Saggi e Ricerche I

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Saggi e Ricerche
I
A11
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Dipartimento di Studi Storico-sociali e Filosofici
Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo
Università degli Studi di Siena
Collana: Saggi e Ricerche
La Collana Studi e Ricerche pubblica alcuni risultati delle ricerche che sono
svolte dai membri del Dipartimento
Comitato scientifico: Mariano Bianca, Maria Luisa Meoni, Renzo Sabbatini,
Francesco Solitario
Questo volume è stato pubblicato con un contributo parziale del Dipartimento
di Scienze Umane e dell’Educazione
Riflessioni sul senso della vita
a cura di A. Catelani, M.Bianca, S. Zacchini
Dipartimento di Studi Storico-sociali e Filosofici
Università degli Studi di Siena
Saggi e Ricerche / I
Copyright © MMX
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133/A–B
00173 Roma
(06) 93781065
isbn 978–88–548–3430–9
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: settembre 2010
Indice
07 Presentazione
09 M. Bianca, Quale senso ha la vita?
19 V. Costa, Esistenza e autenticità: a partire da Heidegger
1. Il senso della vita: verso una dissoluzione del problema, 19 – 2. Il linguaggio del senso, 22 – 3. La coscienza che abita il mondo, 25 – 4. La voce
del silenzio, 31
37 S. Zacchini, La precarietà del senso
49 A. Catelani, Diritto e senso della vita
85 M. Micheletti, Il senso della vita come problema filosofico.
La distinzione fra ‘creare’ e ‘scoprire’ il senso e la questione
della dimensione normativa
107 B. Rossi, Dare senso pedagogico alla vita
Abitare progettualmente il tempo, 108 – Significati e scelta di sé, 112 – La
domanda di senso esistenziale come domanda di valori e ideali, 116
119 H. Seidl, Etica e fine ultimo della vita
1. Problema di un’etica del bene e del fine ultimo nella filosofia contemporanea, 119 – 2. L’ultimo fine della vita nell’etica tradizionale, 122 – 3.
Valutazione, 129
135 S. Brogi, Materialismo e senso della vita tra Bayle e Leopardi
175 G. Baffo, Il senso della vita nel pensiero russo fra Ottocento
e Novecento
1. La scissione della cometa: Il Superuomo in Russia, 176 – 2. Rifare la
vita: fëdorovismo e cosmismo, 184
Presentazione
Nella Facoltà di Lettere e Filosofia, con sede in Arezzo, dell’Università di Siena, si è tenuta, il 10 dicembre 2008, organizzata dal Dipartimento di Studi Storico sociali e filosofici, e dal Dipartimento
di Scienze umane e dell’educazione, una giornata di studi dedicata
ad un’analisi etica, storica e teoretica del tema del senso della vita.
Il Convegno si è svolto secondo alcuni nuclei tematici, che i relatori hanno affrontato nella loro particolare impostazione. Sono
state individuate tre aree generali: teoretica (Mariano Bianca, Vincenzo Costa e Simone Zacchini), etico–pratica (Alessandro Catelani, Mario Micheletti, Bruno Rossi e Horst Seidl) e storica (Giancarlo Baffo e Stefano Brogi). Il dibattito ha avuto quindi un’ottica
interdisciplinare, indispensabile per l’approfondimento di un così
complesso argomento.
Mariano Bianca ha affrontato la dimensione teoretica del Convegno con un intervento dal titolo Quale dimensione ha la vita?, articolato secondo una visuale strettamente “antropologica”, intesa
come dimensione umana e animale dell’uomo, e “mentalista”, cioè
vista nella prospettiva di una mente questionante; Vincenzo Costa,
invece, ha svolto le sue riflessioni sulla “vita del senso”, a partire da
Essere e tempo di Heidegger, mettendo in luce la condizione della
gettatezza, del mondo–ambiente esistenziale e del ruolo che svolge il “silenzio” nel mettere l’uomo di fronte all’inquietudine delle
domande radicali (Esistenza e autenticità: a partire da Heidegger); infine, mantenendo la riflessione su un piano teoretico, Simone Zacchini ha analizzato e distinto il piano generale del significato (il
senso) da quello della sua espressione reale (la vita), ed ha riportato
all’intenzionalità della coscienza, seguendo il percorso husserliano
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Presentazione
e fenomenologico, ogni pienezza e perdita di senso (La precarietà
del senso).
