L`esercizio della cittadinanza in educazione

Infanzia: cultura, educazione, scuola
Reggio Emilia, 11-13 ottobre 2007
L’esercizio della cittadinanza in educazione
Carla Rinaldi
Una premessa
Sono tra coloro che, assieme a Susanna Mantovani, a Margherita Bonacini e ad altri colleghi, hanno
collaborato alla stesura di questa prima scrittura delle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per
il primo ciclo d’istruzione.
Anche io me ne assumo dunque responsabilità: ne vedo i limiti ma ne vedo anche tutte le potenzialità
se sapremo cogliere il fatto che questo testo si presenta a noi incompiuto, e incompiuto per almeno due
ragioni:
a. perché così è stato dichiarato, nella misura in cui si offre a due anni di sperimentazione e dibattito;
b. perché, anche se migliorato dopo questo percorso, anche se cambiato, spero si saprà proporre sempre
incompiuto, cioè capace di accogliere le interpretazioni locali, le autonomie interpretative che ogni
scuola potrà, vorrà dargli, assumendosene la responsabilità.
Il testo
Il sistema educativo deve formare cittadini in grado di partecipare consapevolmente alla costruzione
di collettività più ampie e composite, siano esse quella nazionale, quella europea, quella mondiale… La
scuola è il luogo in cui il presente è elaborato nell’intreccio tra passato e futuro, tra memoria e progetto.
Molto piacere mi ha fatto ritrovare nel testo delle Indicazioni per il curricolo un paragrafo dedicato alla
“nuova cittadinanza”, e questo per due motivi.
1. Il primo che, ribadendo esplicitamente il ruolo della scuola come luogo fondamentale per la formazione del cittadino secondo il dettato costituzionale, include anche la scuola dell’infanzia in questo
compito primario. Ciò assegna a noi tutti, insegnanti in primo luogo, una responsabilità di gran lunga
più complessa che l’insegnamento di discipline specifiche: la responsabilità cioè di essere educatori.
Non i soli, ma certamente tra coloro che più possono comprenderne il significato e le difficoltà, e
perciò cercare le alleanze attorno a questo compito complesso, a partire dalle famiglie, al contesto
più ampio ove il bambino vive.
2. Il secondo motivo è che la scuola (inclusa quella del bambino piccolo) viene individuata come uno
dei luoghi culturali che possono e debbono contribuire alla definizione del concetto di “nuova cittadinanza”, agendola e teorizzandola nel contempo.
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Compito nostro, soprattutto in un seminario come questo e in questa fase di dibattito attorno alle
Indicazioni per il curricolo, è porci domande quali:
• Cosa significa cittadinanza oggi?
• Uno status? Un processo? Entrambi?
e anche
• Chi è oggi il cittadino?
• E quali i suoi diritti e quali i suoi doveri?
• Quali consapevolezze?
• Quali responsabilità?
Questo ci consentirà di comprendere cosa significa educare il cittadino, il cittadino della città, dell’Europa,
del mondo, partecipando così a uno dei dibattiti più complessi ma anche fondamentali per il futuro delle
nostre società.
Questo dibattito, queste domande, non sono nuove nella storia della scuola e in particolare della
scuola dell’infanzia.
Tra gli altri vorrei ricordare un particolare momento storico, quello attorno agli anni ’70, un periodo
fervido sia sul piano politico che culturale, e così vivo nella memoria di parecchi di noi. Sono quelli gli
anni in cui, affermando il bambino come soggetto di diritto, sostanziavamo il concetto di “bambinocittadino” fin dalla nascita. Non solo bambino come soggetto privato (figlio di…), ma come cittadino.
Questo irrompere sulla scena di un nuovo soggetto di diritto aveva delle incredibili implicazioni sul
piano culturale, sociale e politico. Il bambino-cittadino chiedeva di ri-vedere il concetto stesso di cittadinanza, ma soprattutto di rivisitare le organizzazioni di tutti i luoghi sociali ed educativi che lo avrebbero
accolto (non solo la scuola, ma gli ospedali, i teatri, le piscine, le piazze, le vie, le architetture delle nostre
abitazioni, i modi di concettualizzare la partecipazione e la stessa democrazia, il rapporto tra diritto e
dovere) – un cittadino, una cittadinanza e quindi un concetto di democrazia che si definiva e si esplicava
al di là dei confini tradizionali.
