capitolo 3 - Cattedra Jean Monnet `La citta` nell`integrazione europea`

Cap 3. Comunità e società urbana
Comunità, società, comunità locale, relazioni sociali formali e informali, relazioni
città-campagna, tradizione, memoria, identità territoriale: sono questi i concetti
chiave che in questo capitolo vengono passati in rassegna, con particolare
attenzione al significato che una delle categorie fondanti della scienza sociologica
(quella di comunità) assume per l’interpretazione delle società locali e della
persistenza degli elementi identificativi che le contraddistinguono. Inoltre,
particolare attenzione verrà dedicata alle nuove forme di comunità locale
determinate dai processi di differenziazione.
1.
IL CONCETTO DI COMUNITÀ NELLE SCIENZE SOCIALI
1.1. Gemeinschaft/Gesellschaft: un concetto centrale nello sviluppo della sociologia come
scienza
Pochi concetti della sociologia hanno mostrato una capacità di adattamento comparabile a quella
del concetto di «comunità». Enucleato a partire dalla famosa dicotomia tönnisiana
Gemeinschaft/Gesellschaft (comunità/società) [Tönnies 1887], esso ha attraversato oltre un
secolo di sviluppo della scienza sociologica grazie a una straordinaria vitalità. Tale vitalità va ricercata
innanzitutto nel suo essere un termine di paragone rispetto ai moderni sistemi sociali. Il concetto
di comunità designa infatti uno specifico stato dei raggruppamenti sociali nel quale predominano i
rapporti diretti e informali, fondati prevalentemente su una determinante affettiva, dove
l’integrazione fra gli individui viene facilitata da un senso rafforzato di solidarietà e appartenenza.
Tenendo conto di questi requisiti della comunità, si può capire come mai nella tradizione delle
scienze sociali essa venga regolarmente messa in relazione col concetto di società per formare
una coppia di termini in contrapposizione. La comunità, secondo questo approccio
concettuale, rappresenterebbe un raggruppamento sociale non ancora caratterizzato dai
processi di modernizzazione; la società ne sarebbe il contraltare. Sotto questo profilo i concetti
di comunità e di società costituiscono uno degli schemi binari che hanno consentito di
inquadrare analiticamente i passaggi determinanti verso la modernizzazione, uno dei problemi
cruciali della sociologia. Se ne ritrovano diversi esempi nella storia del pensiero sociologico, ma
anche in elaborazioni teoriche riconducibili ad altri campi disciplinari delle scienze umane.
■ Di questo solco teorico fa parte un binomio fondamentale come status-contratto [Maine 1861],
che descrive il diverso conferimento della membership a un individuo da parte del raggruppamento
sociale di riferimento, assegnata per ascrizione nelle società tradizionali, per attribuzione di diritti e
doveri positivamente fissati nelle società moderne.
■ Il successivo passaggio teorico che si inserisce in questo solco è quello, già citato, che porta
Tönnies a individuare in Gemeinschaft e Gesellschaft due idealtipi di associazione: la prima
indicata come «vita reale e organica», la seconda come «entità artificiale e meccanica».
Quella tönnisiana è una delle più forti contrapposizioni concettuali che sia dato ritrovare in
sociologia, e continua a presentarsi come un formidabile strumento analitico nonostante in origine
fosse viziato dalla dichiarata propensione dell’autore per la Gemeinschaft.
e Una terza coppia di concetti di peso fondamentale nello sviluppo del pensiero sociologico è
quella proposta da Emile Durkheim in La divisione del lavoro sociale [1912]: solidarietà
meccanica/solidarietà organica. Qui l’attenzione è puntata su due diverse forme di produzione
dell’integrazione fra gli individui che appartengono a un’unità sociale: la solidarietà meccanica, tipica
delle società tradizionali, si fonda su legami ascrittivi e su una partecipazione emotivo-affettiva agli
affari della comunità, che avviene in termini di spontaneità; viceversa, la solidarietà organica affida
l’integrazione dei suoi membri all’interdipendenza prodotta dalla divisione del lavoro.
Dalla rassegna di alcune fra le principali elaborazioni sociologiche del concetto di comunità
risulta dunque con chiarezza quanto esso si presti alla schematizzazione dicotomica. Ciò emerge
anche assumendo il concetto stesso come strumento interpretativo di altri problemi teorici
fondamentali in sociologia urbana, ad esempio il cleavage città/campagna.
■ Esiste infatti un filone di teoria sociologica e di studi empirici secondo il quale le due coppie di
termini coincidono: la campagna sarebbe il locus privilegiato dei rapporti di tipo Gemeinschaft; i
processi di urbanizzazione e il sorgere della città come fenomeno sociale hanno, viceversa, l’effetto
di porre le condizioni per lo sviluppo della Gesellschaft (per una dettagliata ricostruzione del
dibattito sulla dicotomia, si veda Hannerz [1980]). Il filone in questione è quello che si ricollega
agli studi antropologici e che può essere ricondotto alla figura di Robert Redfield e ai suoi studi
sulle comunità contadine dello Yucatán [1960]. Nella sua versione originaria esso risulta
abbastanza datato, poiché fa riferimento a realtà sociali non più riproponibili in versione
contemporanea.
■ Un netto superamento di quella impostazione si ebbe con l’affermazione della prospettiva del
rural-urban continuum [Queen-Carpenter 1953; Loomis-Beegle 1950; Rogers 1980], la quale si
sforza di ricucire un rapporto di coesistenza fra le due principali categorie classiche nell’analisi
dei fenomeni territoriali, laddove in precedenza si era avuta una netta discontinuità. Di tale
discontinuità sono però stati recuperati alcuni aspetti teorici allo scopo di spiegare le forme
comunitarie che emergono dalla rinnovata capacità della campagna di porsi come polo di
attrazione [Bettin 1984]. Questo filone lancia una nuova linea di riflessione sulla ruralità come
sistema di relazioni umane che si rinnova a partire dalle disfunzionalità e dai deficit di socialità
della città. Sotto questo aspetto, il risorgere del rurale in quanto polo di attrazione viene
interpretato come l’occasione per l’affermarsi di nuove forme di comunità, più o meno
pianificate.
■ Un ulteriore aspetto dicotomico relativo al concetto di comunità fa riferimento alla duplice
valenza epistemologica che lo ha caratterizzato nella storia delle scienze sociali. Esso riguarda la
distinzione tracciata fra la comunità à la Tönnies (communitas) e la comunità intesa come
«comunità locale» (community). La prima va considerata come concetto analitico che indica un
certo stato dei rapporti all’interno di un gruppo sociale stabile; la seconda fa riferimento al
carattere locale di un aggregato, senza riguardo per i particolari contenuti dei rapporti che
intercorrono fra i membri. Nel primo caso, dunque, siamo in presenza di una costruzione
concettuale che raccoglie alcuni elementi analitici secondo un procedimento idealtipico: la
comunità è un modello di rapporti umani resi solidi dalla continuità dei riti, delle rappresentazioni
e dell’appartenenza. Nel secondo caso, viceversa, la comunità è costituita dall’appartenenza a un
luogo empirico.
■ Su questo filone, infine, si innesta la dicotomia proposta da Zimmerman [1938], strutturata sulla
distinzione fra «comunità localistica» e «comunità cosmopolita»: la prima è una forma di
associazione che privilegia i legami tra individui, famiglie e comunità ristretta; la seconda,
viceversa, esalta l’autorealizzazione degli individui e la costruzione di legami sociali di carattere
formale.
Ovviamente, il discorso sociologico sul concetto di comunità non si è sviluppato soltanto
seguendo un canovaccio dicotomico. Nel periodo fra le due guerre mondiali, la sociologia
americana aveva ripreso il tema [Mc Iver 1937], individuando nella comunità il primo
sottosistema sociale all’interno del quale l’individuo vede soddisfatti tutti i propri bisogni di
socialità. La sociologia del secondo dopoguerra ha avuto un ritorno d’interesse per l’argomento, e
le elaborazioni teoriche da essa prodotte sono presto entrate nel rango dei classici.
■ Questo rientro della comunità nell’agenda sociologica è stato promosso da Robert Nisbet, il
quale, nel suo La tradizione sociologica [1957], individuava nelle società contemporanee una
«domanda di comunità», ovvero un bisogno di rapporti di più elevata qualità umana, che ripari
a quel diffuso senso di insicurezza individuale che si propaga nelle società moderne. Seguendo un
approccio più spiccatamente empirico un altro sociologo americano, Edward Banfield [1957], si
è occupato di una comunità specifica del Sud Italia, indagandone il particolare ethos
denominato «familismo amorale». Per familismo amorale si intende un atteggiamento nei confronti
della realtà caratterizzato da un elevato grado di fatalismo, da sfiducia nei confronti della sfera
istituzionale (stato, politica, partiti, pubblica amministrazione) e da un ripiegamento nella
dimensione privata-familiare intesa come barriera protettiva rispetto alle insicurezze del mondo
esterno.
■ Di comunità si è occupato anche, nell’ultimo scorcio della sua carriera intellettuale, uno dei
massimi sociologi del XX secolo: Talcott Parsons. La sua elaborazione sulla «comunità
societaria» [1966; 1971] pare proporsi come la soluzione al problema dell’integrazione nelle
società che affrontano gradi crescenti di differenziazione. Al tema della «comunità societaria
americana» Parsons stava dedicando le sue energie intellettuali quando morì, lasciando
incompleta un’opera di cui sono stati pubblicati alcuni spezzoni [2000].
■ Il tema della comunità ha incontrato negli anni più recenti un significativo revival, che ha
interessato in primo luogo gli studi filosofici. L’approccio comunitarista ha infatti proposto una
chiave diversa nello studio della coesione sociale. Oggetto del new communitarian thinking è un
modello di coesione sociale che recupera il valore dei legami di tipo espressivo-affettivo
rispetto a quelli di carattere strumentale e affettivamente neutrale. Nell’ambito sociologico, la
riscoperta della dimensione comunitaria ha oscillato fra l’accezione communitas e l’accezione
community. L’accezione communitas ricorre nel lavoro di sociologi con forte propensione
all’elaborazione filosofica [Ferrara 1992; Etzioni 1993; Bauman 2001], i quali ragionano sui
termini dell’integrazione nelle società complesse e s’interrogano sulla possibilità di recuperare la
spontaneità del legame sociale. Sotto questo aspetto, la comunità viene vista come una risorsa
strategica per la coesione nei rapporti fra individui e la creazione di un consenso sugli obiettivi
da raggiungere collettivamente.