La seconda sezione è stata articolata attorno ad un interesse puramente etico, come nelle relazioni di Micheletti e Seidl, o più spostato verso gli aspetti filosofici del diritto (Catelani) o, infine, maggiormente orientato verso la componente pratica e pedagogica del
senso della vita (Rossi). In particolare il contributo di Alessandro
Catelani, Diritto e senso della vita, si è soffermato sul complesso
problema del diritto, in relazione al tema del senso della vita: per
dare un senso alla propria vita, ciascuno deve annoverare, come
fine primario della propria esistenza, anche il rispetto della legalità,
quale requisito indispensabile per il corretto svolgimento della vita
associata. Mario Micheletti, ne Il senso della vita come problema filosofico. La distinzione tra “creare” e “scoprire” il senso e la questione della
dimensione normativa, ha insistito sulla dimensione morale e spirituale del problema e sulla valorizzazione del tema dell’etica delle
virtù. Bruno Rossi ha concentrato il suo intervento sul valore della
sfera dei significati per lo sviluppo della persona e per il raggiungimento della sua piena soggettività creativa, libera e responsabile
(Dare senso pedagogico alla vita). Horst Seidl (Etica e fine ultimo della
vita) ha osservato che occorre rivalutare il diritto naturale: tutta la
natura, con la sua finalità immanente nelle cose naturali, incluso
l’uomo, è subordinata alla natura razionale dell’uomo, per cui la
natura esiste come fine trascendente.
La terza sezione ha offerto contributi di taglio storico. Giancarlo Baffo si è concentrato su due momenti cruciali di questa problematica individuandoli nella ricezione russa di Nietzsche e nella presenza della filosofia di Ferodov nella cultura filosofica russa
pre e post rivoluzionaria. Stefano Brogi si è concentrato invece sul
materialismo francese settecentesco, estremamente articolato, definendo in tutta la complessità del periodo il percorso culturale che
ha coinvolto Bayle, La Mettrie, il marchese De Sade e si è concluso
con Leopardi.
Si è trattato di un incontro vivace e stimolante di riflessione e
di confronto, animato dalle diverse prospettive offerte dai relatori,
che ha voluto dare un contributo ad una tematica di vasto respiro.
Mariano Bianca
Alessandro Catelani
Simone Zacchini
Mariano Bianca
Quale senso ha la vita?
In questa sede presenterò alcune riflessioni sul senso della vita
inserendole in una prospettiva antropologica e mentalistica: antropologica, perché questo tema sarà affrontato con il solo riferimento alla condizione umana senza alcun rimando ad altre dimensioni quale quella teologica; mentalistica, perché la domanda
sul senso della vita e, in particolare, sul senso della propria vita,
deriva direttamente dall’attività della mente umana.
Due frasi possono essere utili come riflessioni iniziali; la prima,
che ho posto all’inizio del mio saggio Il senso della vita, sottolinea
quanto sia rilevante il senso per la vita: “non v’è nulla di più triste
per un essere umano di morire con la coscienza che la sua vita
non ha avuto alcun senso”. Una considerazione/constatazione
angosciante e triste che ha accompagnato la morte di non pochi
esseri umani.
La seconda frase è tratta dal Canto Notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi. In questo Canto Leopardi s’immagina in un ambiente agreste in cui vede gli animali tranquilli
all’ombra di un albero e così esprime il suo stato: … “ed anch’io
siedo all’ombra ed un fastidio m’ingombra la mente ed uno spron
quasi mi punge si ché mai son lungi da trovare pace o loco”; e a
questa condizione interiore aggiunge: “eppur nulla non bramo e
non ho fino a qui cagion di pianto”.
Il problema del senso della propria vita, che risiede nel dar
ragione alla propria esistenza, non nasce perché ci si trova in una
situazione disagevole, né di noia né perché si è mossi da una tensione d’insoddisfazione basata sul fatto che non si è raggiunto un
obiettivo o non è stato soddisfatto un desiderio; anche se è vero
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Mariano Bianca
che, non di rado, sono proprio le condizioni esistenziali avverse
che spingono a porsi domande di senso.
La problematica del senso, che è connaturata alla mente umana, non sorge solo sulla base di specifiche condizioni disagevoli, come aver perso una persona cara, la perdita di una relazione
affettiva, od ancora perché le condizioni del mondo spingono a
riflettere sulla vita propria o su quella dell’intera umanità. Sebbene queste ad altre condizioni possono spingere a porsi domande
di senso, non sono queste che fondano la richiesta di senso, perché essa proviene dalla specifica attività coscienziale della mente
umana: è, per così dire, connatura alla mente umana; “che cosa
faccio della mia vita?” è una domanda che si pone la coscienza, al
di là delle condizioni esistenziali in cui ci si trova.
