la postmodernità privilegia la
metanarrazione e i metalinguaggi alle narrazioni e ai linguaggi-oggetto particolari. Ma
in ogni caso, se modernità e postmodernità sono orizzonti culturali complessi, modi di
sentire, «atmosfere» che vedono al loro interno complesse articolazioni di tendenze,
esperienze e costruzioni concettuali, possono essere definiti paradigmi?
Non meno difficoltoso è capire come il senso comune postmoderno (prudent
knowledge for a decent life), per quanto pragmatico, possa di per sè costituire un
paradigma, che è un modo per risolvere problemi. L’uso sistematico e il ricorrere
frequente di questo concetto teorico nell’analisi di de Sousa Santos legittima a operare
un confronto tra questo stesso uso e la definizione di paradigma di Kuhn. Un senso
comune come modo di sentire non è un paradigma, ovvero un modo di risolvere
problemi reali, se non in un senso molto lato. Piuttosto, potremmo considerare la
modernità come una costellazione di paradigmi: alcune teorie scientifiche, lo statalismo,
il costituzionalismo o il marxismo, ad esempio, potrebbero costituire i paradigmi in
senso stretto che rientrano in quell’orizzonte culturale che è la modernità, e,
analogamente, potremmo vedere la postmodernità come formazione o costellazione di
paradigmi — sempre che, lo ripetiamo, si decida dell’opportunità di chiamare la
postmodernità paradigma.
Ma anche ammettendo una certa latitudine del termine ‘paradigma’, o un uso
puramente esornativo della struttura concettuale kuhniana, rimane il problema che, se
modernità è un pardigma molto sfuggente in quanto non così unitario come lo stesso
autore ci dimostra, postmodernità lo è ancora di più, e rischia di non essere un
paradigma interpretativo affatto. de Sousa Santos ne parla infatti in termini utopici.
L’analisi della transizione paradigmatica condotta recuperando un prodotto del pensiero
moderno quale l’utopia sembra inficiarne lo stesso discorso metaforico. L’utopia è ciò
che non è, o non è ancora, o addirittura non sarà, e quindi i termini utopici, indicati
come antitesi della modernità e come caratterizzanti la transizione dal moderno al
postmoderno fanno cadere proprio l’opposizione dialettica della transizione stessa. Il
paradigma che deve sostituire quello vecchio deve già essere disponibile, non può essere
frutto dell’immaginazione, né un paradigma virtuale o un insieme di frammenti
preparadigmatici come lo concepisce de Sousa Santos.
4. Come analizzare, allora, la complessità della realtà postmoderna di transizione,
caratterizzata da opposizioni e competizioni dialettiche tra il vecchio paradigma e quello
emergente?
In sintesi, de Sousa Santos caratterizza la transizione paradigmatica come
contrapposizione dialettica da cui devono emergere gli sforzi e le energie emancipatorie,
ma in cui i termini delle diverse dicotomie rappresentanti il lato della novità vengono
rinvenuti attraverso gli strumenti della retorica dialogica ed espressi nei termini
dell’utopia. Inoltre, il pluralismo postmoderno è giuridico e sociale, e il senso comune,
o, meglio, i sensi comuni che ne scaturiscono sono la chiave interpretativa dei
cambiamenti sociali, politici e giuridici. Ma, come abbiamo visto, da un lato il pericolo
è la totale caduta nel relativismo e nel prospettivismo; dall’altro, la sostituzione di un
paradigma con un altro, che sembra operare lo stesso discorso totalizzante attraverso
l’imposizione e il prevalere del nuovo sul vecchio, assume la forma della ideologia.
15
Retorica e utopia, come strumenti di emancipazione, sembrano mutarsi in qualcosa di
diverso o addirittura pericoloso, dal momento che il lato pragmatico dell’innovazione
sembra annullato dal carattere metaforico o simbolico dell’utopia.
