FANTASIA DELLA REALTA’ (Franco Campegiani ‐ Milano, 9 aprile 2011) Ritengo sia una leggenda da sfatare quella che vorrebbe realtà e fantasia, ovvero corpo ed anima, inconciliabili tra di loro. Si tratta di un tetro e funereo luogo comune che faremmo bene una buona volta a dissolvere per tornare ad un più sano ed equilibrato concetto di realtà, ed anche di fantasia. Le culture native coltivano tutte indistintamente un’idea animistica del vivente, secondo cui non c’è nulla di inanimato e tutto ciò che è vivo è intelligente. Vita, a tutti i livelli, è sinonimo di intelligenza, e rompere questo equilibrio significa squilibrarsi, o nella direzione di una visione del mondo squallida e meccanicistica, oppure nella direzione opposta, onirica, solipsistica, di una mente follemente avulsa dalla realtà. Bisogna ammettere che l’evoluzione culturale e tecnologica ha da un lato inaridito il mondo, privandolo di questo respiro vitale, e dall’altro ha reso folle la fantasia, spingendola verso eccessi arbitrari ed ingannevoli: le cosiddette licenze poetiche, cui si perdona ogni assurdità. La cultura greco‐romana, di cui siamo ancora debitori, in fondo non ha fatto che tentare di affrancare l’uomo dal contesto naturale, separandolo dalla comunione e dalla conversazione con tutto il vivente, al fine di garantirgli un dominio sulla natura stessa, o comunque un autonomo destino. Per far ciò ha dovuto uccidere l’aspetto numinoso del creato, le voci intelligenti della natura, subendo tutte le tragiche conseguenze di questa scelta. Il corso della cultura occidentale fino ai nostri giorni ha risentito di questa impostazione di pensiero, di questa scissione diabolica della Ragione, o del Logos, dalla Phisis, con le motivazioni più varie: da quelle metafisiche a quelle del soggiogamento della materia stessa. Per quel che concerne le arti, l’opposizione Io­Mondo ha dato luogo in un primo tempo ad una figurazione oggettivistica, esaltante i lati formali della riproduzione artistica, e successivamente, nel clima dell’arte contemporanea, alla fusione nichilistica, glorificante e tragica a un tempo, del Soggetto con l’Oggetto, dell’Uomo con il Mondo. Se questa può essere molto sinteticamente la storia delle filosofie e delle poetiche succedutesi nella cultura occidentale fino ai giorni nostri, occorre prendere atto che si stanno oggi gettando le basi per una svolta davvero epocale, dal momento che si sta esaurendo ogni prospettiva trionfalistico‐nichilistica, legata all’assurdo, secolare desiderio di liberare l’uomo dall’ordine naturale, dall’intelligenza del pianeta che lo ospita e nel cui abbraccio è chiamato a svolgere il proprio cammino. Timidamente, ma con grande tenacia, si sta facendo strada un ripensamento, dovuto al fallimento oramai evidente di tali prospettive. Le nostre radici culturali vanno rimeditate e corrette. Così diverrà molto opportuno spingere il nostro sguardo verso radici più profonde, verso più arcaici substrati culturali, dove la collaborazione dell’uomo con la natura era assodata. Occorre in altri termini superare lo scoglio della scissione razionalistica e della fusione nichilistica dell’uomo con il mondo, per ripristinare i sacri legami e le relazioni paritetiche dell’uomo con tutto il vivente. Dopo questo necessario preambolo, è ora di entrare nel vivo del discorso che qui si deve fare. Fra le poetiche recenti, salite alla ribalta dello scenario artistico nell’ultimo scorcio del secolo appena trascorso, ce ne sono un paio su cui vale la pena soffermare la nostra attenzione: l’Informale, situato nel solco dell’avanguardia estroversiva, e la Nuova Figurazione, nel solco di quella introversiva. E’ noto come quella Informale sia una poetica dell’incomunicabilità che smaschera la crisi del linguaggio posto da una lunga tradizione culturale in termini formalistici; ed è anche noto come la Nuova Figurazione proponga un’oggettualità colta al di fuori del filtro intellettuale (e perciò esente da intenti formalistici), che, pur facendo uso della fotografia, sarebbe improprio definire “fotografica” nel senso documentativo o interpretativo del termine, giacché è da se stessa che si impone sulla scena, catapultandosi nell’obiettivo dell’artista quasi gli oggetti fossero rottami alla deriva. L’innovazione che propone Piero Leonardi è estremamente significativa. Gli oggetti, che nel Ready Made e nell’Arte Concettuale, ma anche nel Bricolage e perfino nella Pop Art, prendono il sopravvento imponendosi clamorosamente sulla scena, iniziano qui ad essere presi in considerazione, ad essere ascoltati attentamente, con curiosità e grande partecipazione emotiva. Leonardi si chiede: “Che cosa ci vogliono comunicare gli oggetti?”