Postmodernità e pluralismo tra retorica e utopia1 SILVIA VIDA 1. Modernità, postmodernità, pluralismo, globalizzazione, multiculturalismo, diritti umani sono termini chiave del dibattito contemporaneo non solo in ambito filosofico, ma anche in ambito sociologico e giuridico. Il contributo di Boaventura de Sousa Santos a questo dibattito consiste soprattutto nell’aver associato a tali concetti alcune idee teoriche mutuate dall’epistemologia (de Sousa Santos 1995). In questo saggio cercheremo di ricostruire e analizzare le linee portanti e alcuni temi specifici del lavoro di de Sousa Santos al fine di valutare i presupposti teorici e metodologici delle sue analisi. De Sousa Santos definisce la modernità come un paradigma socio-culturale, emerso tra il XVI secolo e la fine del XVIII, che comprende in sé sviluppi assai variabili, a volte contraddittori, riferibili ai due «pilastri» su cui tale paradigma si regge: emancipazione e regolazione. La regolazione si basa su tre principi: il principio dello stato formulato da Hobbes, il principio del mercato formulato in particolare da Locke e Adam Smith, e il principio della comunità come emerge dalle teorie politico-sociali di Rousseau. Di questi tre principi, quello solidaristico della comunità è uno dei progetti inconclusi della modernità e deve trovare sviluppo e applicazione in epoca postmoderna. In quanto società civile, inoltre, la comunità costituisce, assieme allo stato, una delle dicotomie fondamentali della modernità, quella appunto tra stato e società civile. Se la modernità ha visto l’egemonia dello stato in quanto centro di potere e di diritto, la postmodernità dovrà riconoscere alla società civile la capacità di liberare le energie emancipatorie occultate dall’azione regolatrice e dominatrice dello stato. Il pilastro dell’emancipazione è invece basato sui tre principi della razionalità individuati da Weber: la razionalità estetico-espressiva delle arti e della letteratura, la razionalità cognitivo-strumentale di scienza e tecnologia, e la razionalità pratico-morale di etica e diritto. Anche il principio estetico-espressivo, avendo trovato, al pari di quello della comunità, uno sviluppo incompleto in epoca moderna, conoscerà, come vedremo, una particolare applicazione in epoca postmoderna. Ma ciò che caratterizza l’età della modernità, specialmente all’inizio del XIX secolo, è qualcosa che la pervade come una sorta di nuova religione, e che estende la sua egemonia a tutti gli ambiti socio-culturali: la religione della scienza. Tale ruolo egemonico della scienza all’interno della cultura moderna si esprime in ambito giuridico nelle dottrine formalistiche che caratterizzano un ampio spettro di pensiero, dal movimento delle Pandette al movimento francese per la codificazione, fino alla dottrina pura del diritto. de Sousa Santos individua quindi, come una delle fondamentali caratteristiche della modernità, la relazione e la circolazione di idee e significati tra conoscenza scientifica e diritto, relazione e circolazione che avvengono sotto l’egida della scienza. In questo senso egli parla di isomorfismo strutturale tra diritto e scienza, essendo il primo una sorta di alter ego della seconda. Fin dalla Scienza Nuova di Vico (1725), l’idea che l’ordine sociale sia un ordine scientifico percorre il pensiero giuridico-sociale da Montesquieu a Saint-Simon, da Bentham a Comte, da Beccaria a 1A proposito del testo di Boaventura de Sousa Santos, Toward a New Common Sense. Law, Science and Politics in the Paradigmatic Transition, Routledge: New York/London, 1995. Lombroso, caratterizzando tutto il pensiero sociale del XVIII e XIX secolo. A conferma del profondo isomorfismo tra scienza e diritto moderni, l’autore sostiene che la razionalità egemonica della scienza moderna e la identificazione del diritto moderno col diritto statalistico sono due facce di uno stesso processo storico: il "collassare dell’emancipazione sulla regolazione". Mentre la tensione tra emancipazione e regolazione si esplica nel diritto moderno attraverso la ricezione del diritto romano, il diritto naturale razionalistico e le teorie del contratto sociale, il processo storico che porta alla riduzione dell’emancipazione alla regolazione è riconoscibile nelle tappe più significative dello sviluppo capitalistico2. Più in generale, la crisi dei fondamenti giuridici ed epistemologici del paradigma moderno mette sempre più in rilievo la transizione paradigmatica in atto in ambito epistemologico come in ambito sociale. La crisi delle risorse culturali e produttive della modernità determina la transizione a una nuova realtà socio-culturale che evidenzia come l’emancipazione sia collassata sulla regolazione. Il coincidere dell’emancipazione con la razionalità cognitivo-strumentale della scienza corrisponde infatti alla riduzione della regolazione al principio di mercato: queste sono, di fatto, le condizioni determinanti del processo storico attraverso cui l’emancipazione è collassata sulla regolazione. Il tempo attuale è quindi definibile come un periodo di transizione paradigmatica; per esso si usa comunemente il termine postmodernità. Se la modernità è un paradigma socio-culturale, la postmodernità si caratterizza come transizione paradigmatica, ovvero come passaggio da un paradigma ormai obsoleto a un paradigma nuovo e alternativo. Infatti, se la capacità di azione umana è cresciuta in ogni campo grazie ai principi della regolazione e alla razionalità scientifica egemonica, ciò ha prodotto, paradossalmente, un nuovo senso di insicurezza, in quanto a tale capacità non si è associata una pari capacità di previsione delle conseguenze. Il nuovo ordine sociale paradigmatico dovrà perciò provvedere a sviluppare le tendenze emancipatorie occultate, o addirittura negate, dal prevalere delle spinte dal lato della regolazione. Già Habermas (1983) ha identificato in regolazione ed emancipazione gli elementi distintivi di un «progetto della modernità» come progetto emerso nel XVIII secolo, che deve ancora giungere alla sua completa realizzazione. Esso si configurerebbe come un grande sforzo intellettuale dei pensatori illuministi, per "sviluppare una scienza obiettiva, una morale e un diritto universali e un’arte autonoma secondo le rispettive logiche interne" (Habermas 1983, 9). Per il pensiero illuministico si trattava di utilizzare l’accumulazione della conoscenza con l’obiettivo dell’emancipazione umana e dell’arricchimento della vita di ogni giorno. Il controllo scientifico della natura prometteva la libertà dalla povertà e dai bisogni, mentre lo sviluppo di forme razionali di organizzazione sociale e di modi di pensiero razionali prometteva la liberazione dalla irrazionalità del mito, della superstizione ma anche dall’uso arbitrario del potere. Solo grazie a un tale progetto potevano rivelarsi le qualità «universali eterne e immutabili» di tutta l’umanità. Analogamente, Cassirer (1960) sostiene che il pensiero illuministico abbraccia l’idea di progresso e rottura con la storia e la tradizione, la desacralizzazione della conoscenza, la razionalizzazione e l’organizzazione sociale al fine di liberare gli uomini dalle loro catene. L’idea che a ogni domanda può esserci solo una risposta, che il mondo 2L’analisi assai dettagliata dello sviluppo del capitalismo, e la scansione di esso in tre fasi fondamentali si trovano ampiamente analizzate in de Sousa Santos 1995, 71-90. Si veda anche § 2.1., infra. 