Forse la risposta può venire da due sociologi del diritto contemporanei, François
Ost e Michel van de Kerchove (1997), che analizzano la complessità del diritto e la
molteplicità e pluralità di codici d’interazione che hanno portato a una vera e propria
ricomposizione del paesaggio giuridico attuale, e lo fanno, anch’essi, in termini
"dialettici", in un senso che richiede di essere chiarito. Ost e van de Kerchove affermano
che la complessità del diritto è fatta di "paradossi" (per esempio, esso non ha accesso
diretto ai fatti che domina, le regole del gioco da esso instaurate per guidare i
comportamenti e pacificare i conflitti rappresentano esse stesse il rischio di un conflitto
permanente, la sua legittimità riposa tanto sul consenso di cui beneficia quanto sulla
possibilità del dissenso) (Ost e van de Kerchove 1997, 6-7) e di "coppie antinomiche"
(ad esempio soggettivo/oggettivo, normativismo/realismo e così via) (ibid., 10-3), e
sostengono che questo aspetto anomalo del diritto risulta appunto logicamente
paradossale se giudicato alla luce del pensiero classico, che si fonda sulla legge del terzo
escluso.
Ma per i due autori, la tensione dialettica tra i due poli della complessità del
giuridico non si riduce col prevalere di un polo sull’altro, poiché tutto è giocato
sull’articolazione sistematica delle coppie di opposizione. Ciò che si impone non appena
ci si sottrae al modo di vedere dicotomico tipico del pensiero classico, in nome della
pluralità dei punti di vista e della tensione dei due poli come verità della complessità
giuridica, è la posizione critica di Perelman. Pur avendo l’obiettivo fondamentale di
sostituire sia al ragionamento deduttivo che a quello induttivo classici il ragionamento
argomentativo, nel suo trattato sull’argomentazione Perelman combatte contro gli
assolutismi di ogni tipo, e si scaglia contro i dualismi in cui si negano vicendevolmente
ragione e immaginazione, ad esempio, oggettività e soggettività, scienza e opinione, e
così via (Perelman e Olbrechts-Tyteca 1958). Le opposizioni che Ost e van de Kerchove
prendono in considerazione sono invece quelle tipiche del diritto. Essi sostengono che
l’attualità giuridica impone di fare i conti con l’opposizione tra le teorie che professano
un monismo statico radicale, "e quelle che, al seguito di Gurvitch, pretendono di
osservare un pluralismo assolutamente orizzontale, senza alcuna preminenza dell’ordine
giuridico statale" (Ost e van de Kerchove 1997, 13). Per i due autori la verità sta nel
mezzo, e, in generale, risiede nella complessità, o "terza dimensione", dei fenomeni
giuridici. Tale natura ibrida è un prodotto dialettico, e costituisce la via d’uscita dal
piano bidimensionale in cui spesso il pensiero giuridico — ma non solo quello —
finisce per rinchiudersi.
Se per i due autori si tratta di dare spazio alla terza dimensione, forse intrinseca
alla complessità giuridica — ma, potremmo aggiungere, anche ai fenomeni sociali e
culturali di un periodo di —il tipo di opposizione che si instaura tra i due poli dialettici
esige, come essi stessi avvertono, un’attenta valutazione. Infatti, una scelta imperativa
tra l’uno o l’altro polo, e quindi il trionfo di una tesi a scapito della tesi antagonista,
eliminano la realtà paradossale e complessa del problema che si intende analizzare (si
tratti della paradossalità o complessità del diritto, come vogliono Ost e van de
Kerchove, o della complessità e competizione dialettica della transizione paradigmatica,
come nel nostro caso). Ma questa sembra, senza dubbio, la proposta di de Sousa Santos,
per il quale il nuovo paradigma deve sostituirsi al vecchio.