. Non si chiede che cosa gli oggetti risveglino in noi. Non sfugga la differenza. Tutto conversa e dialoga, ci vuole dire l’artista. C’è una comunicazione in tutto il vivente, un contatto confidenziale con la Phisis. E questo ascolto del battito interno ed arcano del creato disintegra i pregiudizi sull’inconoscibilità dell’in sé, caposaldo indiscusso del criticismo kantiano. L’inseità non esiste, se è vero che tutto è in relazione. A meno che non si intenda che l’in sé è in relazione con se stesso. Esistono gli abissi, i recessi nascosti, ma non c’è profondità che non sia in relazione con la superficie. L’Arte Percettiva di cui parla Leonardi, distinguendola dall’Arte Documentativa ed Interpretativa del passato, allude alla capacità osmotica di una mente vergine e creativa, aperta al flusso misterioso della vita. E questa è concretezza. Non è misticismo, se con questo termine intendiamo uno stato di esaltazione mentale. Non c’è nulla di più concreto ed equilibrato del trascendimento, se superare i limiti significa oltrepassare il campo dei pregiudizi e delle illusioni. Il rigore mentale cui giustamente ambisce il kantismo è in realtà accessibile solo facendo vuoto mentale. Ed è l’atteggiamento tipico di ogni animismo, di ogni cultura che si alimenta dell’ascolto dell’Essere, anziché delle masturbazioni di una mente in balìa di se stessa. Ribadisco che le atmosfere non sono misteriche, a meno che non si reinterpreti il termine in maniere più appropriate. Qui oltretutto parliamo di un artista che non disdegna il timbro giocoso, come dimostra l’ironico ciclo di Pepperlife, a significare che sentirsi amici della natura, o dell’altro, vuol dire anche saper ridere insieme. Non possiamo chiamare in causa lo Strutturalismo, per quanto questa corrente di pensiero dia grande importanza alle relazioni. Le limita tuttavia all’orizzonte dell’uomo, mentre la visione animistica del mondo che qui consideriamo pretende che tutto il vivente sia in relazione. Chi ci autorizza a credere che la facoltà di porre o porsi in relazione sia esclusivo appannaggio della natura umana? La nostra mente, per quello che può, ha la facoltà di conoscere le connessioni esistenti, ma che queste esistano anche a prescindere dall’umana consapevolezza è una constatazione elementare. Si dirà – ed è vero – che porre, o porsi, in relazione è una qualità dell’intelligenza, ma possiamo essere certi che intelligenti siano soltanto gli esseri umani? Quanta arroganza e presunzione! Esistono svariati tipi di intelligenza. Anche l’istinto è intelligente e non esiste soltanto l’intelligenza razionale. Fuori dal tetro solipsismo veniamo investiti dai freschi e vividi venti della comunione universale. E’ dunque sull’Animismo che si modula la proposta estetica di Piero Leonardi, nonché il suo modello di Arte Percettiva. Prudenzialmente, con grande equilibrio e sagacia, egli avverte che “queste fantasie… non hanno nulla di scientifico”, ma ciò non significa che esse siano chimere. L’uomo ha molteplici facoltà e tutte si equivalgono nel diritto di captare il vero. Quella scientifica è solo una delle tante vie. Ed è, guarda caso, proprio quella da cui oggi giungono le rivelazioni più strabilianti e spiazzanti per l’intelletto razionale. Non c’è più bisogno degli artisti o dei poeti (dei cosiddetti sognatori) per destabilizzare la ragione. E’ sufficiente la scienza, da tempo incamminata nei sentieri dell’impalpabile, dell’invisibile, dell’energia subatomica, della quantistica, di una fisica (mi si consenta il termine) immateriale. Per tornare a noi, è straordinario osservare come l’innovazione di cui ci stiamo interessando giunga da quel campo dell’arte (la fotografia) tradizionalmente ritenuto più vicino al documentarismo oggettivo. Tutto questo conferma, da un lato l’estremo realismo dell’approccio animistico, e dall’altro l’impossibilità per il fotografo di accedere ai piani dell’anima eludendo la realtà oggettiva in cui è immerso e da cui è circondato. Egli non crea, né plasma le forme, come fa il pittore o lo scultore, ma è costretto a penetrarle, ad attraversarle, ad indagarle per tirarne fuori il messaggio arcano. Prima che Daguerre, nel 1839, con un procedimento fotochimico riuscisse a fissare le