2 può essere controllato e ordinato razionalmente solo se lo si descrive e lo si rappresenta correttamente, e che vi è quindi un’unica modalità corretta di rappresentazione, sono le stesse idee espresse da de Sousa Santos quando parla di modello globale e totalitario della razionalità scientifica occidentale. Ma c’è di più: tale modello ha discriminato nei confronti di tutto ciò che dovrebbe ritenersi non scientifico perché non sottoposto ai principi epistemologici e metodologici imposti dalla razionalità scientifica. Così, il senso comune, ma anche le scienze umane, si sono trovati ai margini della cultura moderna. I nuovi paradigmi scientifici definiti dalle teorie di Copernico, Galileo e Newton vengono sanciti dal pensiero di Cartesio che, nel Discorso sul metodo (1637), realizza che ciò che separa la conoscenza moderna dalla conoscenza tradizionale, ancora dominata dal modello aristotelico, non è tanto una migliore osservazione dei fatti, quanto, piuttosto, un diverso sguardo sul mondo e sulla vita. La lotta contro dogmatismo e autoritarismo crea nel contempo uno iato tra conoscenza scientifica e senso comune, da un lato, e tra natura e umanità dall’altro3. A differenza dell’aristotelismo, la scienza moderna distrugge l’evidenza dell’esperienza immediata che diventa così puramente illusoria. Le leggi scientifiche della scienza moderna, invece, attraverso le idee matematiche e il rigore della misurazione e della quantificazione, scompongono e ricompongono la natura per dominarla e controllarla. Stabilità, ordine, e ripetitività dei fenomeni naturali sono le precondizioni per la trasformazione in senso tecnologico della natura. Ma non solo. L’idea del determinismo meccanicistico è ciò che, a livello sociale, induce il pensiero borghese a concepire la realtà in senso funzionalistico e utilitaristico. La borghesia considera la società che essa comincia a controllare come lo stadio finale dell’evoluzione dell’umanità. Ciò si ritrova, per esempio, nell’analisi comtiana dello stato positivo, nell’idea di società industriale di Spencer, o ancora nel concetto di solidarietà organica elaborato da Durkheim. L’illuminismo ha infatti creato le condizioni per l’emergere delle scienze sociali nel XIX secolo. de Sousa Santos dedica a questo tema interessanti osservazioni, rifacendosi anche a Kuhn (1962)4, ma accomuna le scienze umane e sociali a quelle fisiche per il fatto che ne condividono la distinzione umanità/natura, natura/cultura. Quindi, sebbene le scienze sociali anticipino in qualche modo la crisi del paradigma moderno, esse condividono i presupposti egemonici della scienza moderna, collocandosi a pieno titolo in tale paradigma. E’ nel XX secolo che nasce la consapevolezza che gli esiti del progetto illuministico vadano in una direzione diversa, e che tale progetto sia destinato a ritorcersi contro se stesso e a trasformare la ricerca dell’emancipazione umana in un sistema di oppressione universale. Espresso in altri termini, questo è il significato di ciò che de Sousa Santos chiama il «collassare» della emancipazione sulla regolazione. Ecco allora che il pensiero postmoderno insiste sulla necessità di abbandonare il progetto illuministico in nome dell’emancipazione umana. Harvey (1990), per esempio, sostiene che in seguito alla perdita di fiducia nell’ineluttabilità del progresso, si manifesta una crescente insoddisfazione nei confronti della fissità categorica del pensiero illuministico. Lo stesso capitalismo è degenerato nello sfruttamento di classe, nella discriminazione sessuale e razziale, nel colonialismo e nell’etnocentrismo. La creazione di nuovi bisogni e quindi l’esasperazione di insicurezza, instabilità e incertezza sono i suoi risultati. E ciò 3Questo aspetto è stato messo in luce anche da Husserl 1987, Parte II. 4Cfr. anche Kuhn 1969. Tali scienze vengono definite preparadimatiche; ma ciò si chiarirà alla luce delle posizioni kuhniane considerate nel seguito (§ 3, infra). 3 a fronte di aspetti positivi della modernità capitalistica, quali il potenziale controllo della natura, e quindi la riduzione dei limiti che la natura stessa impone necessariamente alla nostra vita. D’altra parte, lo stato, come sostiene anche de Sousa Santos, ha fiancheggiato il capitalismo, rappresentando un principio organizzativo con cui una classe dominante ha cercato di imporre il proprio controllo non solo sui suoi oppositori ma anche sui cambiamenti e sull’incertezza a cui la modernità capitalistica è sempre soggetta. Il rapporto tra sviluppo capitalistico e stato deve essere quindi visto come un rapporto di mutua influenza e mutuo sostegno. Dopo paradigma e transizione paradigmatica, de Sousa Santos chiama in causa la terza idea teorica della sua analisi: il senso comune. E lo fa richiamandosi a Rousseau, che nel Discorso sulle scienze e sulle arti (1750) si chiedeva se il progresso delle scienze e delle arti avrebbe portato con sé un miglioramento dei costumi o una loro corruzione, se esistesse una relazione tra scienza e virtù, e se ci fosse una ragione per sostituire al senso comune, che caratterizza la conoscenza della natura e della vita condivisa da uomini e donne in società, la conoscenza scientifica che è privilegio di pochi; si chiedeva, insomma, se la scienza avrebbe potuto costituire un ponte tra teoria e prassi. Come noto, Rousseau diede a ognuna di queste domande una risposta negativa. Ma dopo due secoli e mezzo le nostre domande sono le stesse di Rousseau. In seguito alla crisi della scienza moderna, manifestatasi verso la metà del secolo e considerata da de Sousa Santos come la causa di nuovi fermenti di trasformazione in ambito sia sociale che tecnologico, siamo attualmente i protagonisti e i testimoni viventi di queste trasformazioni, e abbiamo forte il senso di perdita e di mancanza di confidenza con l’ordine scientifico delle cose. L’ambiguità e la complessità del tempo attuale suggeriscono infatti l’idea, condivisa da molti e propugnata dall’autore, che viviamo un periodo di transizione paradigmatica. Due secoli e mezzo dopo Rousseau, le nostre domande vertono sulle relazioni tra scienza e virtù. Anticipando le conclusioni dell’autore, potremmo dire che le nostre domande vertono, analogamente, sul rapporto tra valori etici, diritto, e forme emancipatorie di potere. Più in generale, in questo periodo di transizione paradigmatica sentiamo ancora la necessità di interrogarci sul valore della cosiddetta conoscenza del senso comune, quella che creiamo e usiamo come esseri individuali e collettivi per dare significato alle nostre azioni; quel tipo di conoscenza che la scienza considera irrilevante, se non addirittura falsa, irrazionale e soggettiva se confrontata con l’obiettività e la razionalità della scienza. In questo periodo di transizione paradigmatica ci troviamo quindi nella necessità di chiederci se le aumentate conoscenze scientifiche corrispondano a un reale aumento della nostra capacità di azione, e quindi a un reale arricchimento della nostra vita, o non, piuttosto, a un impoverimento di essa e a una minaccia della nostra felicità5. 2. Nel suo saggio de Sousa Santos traccia quindi le linee della crisi della cultura della modernità e i primi contorni della transizione culturale postmoderna in atto. Tale transizione, che è epistemologica e sociale, viene analizzata attraverso i tre concetti chiave della sua riflessione critica: diritto, potere e scienza. A loro volta, come abbiamo visto, tali concetti sono chiariti e discussi alla luce delle idee epistemologiche di paradigma, transizione paradigmatica e senso comune. Le linee del paradigma dominante della modernità e della transizione 5de Sousa Santos sembra condividere la stessa opinione espressa da Feyerabend (1982, 1984) a proposito dell’infelicità prodotta dalla scienza. 4 paradigmatica in atto vengono tracciate nella prima parte del libro. Come abbiamo visto, la transizione è duplice a causa dell’isomorfismo che de Sousa Santos individua tra lo sviluppo della conoscenza scientifica e i percorsi del diritto in età moderna. Nella seconda parte del libro l’autore si dedica a una serie di analisi sociologiche del diritto allo scopo di illustrare la crisi del paradigma giuridico-politico dominante. Egli analizza perciò tre ambiti spazio-temporali della legalità: località, nazionalità, transnazionalità, adottando la prospettiva dei gruppi sociali oppressi. E sono proprio le diverse forme di oppressione a richiedere (e definire) l’esigenza di una transizione paradigmatica. Nella terza parte, la profonda crisi della modernità viene ribadita attraverso la delinenazione delle diverse forme di oppressione in cui tale crisi prende corpo, e la definizione delle lotte sociali e dei mutamenti epistemologici che devono verificarsi in un periodo di transizione paradigmatica come quello in cui stiamo entrando. Per tale analisi egli utilizza, rifacendosi a Perelman (1969), un espediente retorico tipico della cultura dell’età postmoderna: la metafora spaziale. Egli identifica perciò sei spazi strutturali tipici delle società capitalistiche, e le tre principali forme di regolazione del sociale: potere, conoscenza e diritto. Infine, nella quarta parte del libro vengono delineati gli sforzi emancipatori della transizione paradigmatica. Essi implicano, innanzi tutto, un atto di trasgressione epistemologica. Per questo, egli riesuma e rivaluta il pensiero utopico, produzione secondaria del pensiero di tradizione moderna. Da