■ Ma c’è anche un altro versante di riflessione sulla comunità, di matrice più spiccatamente
sociologica. Si tratta di quel filone che sviluppa i temi di sociologia economica con particolare
attenzione alla cosiddetta «costruzione sociale del mercato» [Bagnasco 1988]. Riprendendo gli
spunti dell’economista Alfred Marshall [1912] sugli «ambienti economici» come fattori di
carattere culturale che correggono il rigido schema del comportamento economico, i sociologi
che elaborano questa linea di riflessione si dedicano alla ricostruzione delle radici sociali delle
economie locali. Tale ritorno di interesse per il tema della comunità ha spinto alcuni autori a
raggruppare all’interno di questa agenda tutte le precedenti elaborazioni teoriche sulle peculiarità
economiche territoriali, ad esempio gli studi teorici ed empirici sui distretti industriali [PikeBecattini-Sengenberger 1991; Becattini 1998; Trigilia 1986]. Questo filone ha il merito di riuscire
meglio di altri a fondere l’accezione communitas con quella community. In esso convergono le
argomentazioni di chi isola analiticamente la comunità come modello di rapporti sociali fondati su
legami emotivo-affettivi e quelle di chi la individua empiricamente nelle realtà socio-economiche
sparse sul territorio.
1.2.
Miti di fondazione, identità narrate e modernizzazione sociale
La rassegna dei principali contributi sociologici sul tema della comunità è servita a enucleare un
tema di grande importanza per lo studio delle città e dei sistemi urbani in generale. La
centralità del tema è dovuta all’importanza che assume, per le singole unità urbane, la questione
dell’identità collettiva e il modo in cui essa viene costruita. Ogni unità urbana è contraddistinta da
una specifica forma di riconoscimento reciproco, a partire dalla quale tutti i suoi componenti si
identificano. Tale identità costituisce uno degli elementi determinanti per definire la questione
della membership. Attraverso l’identità, infatti, si determina un’appartenenza di carattere culturale
al territorio di riferimento e alla comunità che in esso si trova insediata. La riflessione sulle
identità, sui loro processi di fondazione e sulle loro persistenze costituisce dunque una prospettiva
importante per cogliere aspetti determinanti della città e dei sistemi urbani. Essa permette di
comprendere quanto la dimensione socio-culturale e l’influenza degli ethos locali incidano sui
processi sociali legati al territorio e sul loro sviluppo. In questo senso le dinamiche politiche,
economiche e sociali possono essere meglio interpretate se filtrate attraverso la griglia dei corredi
identitari consolidati e delle tradizioni condivise.
È utile sapere cosa sia un mito di fondazione e quale sia la sua incidenza sull’identità collettiva di
un’unità urbana.
Un mito di fondazione va inteso come un costrutto simbolico collettivo che utilizza la storia relativa
alle origini della comunità locale per rafforzare l’identità territoriale e segnare simbolicamente i
confini della membership.
Sotto questo aspetto, non importa quanta veridicità vi sia nel mito di fondazione narrato; ciò che
conta davvero è che il mito sia condiviso, e perciò avvertito come «reale». Esso si alimenta di
narrazioni collettive e riti istituzionalizzati che ne perpetuano l’effetto sulle nuove generazioni
della comunità locale, ma anche su coloro che vi giungono dall’esterno, la cui integrazione
dipende in misura non indifferente dall’assunzione di quello specifico corredo identitario. Uno
spazio condiviso, infatti, è investito di una forte valenza simbolica che, nel linguaggio elaborato
dallo storico delle religioni Mircea Eliade [1965], porta alla sua «sacralizzazione».
Secondo Eliade, la questione dello «spazio sacro» è strettamente legata all’idea di «non omogeneità» dei luoghi e degli spazi; la non omogeneità costituisce non già un
attributo dei luoghi stessi, ma un connotato del quale essi vengono caricati dall’attività umana di
manipolazione simbolica. La differenza dei luoghi, allora, è stabilita attraverso l’elezione di un
«centro» («centro del mondo», secondo la definizione di Eliade), rispetto al quale ogni altro
spazio costituisce una «periferia». Una volta eletto tale centro, esso viene fatto oggetto di un forte
investimento simbolico in termini di significati, pratiche condivise e ricorrenze che hanno l’effetto
di rafforzarne la valenza sacrale per il gruppo che in esso si stanzia; da tale miscela sorgono i
miti di fondazione.
La letteratura sui miti di fondazione è in massima parte non sociologica;
essa appartiene a campi disciplinari diversi, come gli studi storici, antropologici, etnologici.
Ricondurne i contributi all’interno del campo sociologico significa rintracciare alcuni elementi
utilizzabili per la teoria sociale. Dal punto di vista della fondazione dell’identità, i primi eventi
costitutivi del fenomeno urbano (quale che ne sia la scala) ne rappresentano le fondamenta simboliche,
importanti non meno di quelle fisiche. Come testimoniano alcuni studi storiografici sulla fondazione
della città antica, essa avviene a partire da alcuni simboli, condivisi dai fondatori, che vengono
assunti come costitutivi dell’identità collettiva e della struttura sociale. Ciò vale non soltanto per le
città la cui fondazione risale all’antichità classica, o comunque di remota costituzione, ma per
qualunque fenomeno urbano empirico. Per esempio, la fondazione dell’antica Roma [Egizi 1913] è
descritta a partire da una serie di riti e simboli sacri o sacralizzati da una catena di atti che ricalca uno
schema predefinito.
Su questa linea si attesta Fustel de Coulanges [1864], il quale individuava come base di
fondazione della città antica quattro credenze: le credenze sull’anima e sulla morte, il culto dei
morti, il fuoco sacro e la religione domestica. Da esse scaturiscono la forma della città (strutturata
a partire dall’individuazione di alcuni luoghi chiave) e una serie di istituzioni come lo scambio
esogamico, le forme della parentela, i diritti di successione, le forme dell’autorità legittima, i
meccanismi di soluzione dei conflitti. Tutte queste istituzioni trovano la loro legittimità
nell’evento originario di fondazione della città e nelle credenze che da esso si diramano.
Nella ricostruzione di Rykwert [1988] della mitografia legata alla fondazione di Roma viene
sottolineato come l’identificazione della figura di Romolo quale fondatore rispondesse
all’esigenza di far coincidere l’origine del fenomeno-città con le gesta di un eroe.
Anche secondo Glotz [1948] la città non può essere intesa come un mero fatto territoriale, ma
come sedimentazione di credenze, valori e norme vigenti presso una comunità nel periodo della
fondazione. Tale gamma di elementi simbolici esercita un’influenza sulla vita della comunità,
sulle sue scelte strategiche, sui suoi destini.
Oltre che sulle istituzioni consolidate, Fustel de Coulanges ha richiamato l’attenzione
sull’importanza che per l’identità collettiva di una unità urbana vengono ad assumere i riti e le
celebrazioni periodiche. Qui ciò che viene rinnovato e rappresentato è l’identità civica, ovvero
quel particolare costrutto simbolico e retorico attorno al quale si articola l’identità dei membri di
una comunità locale. Sotto questo profilo, si può sostenere che le feste che celebrano l’identità
civica si distacchino in parte dai miti di fondazione, proponendosi rispetto ad essi come una
versione laica e secolarizzata di autorappresentazione. Sul piano della teoria sociologica
tradizionale, la grande lezione durkheimiana sulla funzione del rituale di matrice religiosa come
elemento di rafforzamento dell’identità di gruppo e della coesione sociale [Durkheim 1912] si
integra con l’elaborazione, fra antropologia e sociologia, del rapporto fra luoghi e
rappresentazioni collettive [Mauss-Durkheim 1901]. Ma anche la sociologia americana del
secondo dopoguerra, con le elaborazioni sulla religione civile [Bellah 1960] e sull’importanza di
identità e valori comuni, ha insistito sull’importanza dei fondamenti simbolici e a-razionali della
coesione sociale. È proprio questo misto di tradizione e modernità, di sacralità e laicismo a
contraddistinguere le unità urbane odierne e il loro rapporto con le suggestioni provenienti
dall’evento di fondazione. La dimensione di «festa» che contraddistingue gli appuntamenti
annuali che ogni unità territoriale decide di celebrare si trasforma progressivamente, acquisendo
significati nuovi in coincidenza con epoche o eventi storici specifici. Sotto questo aspetto le
singole unità urbane costituiscono delle arene per la trasformazione delle identità collettive. La
persistenza delle feste religiose o laiche si intreccia infatti con la loro continua trasformazione, o
con la creazione di celebrazioni ex novo in obbedienza a quel particolare meccanismo di
«mobilitazione simbolica» che consente la costruzione di un’identità collettiva municipale
(simile ai processi di «nazionalizzazione delle masse» in Mosse [1974]), la rielaborazione
dell’immaginario esistente alla luce di circostanze ed eventi proposti dall’oggi [Anderson 1983],
l’invenzione di tradizioni rimaneggiando l’immaginario collettivo disponibile o integrandolo con
materiali simbolici approntati ad hoc [Hobsbawm-Ranger 1984].
Il problema dei miti di fondazione e delle identità originarie va a coniugarsi con quello relativo
ai processi di modernizzazione su scala locale. La questione della modernizzazione
[Martinelli 1998] è uno dei temi strategici per gli studi sociologici. Come già accennato nel
paragrafo precedente, il passaggio dalle forme tradizionali a quelle contemporanee di società
costituisce uno snodo cruciale per la teoria sociologica. Questo tema si propone anche nello
studio delle realtà urbane e del loro patrimonio culturale-simbolico. I processi di
modernizzazione, infatti, sono descritti come dinamiche di affrancamento dai legami
tradizionali, al cui posto si affermano modelli di relazione sociale di carattere formale [Weber
1922; Parsons 1951; Smelser 1957].
I mutamenti appena delineati hanno avuto, fra i vari effetti, quello di rimettere in questione il
rapporto fra le comunità locali e il loro patrimonio simbolico-culturale. Tale rapporto è stato
ricondotto all’interno di uno schema di ambivalenza, di oscillazione fra tradizione e modernità, in
cui i miti di fondazione e le narrazioni collettive sulla città vengono costretti. Ad essi, infatti,
viene dato corso soltanto all’interno di confini temporali e spazi ben delimitati; inoltre, la
dimensione di festa che questi eventi inaugurano comporta anche uno stato di sospensione del
«flusso sociale ordinario» [Csikszentmihalyi 1975] e d’inaugurazione di un «flusso alternativo». Nel
caso del carnevale di Rio de Janeiro, per esempio, alcune analisi antropologiche parlano di
«antistruttura», ovvero una situazione nella quale l’ordinaria struttura sociale, con le sue
gerarchie, viene rovesciata [Turner 1986]. In occasione della celebrazione di feste popolari
tradizionali, dunque, la città diventa il teatro di un ritorno alle tradizioni ancestrali e al
rinnovamento delle credenze originarie; in questo contesto, gli strati popolari conquistano la
scena assumendo quel protagonismo che nelle condizioni di «flusso ordinario» viene loro
negato.