Non solo, ma quando definimmo il “bambino come soggetto competente innanzitutto ad apprendere, cioè a vivere” e quando dicemmo il “bambino portatore di diritti”, volevamo affermare qualcosa di
ancora più innovativo.
1. Con la prima dichiarazione, “il bambino competente”, volevamo dichiarare la competenza del bambino, di tutti i bambini ad apprendere, e nel contempo l’inscindibilità del diritto alla vita con il diritto
all’educazione, affermandolo come responsabilità e dovere della società in cui il bambino è inserito
e non solo della famiglia in cui è nato.
2. Con la seconda, “il bambino portatore di diritti” fin dalla nascita, intendevamo fare una dichiarazione
certo complessa ma, credo, più che mai attuale: il riconoscere il diritto di cittadinanza al bambino
(così diverso, così “straniero” così lontano dal concetto di cittadino statutario che va a votare ecc.)
poneva al centro dell’attenzione i diritti degli “altri”, delle donne, delle vittime, degli esclusi, degli
altri “stranieri” rispetto alla “cittadinanza statutale”. C’era, in fieri, il “concetto di alleanza per la
soddisfazione dei bisogni umani” (cara ad Augè).
Questo fu possibile concettualizzarlo (e in alcune realtà praticarlo) grazie al fondamentale contributo
di figure di pedagogisti e intellettuali illuminati a partire da Loris Malaguzzi, Bruno Ciari, Giorgio Bini,
Mario Lodi, tutti coloro che, attraverso difficili ed estenuanti dibattiti, parteciparono alla definizione del
concetto, dell’identità e della pratica delle “scuole dell’infanzia”.
Una definizione che rappresenta una svolta culturale e politica: non scuole per l’infanzia, ma scuole
della infanzia.
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In quel “del” c’è la svolta: l’infanzia dichiarata come soggetto pubblico, storico, categoria sociale a cui
riconoscere lo statuto di “soggetto dei diritti”, soggetto culturale.
Un’eredità culturale, una responsabilità per tutti noi.
Il bambino portatore di diritti ma anche di cultura: la cultura dell’interrogarsi, delle domande, dei perché, della sorpresa e della meraviglia, della fiducia; la cultura dell’altro come parte della propria identità,
o meglio delle proprie identità, al plurale.
Un bambino, un’infanzia, a cui non solo trasmettere cultura e saperi, ma riconosciuti – il bambino e
l’infanzia – come portatori di una propria “cultura”, di un proprio sapere.
Poi la storia, o meglio le storie, andarono diversamente. Storie nazionali e locali, sindacali, culturali ed
economiche, storie individuali e di comunità che modificarono fino a negare questi presupposti e queste
conquiste.
Io, che ho il privilegio (solo in questo caso) di un’età che mi ha visto, assieme ad altri in sala, protagonista di questo straordinario momento, io che ho avuto anche la fortuna di vivere in un’esperienza
pedagogica, politica e culturale (quella di Reggio Emilia) che, come altre, ha voluto e potuto tenere coerenza negli anni a questi concetti, valori, impegni, io sento di avere il dovere, in un dibattito come questo,
di riportare alla vostra attenzione questa storia e questi significati per poter affermare che è possibile e
dobbiamo farlo.
È ancora possibile e dobbiamo farlo: che cosa?
È possibile pensare che la scuola possa avere ancora il compito di “agente culturale” e che in particolare la scuola dell’infanzia possa avere questo straordinario ruolo e potenza. Non solo “possa” ma
“debba”. Anche grazie a questa occasione che le Indicazioni ci forniscono. Può essere una grande occasione. A partire proprio dalla comprensione e definizione di un nuovo concetto di cittadinanza per
innovare l’identità della scuola di ogni ordine e grado, ma anche la qualità culturale e sociale del contesto
ove opera.
Conosco tutte le difficoltà che la scuola incontra oggi e in particolare quella dell’infanzia: di ordine
economico, logistico e d’identità. Immagino le tante comprensibili obiezioni e lo scetticismo che può
prendere molti in sala a una dichiarazione così.
Ma pensare in grande, agire in e per paesaggi larghi, in prospettive e con strategie ricche di futuro e
quindi di speranza, è un obbligo, a mio avviso, di chi educa.