Il senso lo si ricerca e lo si costruisce non perché ci sono altri che ci inducono a farlo, o ci sono condizioni che spingono a
cercarlo, né perché c’è una cagion di pianto, né perché si ritiene
che vi sia un senso del mondo, ma perché la coscienza spinge a
porsi domande e ragioni dell’esistenza del mondo e della propria
esistenza: questa è l’oggettività del senso e del senso della vita. Il
senso è oggettivo perché un essere umano non può fare a meno
di ricercarlo in maniera consapevole o inconsapevole anche continuando a vivere: mentre si vive, si cerca e si progetta, anche
non consapevolmente, il senso della propria vita. In effetti, vivere
significa dare senso anche se non è un senso cognitivo. Da qui la
distinzione tra senso pensato e senso vissuto: c’è un senso pensato,
cioè quel senso che mi proviene da un’interrogazione esplicita
della coscienza; esplicita perché ci si pone le domande e si cerca
di dare delle risposte; inoltre, c’è anche un senso che è cognitivo e
pensato ed è vissuto ed agito. Il senso agito, però, non è una condizione a se stante perché deriva da una condizione mentale che
si innesta sull’oggettività del senso propria della mente umana.
L’oggettività del senso deriva da una caratteristica mentale della
specie sapiens sapiens per cui per gli esseri umani non è un caso
che si pongano domande sulla loro esistenza e sulla loro ragione
del loro essere al mondo. Questa oggettività, che ha risvolti filosofici, risulta dalla condizione ontologica e biologica dell’uomo
e in particolare dalla presenza della consapevolezza/coscienza
propria della mente umana e che può anche essere considerata
come una condanna: la condanna non dell’essere al mondo ma
dell’essere al mondo con la consapevolezza di esserci: la mente
Quale senso ha la vita?
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umana può essere consapevole dell’essere al mondo e della propria vita individuale; la mente è in grado, lavorando con quella
che chiamiamo coscienza, intesa in questa sede solo come consapevolezza, di porre continuamente domande sulla propria esistenza. Se ci si chiede quale sia il carattere saliente della mente
umana, si deve rispondere che, tra gli altri, quello del porsi domande è indubbiamente il più rilevante ed è quello che, in ultima
istanza, ha permesso lo sviluppo della cultura, della conoscenza e
della scienza. Gli esseri umani possiedono la possibilità biologica
di spendere una parte del loro corredo neuronale per porsi domande, sull’oggi, sul ieri, sul domani sulla ragione del vivere che
non sono legate meramente alla propria sopravvivenza biologica.
Domande che riguardano da vicino il proprio essere al mondo
e la ragione di questo essere. Che cosa ci si sta a fare al mondo?
Chi ci ha a posto nel mondo e perché? Chi sono? In quale modo
intendo disporre di quella cosa che si chiama vita? Si può ritenere
di conservarla, di viverla così come è, di viverla cercandone una
ragione ed anche di rinunciare ad essa perché non si è trovata
alcuna ragione per preservarla.
La dinamica del trovare senso alla propria vita, e quindi dare
ragione ad essa, nasce per la condanna degli umani di possedere
la coscienza che deriva da una casualità dei processi evolutivo–
genetici che hanno generato la neocorteccia propria dell’encefalo
umano: quella corteccia che è in grado di riflettere, di osservare
se stessi, quello che si è e quindi porsi domande su se stessi, sul
mondo e sulla propria vita. La condanna della coscienza fa sì che
ogni essere umano, in un modo o nell’altro, si pone domande di
senso che il filosofo, mettendo tra parentesi la sua vita, tenta di
considerare come un tema teoretico che in realtà è un argomento
proprio dell’attività mentale di ogni uomo.
Le domande di senso, come si è già accennato, non si pongono solo nei periodi di crisi esistenziale ma, in modo più o meno
esplicito, in ogni istante della vita e sino all’ultimo istante quando
si ha consapevolezza della vicinanza della morte.