Diverso è il caso delle festività legate all’identità civica, la cui natura laica comporta la
partecipazione a rituali caratterizzati da sobrietà e dal rigore estremo nel rispetto del
cerimoniale.
Sotto questo aspetto, la comunità locale che si «riaccende» in occasione delle feste tradizionali e
quella che si anima in occasione delle cerimonie civiche possono essere considerate come due
diverse species di raggruppamento umano, all’origine di due distinte classi di «parentesi festiva»:
una celebra un patrimonio simbolico ancestrale, di radice popolare e premoderna; l’altra è
espressione di forme elitarie, razionali e pianificate di gestione simbolica di un’identità locale.
Queste ultime sono più controverse e si prestano maggiormente a essere oggetto di contese sui
«contenuti della memoria» [Halbwachs 1925; 1950], ovvero sulla loro attitudine a rappresentare
valori condivisi dalla comunità. Un ultimo versante di analisi dei miti di fondazione e delle identità
narrate su scala locale è quello che punta l’attenzione sul rapporto fra comunità locali e club
sportivi presenti sul territorio. A diversi livelli, una delle funzioni precipue degli home team è
quella di incarnare l’identità locale e rappresentarla sull’agone sportivo. Lo spunto offerto dalla
sociologia configurazionale [Elias-Dunning 1986; Maguire 1999], che legge i duelli fra gruppi
contrapposti sull’agone sportivo come la «configurazione» di identità che proprio dalla
contrapposizione vengono rivitalizzate, è stato suffragato da ricerche empiriche sulla peculiare
realtà sportiva degli Usa [Danielson 1997]. Gli home team americani, infatti, costituiscono una
rappresentazione di diversi aspetti della comunità e del sistema urbano di riferimento: ne
riflettono il tessuto economico e le strategie di sviluppo, l’equilibrio fra coalizioni sociali e politiche,
i tratti essenziali della storia locale. Ma anche la realtà europea, con la vasta tradizione di
municipalismi che caratterizza molte sue aree interne, presenta una gamma di realtà degne di
attenzione per lo studio del rapporto fra identità locali, miti di fondazione e club sportivi. Il tema è
stato efficacemente indagato da Christian Bromberger, a proposito del rapporto fra l’identità di città
mediterranea di Marsiglia e il carattere tradizionalmente multietnico del club calcistico che la
rappresenta [1994]. Un’analisi simile sul rapporto fra identità locale e club sportivo, proiettata su
un ulteriore livello micro, è stata quella effettuata da Korr [1987] sulla costruzione dell’identità del
West Ham. Essa riguarda la costruzione dell’identità di un club sportivo con riferimento a un
territorio che copre solo una parte dell’intero territorio urbano, e si dimostra utile per far
risaltare come distinti miti di fondazione e narrazioni fra loro alternative possano intrecciarsi nella
medesima comunità locale, dando luogo a molteplici sub-comunità. Il West Ham è un club
calcistico londinese nato alla fine dell’Ottocento in una zona della capitale inglese (East London)
caratterizzata da un tessuto sociale marcatamente operaio e dalla coesistenza di comunità diverse.
Grazie al legame con una realtà territoriale caratterizzata da un’identità sociale popolare e da relazioni
fra gruppi orientate all’integrazione, il West Ham sviluppò una peculiare identità, e uno stile
politico-sportivo fortemente caratterizzato (la cosiddetta West Ham way); quest’ultimo era fondato
su valori come lo spirito di solidarietà e la promozione dei giocatori locali.
2.
DALL’AREA NATURALE AL QUARTIERE
2.1.
Spazio istintivo e spazio costruito
L’evoluzione e la strutturazione dei rapporti interni a una comunità avvengono a partire da una
collocazione spaziale sufficientemente stabile, alla quale vengono conferiti significati
strumentali, simbolici, rituali. La designazione di uno spazio originario a nucleo fondamentale di
stanzialità consente alla comunità di dotarsi di un primo riferimento stabile: quello territoriale.
Sulle modalità di scelta dello spazio da parte delle comunità originarie si possono formulare
svariate ipotesi, più o meno fondate. Secondo una recente proposta di classificazione [Guidicini
1998], si possono individuare cinque modalità di insediamento territoriale da parte di
raggruppamenti umani:
a)
ecologia, intesa come interazione con l’ambiente di riferimento in termini di sfruttamento
delle potenzialità da esso offerte e di moderato intervento sulle sue condizioni di esistenza;
b)
simbiosi, intesa come rapporto di compenetrazione con l’ambiente e il territorio di
riferimento, in termini sia di coesistenza con le sue caratteristiche e risorse, sia di relazioni fra
gruppi umani differenziati;
c)
invasione, modalità secondo la quale l’impatto con l’ambiente e il territorio si registra nei
termini di un massiccio e profondamente incisivo intervento sulle forme e sulle risorse del
territorio;
d)
successione, intesa secondo due distinte accezioni: successione di popolazioni su uno
stesso territorio, che può verificarsi secondo dinamiche diverse (più o meno cruente o
negoziate); successione di territori scelti da una stessa popolazione per eleggervi la propria
condizione di stanzialità;
e)
mobilità naturale, che scaturisce dai tassi di sostituzione e riproduzione (per nascite,
morti, fenomeni migratori) all’interno della stessa unità di popolazione stanziata sul territorio.
Le modalità appena illustrate esauriscono in modo abbastanza puntuale i caratteri
dell’insediamento su un territorio. Rimane da illustrare il tipo di rapporto con lo spazio cui si dà
corso una volta che l’insediamento sia avvenuto. Sotto questo aspetto, grande importanza ha il
rapporto con quello che viene definito «spazio selvatico» [La Cecla 1988]. Esso è oggetto delle
prime manifestazioni di «ingegneria istintiva», intesa come attitudine alla trasformazione dello
spazio partendo da esigenze funzionali di adattamento all’ambiente.
Secondo Simmel [1908] il «riempimento dello spazio» è una delle attività maggiormente
significative cui i raggruppamenti umani danno corso nelle loro relazioni reciproche. Il
sociologo tedesco individuò alcune qualità essenziali delle forme spaziali cui le singole
comunità danno vita:
1)
l’esclusività (c’è soltanto uno spazio generale, rispetto al quale tutti gli spazi particolari
costituiscono delle porzioni);
2)
il confine (ogni spazio ha precise delimitazioni, che vengono tracciate da coloro che in
esso si stanziano);
3)
la fissazione dei contenuti (sul territorio vengono via via stabiliti i luoghi della socialità,
quelli del culto, quelli deputati allo svago e alla ricreazione, quelli della memoria collettiva);
4) la vicinanza o distanza sensibile nelle relazioni (cfr. box)
5)
una distribuzione di individui e gruppi nello spazio che ricalca criteri di omogeneità di
vario tipo (di clan, di tribù, familiari), a partire dai quali prende forma il fenomeno del vicinato e
ogni altra modalità di collocazione della popolazione sul territorio.
Si ha così il primo confronto pragmatico con le questioni relative alla cosiddetta «area naturale»,
che va inteso come la realizzazione di un rapporto fortemente caratterizzato fra territorio e
popolazioni che vi si insediano. L’insediamento originario costituisce il primo grado della
stanzialità, in corrispondenza del quale le popolazioni abbandonano il nomadismo e testimoniano
lo stabilizzarsi del loro rapporto col territorio per mezzo di opere destinate a durare. Sotto
questo profilo, la costruzione dello spazio rispetta un’esigenza di conferire al territorio
alcuni connotati che riflettono non soltanto esigenze funzionali, ma anche caratteristiche
culturali che prendono forma stabile.
■
BOX
3.1.
■
Vicinanza/distanza nelle relazioni sociali
La vicinanza/distanza fisica definisce il grado strategico di prossimità tra gli attori coinvolti in
una relazione. Ad esempio, il grado strategico di prossimità fra i membri di un’associazione
filatelica può essere abbastanza ampio. Il contenuto delle relazioni fra essi (informazioni
sulle novità del mercato filatelico, sulle mostre e sulle collezioni, sugli esemplari che il
mercato per collezionisti mette a disposizione in un dato momento) fa sì che il grado di
prossimità fisica sia relativamente indifferente: questo scambio di informazioni può avvenire
in misura ugualmente proficua tra individui che abitino nella medesima città come tra persone
che vivano a migliaia di chilometri di distanza. Il discorso cambia nel caso di un’associazione
religiosa (dalla realtà micro, quale può essere una setta, alla più ampia delle realtà
macro, quale può essere un’organizzazione religiosa universale), nella quale vanno distinti
diversi tipi di contenuto, che si associano a gradi diversi di prossimità strategica. Il rapporto
con i credenti per la gestione dei riti richiede un grado molto stretto di prossimità (è il caso,
facendo riferimento alla religione cattolica, del rapporto fra sacerdote e fedeli);
l’organizzazione e la gestione delle opere caritative richiedono reti più ampie; infine,
l’elaborazione della dottrina ecclesiastica e delle verità di fede viene effettuata a livello
altamente centralizzato, con un grado strategico di prossimità estremamente remoto e
distribuzione dei precetti secondo la dinamica top-down (dall’alto in basso). Come si può
vedere, il grado strategico di prossimità nelle relazioni non viene definito soltanto a
partire dallo specifico contenuto della relazione (condivisione di una passione filatelica, o di
una fede religiosa), ma anche dalle distinte articolazioni che una relazione può assumere
attorno al medesimo contenuto (gradi diversi di prossimità strategica a seconda delle
funzioni da svolgere, all’interno dell’associazione religiosa).
Le modalità di sviluppo delle forme di adattamento del territorio alle esigenze delle popolazioni
stanziali sono molteplici, ma tutte finiscono per convergere all’interno di pochi modelli di
rapporto con lo spazio. Dall’appropriazione dello spazio originario sorge un «luogo», inteso
come spazio a cui sono stati assegnati dei connotati stabili, primi fra i quali i punti cardinali per
l’orientamento. Essi vengono fissati a partire da un centro [Barth 1969], che può coincidere con
oggetti della più svariata natura. Può trattarsi di un luogo di culto, del principale sito fornitore
di risorse, di un elemento dominante del paesaggio (fiumi, rilievi montuosi, rotture del
paesaggio che segnano confini netti). L’ambiente viene così convertito in luogo attraverso processi
di definizione che avvengono anche e soprattutto per «denominazione» [Rykwert 1988].