immagini nella camera oscura, era in qualche modo la pittura a doversi far carico delle funzioni documentaristiche, didattico‐divulgative e tecniche affidate alle immagini. La nascita della fotografia determinò un vero e proprio terremoto nella psicologia della visione. Da quel momento la pittura venne esonerata dal tradizionale ruolo riproduttivo della realtà, cosicché il pittore poté iniziare a porsi di fronte alle cose non più spinto dal desiderio di ritrarle nelle loro qualità formalistiche, bensì con fini più complessi e sempre più mentali. Tanto che Baudelaire, con il suo simbolismo fortemente intriso di connotazioni psichiche, giunse ad insorgere, disgustato e scandalizzato, contro il tecnicismo dei fotografi. C’è tuttavia da considerare che al di là delle poetiche che si dipartono per l’appunto dal Simbolismo, abbracciando successivamente il Surrealismo, la Metafisica dechirichiana e parte del Dadaismo, fu proprio la fotografia ad influire fortemente sull’avanguardismo artistico. Sto pensando agli aspetti più propriamente dinamici dell’arte contemporanea, un po’ tutti connessi con l’esperienza realistica proveniente dall’area impressionista‐espressionista. In quell’area si deve constatare lo stretto contatto fra le due discipline visive. Notorio è, ad esempio, lo stimolo prodotto sui pittori impressionisti dalle immagini fotografiche non più legate al disegno e sostenute da una visione più pura, fatta di semplici macchie chiare e scure. Ma oltre a questo influsso, per così dire indiretto, ispirato dalla camera oscura, ci fu una rivoluzione artistica direttamente operata dalla fotografia. Questa, come giustamente fa notare Leonardi, pur continuando a svolgere il suo ruolo documentativo, iniziò infatti un percorso di interpretazione della realtà dove l’Io e il Mondo non sono più distinti, ma fusi tra di loro. Ne scaturì una forma espressiva di pari dignità delle altre forme di arte visiva. Pensiamo ad esempio alla scoperta della “sequenza dinamica” e all’impulso che ne derivò per l’Arte Cinetica, per la Op Art e per la Cinematografia. Non può esserci dubbio, insomma, sul fatto che le avanguardie estroversive dell’arte contemporanea, abbiano sviluppato un forte rapporto con la fotografia, come più in generale con le tecniche del mondo industriale, pur conservando, rispetto ad esso, l’autonomia creativa. La Fotografia Interpretativa, dice Leonardi, non è più la Fotografia Documentativa legata a fil doppio alla figura, ma è un’espressione squisitamente artistica, dove tuttavia è ancora riconoscibile l’oggetto, trasfigurato invece dalla Fotografia Percettiva. E’ paradossale che, per comprendere la genesi storica della Fotografia Percettiva, occorra rifarsi a quel filone introversivo dell’arte contemporanea, di cui Baudelaire è un nume tutelare, che fin dalle origini ha avversato la fotografia. Per una di quelle non rare ironie della storia dell’arte e del pensiero che spiazzano ogni schematismo, proprio una delle attuali correnti discese dal Simbolismo ha finito per riscoprire il valore della fotografia, assegnandole un insostituibile ruolo di contrappunto critico e di riflessione sociale. Mi riferisco alla Pop Art, discesa dal New Dada, e al clima aspramente ironico da questa messo in campo nei confronti della civiltà consumistica e della cultura tecnologico‐ industriale. L’ottimismo per la cultura scientifica e per il progresso tecnologico, vissuto con grande slancio utopico dalle avanguardie estroversive del primo Novecento (in primis dal Futurismo), ma pressoché ignorato nel versante introversivo delle stesse, si è così capovolto in una sorta di pessimismo radicale sui destini di un mondo disumanizzato dalle macchine. Già nel Dadaismo possiamo osservare l’avvio di questa controtendenza, attraverso il ribaltamento della glorificazione surrealista dell’oggetto e la messa in caricatura della preponderanza fisica degli oggetti stessi nel mondo attuale. Ma è stata in particolar modo la Pop Art a scardinare, nel clima postmoderno, le mitologie futuriste ed i sogni meccanicistici, avviando una ricca e stimolante riflessione sui limiti del progresso consumistico. E non in utopica antitesi, ma in maniera autocritica, dall’interno degli stessi processi tecnologici, accettandone ogni contaminazione. Negli anni Sessanta, sulla scia della Pop statunitense, nacque in Europa il Novorealismo (Nouveau Réalisme), salutato da Pierre Restany come “l’appassionante avventura del reale percepito