Se invece, come nel caso di Perelman, la soluzione sta nel non accordare verità
16
né a un polo né all’altro, la soluzione sembra costituita da una «terza via». Ma al pari
della scelta esclusiva di uno dei termini dell’opposizione, anche la rinuncia a entrambi, e
quindi il privilegiarne un terzo, equivale a occultare, o pretendere di superare, il
paradosso (Ibid.). Entrambe le soluzioni sono modi di liquidare il paradosso e la
complessità. In che modo, allora, renderne ragione? Per i due autori la risposta è la
dialettica, in un’accezione che deve ancora essere chiarita, mentre per de Sousa Santos,
che in modo analogo si chiede come rendere giustizia del pluralismo tipico della
transizione postmoderna, la soluzione, come sappiamo, riposa nella competizione tra le
tesi moderne e le antitesi postmoderne, e nel superamento del conflitto attraverso la
negazione della tesi. Ma gli esiti insidiosi di questa soluzione sono già stati accennati.
Ost e van de Kerchove, invece, propongono la dialettica come strumento di
analisi critica, intendendola però non come dialettica "statica" che giunge alla sintesi
quale soluzione di compromesso — tale sintesi conciliatrice finisce infatti per negare e
annullare quella tensione e quel dinamismo propri della storia in genere, e del diritto in
particolare —, ma, piuttosto, come dialettica "dinamica" o "senza sintesi", quale quella
proposta, ad esempio, da Merleau-Ponty (1964). Il suo principio è infatti il movimento
ricorsivo che si sviluppa fra i due poli in tensione, ed è forse lo strumento più efficace
per l’analisi e l’interpretazione della realtà di transizione in cui, appunto, due paradigmi
si trovano a competere (Ost e van de Kerchove 1997, 14).
Secondo Ost e van de Kerchove, tale dialettica senza sintesi può ambire al titolo
di "paradigma di una scienza critica del diritto". Ma, a questo punto, sembra che essa
possa ambire anche al titolo di "paradigma di una analisi critica della realtà pluralistica
della transizione postmoderna". Per Kuhn, come abbiamo visto, una struttura
concettuale assolve alla funzione di paradigma quando reca con sé un’ontologia, una
metodologia e un’etica. Tale è la dialettica "dinamica". La sua ontologia, infatti,
insegna, al pari di ciò che diceva Eraclito, la negatività di ogni cosa e la processualità
dell’essere. La sua metodologia, che consiste nel porre in tensione gli elementi
complementari e antagonisti, affermando che ogni stato contiene «virtualmente» il suo
altro, è in grado di assumere il rischio dell’inceretezza e della complessità della storia,
liberando la «potenza euristica» dei paradossi — liberando, potremmo dire, le
potenzialità emancipatorie occultate nelle tesi dal lato della modernità. La sua etica,
infine, contro ogni pretesa integralistica ideologica, mostra che le identità sono
"relative", e che le differenze non sono mai assolute (ibid., 15).
La dialettica senza sintesi invita al dialogo dei punti di vista più di quanto non
faccia la nuova retorica dialogica postmoderna. Questa infatti dà luogo a un nuovo
senso comune da cui non è facile dissociare pretese ideologiche, se non cadute nel
relativismo. Se la dialettica dinamica è indicata come lo strumento in grado di mettere in
luce la complessità del fenomeno giuridico, essa sembra capace di render conto
criticamente anche alla complessità sfuggente, piena di antagonismi, tensioni e
oscillazioni, della realtà (sociale, culturale e politica) della transizione postmoderna. Se
in essa convivono i paradigmi moderni in crisi e i paradigmi postmoderni emergenti,
qualunque soluzione che significasse semplice negazione del "vecchio", o individuasse
una sintesi quale terza via — poiché questo sembra essere il significato del nuovo senso
comune postmoderno — sarebbe, da un lato, ideologica, andando contro le intenzioni
dell’autore, e, dall’altro, negherebbe la tensione della transizione paradigmatica, come
del resto sembra fare lo strumento dell’utopia.
La tensione dialogica sembra quindi garantita più dalla dialettica dinamica che
dalla retorica. E non richiede di ricorrere allo strumento dell’utopia per sostituire al
17
vecchio paradigma quello nuovo. Se esso appartiene all’utopia, infatti, non è
effettivamente disponibile, e se non è effettivamente disponibile, assieme alla
cessazione della validità del paradigma obsoleto e non più servibile, cadrebbe la
possibilità di indagine critica della realtà di transizione. Cadrebbe la tensione della
transizione paradigmatica — che è ciò che la caratterizza in quanto tale — e con essa la
volontà pragmatica di cambiamento.