Attività che non viene effettuata in modo casuale: l’onomastica dei luoghi, infatti, riflette
connotati storico-culturali dei gruppi umani che vi si insediano [Gnerre 1985].
Ma la facoltà denominativa dei luoghi rappresenta soltanto la prima delle attività di
«impossessamento» di uno spazio da parte di un raggruppamento umano. Un processo che,
attraverso una serie di operazioni successive di intervento sul territorio (sulla sua natura, i suoi
connotati, le sue caratteristiche), conduce alla realizzazione di ciò che Maldonado [1970;
1992] definisce «ambiente umano». Rendere l’ambiente circostante un «luogo», intervenendo in
profondità sulle caratteristiche del territorio, dà corso a quell’inclinazione progettuale che
viene vista come propria dell’uomo.
A questo tipo di inclinazione degli uomini per la progettazione sull’ambiente e sul territorio,
Sennett [1990] aggiunge quella facoltà proiettiva-speculativa che è propria dell’occhio. Esso,
infatti, ha la facoltà di «vedere» oltre il mero dato percettivo, nel senso che ha la capacità di
proiettare sulla visione della realtà esterna una capacità progettuale che è «visione differita».
La capacità progettuale, dunque, è soprattutto capacità visionaria da parte dell’individuo o del
gruppo di individui che hanno facoltà di modificare in profondità l’ambiente e il territorio sul
quale sono insediati.
Tornando al rapporto fra insediamento originario, forme di modellamento del territorio e comunità,
esso si sviluppa secondo modalità che rispettano alcuni caratteri specifici: peculiarità
ambientali, credenze del gruppo, tratti che riflettono la storia e le vicende vissute in comune.
Riprendendo in parte una tipologia approntata da Appadurai per parlare dei processi di
globalizzazione [1996], quello che prende corpo, pezzo dopo pezzo, è non soltanto un landscape
(uno sfondo territoriale), ma anche un ethnoscape (uno sfondo etno-culturale) e un ideoscape (uno
sfondo ideologico, nel quale può essere fatta rientrare una rappresentazione collettiva). Dal
contributo che ciascuna di queste dimensioni apporta alla strutturazione della comunità nello
spazio sorgono le forme e i tratti specifici del paesaggio abitato. Tutte le varianti di
organizzazione dello spazio in «spazio urbanizzato» incorporano caratteristiche uniche e
irripetibili, da ricondurre alla specificità storico-culturale e a quelli che possiamo definire «gli
originari criteri di appartenenza alla comunità».
2.2. Collocazione spaziale, ingegneria sociale e politiche dell’alloggio
La presa di possesso di un territorio comporta che prima o poi sorga un problema di
pianificazione. Lo scopo è quello di garantire non soltanto un’adeguata collocazione spaziale
della popolazione, ma anche un’adeguata articolazione strutturale e funzionale nel rapporto fra
popolazioni e territorio. Le variabili oggetto di tale attività di pianificazione sono quelle legate al
territorio e quelle di carattere spiccatamente sociologico, connesse al problema di garantire la
necessaria armonia sociale alle popolazioni che vi sono insediate.
Per questo motivo si parla di «ingegneria sociale», da intendersi come quel complesso di
strategie volte a organizzare secondo criteri di razionalità le relazioni sociali.
e
Il tema dell’ingegneria, o pianificazione, sociale è stato trattato esplicitamente dal solo Karl
Mannheim [1950], il quale ne scriveva in un periodo storico segnato da una spinta alla
ricostruzione (l’immediato dopoguerra) e intendeva comprendere nella definizione un complesso
di attività orientate a garantire una coesistenza pacifica e regolata fra attori sociali. Proiettando
le sue intuizioni teoriche sul piano del fenomeno urbano, si può notare come il problema
dell’ingegneria sociale corrisponda alla necessità di costruire «sub-ambienti urbani»
sufficientemente integrati al loro interno e nelle relazioni reciproche.
Dickens [1990] parla di processi di «integrazione fra mondo naturale e mondo sociale». Egli
mutua da Giddens, e dalle sue riflessioni sul tema del local [1979; 1984], il concetto di
«regione», intesa come una porzione di territorio alla quale viene conferito un significato.
Partendo da questo dato, l’autore si pone la domanda con la quale si confronta ogni attore
(politico, amministrativo, economico) coinvolto in operazioni di pianificazione sociale nell’arena
urbana: come e in che misura possono essere «costruite» le relazioni sociali? Dalla soluzione
del problema dipende la possibilità di creare un tessuto di rapporti relativamente pacifici e
ordinati nelle piccole comunità che coincidono territorialmente con le suddette «regioni». Ciò
che è in questione è la capacità di tenuta nelle relazioni fra comunità e sotto-comunità.
In ambito sociologico, un lavoro estremamente proficuo è quello di Arthur Hillman [1953],
dedicato proprio al tema dell’organizzazione e pianificazione della comunità su scala
urbana. Appuntando l’attenzione sul carattere dinamico delle comunità urbane, e sulla necessità di
renderne stabili e integrati i rapporti in presenza dei processi di mutamento, Hillman studia le
caratteristiche strategiche dell’intervento. Enucleando gli elementi attorno ai quali è stata condotta
l’opera di pianificazione in una serie di casi empirici (consistenza della popolazione, ruolo della
famiglia e delle altre forme di raggruppamento umano, tipo di economia, flussi di mobilità),
l’autore indica una serie di linee generali per l’azione comunitaria:
1) soluzione del problema relativo all’autorità;
2)
istituzione di un’efficace divisione del lavoro;
3)
istituzione di canali di comunicazione;
4) partecipazione calibrata alle strategie di governo della comunità. La corretta ed equilibrata
gestione di questi quattro punti dipende anche dallo stadio di sviluppo della comunità e dalle
esigenze che esso sollecita in termini di risposte organizzative. Lo stesso Hillman illustra una
serie di tappe, che va dalle comunità rurali in transizione (che fra l’altro, per l’autore,
costituiscono anche la fine del ciclo in coincidenza con la ricolonizzazione delle aree rurali) alla
pianificazione urbanistica, con i suoi profondi riflessi sullo sviluppo delle relazioni sociali. Fra le
strutture di cui una comunità pianificata deve essere dotata vi sono quelli che vengono definiti
«centri di comunità», luoghi di riferimento attorno ai quali la vita della comunità stessa si snoda:
la scuola, i centri di assistenza sociale, le delegazioni di quartiere e in generale tutte le cellule di
aggregazione allocate su un territorio circoscritto.
In modo particolare, la sfida della pianificazione di comunità si condensa nella costruzione di
sottocomunità altamente integrate all’interno. Quello che si pone è anche, e soprattutto, un
problema di carattere abitativo. La strategia di organizzazione delle comunità è infatti costituita, in
primis, da una serie di misure atte a costruire la coesistenza fra individui. La rottura delle forme di
coesistenza prodotte dalla famiglia allargata determina una condizione di «isolamento funzionale
e affettivo» della famiglia nucleare, e l’emergere di una nuova forma di comunità tipica del
fenomeno urbano: il neighbourhood (vicinato-quartiere). Quest’ultima è una forma di aggregazione
sociale particolarmente sensibile, con la quale ogni operazione di pianificazione sociale su scala
urbana deve misurarsi. Il problema del neighbourhood è essenzialmente un problema di
omogeneità e integrazione della popolazione sul territorio urbano e suburbano. La soluzione passa
per il bilanciamento di due esigenze potenzialmente confliggenti: la composizione di unità
suburbane (come possono essere i quartieri, le zone, i caseggiati, i condomini) omogenee da un
punto di vista economico, sociale, etno-culturale allo scopo di creare raggruppamenti di
popolazione fortemente integrati; l’esigenzadi evitare rischi di segregazione da parte delle
popolazioni di queste unità territoriali rispetto al sistema urbano complessivo. Dalla capacità di
garantire l’omogeneità sociale dei neighbourhood e delle comunità suburbane scongiurando il
rischio di segregazione suburbana dipende la riuscita di una policy di pianificazione sociale su
scala urbana.
La pianificazione sociale urbana, inoltre, fa i conti con lo scarto che intercorre fra piano e
dinamiche spontanee nella formazione degli aggregati territoriali urbani. La mobilità della
popolazione urbana sul territorio è frutto di svariate determinanti: dalla mera sostituzione
demografica alla riqualificazione delle singole zone, dall’espandersi delle periferie verso i comuni
confinanti alla ricomposizione del tessuto di attività produttive e commerciali nell’area suburbana. Ciascuno di questi mutamenti contribuisce a modificare il profilo delle comunità suburbane rispetto al disegno originario di pianificazione e alla composizione sociale che nel tempo
si è radicata. Un vicinato urbano può strutturarsi secondo logiche distinte, che non sempre sono
pianificate: seguendo modalità legate alla parentela [Cuturello 1987; CuturelloGoddard 1980];
o dinamiche di matrice etnica, le quali sono in massima parte spontanee [Chazelette 1986;
Berger-Thys 1991]; o determinanti economiche, legate alla stratificazione [Blanc 1991; Negri
1991; Townsend 1979]. In condizioni così mutevoli, l’obiettivo della pianificazione sociale
urbana è la costruzione di un tessuto omogeneo di subcomunità sul territorio urbano e la loro
reciproca integrazione a livello di sistema urbano complessivo.
2.3.