Il senso della vita, però, non è di per se stesso legato alla morte
e alla consapevolezza della morte, ma è strettamente inerente alla
consapevolezza del vivere: è legato alla consapevolezza del vivere
o del rinunciare a vivere: ci si chiede come disporre della propria
vita e quindi come ‘usarla’ e come farla propria per dirigerla verso qualche obiettivo. Le domande di senso sono sempre poste
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Mariano Bianca
dalla mente di ogni essere umano anche se non di rado appaiono
come domande riferite a specifici aspetti della vita: quale decisione prendere qui ed ora, per esempio, se cambiare lavoro, fare un
viaggio, sposarsi, mettere al mondo dei figli, godersi la vita od
altro ancora: tutte queste domande sono domande di senso e domande che attengono al senso della vita. Si tratta certamente anche di domande di natura filosofica, ed oggetto della filosofia, ma
sono soprattutto domande proprie della mente umana; domande
che la mente umana si pone a causa della sua struttura biologica;
quando una mente umana opera in un corpo e all’interno di una
soggettività che è presente ed attiva nel mondo, la mente, nella
sua parte metamentale o di coscienza/consapevolezza, formula
anche direttamente, cioè sena l’intento soggettivo, domande relative al dar ragione di quello che si è, si è stati e si sarà. Queste
domande affiorano alla consapevolezza e chiedendo costringono
il sé a riflettere su se stesso in modo consapevole o non consapevole in modo esplicito od implicito, in maniera chiara o confusa.
Se non ci fosse la coscienza non ci sarebbero neppure queste domande e forse non si sarebbe mai spinti da quello spron cui faceva
riferimento Leopardi: uno sprone che ci costringe sempre a dare
ragione alle scelte e alle decisioni, ai progetti, ai fallimenti e ai
successi in ogni dimensione dell’esistenza.
La coscienza, in particolare, è quell’attività mentale che pone
una frattura tra la mente i suoi contenuti, tra il sé ed il mondo,
tra l’esserci e il pensare a questo esserci. La coscienza pone l’altro, pone ogni cosa come oggetto, come qualcosa al di fuori di se
stessi e allo stesso tempo pone il sé come oggetto altro, passibile
di attenzione e riflessione. In effetti, l’obiettivo della coscienza è
quello di osservare, attenzionare, rivolgersi a qualcosa che pur
essendo nella mente e nel sé è posto come altro, come oggetto.
Come la coscienza pone gli oggetti del mondo, rende le cose oggetti della mente ed altri rispetto al sé, così pone anche la mente,
i suoi contenuti, il sé e la sua esistenza come oggetti–altro; da qui,
la frattura tra la coscienza e la vita vissuta, la frattura tra vivere e
dar ragione a questo vivere e quindi la condanna alla ricerca del
senso. Perciò, diversamente da quanto accade per gli altri esseri
viventi che non hanno questa capacità della coscienza di porre il
mondo come oggetto–altro da se stessi, l’uomo pone anche se
stesso come altro, come oggetto sul quale è necessario rivolgere
lo sguardo dopo averlo posto come tale: per questo, anche la vita
Quale senso ha la vita?
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vissuta è posta come oggetto, come qualcosa d’altro sul qualche
si è costretti a riflettere, ad attenzionare a porre domande; da qui
una frattura, un isolamento,un allontanamento, un estraniamento, ma sono proprio queste condizioni poste dalla coscienza che
permettono di cercare la ragione del proprio essere al mondo
e ad anche di trovarla nelle specifiche condizioni dello scorrere
dell’esistenza.