un lato, l’utopia dovrebbe, per così dire, "reinventare" gli ambiti sociali dell’emancipazione, dall’altro, ridefinire la soggettività individuale e collettiva in grado di far emergere e sostenere la capacità e la volontà di affrontare la transizione paradigmatica, esplorando fino in fondo le potenzialità emancipatorie del paradigma emergente. Come si chiarirà meglio in seguito, delineando il processo storico attraverso cui sia la scienza moderna che il diritto moderno hanno portato alla perdita di equilibrio tra regolazione sociale ed emancipazione sociale, de Sousa Santos perora la causa di una nuova retorica dialogica. A differenza della nuova retorica di Perelman, che rivaluta (come vedremo) l’argomentazione rispetto al ragionamento classico di tipo induttivo e deduttivo, la nuova retorica dialogica ha a che fare con le topiche del diritto degli oppressi, della transnazionalizzazione dello stato, della globalizzazione del diritto, e con una concezione multiculturale dei diritti umani, quindi con nuovi modi di produzione del potere sociale concepiti quali alternative alla dicotomia stato liberale/società civile. Il percorso critico di de Sousa Santos si conclude con un capitolo «di rottura» sull’utopia e sulle tre metafore (o metasimboli) rappresentative della nuova soggettività emancipatoria: frontiera, barocco e Sud. 2.1. Prendiamo ora in considerazione i punti salienti delle quattro sezioni del testo. Come abbiamo visto, la crisi del vecchio paradigma porta con sé il profilo del paradigma emergente. Nella prima parte del testo, anticipando le proprie conclusioni, l’autore descrive un nuovo paradigma che, a scapito del rigore scientifico, può essere concepito solo come «conoscenza prudente per una vita decente» (prudent knowledge for a decent life). Il paradigma emergente, infatti, non può essere semplicemente e puramente scientifico, ma deve essere anche sociale. Esso si sostiene quindi su un tipo di senso comune che privilegia la soggettività rispetto all’oggettività, il variegato e il mutevole all’eterno e immutabile. Se analizzata dal punto di vista degli oppressi, infatti, la scienza moderna appare 5 essenzialmente etnocentrica, androcentrica, e in netta opposizione al senso comune considerato come mera opinione o pregiudizio. Nella transizione paradigmatica in atto deve perciò avvenire una rottura epistemologica che trasformi la conoscenza scientifica in un nuovo senso comune capace di arricchire le nostre relazioni col mondo. La nozione stessa di senso comune deve quindi subire una trasformazione: contro la tendenza conservatrice del senso comune moderno, quello postmoderno sarà «retorico e metaforico» e, una volta trasformato dalla conoscenza emancipatoria postmoderna, potrà essere la fonte di una nuova forma di razionalità. Non solo: favorirà l’azione, e dovrà essere strumento di emancipazione di oppressi ed emarginati. Dato che, come sostiene l’autore, ogni comunità culturale o sociale possiede un proprio ambito retorico in cui si sviluppa un senso comune, poiché nella società moderna capitalistica si possono individuare sei spazi strutturali in cui essa si dispiega — vale a dire "casa", "lavoro", "mercato", "città", "comunità" e "mondo" —, a questi spazi devono corrispondere sei sensi comuni come nuove forme di conoscenza emancipatoria postmoderna. Questi sei sensi comuni sono caratterizzati in senso etico dal principio di solidarietà (che è l’aspetto "inconcluso" del principio di comunità del paradigma moderno), e, in senso politico, dall’idea di partecipazione, in quanto se la politica in età moderna è stata confinata alla città, e se il diritto è stato confinato al diritto dello stato, la retorica postmoderna dovrà mettere in discussione questa idea restrittiva di politica e questa idea assolutista di diritto. Del resto, l’analisi dettagliata del capitalismo, il cui sviluppo è scandito dall’autore in tre periodi — capitalismo «liberale», capitalismo "organizzato" e capitalismo "disorganizzato" —, evidenzia il fallimento di tutte le promesse capitalistiche, quali la distribuzione dei benefici sociali e un sistema politico stabile e relativamente democratico. Nel capitalismo disorganizzato, che decorre dagli anni Sessanta fino ai giorni nostri, si riconoscono l’aumento del mercato mondiale e l’emergere del sistema di produzione mondiale, che minacciano la capacità dello stato di regolare il mercato al livello nazionale. Lo stato sembra quindi aver perso lo status di unità privilegiata di analisi, pratica e sociale. Su scala mondiale, ciò ha comportato una disparità sempre più accentuata tra Nord e Sud, tra sviluppo e sottosviluppo, tra regioni di frontiera (i margini del mondo) e regioni centrali (il cuore del mondo); quindi, oltre alla disparità tra Nord e Sud, la discriminazione tra Ovest ed Est. Se lo sviluppo del capitalismo promosso dal liberalismo è stato reso possibile dalla promozione e dal controllo degli stati nazionali — tanto che lo stato costituzionale del XIX secolo fu concepito come una macchina perfetta di ingegneria sociale —, l’intensificazione delle interazioni transnazionali degli ultimi vent’anni ha rafforzato la concezione alternativa (che appartiene soprattutto a storici e scienziati sociali come Braudel (1979) e Wallerstein (1991)) secondo cui le società nazionali devono essere intese come parti di un sistema molto più ampio, le cui dinamiche interne rendono ragione della trasformazione sociale delle società nazionali. Quindi, la transizione paradigmatica è un ampio processo storico, analizzato dall’autore nei suoi aspetti epistemologici, sociali, e politico-culturali in genere, che trova nel diritto moderno un punto di vista strategico da cui analizzare la sociologia di tale transizione, in vista del più volte sottolineato isomorfismo tra diritto e scienza moderna. La crisi paradigmatica della scienza moderna è quindi tale da coinvolgere la crisi paradigmatica del diritto moderno. Le condizioni dell’una non sono, ovviamente, quella dell’altra, ma le due crisi insieme possono far luce sui termini e sulle direzioni possibili della transizione verso un nuovo paradigma sociale. 6 2.2. Nella seconda parte, de Sousa Santos analizza gli ambiti spaziotemporali del diritto: località, nazionalità, transnazionalità. Se la nazionalità, intesa come stato nazionale, è la dimensione esclusiva del diritto moderno — poiché la teoria politica liberale stabilisce l’equazione tra nazione, stato e diritto —, località e transnazionalità sono le due dimensioni alternative del diritto. Tutta la seconda parte del libro è dedicata all’analisi di tali alternative nelle loro relazioni con la nazionalità. Nelle società attuali e nel sistema mondiale la realtà giuridica appare infatti molto più complessa di quanto non appaia al pensiero politico liberale, e si presenta come una "costellazione" di differenti legalità che operano ai livelli locale o infrastatale, nazionale e transnazionale. L’ampio concetto di diritto adottato dall’autore, e l’idea che tre sono le dimensioni spaziotemporali del diritto, portano a concludere che, in realtà, le società moderne sono, in termini sociologici, formazioni giuridiche o costellazioni giuridiche. Esse non sono costituite da un unico ordine giuridico, ma da una pluralità di ordini giuridici differentemente interrelati. Ciò, ovviamente, solleva il problema del pluralismo giuridico, cui si associa l’idea che in una singola unità politica operi più di un ordine giuridico. A partire dalla distinzione operata da Merry (1988) tra due tipi di pluralismo — quello post-coloniale e quello delle società capitalistiche moderne —, de Sousa Santos sostiene che stiamo entrando in un terzo tipo di pluralismo, quello postmoderno. Esso si configura come un dibattito tra ordini giuridici soprastatali-transnazionali che coesistono nel sistema del mondo con gli ordini giuridici statali e infrastatali. A esemplificare questa realtà pluralistica interviene la ricerca empirica. Il Capitolo 3 è infatti interamente costituito dall’analisi di un case study: la situazione giuridico-sociale di Pasargada, nome fittizio di un quartiere abusivo (favela) realmente esistente di Rio de Janeiro, in cui vivono le classi popolari. A causa dell’inaccessibilità strutturale del sistema giuridico, in Pasargada si sono create strategie di adattamento volte ad assicurare per le relazioni comunitarie una condizione minimale di ordine sociale. Si tratta di una legalità