Modernizzazione e nuove forme di Gemeinschaft
Come accennato in precedenza (par. 2.1), i processi di modernizzazione hanno inciso in misura
elevata sui meccanismi di formazione e persistenza delle comunità a livello urbano. I cenni già
esposti sul tema della comunità sono serviti a evidenziare come essa non sia ineluttabilmente
destinata a sparire in coincidenza con la modernizzazione dei sistemi sociali. Già Tönnies si era
soffermato sui fenomeni di coesistenza fra Gemeinschaft e Gesellschaft, caratteristici di tutti i
raggruppamenti sociali di transizione da una forma all’altra di aggregazione; lo stesso autore,
tuttavia, vedeva delinearsi un trend evolutivo che avrebbe portato all’inesorabile scomparsa della
Gemeinschaft per far posto a forme di Gesellschaft. Gli studi successivi sulla comunità hanno però
corretto la prospettiva tönnisiana, facendo emergere la persistenza delle caratteristiche di comunità
anche nelle società che abbiano attraversato i processi di modernizzazione. Tale prospettiva è stata
recuperata da alcuni filoni di analisi e riflessione sulle società locali che fanno capo alla
sociologia economica e alla sociologia delle relazioni etniche.
e Soffermiamoci sul primo filone: l’elemento di collegamento fra le strutture di Gemeinschaft e
la modernizzazione è dato dal modo in cui i fenomeni economici si sviluppano in connessione
con le specificità culturali locali. Oggetto di studio, in questo caso, sono i fenomeni di
«economia informale» come espressioni di culture locali ben radicate, e quei particolari modelli di
organizzazione economico-territoriale che vanno sotto l’etichetta di «distretti industriali». La
tematica relativa all’economia informale arricchisce l’orizzonte disegnato dal paradigma
dell’economia classica e neoclassica, incentrato sul comportamento dell’attore razionale come
entità capace di calcolare i costi e i benefici di un’azione in una situazione definita. Il distacco
dal suddetto paradigma costituisce una delle linee di sviluppo della sociologia come scienza, che
fin dalle origini ha cercato di elaborare spiegazioni dei processi sociali distinte da quelle
improntate a una rigida applicazione della logica «mezzi-fini».
■ All’interno di questo schema una tipologia dei fenomeni riconducibili nella categoria
dell’economia informale è quella proposta da Ignacy Sachs [1981], il quale ne ha tracciato
sette distinte linee. Esse sono:
1)
l’economia domestica, che comprende una serie di servizi e prestazioni non monetarie
né contabilizzabili;
2)
il mix fra economia di mercato, privata e pubblica, nel quale può essere fatto rientrare il
settore della cooperazione;
3)
l’intervento economico dello stato, nel quadro del quale vengono racchiuse tutte quelle
prestazioni che non vengono erogate dal mercato e sono troppo costose per le famiglie o poco
remunerative per il settore privato;
4)
la piccola produzione autonoma, all’interno della quale vanno ricondotti alcuni esempi
di economia di autosussistenza (ancora rintracciabili in talune realtà rurali);
5)
l’economia sommersa o «in nero», comprendente le attività produttive che sfuggono alla
regolamentazione istituzionale e alla disciplina giuridica del mercato;
6)
l’economia comunitaria, nella quale vengono ricondotte quelle attività di servizio e di
trasferimento di benefici (come l’assistenza, la beneficenza, gli scambi legati alla vita associativa)
che vengono fornite/godute in ragione dell’appartenenza a un’unità sociale territorialmente
definita;
7)
l’«economia domestica colonizzata», che designa i fenomeni di inserimento capillare
nelle attività riproduttive della famiglia nucleare da parte dell’economia di mercato. In questo
senso, si ha colonizzazione quando la diffusione di tecnologia sempre più sofisticata di uso
domestico (come nel caso degli elettrodomestici) determina il sorgere di nuove categorie di
bisogni.
L’esistenza di fenomeni di economia informale, come quelli che rientrano nell’ampio spettro che
abbiamo appena illustrato, evidenzia quanta parte delle attività economiche (intese come dinamiche
di produzione e riproduzione del benessere individuale e collettivo) si sottragga allo schema
dell’homo œconomicus e ai suoi modelli di razionalità utilitarista.
■ Ma esiste un’altra modalità di organizzazione dei processi economico-produttivi, di tipo più
«formale» rispetto a quelle più sopra illustrate, che comporta una forte connessione con la
realtà territoriale e socio-culturale di riferimento: il «distretto industriale». Esso designa
situazioni caratterizzate da «industria diffusa», cioè dalla presenza di un elevato numero di unità
produttive, di piccole dimensioni, concentrate in un comprensorio relativamente ristretto che
ne favorisce integrazione e complementarità. La caratteristica davvero saliente di un
distretto industriale è costituita dalla «specializzazione produttiva» che il territorio in
questione si ritaglia nel contesto dei più ampi processi economici: in esso una specifica
industria (per esempio, quella della calzatura, o quella casearia, o quella della ceramica)
assorbe la quasi totalità delle attività produttive, ponendo i singoli attori economici nelle
condizioni di raggiungere elevati livelli di specializzazione. La letteratura sui distretti
industriali è concorde nell’assegnare alla dimensione comunitaria un peso determinante.
Sotto questo profilo, si parla di modelli sociali di tipo neo-comunitario, perché le relazioni che
fanno da cornice alle attività produttive assegnano alla comunità locale un ruolo dinamico. Si
viene infatti a innescare un circolo virtuoso fra le risorse socio-culturali disponibili sul
territorio (un’identità specifica, un sistema consolidato di relazioni, un contesto di solidarietà
informale che forniscono una spinta determinante al decollo delle attività economiche) e le
attività economiche stesse (che hanno poi, a loro volta, l’effetto di rafforzare i legami
comunitari).
Gli esempi riportati si configurano dunque come espressioni di una socialità neo-comunitaria
all’interno della quale l’elemento delle relazioni informali sopravvive e si fa esso stesso fattore
propulsivo dei processi di modernizzazione, piuttosto che esserne ostacolo. Prendere in
considerazione questo aspetto, inoltre, serve a evidenziare quale prezioso apporto gli studi
incentrati sul territorio forniscano alla revisione delle stesse categorie sociologiche. Vediamo
infatti come le dicotomie comunità-società, tradizione-modernizzazione, relazioni formalirelazioni informali, una volta spostate dal piano astratto della categorizzazione analitica a quello
concreto dei processi sul territorio, si prestino sorprendentemente all’intreccio dei termini
anziché a una netta contrapposizione. Diventa così possibile constatare come la comunità si
trovi alla radice di molti processi di sviluppo e modernizzazione; o come una rete collaudata di
relazioni informali sia risorsa e opportunità, anziché ostacolo, per lo sviluppo economico.
3. CAPITALE SOCIALE, «CIVICNESS» E CITTÀ
3.1.
«Network analysis» e modelli informali di associazione locale
L’approccio analitico denominato network analysis si è affermato in tempi recenti come
prospettiva micro-sociologica orientata a fotografare le reti di relazioni informali all’interno
di unità sociali dalle dimensioni ridotte. Secondo l’autorevole opinione di Randall Collins
[1988], questo approccio costituisce «una tecnica alla ricerca di una teoria»; posizione in
massima parte condivisibile, dato che essa pone l’accento sulla dimensione concreta dei
processi sociali, mostrandosi viceversa alquanto carente sul piano della sistematizzazione teorica
e della capacità interpretativa.
e La network analysis mette infatti a disposizione del ricercatore sociale una serie di concetti
validi per la lettura delle relazioni sociali a livello micro:
– densità di rete, che va intesa come il rapporto fra le relazioni interne alla rete e l’insieme delle
relazioni sociali possibili;
– clique («cricca», o nodo di rete), che indica «addensamenti strategici» di relazioni, dai quali
transitano relazioni e risorse essenziali;
–
centralità, che non va intesa in termini gerarchici, data la vocazione «orizzontale» delle
strutture a rete, ma come «centro di rotazione» delle relazioni.
Sorta nell’ambito dell’antropologia, la network analysis si è diffusa nelle scienze sociali a partire
dagli anni Settanta. La sociologia americana ha aperto a questa prospettiva alla fine degli anni
Settanta per merito della riflessione di White [1981]. Nel complesso, va sottolineato che in questa
fase le elaborazioni teoriche sulla network analysis prodotte negli Stati Uniti hanno risentito di
un’eccessiva tendenza a privilegiare il ruolo della struttura su quello dell’individuo [Mutti 1996;
Eve 1996]. Sotto questo profilo, una netta inversione di tendenza è stata impressa da un altro
sociologo americano, Mark Granovetter, nei cui scritti [1973; 1974; 1987; 1992], dedicati al mercato
come istituzione fondata su relazioni stabili, l’accento viene posto sul carattere sociale della sua
costruzione e sui contenuti specifici delle relazioni che a esso danno vita. Sono le reti di relazioni
esistenti sul territorio, con le loro peculiarità, a determinare le strutture di mercato, non viceversa.
Lo spostamento appena descritto ha avuto per un verso l’effetto di restituire centralità alle relazioni
sociali nel rapporto con le strutture; al tempo stesso, a giudizio di alcuni critici, avrebbe portato il
focus su un livello talmente micro da compromettere ogni possibilità di effettuare credibili
generalizzazioni teoriche. Ma, al di là delle questioni epistemologiche relative alla capacità
conoscitiva e predittiva della network analysis, essa si è rivelata utile per osservare in modo
ravvicinato la composizione delle relazioni sul territorio e i vincoli di tipo particolaristico che le
caratterizzano. Il dato per noi particolarmente significativo è la naturale connessione fra «analisi
di rete» e «dimensione territoriale». La vocazione epistemologica micro della network analysis fa sì
che essa concentri l’attenzione, nella maggioranza dei casi, su rapporti collocati in un contesto
territoriale ben riconoscibile e delimitato. Tale convergenza fra analisi di rete e studi sociologici sul
territorio realizza un’ottimizzazione delle risorse offerte da entrambi gli approcci: la prima offre la
propria capacità di «cartografare» le posizioni reciproche degli attori; la seconda mette a
disposizione un set di categorie interpretative collaudate per lo studio «localizzato» dei processi
sociali.
Ne è un eccellente esempio l’ormai classico studio di Laumann e Pappi [1976] sulla città media
tedesca denominata «Altneustadt» (che tradotto letteralmente suona un po’ come
«Civitavecchianuova», un equivalente della «Middletown» studiata dai Lynd), analizzata attraverso
le sue élite con gli strumenti della network analysis. In questo studio si dimostrava come,
all’interno di una comunità locale tedesca, i rapporti di relazione e affiliazione fra i membri
dell’élite si formassero in larga misura al di fuori dei circuiti istituzionali (istituzioni politiche ed
economiche, rappresentanze di categoria, gruppi di pressione strutturati), privilegiando invece
circuiti alternativi e particolaristici (associazionismo culturale e ricreativo, reti parentali e amicali,
partecipazione a riti istituzionalizzati della comunità). Sulla base delle evidenze emerse nel loro
case-study i due autori giungevano a sostenere che si comprende molto di più sulle élite locali
(vincoli reciproci, circuiti d’influenza, alleanze e contrapposizioni) analizzandone la rete di
relazioni informali piuttosto che i legami istituzionali.