in sé e non attraverso il prisma della trascrizione concettuale o immaginativa”. Superare dunque ogni filtro interpretativo per acquisire coscienza degli oggetti così come sono, in se stessi. Ed è questo, senza alcun dubbio, il primo passo verso la percezione di cui Leonardi ci vuole informare. A differenza del realismo americano, tutto preso dalla critica dei modelli e delle strutture materiali del vivere collettivo, il realismo europeo, più sensibile ai temi umanistici, ha tuttavia condotto uno scavo nella realtà sociologica rilevandone le interne contraddizioni, i drammi e i problemi esistenziali, i risvolti etici, gli stati psicologici. Una visione del mondo impietosa, con l’accento posto sulle disagiate condizioni interiori dell’esserci, sul senso di solitudine degli uomini, non più paragonabile all’angoscia dell’Esistenzialismo classico, dove l’uomo “gettato nel mondo” poteva ancora sentirsi gestore del proprio destino. Nella realtà odierna si deve registrare il naufragio dell’io fra i marosi del frastornante mondo oggettivo, fra i grovigli e i tentacoli della disarmante condizione megalopolitana. Ed è questo disagio morale che la Nuova Figurazione ha voluto evidenziare, addentrandosi nella realtà oggettiva dei fenomeni, nella delirante e assordante alienazione dei nostri tempi, che amplifica il senso di esilio e di nostalgia dell’io verso se stesso. E’ qui che interviene il nuovo corso che la poetica fotografica di Piero Leonardi propone. Affinché gli oggetti non ci aggrediscano, è necessario ascoltarli, lasciarli parlare. Soltanto così non si trasformano in mostri orrendi e famelici. Solo così ci possiamo difendere dal caos metropolitano. Dice Leonardi, ricordando i primi passi da lui compiuti nella poetica percettiva: “Guardavo il mondo cercando di superare l’impatto visivo per entrare in un’essenza più nascosta alla superficialità dello sguardo… Il mio soggetto non era più fatto di materia, ma di sensazioni”. Una sorta di transfert, di reciproca immedesimazione. Reagire con un arricchimento all’impoverimento dello spirito prodotto dalla babele tecnologico‐industriale. La materia è soltanto un involucro; e se è un vuoto involucro, allora bisogna riempirlo di anima. Bisogna riempire di silenzi parlanti il muto delirio megalopolitano. E’ così che, attraverso la fotografia, legata per sua natura all’esistente (finanche in questa fase percettiva), si può seguire ed inseguire l’anima delle cose. Il pittore può lavorare di pura fantasia, anche prescindendo dal mondo reale. Il fotografo no: deve trovare l’anima all’interno delle cose. Quell’anima che può conversare con la sua anima e non con la sua ragione, con il suo ego razionale. Tanto più l’uomo è se stesso, padrone del proprio ego, e tanto più acquisisce valori universali. Egli può dialogare con l’universo intero, ma non può farlo se non conversando con se stesso. Ed è il risveglio interiore della propria Musa. Una ricerca che dà vita, come dice Leonardi, ad un suo personale Stile di Vista. E, per ciò che riguarda il fotografo, all’elaborazione di una sua inconfondibile Calligrafia Fotografica. Ci si può giustamente chiedere in che modo questa personalità inconfondibile possa svilupparsi nell’era della massificazione delle immagini e della fotografia digitale. Sembra impossibile, eppure – dice Leonardi – il problema non si pone. O meglio, è il problema che si pone da sempre con qualsiasi tecnologia. L’evoluzione della tecnica non distrugge automaticamente lo spirito, ma pretende al contrario un sempre maggiore affinamento spirituale. “La tecnica, dice Leonardi, da sola, non è mai stata sufficiente”. E “proprio la diffusione su vasta scala degli automatismi rende ancor più determinante lo stile fotografico per contribuire alla definizione della qualità individuale”. Può tornare utile, a tal uopo, rammentare le teorie critiche della società elaborate dai filosofi di Francoforte, Adorno in prima fila. Secondo costui le opere d’arte si servono, nel loro processo di formazione, di quelle stesse tecniche dalle quali sono indipendenti, giacché “l’arte mobilita la tecnica dalla linea di tendenza opposta a quella su cui la tecnica viene messa dal dominio”. In tal modo, pur risentendo dell’influsso del mondo tecnologico, l’arte si separa da esso e si solleva al di sopra della situazione. La Fotografia Percettiva non è altro, allora ed in ultima analisi, che la ricerca, o la rivelazione, del senso della vita. Franco Campegiani