interna, infrastatale o locale, parallela a, ma a volte confliggente con, quella dello stato. L’indagine sociologica condotta dall’autore attraverso un’osservazione partecipante evidenzia appunto, secondo la prospettiva del pluralismo giuridico, le relazioni che tale legalità infrastatale-locale intrattiene col sistema giuridico ufficiale brasiliano. De Sousa Santos analizza in seconda istanza lo spazio-tempo soprastataletransanzionale, vale a dire la dimensione in cui la produzione giuridica dello stato è messa in dubbio non tanto dalla presenza della giuridicità infrastatale, ma piuttosto dalla penetrazione, nell’ambito giuridico nazionale, di forme giuridiche transnazionali che si dispiegano in complesse relazioni sia con l’ordine giuridico statale, sia con gli ordini giuridici locali. In direzione opposta alla ricerca su Pasargada, l’autore compie quindi un’analisi dei fenomeni di globalizzazione dell’ambito giuridico degli ultimi trent’anni, fenomeni completamente nuovi e senza radici nel passato6. Connessi ai diversi processi di globalizzazione sono i movimenti di frontiera, e quindi tutti i problemi riguardanti i lavoratori immigrati, anche clandestini, i rifugiati 6I fenomeni e i processi di globalizzazione sono analizzati dall’autore in maniera assai approfondita (de Sousa Santos 1995, 251- 377). Egli distingue, in particolare, tra diversi processi di globalizzazione, chiamati globalized localism, localized globalism, cosmopolitanism e common heritage of humankind. Si veda specialmente lo schema di p. 275. 7 politici e in cerca d’asilo. Questi problemi vengono ricondotti al dualismo discriminatorio Nord-Sud e al tema dei diritti umani (cfr. de Sousa Santos 1997)7. De Sousa Santos afferma che, nel contesto europeo, il tema dei diritti umani era al centro degli sviluppi emancipatori del diritto moderno. Concettualmente, i diritti umani simbolizzano la più alta consapevolezza emancipatoria del diritto e della politica moderni, e sono intrinsecamente utopistici. Ma le recenti trasformazioni del sistema interstatale (world system) rendono necessario un nuovo approccio ai diritti umani. Se il sistema mondiale sta entrando in un periodo di transizione paradigmatica, è necessaria una nuova politica dei diritti. Anche questa analisi, assai sentita e puntuale, ruota comunque attorno al fondamentale fenomeno della progressiva erosione del concetto di sovranità nazionale. Infine, dopo Pasargada come esempio della dimensione locale o infrastatale del giuridico, nelle sue relazioni col diritto statale nazionale, e dopo l’analisi dei processi di transnazionalizzazione del diritto, con le sue ripercussioni nella giuridicità nazionale, de Sousa Santos analizza lo spazio giuridico dello stato nelle sue relazioni con la dimensione locale e transnazionale, mediante un ulteriore case study: la città brasiliana di Recife. 2.3. L’ortodossia della modernità capitalistica, caratterizzata dalla riduzione della conoscenza alla scienza, del diritto al diritto dello stato e dei poteri sociali alle politiche liberali, è messa in discussione dall’autore. Alla pluralità delle forme di diritto corrisponde una pluralità di forme di conoscenza e di potere caratterizzanti la vita sociale. L’analisi delle tre dimensioni spaziotemporali del giuridico (località, nazionalità e transnazionalità), e l’identificazione di una pluralità di ordini giuridici, oggetto della seconda parte, continua nella terza, in cui viene tracciata una vera e propria «cartografia» delle società capitalistiche, considerate come formazioni o costellazioni politiche. Esse sono costituite da sei fondamentali modi di produzione di potere, che generano sei forme di potere. Le società capitalistiche sono anche formazioni o costellazioni giuridiche, costituite da sei fondamentali modi di produzione di diritto che generano sei forme di diritto. In terzo luogo, le società capitalistiche sono formazioni epistemologiche costituite da sei modi di produzione di conoscenza, che generano sei forme di conoscenza8. Ovviamente, si tratta dei sei luoghi strutturali di produzione di potere, diritto e conoscenza delle società capitalistiche, già identificati come Householdplace, Workplace, Marketplace, Communityplace, Citizenplace, Worldplace. La caratterizzazione dei luoghi strutturali delle società capitalistiche è intesa a sottolineare le dimensioni di disuguaglianza e oppressione raggiunte dalle società capitalistiche contemporanee e nell’intero sistema mondiale, nonché a far emergere nuovi possibili ambiti per importanti lotte emancipatorie. Del resto, oppressione e diseguaglianza sono l’esito ultimo di quel dualismo che de Sousa Santos ritiene costitutivo del pensiero moderno occidentale, vale a dire il dualismo stato/società civile. Contro questa dicotomia, la stuttura analitica proposta dall’autore risponde allo scopo di dar rilievo, appunto, al communityplace, ovvero al principio della comunità 7Diritti umani e multiculturalismo sono oggetto di un recente articolo dell’autore comparso su Sociologia del diritto 1(1997), in cui viene ripresa l'analisi dei processi di globalizzazione, secondo le distinzioni di cui alla nota precedente. 8Tale cartografia è sintetizzata ed esposta, in forma di vera e propria mappa, in de Sousa Santos 1995, 417. 8 praticamente annullato dal principio dello stato moderno. La comunità deve infatti essere considerata come luogo autonomo di relazioni sociali irriducibili alle relazioni coalizzate dallo stato. La costituzione di un nuovo senso comune giuridico è la sfida che si pone all’attenzione in questa epoca di transizione paradigmatica. Infatti, per quanto riguarda le diverse forme di conoscenza, de Sousa Santos vede i sei luoghi strutturali come ambiti topici (topic fields) con sensi comuni specifici. E poiché la scienza è la forma privilegiata di conoscenza dello stato, il compito della teoria critica postmoderna è promuovere, attraverso la nuova retorica dialogica, sensi comuni contrari a quello egemonico. Si tratta di sensi comuni emancipatori, che si sviluppano in ognuna delle sei dimensioni del sociale, e che, è bene ribadirlo, devono essere improntati a una "conoscenza prudente per una vita decente". Una razionalità debole, potremmo dire, non egemonica, che lascia spazio a forme emancipatorie volte a un miglioramento della vita e delle condizioni umane. Inoltre, se lo stato moderno assume il diritto come operante su un’unica scala, quella dello stato, de Sousa Santos avanza una concezione alternativa consistente in una pluralità di ordini giuridici che include, oltre il diritto nazionale o dello stato, il diritto locale o infrastatale e i diritti transnazionali o soprastatali. L’intento dell’autore è quindi offrire alla sociologia del diritto strumenti di comprensione della realtà giuridica tipica del pluralismo. 2.4. Come abbiamo già più volte osservato, la transizione paradigmatica in atto è epistemologica oltre che sociale. In quanto transizione epistemologica, essa si caratterizza come passaggio dalla scienza moderna a un nuovo tipo di senso comune emancipatorio — chiamato prudent knowledge for a decent life —, mentre come transizione sociale si configura quale passaggio da un sistema capitalistico ingiusto a un nuovo paradigma in grado di reinterpretare le lotte emancipatorie dei gruppi sociali oppressi. Se ingiustizia e oppressione sono riprodotte nelle società capitalistiche a causa del collassare della emancipazione sulla regolazione, e se tutte le soluzioni emancipatorie approntate dalla modernità sono presto degenerate in nuovi strumenti di regolazione, occorre un nuovo paradigma che rigeneri e rinvigorisca le spinte emancipatorie alla luce dei problemi della società postmoderna. Contro l’egemonia della razionalizzazione scientifica che, allontanandosi dai problemi dell’uomo, lo ha reso schiavo anzichè emanciparlo dai propri limiti, la soluzione intravista da de Sousa Santos è la creazione di nuove forme di conoscenza basate su una nuova retorica dialogica che si costituisca essa stessa come emancipatoria — ovvero come una topica di nuovi sensi comuni emancipatori. Lo scopo del percorso critico-analitico dell’autore è il duplice rinvenimento, preteso dalla transizione paradigmatica stessa, di un nuovo senso comune emancipatorio e di una nuova soggettività, individuale e collettiva, dotata di volontà e capacità di emancipazione. A tale rinvenimento è dedicato il capitolo conclusivo dell’opera, la quarta sezione