L’approccio dell’analisi di rete si dimostra dunque assai fecondo per studiare le relazioni
particolaristiche presenti sul territorio e i vincoli di reciproca fedeltà che si strutturano al di
fuori dei circuiti istituzionali. In questo caso, si parla di «modelli informali» e «neo-comunitari»
perché le forme di associazione che ne scaturiscono sono caratterizzate dal primato del
carattere informale, funzionalmente diffuso e particolaristico rispetto a quello formale,
funzionalmente specifico e universalistico che dovrebbe contraddistinguere i sistemi sociali
altamente differenziati. Si potrebbe addirittura sostenere che la network analysis illumina
meglio di molti altri approcci sociologici la persistenza, nelle società differenziate, di legami tipici
di raggruppamenti sociali scarsamente differenziati. Ma nel proiettare un cono di luce su questa
classe particolaristica di relazioni, l’analisi di rete non si limita a fare emergere persistenze del
passato; essa illustra anche particolarismi di nuova generazione, prodotti da quegli stessi processi
di differenziazione che, secondo certe interpretazioni deterministiche, li avrebbero dovuti
cancellare.
È ciò che sostiene Granovetter quando parla di «forza dei legami deboli», rivendicando
l’importanza dei rapporti «informali, ma non amicali o parentali». Studiando le opportunità
lavorative nell’area di Boston, Granovetter scoprì che, tra i circuiti paralleli (tutti di tipo
informale e particolaristico) al mercato tradizionale delle occupazioni, i più efficaci si mostravano
quelli estranei alle reti parentali (legami forti). Queste
ultime, infatti, esaurivano presto le risorse di informazione e opportunità disponibili. Molto più
proficui, viceversa, si dimostravano i legami deboli (conoscenze, contatti informali), in ragione
dell’accesso a informazioni più vaste e diversificate di quelle messe a disposizione dal circuito di
legami forti.
e La tesi di Granovetter, giustamente criticata sotto molti punti di vista [Grieco 1987; Redding
1990], ha comunque il merito di aver messo in evidenza come le reti di relazioni particolaristiche
diffuse sul territorio e prodotte da società altamente differenziate dispongano di grandi risorse e
funzionino come strutture di opportunità di tipo «neocomunitario».
e Il discorso sulle reti di relazioni come strutture particolaristiche di circolazione delle risorse
sociali rimanda a un’altra tematica sociologica impostasi con forza nel recente dibattito
sociologico: quella relativa al concetto di «capitale sociale». Esso indica una dotazione di risorse,
relazioni e opportunità che l’attore sociale è in grado di mobilitare. In questo caso l’oggetto
d’analisi è dato dai contenuti delle relazioni sociali, in un’ottica che corregge la dimensione
esclusivamente economica dello scambio sociale. Gli autori che si sono dedicati
all’approfondimento di questa tematica [fra gli altri: Tittmuss 1971; Bourdieu 1980; Coleman
1990; Pizzorno 1991; Mutti 1998] hanno tentato di far emergere le logiche di reciprocità e i nessi
particolaristici che ne rafforzano l’effettività. Soprattutto, questo filone di analisi ha invitato le
scienze sociali a riflettere sui modi in cui un set di risorse particolaristiche (come è, appunto, il
capitale sociale di cui un attore si giova) possa stimolare dei processi di modernizzazione [Turnaturi
1991; Parsons 1994]. Si tratta di quei casi in cui la rete di relazioni e appartenenze che l’attore è in
grado di mobilitare ha l’effetto di favorirne, anziché ostacolarne, l’autorealizzazione come membro del
sistema sociale complessivo.
Per rafforzare il potenziale interpretativo della teoria sul capitale sociale si è inoltre fatto
appello a concetti già disponibili all’interno del dibattito sociologico: concetti come quello di
fiducia [Gambetta 1990; Fukuyama 1995] o di civicness [Putnam 1992], entrambi caratterizzati
da una vocazione alla descrizione di specifici nessi di appartenenza e reciprocità. Dalla
composizione di questi elementi analitici scaturisce una rafforzata capacità di indagare la
dimensione particolaristica dei legami sociali, la quale però riesce ad abbandonare un livello
esclusivamente astratto per acquisire spessore empirico soltanto nel momento in cui subentra
una variabile territoriale di dimensioni medio-piccole: una sistema urbano, un comprensorio, una
regione.
3.2.
La città come laboratorio di democrazia segmentaria
Un sistema urbano (sia esso costituito da una città, un’area metropolitana o una regione), oltre
che uno spazio pianificato e costruito, nonché lo spazio di riferimento per una specifica identità
storico-sociale, è anche l’arena di confronto e conflitto fra attori organizzati attorno a specifici
interessi e issues. Esso è dunque lo spazio naturale per l’espressione più immediata dei fermenti
democratici e per la partecipazione più allargata alla formazione delle policies. Già dalla loro «età
classica» le scienze sociali hanno cominciato a riflettere sul nesso fra struttura istituzionale
locale e costruzione della partecipazione democratica. Le osservazioni di Tocqueville [1835]
sull’importanza dell’associazionismo diffuso e di forti autonomie locali per la costruzione del
modello americano di democrazia costituiscono ancora un riferimento essenziale per ogni studio su
partecipazione e civicness. Ovviamente, le condizioni per la creazione di articolazioni territoriali
periferiche e corpi associativi adatti a un’effettiva partecipazione democratica di base sono
cambiate nel tempo; è mutata la complessità delle istituzioni centrali e di quelle intermedie, ma è
cambiata anche la composizione delle società locali. Entrambi questi ordini di mutamento hanno
stimolato la sperimentazione di nuove formule per la partecipazione e la rappresentanza dal
basso, delle quali le unità territoriali periferiche sono le arene privilegiate di espressione.
Il cambiamento si ha innanzitutto grazie ai processi di modernizzazione, che aumentano la
complessità di un raggruppamento sociale e ne rendono più complicata la coesione [Durkheim
1912].
■ Una diretta conseguenza di ciò è la differenziazione interna dello stesso raggruppamento, con
l’emergere di linee di separazione fra gruppi. Secondo la classica tripartizione weberiana [1922],
può trattarsi di linee che seguono le fratture di classe, di ceto o di partito. Tale tripartizione
dimostra validità interpretativa per i modelli di società contraddistinti da un elevato grado di
omogeneità etno-culturale, ma perde vistosamente potere euristico quando la complessità sociale
supera una certa soglia: quella che, secondo la tarda teoria parsonsiana sulla differenziazione,
coincide con la «segmentazione» [Parsons 1961; 1971], ovvero, con l’instaurarsi di una vasta
gamma di «differenziazioni fra collettività» altamente stratificate e dotate di un grado
relativamente elevato di autonomia all’interno del sistema sociale complessivo.
Il concetto di «differenziazione per segmentazione», elaborato da Parsons allo scopo di
indicare una sorta di «destino inevitabile» per i sistemi sociali moderni, si rivela
particolarmente fecondo quando si tratta di analizzare l’aumento della complessità sociale sul
piano etnoculturale. Poiché la segmentazione designa un processo che porta alla formazione di
nuove unità collettive, essa illustra nel modo migliore l’instaurarsi di meccanismi di
«segregazione relativa» fra comunità. Ancora una volta siamo in presenza di realtà che
mescolano elementi di tradizione e di modernità: forme di particolarismo basate su vincoli
tradizionali (l’appartenenza a una tradizione etno-culturale) capaci contemporaneamente di
integrare (all’interno della collettività segmentaria) e segregare (rispetto al sistema sociale
complessivo); ma che, al tempo stesso, sono il frutto di una differenziazione sociale che incorpora
una crescente complessità culturale. Un aumento della differenziazione sociale, dunque, non ha
sempre effetti di emancipazione rispetto ai vincoli comunitari; possono verificarsi processi di
segno opposto che conducono alla creazione di nuovi particolarismi di tipo comunitario o al
rafforzamento di quelli esistenti.
Il livello micro di un sistema urbano è quello che maggiormente si presta all’individuazione dei
meccanismi che regolano la segmentazione sociale. La città è infatti il laboratorio privilegiato
per osservare le dinamiche attraverso cui si formano gli attori collettivi, per studiarne le logiche
di aggregazione-segregazione e la capacità di promuovere l’azione politica. Quella che si sperimenta
sul territorio urbano è una forma segmentaria di democrazia, nel senso che segmenti di società
organizzati attorno a un’identità, un interesse o una issue assumono il ruolo di attori politici,
esercitando azioni di lobbying sulla sfera delle politiche locali.
e Una classificazione proposta da Manuel Castells [1983] relativa ai movimenti attivi a livello
locale individua tre tipi di attore collettivo:
1)
i movimenti sindacali per i consumi collettivi, che si formano per scopi economici e di
miglioramento delle condizioni materiali della vita urbana;
2)
i movimenti di comunità, che sorgono dalla necessità di tutela e rafforzamento di una specifica identità etno-culturale, economica, ma anche strettamente
connessa al territorio (come può essere quella di un quartiere minacciato da «influenze esterne»
di tipo urbanistico o migratorio);
3)
i movimenti di cittadinanza, che invocano un maggiore protagonismo del livello locale
della democrazia.
Il riferimento ai movimenti, come accennato, non esaurisce la gamma di segmentazione
all’interno di un sistema urbano. Inoltre, gli esempi appena esaminati fanno riferimento ad attori
collettivi che si orientano verso l’arena politica e fanno delle istituzioni locali un termine di
conflitto/contrapposizione. Ma esistono anche casi in cui le forme di segmentazione racchiudono
fenomeni di elevata segregazione. E spesso, in questi casi, le dimensioni sociali, culturali ed
economiche della segregazione coincidono con quella territoriale. È il tema di cui ci occupiamo
nel paragrafo seguente.
3.3.
Società urbana e mosaico delle comunità
L’attenzione riservata al carattere segmentario delle società locali (e dei loro modelli di
democrazia) presuppone non soltanto una dimensione integrativa, ma anche una dimensione
segregativa nel rapporto fra le comunità. I processi di strutturazione e articolazione dei
raggruppamenti di popolazione su scala urbana, infatti, possono non soltanto produrre una
partecipazione più adeguata e garantita; al contrario, essi possono avere l’effetto di isolare un
determinato raggruppamento, facendone un segmento impermeabile di società. Tale dinamica
porta alla creazione – sia topologica sia simbolica – di ghetti urbani, che possono avere caratteri
di classe, etnici, razziali. Delle divisioni di classe ci occuperemo nel prossimo paragrafo; ciò che
qui ci interessa è la geografia umana sul territorio urbano secondo l’appartenenza etnoculturale, e
la possibilità che essa sia all’origine di fenomeni segregativi. Si tratta di un rischio insito in tutte le politiche di promozione delle società multietniche.
Assecondando lo sviluppo pluralistico delle identità presenti sul territorio, infatti, si possono
rafforzare le barriere culturali fra comunità [Martiniello 1997].