Ma so anche che questa scuola, se vuole innovare, deve avere dalla sua il bambino: lo deve saper
ascoltare e valorizzare non solo come “apprendista”, cioè colui che apprende, ma anche come portatore
di saperi, intesi come elaborazioni personali attorno alle grandi quesiti della vita.
Ascolto come credito dato al bambino, che è espressione di quell’identità dell’uomo (essere umano)
che sa interrogare e interrogarsi, che è il primo “straniero” tra noi.
Straniero come “estraneo”: estraneo alle regole, alle convenzioni. Straniero come colui che, pur prevedendo, non è prevedibile e come tale modifica i nostri schemi di attesa, i paradigmi di riferimento (il
“bambino scomodo” di Malaguzzi). Uno “straniero” che con la sua estraneità può essere capace (come
dice Freud) di rivelare lo “straniero che è in noi”, cioè la parte di noi che non vogliamo o sappiamo riconoscere e accogliere (l’altro che è in noi).
Sapremo educare un bambino se sapremo educare noi stessi, se sapremo cioè guardarci con i suoi
occhi, percepire noi stessi attraverso i suoi occhi, occhi capaci di rivelarci contraddizioni, violenze, incongruità che caratterizzano il nostro modo di fare e di essere società.
Un esercizio all’alterità, al percepire noi stessi attraverso gli occhi dell’altro, adottando per noi stessi
la prospettiva dell’altro (e rinunciando a voler imporre all’altro la nostra prospettiva).
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In buona sintesi, ricominciare con il bambino e grazie ai bambini sarà un grande esercizio di civiltà.
So che questa è solo la premessa e una possibile strategia per un’operazione di grande difficoltà e di
portata mondiale, quella che il Prof. Ceruti chiamava il “cambio di paradigma”.
Ma credo che con questa premessa e con questa “alleanza” forse potremo affrontare, sul piano culturale e strategico, alcuni dei più grandi temi della contemporaneità, e indicare le modalità per la soluzione
di alcuni dei “nodi” del vivere contemporaneo da cui può emergere un nuovo concetto di cittadinanza.
Ecco allora che i temi della contemporaneità diventano i temi dell’educazione, i temi cioè attorno ai
quali scrivere i nostri curricula e ispirare la nostra azione educativa per una nuova cittadinanza.
1. Il tema del multiculturalismo
In un certo senso è il tema delle differenze, delle nostre differenze, ed è uno dei banchi di prova della
nuova cittadinanza.
Uno dei compiti educativi più importanti per poter affrontare il tema del multiculturalismo è dunque
l’insegnare/imparare a vivere la complessità, vivere la nostra differenza. Il che significa il superamento
della cultura della frammentazione, separazione, dei particolarismi e localismi. Vuol dire imparare, con
i bambini e i ragazzi, ad affrontare la tensione tra particolare e universale. Significa (come dice il testo)
apprendere i “plurali”, non l’identità, ma le identità, non le contrapposizioni ma le solidarietà, per riscoprirle come elemento basico della biologia della vita. Come dicono Cagliari e Margini, “far crescere in
tutti una sensibilità a un mondo plurale”.
La differenza non è solo quella degli altri ma è prima di tutto la nostra, di ciascuno di noi (genere, cultura,
religione etc.) e consente lo scambio, il dialogo.
2. Il tema della solidarietà, innanzitutto come solidarietà cognitiva
Ecco perché credo che il secondo tema che dovremo affrontare è quello della solidarietà, e parlo innanzitutto della solidarietà cognitiva.
Penso che il paradigma della solidarietà (con le sue radici biologiche e cognitive oltre che affettive) sia
quello che può aiutarci a comprendere il processo che ci porta da un sapere disciplinare a un sapere interdisciplinare, significa portare l’oggetto culturale (disciplina o altro) all’interno dei legami di solidarietà.
Attraversar confini, “mantenere i legami e la solidarietà con l’universo”, di cui noi facciamo parte, come
dice Morin. Non isolare ma individuare la specificità per relazionarla al tutto attraverso un’operazione
che Bruner chiama “espansione” (messa in rete), così come il/la bambino/a ama fare.
Credo in sostanza che il bambino sia, oserei dire, un pensatore sistemico, olistico, “in fieri”, sempre alla
ricerca dei legami che uniscono, che collegano e connettono gli elementi: cosa significano alcuni dei suoi
perché se non la ricerca di legami, connessioni?