del testo. Per adempiere a tale compito non è sufficiente la critica del paradigma moderno dominante, ma è necessario ricorrere, secondo l’autore, all’utopia, dove per utopia si deve intendere "l’esplorazione, condotta attraverso l’immaginazione, di nuove possibilità e stili di volontà umani, cui si accompagna il confronto, attraverso l’immaginazione, con la necessità di ciò che esiste — proprio in quanto esiste — in nome di qualcosa di radicalmente migliore, cioè un valore per cui si combatte, e cui l’umanità ha pieno diritto" (de Sousa Santos 1995, 479). Sebbene il pensiero utopico attraversi la cultura occidentale da Tommaso Moro 9 alle utopie socialiste del XIX secolo, tale pensiero è stato oscurato dal progresso della scienza moderna e dalla conseguente razionalizzazione della vita sociale. Dopo la retorica, quindi, recuperata quale parte secondaria della produzione culturale della modernità, l’utopia. A entrambe spetta il compito di determinare il senso comune caratterizzante la transizione paradigmatica e le sue spinte emancipatorie. Parafrasando Cassirer (1960; 1963) e Toulmin (1990), de Sousa Santos afferma che le due condizioni per l’utopia sono una nuova epistemologia e una nuova psicologia. In quanto nuova epistemologia, l’utopia respinge la chiusura dell’orizzonte di aspettative e possibilità note per offrire possibilità alternative; in quanto nuova psicologia, rifiuta la soggettività della conformità e crea una soggettività dotata della volontà di lottare per tali alternative. Inoltre, poiché la transizione paradigmatica è duplice (epistemologica e sociale), essa ha un compito duplice: ridefinire i percorsi dell’emancipazione sociale e la soggettività in grado di intraprenderli. Secondo l’autore è quindi lecito parlare non tanto di un paradigma emergente, ma di "frammenti preparadigmatici" accomunati dall’idea che il paradigma della modernità ha esaurito le sue risorse. Questi frammenti costituiscono un paradigma solamente "virtuale", in quanto non vi è certezza alcuna che al paradigma moderno se ne sostituisca uno altrettanto totalizzante e coerente. Ciò che unisce le due transizioni è comunque il concetto di soggettività; in altre parole, il lato emancipatorio della competizione tra il vecchio e il nuovo paradigma è la costruzione paradigmatica del genere di soggettività capace di, e intenzionato a, esplorare le possibilità emancipatorie della transizione paradigmatica, un tipo di soggettività improntato alla "conoscenza prudente per una vita decente". De Sousa Santos distingue perciò sei forme di emancipazione sociale che corrispondono alle sei forme di regolazione sociale. Queste sei forme di emancipazione e le corrispondenti lotte emancipatorie sono però da intendersi come punti di partenza, e non di arrivo, per pensare la transizione paradigmatica. La contraddizione e la competizione tra il paradigma dominante e quello emergente si verificano al livello di ognuno dei luoghi strutturali. L’attenzione dell’autore è focalizzata, ovviamente, sul paradigma sociale emergente, e sullo specifico senso comune costruito attraverso la topica retorica di volta in volta operante — in cui i topoi di democrazia e solidarietà hanno una parte predominante. Vediamoli in sintesi. Nell’householdplace, contraddizione e competizione si danno tra il paradigma della famiglia patriarcale e il paradigma delle comunità domestiche basate sulla eliminazione di ruoli stereotipati. Il nuovo senso comune emancipatorio è basato sulla retorica guidata dai topoi di democrazia, cooperazione effettiva tra ruoli, e liberazione della donna. Nel workplace contraddizione e competizione si svolgono tra il paradigma dell’espansionismo capitalistico e quello che fa capo a un nuovo senso comune emancipatorio basato sul socialismo ecologico e sull’antiproduttivismo. Nel marketplace, contraddizione e competizione si instaurano tra il paradigma del consumismo individualistico e quello dei bisogni umani. Nel paradigma emergente il mercato è solo una delle forme di organizzazione e consumo, e i bisogni sono concepiti come esperienze soggettive che possono essere espresse in modi molto diversi a secondo dei contesti e delle culture. Nel communityplace contraddizione e competizione hanno luogo tra le comunità esclusive che basano la loro identificazione sulla chiusura esterna, e che sono costituite da gruppi sociali dominanti che danno per presupposta la loro superiorità a scapito 10 dell’inferiorità dei rimanenti, e le comunità che hanno identità multipla, inconclusa e indefinita, aperta verso le altre, e in cerca di paragoni interculturali per un più profondo significato della dignità umana. Nel citizenplace contraddizione e competizione si danno tra il paradigma della democrazia autoritaria, fondata su un obbligo politico verticale tra cittadino e stato, e orizzontale tra cittadini e associazioni, e il paradigma emergente, che consiste nelle lotte per le sei forme di democrazia che corrispondono ai sei luoghi strutturali. Ogni forma democratica rappresenta una specifica articolazione tra obbligo politico verticale e obbligo politico orizzontale; ogni forma democratica possiede la propria concezione di diritti, cittadinanza, rappresentazione e partecipazione. Infine, nel worldplace la contraddizione paradigmatica si sviluppa tra il paradigma dello sviluppo diseguale e della sovranità esclusiva, e il paradigma dello sviluppo democraticamente sostenuto e sovranità reciprocamente permeabile. Dal punto di vista del paradigma emergente, la disparità Nord-Sud e lo sviluppo capitalistico espansionistico su cui essa si basa costituiscono, nel panorama mondiale odierno, la più massiccia violazione dei diritti. Secondo il paradigma emergente, tale disparità può essere abolita solo attraverso un nuovo modello di sviluppo comunitario democratico, che presuppone a propria volta un nuovo sistema di relazioni internazionali e transnazionali. Nel nuovo modello la sovranità cessa di essere esclusiva e assoluta per diventare reciproca e permeabile. La soggettività emergente nel periodo di transizione rivaluta infatti le frontiere. La frontiera è il simbolo di una forma privilegiata di socialità. La soggettività di frontiera è nella posizione migliore per valutare le forme di oppressione che il centro del mondo riproduce ai suoi margini per mezzo delle strategie capitalistiche egemoniche. La soggettività della transizione paradigmatica è anche una soggettività barocca. Tale aggettivo è ovviamente da intendersi in senso metaforico. Come la metafora della frontiera, dei confini contrapposti al centro, il barocco esprime quel tipo di soggettività capace di esplorare le potenzialità emancipatorie della transizione paradigmatica. La soggettività barocca rifiuta la distinzione tra apparenza e realtà su cui è basata la scienza moderna. Se la razionalità moderna condanna, in particolare dopo Cartesio, le emozioni e le passioni quali ostacoli al progresso della conoscenza e della verità, esse devono essere recuperate dal nuovo paradigma come forme di conoscenza. Il Sud è il terzo topos che de Sousa Santos propone per la costituzione della soggettività della transizione. Egli vede nel Sud una sorta di metatopos, un metasimbolo che presiede alla costituzione di un nuovo, etico senso comune. Come la frontiera e il barocco, il Sud è inteso come metafora culturale, ovvero come topos privilegiato in cui rinvenire le energie emancipatorie e la soggettività caratterizzanti la postmodernità. Il Sud (come l’Est) è un prodotto dell’imperialismo e del capitalismo, che ha creato la doppia gerarchia tra Ovest-Est, e Nord-Sud, e in cui Est e Sud sono in posizione marginale e subordinata. Mentre l’Est suggerisce l’idea di una subordinazone culturale e sociale, il Sud suggerisce soprattutto l’idea di una subordinazione di tipo economico. In quanto regioni periferiche del sistema del mondo, l’Est e il Sud diventano vittime della dominazione sia culturale che economica da parte dell’Ovest e del Nord. Stando a fondamento della metafora della soggettività emergente, il Sud è concepito come simbolo delle forme di subordinazione e dominazione proprie del sistema capitalistico della modernità imperialistica (espropriazione, diseguaglianza, sofferenza umana); è il terzo mondo che si sviluppa in seno alle regioni centrali del mondo capitalistico, e in cui si generano forme estreme di disuguaglianza e oppressione. 