Il rischio è quello che la geografia umana e sociale di un territorio urbano venga a strutturarsi non
già secondo la logica di un mosaico fatto di tessere che si incastrano, ma mettendo assieme una
serie di enclaves. Alcune realtà metropolitane presentano sul proprio territorio una gamma di
comunità etniche fra loro nettamente separate. Lo studio su Londra e New York di CrossWaldinger [1992] mostra la profonda incidenza sulla popolazione della spinta alla segregazione.
Passando in rassegna le trasformazioni di breve e medio termine intervenute nelle due realtà
metropolitane, si osserva come siano cambiati i cosiddetti «modelli etnici» (ethnic patterns),
ovvero la composizione delle singole comunità, la loro distribuzione sul territorio urbano e i gradi
di intercomunicazione fra esse. Nei casi di Londra e New York viene evidenziata l’alta incidenza
dei nuovi flussi di immigrazione non europea sulla loro geografia umana e sul loro equilibrio
sociale. Secondo le evidenze empiriche emerse dalle ricerche, le nuove comunità etniche si
allocano sul territorio seguendo una dinamica di successione già individuata negli anni Venti da
Park (cfr. cap. 2). Inoltre, questa nuova ondata migratoria è andata a incrociarsi col declino
della struttura industriale delle due metropoli, che esercitava una funzione di inquadramento
lavorativo per le popolazioni immigrate e che costituiva un veicolo di integrazione con la
popolazione locale lungo una traiettoria di classe. Il nuovo assetto post-industriale ha invece
l’effetto di creare le premesse di una nuova segregazione. Il mercato del lavoro assume infatti
una struttura più frammentaria e meno vincolata da regolazioni. Ciò ha l’effetto di disarticolare
la solidarietà di classe e di far ripiegare individui e gruppi verso forme più particolaristiche di
solidarietà. Importanza non inferiore assume la dimensione etno-culturale, che può determinare un
grado maggiore o minore di integrabilità nella società locale.
Ciò produce conseguenze profonde per la democrazia locale, con implicazioni dirette sulle
policies come sui meccanismi di consultazione e partecipazione della popolazione, sulle relazioni
fra gruppi come sui gradi di legittimità dei governi urbani.
BOX
3.2.
■
Il concetto di «successione»
La successione è una dinamica che porta alla sostituzione di strati di popolazione omogenei
sulla medesima porzione di territorio urbano. Nel caso degli studi di Park e della Scuola
ecologica di Chicago (cfr. cap. 2, par. 3.2), essa indicava il succedersi di strati etnici o
culturalmente caratterizzati nei quartieri più poveri delle città americane, in coincidenza con le
diverse ondate migratorie. I gruppi etnici di nuova immigrazione occupavano il gradino più
basso nella struttura di stratificazione urbana, sostituendo nelle loro case coloro che
avevano appena acquisito un grado diverso di integrazione.
Il quadro che ne scaturisce è quello di una territorial heterogeneization [Hoffmann-Martinot 2000] che trasforma la
geografia sociale e territoriale di un sistema urbano in una sorta di arcipelago di comunità il cui grado di
comunicazione reciproca può essere molto basso. In presenza di situazioni di questo tipo, non soltanto negli Usa e
in Inghilterra ma anche in Francia, si è arrivati a «politiche locali dell’etnicità» [Berthet 1999], in seguito a una sorta di
«tacito trasferimento delle responsabilità» che ha portato le singole unità urbane a occuparsi di una materia la cui
regolazione avrebbe dovuto essere di competenza statale. Quella che si realizza in questi termini è stata definita
«localizzazione delle politiche di integrazione».
e Tutte le policies locali impegnate su tale fronte devono risolvere il problema della mutata composizione dei flussi
migratori. Ciò ha comportato un ripensamento delle risposte, che hanno preso a privilegiare la strategia minima
dell’inserimento rispetto a quella vecchia dell’integrazione. La differenza fra le due strategie è quella che passa tra il fare
dell’immigrato un membro a tutti gli effetti della comunità locale (secondo quella che viene definita logica
dell’acculturazione) e il limitarsi a metterlo nelle condizioni di rendersi utile alla comunità stessa (attraverso un’attività
lavorativa) lasciandogli libertà espressiva nella sfera culturale.
La ricerca di nuove formule integrative costituisce per la democrazia locale una sfida particolarmente impegnativa. Tra
gli studiosi che se ne sono occupati alcuni hanno tratteggiato situazioni che porterebbero le collettività locali a essere
«gli attori di un nuovo contratto sociale» [Donzelot-Estebe 1994; Castel 1995]. Altri, meno radicalmente, hanno
puntato l’attenzione sulle modifiche d’agenda che il nuovo equilibrio interetnico richiederebbe alla democrazia locale
[Kingdon 1983; Skocpol 1995], soprattutto allo scopo di «prendere in carico» le nuove fasce di emarginazione, una
quota consistente delle quali è rappresentata proprio da popolazioni di recente immigrazione.
A partire da questa presa di coscienza del problema, si sono approntate misure tendenti a evitare la «concentrazione
etnica» su porzioni di territorio. Un esempio in questo senso proviene dalla legge francese del 13 dicembre 2000, su
«solidarietà e rinnovamento urbano»: essa prevede, fra le altre misure, l’inserimento scolastico «calibrato» (cioè, un
contingentamento per classe scolastica dei figli di immigrati, allo scopo di favorirne l’integrazione con le nuove
generazioni di popolazione locale), e l’assegnazione degli alloggi popolari secondo un criterio anti-segregativo (allo
scopo di inserire le famiglie immigrate in un contesto di vicinato autoctono).
4.
4.1.
CITTÀ E MODELLI DI CITTADINANZA
Cittadinanza nazionale e cittadinanza locale
La città si costituisce fin dalle origini come ente erogatore della forma più elevata di membership: quella che viene
denominata appunto «cittadinanza». Punto di partenza è la Grecia classica, nella quale l’appartenenza alla polis
qualificava l’individuo come portatore di un preciso status caratterizzato da diritti e doveri. Secondo le ricostruzioni
degli studiosi, nella polis esistevano gradi distinti di cittadinanza [Lepore 1987]. Ad Atene la «piena cittadinanza»
coincideva originariamente con la proprietà terriera, per essere successivamente attribuita anche alle nuove élite
commerciali: questi strati sociali formavano l’assemblea incaricata di prendere le decisioni relative al governo della
comunità (demos). C’era poi un livello di «cittadinanza passiva», che raccoglieva la massa di abitanti della polis
nell’assemblea del popolo (plethos): in essa confluivano tutti i maschi adulti, armati (il che determinava
l’identificazione fra plethos ed esercito), i quali potevano partecipare alle magistrature e all’attività giudiziaria. Il
modello ateniese ricalca in modo più o meno fedele quello delle altre città della Grecia classica. Altri modelli storici
(etrusco, romano, bizantino) hanno approntato simili meccanismi di conferimento della cittadinanza, tutti accomunati
dal fatto che la città coincideva con l’unità territoriale di riferimento per l’organizzazione del potere politico,
secondo una parabola che avrebbe raggiunto la sua massima espressione con l’esperienza della città occidentale
descritta da Weber [1922].
Tale situazione si è andata modificando via via che le città furono assorbite da unità politico-territoriali
sovraordinate, che presero a fungere da «centro» rispetto a esse. La dinamica che si è innescata attraverso questo
processo può essere denominata «periferizzazione» della città: essa è culminata con l’assunzione del primato nella
struttura istituzionale-territoriale da parte dello stato-nazione. La progressiva perdita di prerogative da parte della
città come «centro politico», e il suo generalizzato declassamento al rango di periferia politico-amministrativa (nel
contesto di una struttura che prevede livelli intermedi come quelli, in Italia, delle province e delle regioni) hanno
avuto fra le altre conseguenze quella di privare quasi totalmente la città della facoltà di conferire membership.
Nell’attuale assetto istituzionale dei poteri politico-territoriali l’attore determinante per il conferimento della
cittadinanza è lo stato-nazione.
Resta da comprendere quali siano i margini di autonomia, su questo versante, che restano alle città come attori
politici. Può rivelarsi utile, per comprendere la questione, la tripartizione dei diritti di cittadinanza tracciata da T.H.
Marshall [1949] che distingue tre classi di diritti di cittadinanza: civili (i diritti della persona: diritto di libertà
personale, di mobilità sul territorio, di stipulare contratti), politici (diritto di associazione, di petizione, diritto
all’elettorato attivo e passivo), sociali (diritto all’assistenza, alla previdenza, alla salute). Pur sottoposto a critiche
penetranti [Giddens 1982; Barbalet 1988; Held 1989; Delanty 2000], lo schema marshalliano mantiene ancora una
sua vitalità interpretativa nell’analisi di realtà sociali specifiche come appunto un sistema urbano. Questo schema
verrà meglio esposto nel par. 4.3; per il momento bisogna soffermarsi sul rapporto fra centro e periferia e sulle
conseguenze che ne derivano per la cittadinanza.
e Il delicato rapporto fra centro e periferia [Tarrow 1979; 2001; Urwin 1991; Rokkan-Urwin 1983; Hooge 1996], di
norma giocato su un precario equilibrio di cooperazione/conflitto, assume un particolare rilievo quando si tratta di
valutare i meccanismi di conferimento della membership. Lo status della «cittadinanza nazionale» (che designa la piena
appartenenza di un individuo a uno stato-nazione) si presenta tuttora come la forma più compiuta di membership.
Tradizionalmente, esso viene conferito in modo ascrittivo (per nascita sul territorio, ius soli; per discendenza da
cittadini dello stato medesimo, ius sanguinis) o acquisitivo (cittadinanza per elezione attraverso processi di
«naturalizzazione» diversi a seconda delle legislazioni). Questo corpus giuridicopolitico è stato chiamato a un’ampia
revisione dai processi di globalizzazione affermatisi in misura massiccia a partire dagli anni Ottanta, che saranno
analizzati diffusamente nel prossimo capitolo. Qui è importante evidenziare che fra le modalità di conferimento della
cittadinanza si è registrata, nel periodo più recente, una crescente inclinazione verso la formula dell’acquisizionenaturalizzazione. Si tratta di una diretta conseguenza della minore capacità, da parte dello stato-nazione, di vincolare
alla fedeltà quei soggetti cui riconosce la cittadinanza nazionale. L’accentuata inclinazione alla mobilità e alla
«stanzialità a breve e medio termine» da parte di tali soggetti ha infatti avuto l’effetto di rovesciare, per quanto riguarda
il conferimento della cittadinanza nazionale, il primato delle formule ascrittive su quelle acquisitive.