La dialettica senza sintesi di Ost e van de Kerchove, invece, in perfetta armonia
con la teorizzazione kuhniana mutuata da de Sousa Santos, sembra render ragione della
tensione e della contrapposizione paradigmatica di cui l’autore ci fornisce un così ampio
e articolato ritratto. La considerazione della competizione tra modernità e postmodernità
all’interno di ogni contrapposizione tra vecchio e nuovo dovrebbe portare non tanto a
riconoscere categorie nuove — ma non per questo meno totalizzanti di qualunque
paradigma —, ma a essere, in ogni momento, il tentativo di cogliere la dialettica del
cambiamento sociale, quindi un progetto del divenire piuttosto che dell’essere, un modo
per cercare l’unità nella diversità.
Riferimenti bibliografici
Braudel, F. 1979. Civilization matérielle, économie et capitalisme XV-XVIII siécle. Vol.
II. Paris: Armand Colin.
Cartesio. 1986. Discorso sul metodo. Ed. I. Cubeddu). Roma: Editori Riuniti. (ed. or.
1637)
Cassirer, E. 1960. The Philosophy of the Enlightenment. Boston: Beacon Press.
—. 1963. The Individual and the Cosmos in the Renaissance Philosophy. Oxford:
Blackwell.
Feyerabend, P. 1982. Contro il metodo. Milano: Feltrinelli.
—. 1984. Il realismo scientifico e l’autorità della scienza. Milano: Il Saggiatore.
Habermas, J. 1982. Theorie des kommunikativen Handelns. Frankfurt: Suhrkamp. (Trad.
it. 1986. Teoria dell’agire comunicativo. Bologna: Il Mulino).
—. 1983. Modernity: An Incomplete Project. In The Anti-aesthetic: Essays on
Postmodern Culture. Ed. H. Foster. Washington: Port Townsend.
Husserl, E. 1987. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale.
Milano: Il Saggiatore.
Harvey, D. 1990. La crisi della modernità. Milano: Il Saggiatore.
Kuhn, T. 1962. The Structure of Scientific Revolution. Chicago: The University of
Chicago Press. (Trad. it. 1978. La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Torino:
Einaudi).
—. 1969. Poscritto. In La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Torino: Einaudi: 209251, 1978.
Merleau-Ponty, M. 1964. Interrogation et Dialectique. In Le visible et l’invisible, Paris
1964.
Merry, S. 1988. Legal Pluralism. Law and Society Review 22: 869-896.
Ost F., M. van de Kerchove. 1997. Pensare la complessità del diritto per una teoria
dialettica. Sociologia del diritto XXIV, 1: 5-26.
Perelman, Ch. 1969. The New Rethoric: a Treatise on Argumentation. Notre Dame:
University of Notre Dame Press.
Perelman, Ch., L. Olbrechts-Tyteca. 1958. Traité de l’argumentation. La nouvelle
18
rhéthorique. Bruxelles. (Trad. it. 1966. Trattato sull’argomentazione. La nuova
retorica. Torino: Einaudi).
Rousseau, J.-J. 1972. Discorso sulle scienze e sulle arti. InOpere. Ed. di P. Rossi.
Firenze: Sansoni. (ed. or. 1750)
de Sousa Santos, B. 1995. Toward a New Common Sense. Law, Science and Politics in
the Paradigmatic Transition. London/New York: Routledge.
—. 1997. Toward a Multicultural Conception of Human Rights. Sociologia del diritto
XXIV/1: 27-45.
Toulmin, S. 1990. Cosmopolis. The Hidden Agenda of Modernity. New York: Free
Press.
Vico, G.B. 1971. Scienza Nuova. In Opere, Firenze: Sansoni. (ed. or. 1725)
Wallerstein, I. 1991. Unthinking Social Science. Cambridge: Polity Press.
19
Scarica