Riferendoci alla storia evolutiva di Homo e in particolare della
struttura del suo encefalo, si può rilevare che la presenza della coscienza, con quei caratteri che sono stati indicati, e naturalmente
molti altri, è sorta in quel periodo dell’evoluzione genetico della
linea evolutiva di Homo in cui si è verificato un ingrandimento del
sistema nervoso centrale, un ampliamento del volume encefalico
che ha portato con sé la presenza di neuroni e reti neuronali che
hanno permesso di svolgere quelle attività mentali che sono proprie anche della coscienza e quindi ha sollecitato quelle domande
di senso che esigono risposte e che l’encefalo è in grado di formulare. In tale condizione, la massa neuronale non era utile solo per
trovare il cibo o il pattern sessuale o per scappare da un pericolo, ma serviva per svolgere attività mentali superiori come quelle
che spingono a trovare la ragione della propria esistenza. Da quel
periodo evolutivo sino ad oggi la mente umana, possedendo neuroni in più rispetto a quelli necessari alla mera sopravvivenza, ha
incominciato a operare in modo consapevole; il risultato è stato
quello di svolgere processi metamentali che permettono, da un
lato, di attenzionare e di riflettere sui propri stati mentali, dall’altro, di rivolgere l’attenzione alle proprie condizioni d’esistenza
e quindi di porre domande di senso e di ricercare risposte che
permettano di superare l’incertezza della mera vita vissuta. In tal
modo, la vita di ogni essere umano è posta come oggetto di attenzione, riflessione, rivolgimento proprio in base all’attività della
coscienza che opera in questa direzione; da qui, come è stato rilevato, un allontanamento,un estraniamento per cui il sé è posto
come altro rispetto alla mente e alla coscienza. Tuttavia, proprio
in base a questa frattura, la mente, anche in modo consapevole,
opera per recuperare questa frattura, per colmare la distanza tra
la coscienza e la vita vissuta, tra la coscienza ed il sé, tra il sé ed il
mondo; in questo lavoro mentale di fuga dalla frattura, dall’allontanamento, dall’estraniamento la coscienza opera per quello che
si può indicare come un ritorno: un ritorno al mondo; ritornare a
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Mariano Bianca
se stessi, al mondo–altro permette alla mente, sollecitata dalla coscienza, di dare ragione dell’esserci e delle specifiche condizioni
dell’esistere e in tal modo non solo dare senso al sé, ma anche al
sé nelle sue diversificate relazioni con gli altri ed il mondo. Dall’allontanamento, dalla frattura con il sé, l’altro ed il mondo, la coscienza permette di riavvicinarsi e tale riavvicinamento è parte
intrinseca del dare ragione della propria esistenza nel mondo: un
vero e proprio ritorno. Questo ritorno è teso all’appartenere a
qualche cosa e questa appartenenza è in effetti uno dei caratteri
fondamentali del senso della vita. Dalla frattura, dall’allontanamento al ritorno, ritorno verso se stessi e verso il mondo; una
ricongiunzione con l’altro da sé, l’altro come mondo, ma anche
l’altro come altro di se stessi.
In questa direzione ci si riappropria di se stessi e della propria
esistenza; si ritorna nella propria dimora di senso da cui ci si è
allontanati per colpa della condanna della coscienza che fa allontanare da se stessi, da un lato, ma che, dall’atro, rende piena l’esistenza del senso come risultato delle risposte che si danno alla
ricerca della ragione del vivere. La coscienza, come si è visto, fa
allontanare da se stessi, ma al contempo non solo permette di riavvicinarsi, ma di riavvicinarsi con senso: la coscienza apre la via
del ritorno nella propria dimora di senso.
Questa dimora interiore, mentale e psicologica, è quella che
genera il senso ed è quindi in questa dinamica che si svolge il processo del dar ragione al proprio essere al mondo ed esistere nelle
diversificate forme della vita umana.
Nel ritorno alla propria dimora non interessano gli altri ed il
mondo, ma se stessi e dando ragione a se stessi si ritrova l’interesse per gli altri e per il mondo che in tal modo acquistano quel
senso che è generato da ogni sé.
In quale modo opera la coscienza nella dinamica continua
dell’allontanamento e del ritorno? Pone domande ed in ciò consiste quella che si può chiamare la coscienza interrogativa. In effetti,la
vita umana individuale, ma anche quella collettiva, sociale, tecnologica e culturale è costituita da domande che sono poste e
da risposte che sono formulate; la vita in se stessa nel suo fluire è costituita da risposte a domande che sono state poste dalla
coscienza. Il senso della vita, in questa dinamica della coscienza,
consiste nel porsi domande e dare risposte e quindi dare ragione
della propria esistenza.
Quale senso ha la vita?
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La dinamica della coscienza che allontana e fa ritornare, pone
domande e queste domande e le relative risposte permettono il
ritorno alla dimora interiore; questo ritornare alla dimora interiore risiede nel ritrovare il senso che consiste proprio nel porsi
continue domande e trovare continue risposte.
Queste domande riguardano i soggetti e non in modo immediato il rapporto con il mondo anche se queste risposte in seguito
coinvolgono l’altro ed il mondo. Nel dare risposte si coinvolgono
gli altri ed il mondo, ma in primo luogo si coinvolge se stessi: si
danno risposte a quelle domande che non gli atri né il mondo
hanno posto ma sono poste dalla propria coscienza; è il singolo sé
che se le pone, qualsiasi sia lo stato del mondo anche se che alcune condizioni del mondo possono porre sollecitare più domande
di altre. La cattiveria degli umani, le condizioni disagevoli, le infelicità e gli stimoli del mondo esterno possono condurre a porsi
domande alle quali in seguito si è costretti a formulare risposte.