11 La soggettività emergente fiorisce quindi nel Sud. Essa costituisce il momento solidaristico nella costituzione di una topica per l’emancipazione, e incarna la capacità e la volontà di un vasto esercizio solidaristico che presiede alla eliminazione di ogni gerarchia e di ogni subordinazione. I metasimboli rappresentati da frontiera, barocco e Sud caratterizzano la soggettività volta a esplorare le potenzialità emancipatorie della transizione paradigmatica. Nessuno di questi metasimboli può dirsi esclusivo. Al contrario, la soggettività emergente è una combinazione dei tre. Entro ognuno dei sei spazi strutturali, tale soggettività, costituita da una costellazione specifica dei tre simboli, è causa di contraddizione e competizione paradigmatica. Retorica e utopia, quindi, quali tradizioni marginali della cultura moderna e nelle nuove accezioni indicate dall’autore, costituiscono gli strumenti per descrivere i compiti emancipatori implicati dalla transizione paradigmatica. Il collasso dell’ordine esistente pone infatti l’opportunità di lanciare una sfida verso una emancipazione autentica. Tale sfida non si baserà su un nuovo pensiero illuminato, ma sul semplice senso comune, in grado di cogliere e risolvere pragmaticamente i problemi caratterizzanti la transizione paradigmatica postmoderna. Ma costruire una tale utopia come senso comune pragmatico non è facile, né si può dire che tale costruzione sia un compito completato una volta per tutte. 3. E’ ora possibile tentare alcune considerazioni critiche rivolte in particolare ai presupposti concettuali e metodologici delle tesi dell’autore. Innanzi tutto, la terminologia di de Sousa Santos, in cui predominano i concetti di paradigma e transizione paradigmatica, induce a un inevitabile raffronto con la teoria epistemologica che ha dato origine a tali concetti. L’ovvio riferimento è Thomas Kuhn (1962). La mutuazione di questa terminologia, che originariamente si riferisce in modo esclusivo all’ambito epistemologico, può offrire comunque il destro per qualche osservazione rivelatrice. In tale saggio, geniale e per i tempi innovativo9, Kuhn sostiene che il procedere della scienza non è lineare né cumulativo, ma è un procedere attraverso rivoluzioni e rotture paradigmatiche. In sostanza, Kuhn sostiene che vi sono particolari schemi concettuali che assurgono al ruolo di paradigmi condivisi da più teorie, e che costituiscono modelli e regole (nel senso più ampio del termine) dell’attività scientifica. Esempi di paradigmi sono l’analisi aristotelica del movimento, il calcolo tolemaico della posizione dei pianeti, la teoria elettromagnetica, la chimica di Lavoisier, la gravità di Newton, e così via. Se una teoria scientifica è un modo di interpretare il mondo, il paradigma in cui essa è calata è un criterio per selezionare i problemi che sono ritenuti solubili. Il paradigma è quindi qualcosa di sovraordinato rispetto a leggi, concetti e teorie scientifiche. Lo status dei paradigmi è uno status di priorità rispetto a regole e assunti largamente condivisi. Non tutte le teorie scientifiche, infatti, sono teorie paradigmatiche. Di fronte a novità fondamentali, l’atteggiamento della scienza è per sua natura conservatore, e solo quando non è più possibile resistere agli assalti di tali novità, nuovi schemi si sostituiscono a quelli vecchi e nasce una nuova scienza, incompatibile e 9La teoria epistemologica di Kuhn è stata da molti accomunata al carattere altrettanto innovativo dell’epistemologia "anarchica" di Feyerabend 1982. 12 incommensurabile con quella alla quale si sostituisce10. Le conseguenze più immediate sono il cambiamento dei problemi da proporre all’indagine conoscitiva, e il cambiamento dei criteri con i quali la scienza stabilisce che cosa si deve considerare come problema ammissibile o come soluzione legittima. Infatti, ogni rivoluzione scientifica, ogni passaggio a un paradigma nuovo, trasforma il punto di vista sul mondo, e, di fatto, il mondo su cui indaga. Paradigmi successivi ci dicono cose differenti sugli oggetti che popolano il mondo, e determinano i metodi, i problemi, e i modelli di soluzione accettati. Ogni transizione da un paradigma all’altro implica quindi una nuova ontologia, una nuova metodologia e una nuova etica. Ma su questo punto dovremo ritornare. Se per paradigma si intende comunemente un modello o uno schema accettato in modo assai restrittivo (in modo "analogo a un verdetto giuridico accettato", dice Kuhn) per risolvere i problemi che si presentano all’attenzione della scienza, vi sono comunque problemi straordinari che sfuggono alla soluzione e quindi al paradigma vigente. In riferimento all’analisi di de Sousa Santos questi sono i più importanti. Per Kuhn essi emergono in circostanze speciali prodotte dal progresso della ricerca. Per de Sousa Santos, sono i problemi che sfuggono al paradigma della modernità e che sono nati al suo stesso interno, come degenerazione di esso e come conseguenza del collassare delle spinte emancipatorie su quelle della regolazione; quegli stessi problemi che causano la crisi del paradigma moderno e la conseguente transizione praradigmatica postmoderna. Se la scienza è per lo più portata ad accantonare problemi e fatti straordinari in nome della "normalità" della ricerca, la diserzione dal paradigma provoca quella che Kuhn chiama rivoluzione scientifica11. Infatti, una volta raggiunto lo status di paradigma, una teoria scientifica è dichiarata invalida solo se esiste un’alternativa disponibile che ne prenda il posto. La decisione di abbandonare una teoria è perciò sempre, al tempo stesso, la decisione di accettarne un’altra. Abbandonare un paradigma senza sostituirgliene un altro equivale ad abbandonare la scienza stessa. La transizione da un paradigma in crisi a uno nuovo si configura come un’articolazione del campo di indagine su nuove basi. Durante il periodo di transizione vi sarà una sovrapposizione abbastanza ampia, ma mai completa, tra i problemi che possono venir risolti col vecchio paradigma e quelli che possono essere risolti col nuovo, ma vi sarà anche una netta differenza nei rispettivi modi di risolverli. La tradizione della scienza che emerge dopo una rivoluzione scientifica non è quindi solo incompatibile, ma spesso di fatto incommensurabile, cioè inconfrontabile, con quella che l’ha preceduta. Da questo punto di vista, l’analisi della competizione e opposizione tipiche della transizione paradigmatica da parte di de Sousa Santos sembra essere 10Questo modo di concepire il passaggio da una scienza a un’altra è paragonabile alla posizione espressa da Feyerabend 1982. Egli sostiene che in ambito scientifico il mutamento determinato dal progresso si configura sempre come passaggio da un punto di vista costituito da una teoria (o sistema di riferimento, o cosmo, o modo di rappresentazione), i cui elementi (sia fatti che concetti) si combinano con principi di costruzione, a un diverso sistema di riferimento, che col primo non condivide né concetti, né oggetti, né linguaggio, né principi fondamentali. Una nuova scoperta appare quindi "incommensurabile" col sistema di riferimento dato, perché scoprire qualcosa significa violare i principi della teoria senza necessariamente contraddirli, ma, piuttosto, "sospendendoli". Come egli stesso scrive, "la consuetudine è sospesa", e ciò rende la teoria scientifica precedente intraducibile, "incommensurabile" con la nuova. A ogni nuova teoria corrisponde perciò una specifica visione del mondo. 11Come casi particolarmente famosi di rivoluzione scientifica o mutamento di paradigma Kuhn indica la nascita della astronomia copernicana che soppiantò il sistema tolemaico, oppure la crisi che si verificò nella fisica alla fine del XIX secolo e che preparò la via all’emergere della teoria della relatività. 