Tenuto conto di un quadro generale in piena evoluzione, lo schema proposto da Marshall può essere integrato con
prospettive più recenti, come quella che fa riferimento alla questione dei diritti culturali, tipica dei sistemi sociali
che procedono verso una crescente complessità etnica e linguistica [Crespi-Segatori 1996; Taylor 1994]. Inoltre, una
tematica particolarmente delicata in materia di diritti di cittadinanza si sviluppa proprio a partire dal più elevato
peso che la determinante acquisitiva assume rispetto a quella ascrittiva. Esiste infatti il rischio che la logica di
conferimento della cittadinanza non sia più quella delle solidarietà di vario genere (la comune appartenenza a una
formazione territorialmente e politicamente determinata), ma quella della negoziazione di mercato. Le politiche di
gestione dei flussi migratori in entrata adottate dai paesi più sviluppati puntano a un contingentamento che
privilegia la richiesta di manodopera specifica da parte dei sistemi produttivi locali rispetto ad altre determinanti
socio-politiche (accoglienza, ricongiungimento familiare, omogeneità etno-culturale delle comunità immigrate). Si
rischia così che si affermi un principio guida per il conferimento della cittadinanza fondato sullo skill [Russo
2002], ovvero sul possesso di determinate qualità richieste dai mercati del lavoro dei paesi di destinazione [Salazar
Parrenas 2001].
Con riferimento ai sistemi urbani, il mutamento delle logiche di conferimento della cittadinanza si collega al crescente
trasferimento di attribuzioni dal centro alla periferia, soprattutto per quanto riguarda i diritti politici e i diritti sociali.
Ogni contesto locale si trova ad approntare strategie di risposta a una peculiare problem pressure in un contesto di
risorse (economiche, sociali, politiche, culturali), situazioni e opportunità sempre unico e non replicabile. La pressione
può ad esempio provenire da processi di deindustrializzazione [Agnolin-Feltrin-Perini 2000], da un afflusso massiccio
di popolazioni immigrate [FainsteinGordon-Harloe 1991], o da un progressivo invecchiamento nel trend demografico
della popolazione locale. Nel complesso, il sorgere di «nuove povertà urbane» [Silver 1993; Mingione 1993; Mela 1996]
configura situazioni di emergenza la cui soluzione richiede la sperimentazione di nuove policies sul territorio, e non
l’adozione di quelle già collaudate per le forme tradizionali di deprivazione.
4.2.
Sistemi urbani e persistenza delle disuguaglianze
I sistemi urbani si prestano efficacemente allo studio della stratificazione sociale. La distribuzione delle
disuguaglianze sul territorio urbano segue la peculiare struttura sociale locale e i suoi processi di costituzione e
ristrutturazione. All’interno di un sistema urbano la stratificazione assume un carattere pressoché tangibile. La sociologia
marxista, ad esempio, ha riformulato alcuni punti cardine che rischiavano di ingessarne la capacità interpretativa
proprio analizzando il rapporto fra classi sociali e città. La necessità di «rispazializzare il marxismo» [Katznelson 1981;
1982] ha trovato nel territorio urbano un ambito di osservazione empirica di particolare efficacia. I mutamenti di tipo
economico, incrociandosi con variabili di tipo storico e culturale, possono incidere in ampia misura sulla struttura di
classe esistente in un sistema urbano, mutandone le logiche di aggregazione e modificando i rapporti intere intraclassisti [Bagnasco-Negri 1994].
I processi di ristrutturazione socio-economica (a livello sia centrale sia locale) possono dare luogo a fenomeni di
pauperizzazione che stimolano nuove forme di solidarietà e aggregazione, in cui l’incidenza degli interessi materiali
è diversa per quantità e qualità rispetto a quella esercitata nella città industriale classica. Alcuni studi sulla
ristrutturazione dei mercati urbani del lavoro [Gordon-Sassen 1992; Sassen 1988] hanno dimostrato che la
crescente qualificazione richiesta dalle nuove occupazioni ha fatto crescere le dimensioni dello strato di underclass
nelle città maggiormente investite dai processi di globalizzazione economica. Al contempo, le medesime città sono
state interessate da forti fenomeni di sostituzione concentrati su specifiche aree urbane, con la progressiva
espulsione degli strati meno abbienti verso zone più marginali e degradate: è quel processo di gentrification che
ormai riguarda non soltanto la «città globale» [FriedmannWolff 1982; Sassen 1991], ma anche realtà meno avanzate
dal punto di vista della connessione fra globale e locale. I processi di ristrutturazione che hanno condotto alla città
post-fordista [Bagnasco 1990]
hanno infatti eroso caratteristiche essenziali del modello di stratificazione basato sulla presenza di una forte classe
operaia. La precarizzazione dei rapporti di lavoro, unita alla terziarizzazione e all’esplosione del settore dei servizi,
ha avuto l’effetto di ridisegnare la geografia delle solidarietà e di isolare ulteriormente il lavoratore dipendente.
La distribuzione delle disuguaglianze sul territorio urbano si intreccia con la dimensione comunitaria quando i livelli
della stratificazione sociale coincidono in misura più o meno ampia con le linee di appartenenza particolaristica
(etniche, razziali, culturali). Alcune realtà urbane caratterizzate dalla presenza di ampie minoranze etniche e razziali
vedono coincidere i confini fra gruppi con quelli fra zone urbane [Nowak 1971; Kantorowitz 1973; Mela 1996].
Una situazione in cui si materializza il paradigma della divided city [Fainstein-Gordon-Harloe 1991], su cui si dovrebbe
appuntare l’azione di riduzione delle distanze fra comunità di ogni policy maker locale.
4.3.
La città come ente erogatore di diritti e «membership»
Come abbiamo visto, la principale prerogativa dello stato-nazione in materia di cittadinanza ha come oggetto quel
particolare status che viene indicato come «cittadinanza nazionale», ovvero l’assegnazione all’individuo di una
forma giuridica di appartenenza (per nascita, discendenza o elezione). La «cittadinanza nazionale» è la più completa
fra le forme di membership attualmente esistenti. Ma, riprendendo lo schema marshalliano (diritti civili, politici e
sociali) e disaggregando il citizenship complex [Parsons 1966] secondo questa tripartizione è possibile scoprire
quali siano le facoltà residuali di conferimento della membership riservate ai sistemi urbani contemporanei.
In altre parole: quali delle tre classi di diritti di cittadinanza individuate da Marshall rientrano ancora nella sfera di
competenza delle policies locali?
Nel complesso, si può sostenere che la sfera dei diritti civili appartenga ormai a una dimensione pre-politica di ogni
democrazia avanzata, essendo cristallizzata nelle rispettive costituzioni: una dimensione, dunque, che appartiene al
«centro» non soltanto nell’accezione politico-territoriale, ma anche in quella valoriale («il sistema centrale dei
valori», per usare la definizione di Shils [1961]).
Diverso il discorso relativo ai diritti politici e ai diritti sociali. Essi sono oggetto di una distribuzione fra attori politicoterritoriali che assegna ad essi responsabilità condivise e che prescinde dal possesso della «cittadinanza nazionale».
■ Sul versante dei diritti politici le autonomie locali hanno in alcuni paesi la possibilità di concedere agli immigrati
residenti il voto amministrativo [Zincone 1992; Wolman-Goldsmith 1992], ciò che corrisponde a una sorta di «diritto
politico attenuato» conferito indipendentemente dal possesso della cittadinanza nazionale. In questo caso, si attiva una
dinamica di inclusione attraverso la partecipazione alle scelte amministrative e la sanzione delle policies adottate
dalle amministrazioni locali. Inoltre, su specifiche issues gli enti locali possono concedere un «diritto referendario»
(sia che esso venga promosso dall’alto, come strategia di consultazione sulle policies strategiche; sia che esso
■
costituisca una risposta a richieste dal basso, avanzate da gruppi attivi e capaci di sensibilizzare l’opinione pubblica
locale).
■ Per quello che riguarda il versante dei diritti sociali, va sottolineato che anche in questo caso il ruolo degli enti
locali (in Italia comuni,
province e regioni) è essenziale per alcune classi di prestazioni di welfare alle popolazioni immigrate. All’interno del
citizenship complex della democrazia locale, la questione relativa ai diritti sociali costituisce dunque l’aspetto di maggior
rilievo. Gli enti locali, intercettando i bisogni presenti sul territorio, approntano le strategie di risposta più adatte ai casi
specifici. Essi organizzano tutte quelle strutture di servizio e di assistenza che puntano a ridurre le condizioni di
esclusione sociale e a favorire l’inserimento delle fasce marginali di popolazione attraverso politiche abitative, forme
di previdenza locale, strumenti di sostegno alla famiglia e al reddito. Non per nulla quella che si concentra sui
diritti sociali è ormai una linea di analisi consolidata [Barcellona 1990; MIRE 1996; Fargion 1997]. In questo ambito è
possibile sperimentare soluzioni innovative grazie anche e soprattutto al coinvolgimento di attori operanti nel terzo
settore, nell’area a cavallo tra settore pubblico e settore privato. La possibilità di intercettare i bisogni specifici
presenti sul territorio consente di approntare le formule più efficaci di welfare mix [Ranci 1999], evitando così
l’applicazione di modelli d’intervento generali e astratti.
■ A questo fronte «tradizionale» di intervento se ne aggiunge un altro prodotto dalla crescente eterogeneità etnoculturale delle società locali: quello dei diritti culturali [Delanty 2000]. Come già accennato, un sistema urbano
presenta una geografia umana che può essere altamente variegata e dare vita a dinamiche segregative. Tale rischio può
essere scongiurato grazie a una paziente politica di mediazione fra le diversità che, evitando la tentazione di
semplificare i particolarismi culturali, li spinga a dialogare e a trovare un consenso di fondo. Il conferimento di
cittadinanza con il riconoscimento dei diritti culturali può concretizzarsi attraverso l’individuazione e l’assegnazione
di un luogo di culto a popolazioni immigrate provenienti da una cultura profondamente diversa da quella autoctona, o
col riconoscimento di una loro festività tradizionale. Nel complesso, l’attenzione per i diritti culturali delle minoranze
presenti su un territorio urbano è cresciuta di pari passo con la complessità delle società locali. Se un tempo il
problema del bilinguismo rappresentava la peculiarità di alcuni territori di confine, attualmente il problema della
«mediazione interculturale» viene avvertito da tutte le amministrazioni locali: una conferma indiretta di come
l’ambito di conferimento della cittadinanza a livello locale si sia progressivamente ampliato.