La ricerca del senso della propria vita risiede in queste domande
e risposte, in questa dinamica di allontanamento e ritorno, nel
rispondere alle domande della coscienza interrogativa.
Considerato in questa maniera è chiaro che non c’è un senso definitivo né ultimativo, ma v’è una continuità della dinamica
mentale tra ricerca e perdita di senso: una dinamica continua fino
a quell’ultimo istante prima della propria morte. Il confronto,
però, quando è attiva la dinamica della coscienza, non è con la
morte bensì con la vita con il qui ed ora, con quello che si è, con
il rapporto che si ha con il mondo, con le domande sul chi si è:
perché si é al mondo, cosa se fa della propria vita in ogni istante
del suo scorrere.
Al fine di sviluppare questa dinamica coscienziale ci si deve
rendere conto che la vita che si ha è la vita che ci appartiene,
che ci è propria; si inserisce così quella che chiamo la coscienza
suicidale; quest’ultima indica che la vita che mi pervade mi è propria perché posso autonomamente decidere su che cosa farne e
quindi anche annullarla; se un soggetto può annullare la propria
vita allora attesta che gli è propria e gli appartiene e solo per questa appartenenza può distruggerla, può rinunciare a vivere; se si
può rinunciare a vivere allora la vita che si possiede è propria ed
è posseduta. Se la vita appartiene ad ogni soggetto, allora con la
coscienza si possono porre diverse domande su di essa. La dinamica della coscienza di allontanamento e di ritorno alla dimora
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Mariano Bianca
interiore, il porsi le domande e ricercare risposte è il nucleo fondamentale del dare ragione non soltanto del perché si è al mondo, ma dar ragione di cosa ogni soggetto può fare della sua vita
oggi e domani; la coscienza ha posto la vita come oggetto e in
tal modo si è spinti a rivolgersi verso di essa, la si attenziona e la
si osserva, e così si tende a dare ragione alla propria esistenza.
Questa dinamica della coscienza dall’allon–tanamento e al ritorno alla dimora, la dimora dei significati, permette di superare, da
un lato, la frattura con se stessi, l’altro ed il mondo e, dall’altro, la
condizione del vivere o del rinunciare a vivere; se non si rinuncia
a vivere, allora, la coscienza inevitabilmente pone domande riferite al dar ragione alla propria esistenza nel qui ed ora, all’esistenza
nel passato e nel futuro.
La ricerca del senso, del dare ragione, allora, è una scommessa che si fa con la vita: una scommessa cui si riferiva Pascal; per
Pascal la scommessa era riferita alla relazione tra l’uomo e Dio,
mentre per la ricerca del senso la scommessa è tra sé e se stessi,
tra se stessi e la vita che si è considerata propria e che si ritiene ci
appartenga. La scommessa è continua ed essa consiste nell’accettare la vita; si scommette che accettandola qualche cosa accadrà,
qualche risposta di senso la si potrà trovare; la scommessa è continua per cui è difficile che si possa trovare una risposta globale e
definitiva per due motivi: non soltanto perchè la coscienza continua ad operare come opera usualmente: spinge ad allontanarsi
e in ogni istante a porsi domande e a trovare risposte; ma, allo
stesso tempo, spinge vero il ritorno per riappropriarsi, per rientrare nella dimora, per ricercare l’altro: non l’altro soggetto ed il
mondo, ma in primo luogo l’altro che si è come oggetti posti dalla coscienza: da questo rivolgimento verso l’altro che si è, si genera il rivolgimento verso il proprio simile e verso il mondo. Nella
tensione all’appartenere, nella tensione dell’afferrare se stessi si
coglie anche la possibilità di afferrare l’altro ed il mondo, farlo
proprio, appartenere ad esso, come il mondo e l’altro appartiene
a se stessi. In questa dinamica è coinvolto il senso, il dare ragione:
in altri termini, porsi degli obiettivi perché dare ragione significa
mirare a qualche cosa; la ricerca del senso è al contempo dare
ragione e rivolgersi a, mirare a qualche cosa che si intravede o si
pone. A partire da questa negazione della frattura e dell’allontanamento da se stessi e dalla ricerca del ritorno nella propria, ci si
può slanciare verso l’altro che al di fuori di se stessi.