13 coerente con gli assunti di Kuhn. Il raffronto con Kuhn non intende verificare se l’uso di certi schemi concettuali da parte di de Sousa Santos è corretto dal punto di vista della teoria di Kuhn. Quest’ultima, del resto, è stata concepita come teoria delle rivoluzioni scientifiche, mentre l’analisi della transizione dalla scienza moderna a quella postmoderna è solo uno degli aspetti della transizione paradigmatica delineata da de Sousa Santos, il cui scopo è offrire strumenti di comprensione della realtà giuridico-sociale tipica del pluralismo. Il riferimento a Kuhn si giustifica invece con l’indagine sulla plausibilità, o meno, di considerare la modernità, e con essa la postmodernità, come paradigmi. Infatti, anche ammettendo un uso metaforico della terminologia di Kuhn, e quindi una legittima latitudine nell’uso dei termini ‘paradigma’ e ‘transizione paradigmatica’, è opportuno chiedersi se l’analisi sociologica di de Sousa Santos raggiunga lo scopo che si è prefissa. Torniamo ad Harvey (1990). Egli parla della postmodernità come di una reazione alla (o allontanamento dalla) modernità. Se la modernità è vista come positivistica, tecnocentrica, razionalistica, come fede nel progresso lineare, nelle verità assolute e universali, come pianificazione razionale di ordini sociali, come standardizzazione della conoscenza e della produzione (tutti aspetti messi in luce da de Sousa Santos), la postmodernità, al contrario, prediligerà eterogeneità e differenza come forze liberatrici del discorso culturale. Frammentazione, indeterminatezza, sfiducia in tutti i linguaggi totalizzanti o universali, enfasi posta sulla discontinuità, sulla pluralità, il riemergere dell’etica, della preoccupazione per la validità e la dignità dell’"altro". Anche queste considerazioni ricorrono nell’indagine di de Sousa Santos. La cultura della società capitalistica avanzata ha infatti conosciuto un profondo cambiamento nella struttura del sentire. Harvey afferma, per esempio, che la trasformazione culturale delle società occidentali fa pensare non solo a un cambiamento del paradigma dell’ordine culturale sociale ed economico, ma anche a un netto cambiamento di sensibilità, attività e linguaggio. Tale mutato modo di sentire è conseguenza della crisi del pensiero illuministico. La postmodernità può quindi essere concepita come una rottura radicale con la modernità e i suoi presupposti imperialistici e universalizzanti. In essa emerge l’idea che tutti i gruppi abbiano il diritto di parlare per sé, il che è essenziale per la posizione pluralistica del postmodernismo; in tale concezione della postmodernità possiamo infatti ritrovare considerazioni affini a quelle enunciate da de Sousa Santos. Ma è anche vero che accettazione della frammentazione, del pluralismo, dell’autenticità delle altre voci e degli altri mondi pone acutamente il problema della comunicazione e della produzione di informazione e conoscenza. Il relativismo è il pericolo che si affaccia, e che, ad esempio, porta Habermas a difendere il progetto illuministico attraverso la rivendicazione "dolce" della ragione, che deve essere riconosciuta ogniqualvolta vi sia azione consensuale (Habermas 1982). La "teoria dell’agire comunicativo" di Habermas insiste sulle qualità dialogiche della comunicazione umana in cui chi parla e chi ascolta sono necessariamente orientati al compito della comprensione reciproca. Da questo processo, secondo Habermas, emergono affermazioni consensuali e normative che instaurano il ruolo della ragione universalizzante della vita quotidiana e scongiurano il relativismo. La retorica dialogica, invece, reca come conseguenza la compresenza di sei ambiti retorici che presiederebbero alla creazione di sei sensi comuni quali forme di conoscenza proprie della transizione postmoderna. E’ difficile capire come diversità e particolarismo di tali sensi comuni facciano della postmodernità un paradigma condivisibile. Da un lato, infatti, vi è il pericolo di relativismo, dall’altro, l’alternativa 14 costituita da un discorso globalizzante e totalizzante al pari di quello della modernità, e per questo non meno insidioso. de Sousa Santos ricorre infatti a certi metatopoi, o metasimboli — sintetizzati nel metasimbolo per eccellenza che è il Sud —facendo quasi intendere che, al pari della modernità, anche la postmodernità privilegia la metanarrazione e i metalinguaggi alle narrazioni e ai linguaggi-oggetto particolari. Ma in ogni caso, se modernità e postmodernità sono orizzonti culturali complessi, modi di sentire, «atmosfere» che vedono al loro interno complesse articolazioni di tendenze, esperienze e costruzioni concettuali, possono essere definiti paradigmi? Non meno difficoltoso è capire come il senso comune postmoderno (prudent knowledge for a decent life), per quanto pragmatico, possa di per sè costituire un paradigma, che è un modo per risolvere problemi. L’uso sistematico e il ricorrere frequente di questo concetto teorico nell’analisi di de Sousa Santos legittima a operare un confronto tra questo stesso uso e la definizione di paradigma di Kuhn. Un senso comune come modo di sentire non è un paradigma, ovvero un modo di risolvere problemi reali, se non in un senso molto lato. Piuttosto, potremmo considerare la modernità come una costellazione di paradigmi: alcune teorie scientifiche, lo statalismo, il costituzionalismo o il marxismo, ad esempio, potrebbero costituire i paradigmi in senso stretto che rientrano in quell’orizzonte culturale che è la modernità, e, analogamente, potremmo vedere la postmodernità come formazione o costellazione di paradigmi — sempre che, lo ripetiamo, si decida dell’opportunità di chiamare la postmodernità paradigma. Ma anche ammettendo una certa latitudine del termine ‘paradigma’, o un uso puramente esornativo della struttura concettuale kuhniana, rimane il problema che, se modernità è un pardigma molto sfuggente in quanto non così unitario come lo stesso autore ci dimostra, postmodernità lo è ancora di più, e rischia di non essere un paradigma interpretativo affatto. de Sousa Santos ne parla infatti in termini utopici. L’analisi della transizione paradigmatica condotta recuperando un prodotto del pensiero moderno quale l’utopia sembra inficiarne lo stesso discorso metaforico. L’utopia è ciò che non è, o non è ancora, o addirittura non sarà, e quindi i termini utopici, indicati come antitesi della modernità e come caratterizzanti la transizione dal moderno al postmoderno fanno cadere proprio l’opposizione dialettica della transizione stessa. Il paradigma che deve sostituire quello vecchio deve già essere disponibile, non può essere frutto dell’immaginazione, né un paradigma virtuale o un insieme di frammenti preparadigmatici come lo concepisce de Sousa Santos. 4. Come analizzare, allora, la complessità della realtà postmoderna di transizione, caratterizzata da opposizioni e competizioni dialettiche tra il vecchio paradigma e quello emergente? In sintesi, de Sousa Santos caratterizza la transizione paradigmatica come contrapposizione dialettica da cui devono emergere gli sforzi e le energie emancipatorie, ma in cui i termini delle diverse dicotomie rappresentanti il lato della novità vengono rinvenuti attraverso gli strumenti della retorica dialogica ed espressi nei termini dell’utopia. Inoltre, il pluralismo postmoderno è giuridico e sociale, e il senso comune, o, meglio, i sensi comuni che ne scaturiscono sono la chiave interpretativa dei cambiamenti sociali, politici e giuridici. Ma, come abbiamo visto, da un lato il pericolo è la totale caduta nel relativismo e nel prospettivismo; dall’altro, la sostituzione di un paradigma con un altro, che sembra operare lo stesso discorso totalizzante attraverso l’imposizione e il prevalere del nuovo sul vecchio, assume la forma della ideologia. 15 Retorica e utopia, come strumenti di emancipazione, sembrano mutarsi in qualcosa di diverso o addirittura pericoloso, dal momento che il lato pragmatico dell’innovazione sembra annullato dal carattere metaforico o simbolico dell’utopia. Forse la risposta può venire da due sociologi del diritto contemporanei, François Ost e Michel van de Kerchove (1997), che analizzano la complessità del diritto e la molteplicità e pluralità di codici d’interazione che hanno portato a una vera e propria ricomposizione del paesaggio giuridico attuale, e lo fanno, anch’essi, in termini "dialettici", in un senso che richiede di essere chiarito. Ost e van de Kerchove affermano che la complessità del diritto è fatta di "paradossi" (per esempio, esso non ha accesso diretto ai fatti che domina, le regole del gioco da esso instaurate per guidare i comportamenti e pacificare i conflitti rappresentano esse stesse il rischio di un conflitto permanente, la sua legittimità riposa tanto sul consenso di cui beneficia quanto sulla possibilità del dissenso) (Ost e van de Kerchove 1997, 6-7) e di "coppie antinomiche" (ad esempio soggettivo/oggettivo, normativismo/realismo e così via) (ibid., 10-3), e sostengono che questo aspetto anomalo del diritto risulta appunto logicamente paradossale se giudicato alla luce del pensiero classico, che si fonda