I campi di esperienza saranno allora un bel campo di prova per noi per contribuire al dibattito attorno al
significato profondo di interdisciplina. Così come il concetto di estetica, come Beatson scriveva, può aiutarci. Estetica come sensibilità alla vita, come elemento che connette – estetica della conoscenza.
3. Il tema della reciprocità e dell’autonomia
Togliere questi termini dall’abuso in cui sono finiti, realizzando una pratica che li rigenera nel più profondo dei loro significati, sarà un bell’esercizio che la scuola potrà offrire a docenti, studenti, bambini e
famiglie, e alla cultura.
La reciprocità, di cui parlava il Prof. Ceruti, nasce dall’incompiutezza, e va scoperta anche come legame
fondamentale del sapere, su cui fondare ogni percorso proposto dalle discipline e non solo, ma soprattutto
come stile stesso della scuola e legame tra i suoi protagonisti e il territorio circostante.
Così nasce un concetto di autonomia che si definisce in termini relazionali e relativi. Autonomia come
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consapevolezza e assunzione di responsabilità rispetto all’ambiente in cui l’autonomia stessa si esercita.
L’autonomia così concepita ci porta a comprendere la rilevanza che assume il tema della partecipazione.
4. Il tema della partecipazione
All’interno di questa riflessione attorno al concetto di cittadinanza, diventa un elemento “qualificante”.
Partecipazione non come “prendere parte”, ma “essere parte”, non attori ma essenza del processo.
Nella scuola partecipazione non può più intendersi solo come la partecipazione delle famiglie, ma una
modalità di essere: studente, insegnante, genitore. Partecipazione non come prendere parte, ma essere
parte – essenza; partecipazione opposta a delega, a gerarchia.
In tal modo dove c’è partecipazione c’è cambiamento, nell’accezione evolutiva del termine. Dove c’è
partecipazione, ogni parte è esposta al cambiamento, ad apprendere, a co-evolvere. Nasce una “comunità educante”, un luogo culturale ed educativo per tutti.
In tal modo la scuola può diventare “comunità educante” ma può diventare “un luogo educante” per la
comunità.
La cittadinanza, oltre ad uno status, si concettualizza così come un processo permanente in cui e per cui
tutti siano coinvolti, a partire dai bambini.
Così, con questi temi, che sono paradigmi di riferimento per orientare l’azione degli insegnanti e
della scuola, a partire da quella d’infanzia, possiamo sperare di offrire a noi e ai bambini un contesto più
ampio e pluralista.
Potremo pensare così:
• all’organizzazione della giornata, non come una somma di eventi, ma come un flusso, un continuum
dove i bambini e gli adulti cercano insieme il senso delle organizzazioni e delle regole, discutendole
e decidendole insieme;
• allo spazio, l’ambiente, non come contenitore ma come “contenuto”, un ambiente che valorizza le
autonomie e le soggettività e i tempi di ciascun bambino;
• alla solidarietà tra il gioco e l’apprendimento, tra fantasia e realtà, tra l’insegnante e i bambini, tra i
bambini stessi.:
• alla “documentazione partecipante”, parte cioè dei processi, che supporta l’apprendimento del bambino
e quello dell’insegnante e che è “solidale” con il bambino;
• al gruppo, come “un gruppo di apprendimento solidale”, siano bambini o adulti insieme.
• alla comunità scolastica e civile come una comunità di bambini e adulti, insegnanti, genitori, cittadini di
diverse etnie e culture che provano per i bambini e con i bambini a cambiare gli schemi di attesa e
di accoglienza, di ascolto.
• un luogo, la scuola, dove concretizzare e condividere con i bambini e le famiglie “l’esercizio di cittadinanza come esercizio del pensiero solidale”.
Un luogo in cui sperare che l’utopia dell’educazione sia un sogno condivisibile.
Un luogo dove poter trovare la forza e la motivazione e l’ottimismo per non farci schiacciare da un
presente deprivato del futuro.
Chi educa, l’educazione, ha bisogno di futuro. Altrimenti non è.
I bambini ce lo danno, ci danno il futuro.
Noi dobbiamo metterci il coraggio, il coraggio del futuro, il coraggio dell’utopia perfettibile.
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