Quale senso ha la vita?
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In questa prospettiva, il senso della vita è un problema continuamente e contingentemente esistenziale, proprio della mente umana: esso è oggettivo dentro la mente perché è il risultato
della sua struttura e del suo modo di operare: la coscienza che
allontana, frattura, richiama e offre la possibilità del ritorno: una
condizione oggettiva ed inevitabile della mente umana e quindi
dell’esistenza di ogni uomo. Si possono ricordare ancora le parole
di Leopardi.: “ed anch’io siedo all’ombra, ed un fastidio quasi mi
punge sicché mai son lunge da trovar pace o loco e pur nulla non
bramo, e non ho fino a qui cagion di pianto”; non c’è niente nel
mondo che spinge ad interrogarsi, che crea ansietà, che fa sì che
la propria coscienza interrogativa operi continuamente per dare
ragione dell’esistenza. Oggettiva è la condizione di senso degli
esseri umani che si trovano, in un modo o nell’altro, di fronte alla
propria mente, a domande che richiedono dalla coscienza risposte che pongono difficoltà, a volte annientano. A volte annientano perché spesso non si possono trovare risposte adeguate e molte risposte non di rado pongono altre domande che richiedono
ulteriori risposte.
Il senso della vita, allora, è una scommessa nel modo indicato,
ma è anche una condizione eroica, una scommessa difficile con
se stessi e con la vita; la scommessa è eroica perché pone sempre
condizioni cui si deve far fronte; in questo modo, senso e rischio
sono tutt’uno. Se si cerca il senso si rischia, si scommette e si rischia. La scommessa ed il rischio sono le condizioni fondamentali
per realizzare se stessi, per l’autorealizzazione; l’autorealizzazione, però, non è riferita solo al mondo ma è il raggiungimento e
l’unità con se stessi in una condizione in cui si è trovata la ragione
del proprio essere al mondo. L’autorealizzazione é anche compenetrazione con l’altro, l’altro che io sono per la mia coscienza e
l’altro che è ciò che al di fuori di me, quel mondo che nel quale
sono ma che è mondo perché è lo sfondo esterno alla mia mente. L’autorealizzazione è anche appartenenza, e farsi appartenere
dall’altro e dal mondo. Appartenere consapevolmente a qualcosa
e al mondo e farsi appartenere dal mondo.
Si tratta di una scommessa ed un rischio continuo che permettono di vivere con intensità, non fare finta di vivere, non passare nel mondo inosservati, ma passare nel mondo osservando se
stessi, vedendosi passare, guardandosi, criticandosi, ponendosi
domande, e questo può generare condizioni di forte disagio.
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Mariano Bianca
Tuttavia, se si riesce a superare il disagio si potranno trovare
soddisfazioni che derivano dalla ricerca del senso con tutte le perdite che possono essere generate da questa ricerca. In effetti, da
questa dinamica nasce anche la perdita del senso, ma la perdita ha
un valore positivo perché può permette di continuare la ricerca e
riprendere la guida della propria esistenza e continuare ad accettare la propria vita come propria: la vita che si è accettata e che
s’intende, pur con difficoltà, contuare ad accettare senza rinunciare a vivere: ma la rinuncia a vivere è anch’essa un risultato della
ricerca di senso e può diventare la sola risposta a questa ricerca,
tuttavia anche questa condizione è una risposta di senso.
Vincenzo Costa
Esistenza ed autenticità: a partire da Heidegger
1. Il senso della vita: verso una dissoluzione del problema
“Il senso della vita” è senza dubbio un tema affascinante e
inquietante, che percorre tanto la storia del pensiero filosofico
quanto la vita quotidiana degli esseri umani. E tuttavia, che esso
possa essere sottoposto ad una discussione filosofica non è molto
chiaro. Soprattutto non è chiaro che esso possa essere affrontato
con gli strumenti della logica e del ragionamento caratteristici
del procedere scientifico. Sembrerebbe anzi che, sottoposto ai
procedimenti della logica, il problema stesso possa assumere due
strade diverse ma egualmente insoddisfacenti.
Da un lato esso si dissolve. Dall’altro sembra assumere una direzione che negli ultimi due secoli è stata, ripetutamente e da più
parti, denunciata come “metafisica”. L’idea di trovare un senso
è stata cioè caratterizzato come un tentativo di rassicurazione,
come una ricerca della “presenza”, di un fondamento stabile e
rassicurante, come espressione di un’esigenza antropologica di
proteggersi di fronte al poliformismo ontologico.