sulla legge del terzo escluso. Ma per i due autori, la tensione dialettica tra i due poli della complessità del giuridico non si riduce col prevalere di un polo sull’altro, poiché tutto è giocato sull’articolazione sistematica delle coppie di opposizione. Ciò che si impone non appena ci si sottrae al modo di vedere dicotomico tipico del pensiero classico, in nome della pluralità dei punti di vista e della tensione dei due poli come verità della complessità giuridica, è la posizione critica di Perelman. Pur avendo l’obiettivo fondamentale di sostituire sia al ragionamento deduttivo che a quello induttivo classici il ragionamento argomentativo, nel suo trattato sull’argomentazione Perelman combatte contro gli assolutismi di ogni tipo, e si scaglia contro i dualismi in cui si negano vicendevolmente ragione e immaginazione, ad esempio, oggettività e soggettività, scienza e opinione, e così via (Perelman e Olbrechts-Tyteca 1958). Le opposizioni che Ost e van de Kerchove prendono in considerazione sono invece quelle tipiche del diritto. Essi sostengono che l’attualità giuridica impone di fare i conti con l’opposizione tra le teorie che professano un monismo statico radicale, "e quelle che, al seguito di Gurvitch, pretendono di osservare un pluralismo assolutamente orizzontale, senza alcuna preminenza dell’ordine giuridico statale" (Ost e van de Kerchove 1997, 13). Per i due autori la verità sta nel mezzo, e, in generale, risiede nella complessità, o "terza dimensione", dei fenomeni giuridici. Tale natura ibrida è un prodotto dialettico, e costituisce la via d’uscita dal piano bidimensionale in cui spesso il pensiero giuridico — ma non solo quello — finisce per rinchiudersi. Se per i due autori si tratta di dare spazio alla terza dimensione, forse intrinseca alla complessità giuridica — ma, potremmo aggiungere, anche ai fenomeni sociali e culturali di un periodo di —il tipo di opposizione che si instaura tra i due poli dialettici esige, come essi stessi avvertono, un’attenta valutazione. Infatti, una scelta imperativa tra l’uno o l’altro polo, e quindi il trionfo di una tesi a scapito della tesi antagonista, eliminano la realtà paradossale e complessa del problema che si intende analizzare (si tratti della paradossalità o complessità del diritto, come vogliono Ost e van de Kerchove, o della complessità e competizione dialettica della transizione paradigmatica, come nel nostro caso). Ma questa sembra, senza dubbio, la proposta di de Sousa Santos, per il quale il nuovo paradigma deve sostituirsi al vecchio. Se invece, come nel caso di Perelman, la soluzione sta nel non accordare verità 16 né a un polo né all’altro, la soluzione sembra costituita da una «terza via». Ma al pari della scelta esclusiva di uno dei termini dell’opposizione, anche la rinuncia a entrambi, e quindi il privilegiarne un terzo, equivale a occultare, o pretendere di superare, il paradosso (Ibid.). Entrambe le soluzioni sono modi di liquidare il paradosso e la complessità. In che modo, allora, renderne ragione? Per i due autori la risposta è la dialettica, in un’accezione che deve ancora essere chiarita, mentre per de Sousa Santos, che in modo analogo si chiede come rendere giustizia del pluralismo tipico della transizione postmoderna, la soluzione, come sappiamo, riposa nella competizione tra le tesi moderne e le antitesi postmoderne, e nel superamento del conflitto attraverso la negazione della tesi. Ma gli esiti insidiosi di questa soluzione sono già stati accennati. Ost e van de Kerchove, invece, propongono la dialettica come strumento di analisi critica, intendendola però non come dialettica "statica" che giunge alla sintesi quale soluzione di compromesso — tale sintesi conciliatrice finisce infatti per negare e annullare quella tensione e quel dinamismo propri della storia in genere, e del diritto in particolare —, ma, piuttosto, come dialettica "dinamica" o "senza sintesi", quale quella proposta, ad esempio, da Merleau-Ponty (1964). Il suo principio è infatti il movimento ricorsivo che si sviluppa fra i due poli in tensione, ed è forse lo strumento più efficace per l’analisi e l’interpretazione della realtà di transizione in cui, appunto, due paradigmi si trovano a competere (Ost e van de Kerchove 1997, 14). Secondo Ost e van de Kerchove, tale dialettica senza sintesi può ambire al titolo di "paradigma di una scienza critica del diritto". Ma, a questo punto, sembra che essa possa ambire anche al titolo di "paradigma di una analisi critica della realtà pluralistica della transizione postmoderna". Per Kuhn, come abbiamo visto, una struttura concettuale assolve alla funzione di paradigma quando reca con sé un’ontologia, una metodologia e un’etica. Tale è la dialettica "dinamica". La sua ontologia, infatti, insegna, al pari di ciò che diceva Eraclito, la negatività di ogni cosa e la processualità dell’essere. La sua metodologia, che consiste nel porre in tensione gli elementi complementari e antagonisti, affermando che ogni stato contiene «virtualmente» il suo altro, è in grado di assumere il rischio dell’inceretezza e della complessità della storia, liberando la «potenza euristica» dei paradossi — liberando, potremmo dire, le potenzialità emancipatorie occultate nelle tesi dal lato della modernità. La sua etica, infine, contro ogni pretesa integralistica ideologica, mostra che le identità sono "relative", e che le differenze non sono mai assolute (ibid., 15). La dialettica senza sintesi invita al dialogo dei punti di vista più di quanto non faccia la nuova retorica dialogica postmoderna. Questa infatti dà luogo a un nuovo senso comune da cui non è facile dissociare pretese ideologiche, se non cadute nel relativismo. Se la dialettica dinamica è indicata come lo strumento in grado di mettere in luce la complessità del fenomeno giuridico, essa sembra capace di render conto criticamente anche alla complessità sfuggente, piena di antagonismi, tensioni e oscillazioni, della realtà (sociale, culturale e politica) della transizione postmoderna. Se in essa convivono i paradigmi moderni in crisi e i paradigmi postmoderni emergenti, qualunque soluzione che significasse semplice negazione del "vecchio", o individuasse una sintesi quale terza via — poiché questo sembra essere il significato del nuovo senso comune postmoderno — sarebbe, da un lato, ideologica, andando contro le intenzioni dell’autore, e, dall’altro, negherebbe la tensione della transizione paradigmatica, come del resto sembra fare lo strumento dell’utopia. La tensione dialogica sembra quindi garantita più dalla dialettica dinamica che dalla retorica. E non richiede di ricorrere allo strumento dell’utopia per sostituire al 17 vecchio paradigma quello nuovo. Se esso appartiene all’utopia, infatti, non è effettivamente disponibile, e se non è effettivamente disponibile, assieme alla cessazione della validità del paradigma obsoleto e non più servibile, cadrebbe la possibilità di indagine critica della realtà di transizione. Cadrebbe la tensione della transizione paradigmatica — che è ciò che la caratterizza in quanto tale — e con essa la volontà pragmatica di cambiamento. La dialettica senza sintesi di Ost e van de Kerchove, invece, in perfetta armonia con la teorizzazione kuhniana mutuata da de Sousa Santos, sembra render ragione della tensione e della contrapposizione paradigmatica di cui l’autore ci fornisce un così ampio e articolato ritratto. La considerazione della competizione tra modernità e postmodernità all’interno di ogni contrapposizione tra vecchio e nuovo dovrebbe portare non tanto a riconoscere categorie nuove — ma non per questo meno totalizzanti di qualunque paradigma —, ma a essere, in ogni momento, il tentativo di cogliere la dialettica del cambiamento sociale, quindi un progetto del divenire piuttosto che dell’essere, un modo per cercare l’unità nella diversità. Riferimenti bibliografici Braudel, F. 1979. Civilization matérielle, économie et capitalisme XV-XVIII siécle. Vol. II. Paris: Armand Colin. Cartesio. 1986. Discorso sul metodo. Ed. I. Cubeddu). Roma: Editori Riuniti. (ed. or. 1637) Cassirer, E. 1960. The Philosophy of the Enlightenment. Boston: Beacon Press. —. 1963. The Individual and the Cosmos in the Renaissance Philosophy. Oxford: Blackwell. Feyerabend, P. 1982. Contro il metodo. Milano: Feltrinelli. —. 1984. Il realismo scientifico e l’autorità della scienza. Milano: Il Saggiatore. 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