Così, nella Nascita della tragedia Nietzsche cerca di smascherare
la domanda stessa sul senso della vita come la conseguenza di una
debolezza. Il tentativo di trovare un senso razionale della realtà
e dell’esistenza nasce dall’esigenza di sopportare l’impatto con il
caos della vita, ed ha come conseguenza la costruzione di una
serie di certezze (metafisiche, religiose, morali). La realtà e la vita
divengono sensate, acquistano valore solo nella misura in cui la
vita viene assoggettata alla razionalità, e di conseguenza ad una
morale: ad un ordine. Questo, alla fine, sembra dover significare
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Vincenzo Costa
“senso della vita”: un ordine oggettivo, esterno al soggetto, a cui
questo deve sottomettersi:
Il bisogno di un mondo metafisico è conseguenza del non aver saputo
ricavare nessun senso, nessun a che scopo? Da quello presente. “Quindi,
si concluse, questo mondo può essere solo apparente”1.
È dunque la domanda stessa che deve essere rifiutata per Nietzsche, poiché essa nasce dall’incapacità di accettare la vita nella
sua cruda e cieca irrazionalità. Nasce dunque da un’incapacità di
accettare la vita come dolore e distruzione. Nasce come violenza
nei confronti di uno dei due istinti fondamentali: il dionisiaco e
l’apollineo. Il dionisiaco è immagine della forza istintiva e della
salute, ebbrezza creativa e passione sensuale. Dioniso è il simbolo
dell’umanità che dice “sì” alla vita, in pieno accordo con la natura, perché la realtà è caso, maschera, disordine, crudeltà: quella
volontà assurda e senza scopo che Schopenhauer aveva posto alla
radice dell’essere. Nell’atteggiamento dionisiaco, dunque, il soggetto elimina i suoi limiti e si confonde con l’uomo primigenio2.
L’apollineo è invece visione di sogno, tentativo di esprimere il senso delle cose nella misura e nella moderazione: Apollo è il simbolo
dell’umanità che si esplicita in figure equilibrate e limpide.
Se però l’esigenza da cui nasce è una certa ostilità alla vita,
allora si tratta di non porsi più questa domanda di senso, ma di rovesciarla, contrapponendo ai valori del senso, che negano la vita,
la fedeltà alla terra e dunque la mortalità e la finitezza: la sua accettazione tragica. Il motto potrebbe essere: sia tragedia. Il sì alla
vita non può essere che: avvenga questa tragedia. Il pessimismo
tragico è, infatti, il pessimismo di chi accetta la vita, pur riconoscendone la dolorosa tragicità e la mancanza di senso.
Si tratta, secondo Nietzsche, di un pessimismo tragico che si
differenzia dal pessimismo romantico, che è il pessimismo dei
rinunciatari, l’espressione del declino e della debolezza, di chi
non ha forza. Il nichilismo di Nietzsche vuole infatti esprimere
l’esuberanza di chi guarda l’insensatezza della vita ed è capace
1. F. Nietzsche, Werke. Kritische Gesamtausgabe, sez. VIII, t. 2, hrsg. von G. Colli
e M. Montinari, de Gruyter, Berlin 1970; trad. it. di S. Giametta, Frammenti postumi
1887–1888, in Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1990, p. 33.
2. F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, trad. it. di S. Giametta, La nascita della
tragedia, Adelphi, Milano 1984, p. 71.
Esistenza ed autenticità: a partire da Heidegger
21
di tenerle testa. Alla domanda: a che cosa serve ciò? si deve poter
rispondere: a niente.
La domanda del nichilismo “a che scopo” procede dalla vecchia abitudine di vedere il fine come posto, dato, richiesto dall’esterno, cioè da
una qualche autorità sovrumana. Anche dopo aver disimparato a credere in quest’ultima, si continua a cercare, secondo la vecchia abitudine,
un’ALTRA autorità in grado di parlare un linguaggio assoluto e di imporre
fini e compiti. Viene quindi in primo piano l’autorità della COSCIENZA [...]. O la STORIA con uno spirito immanente, che ha il suo fine in
sé e a cui ci si può abbandonare3.
Allontanandosi da questa domanda di senso dovrebbe finalmente poter emergere un soggetto che non cerca più il senso
della sua esistenza in uno scopo immanente alla storia, ma in un
gioco di interpretazioni, in un esercizio di mortalità, dunque un
individuo che fa della precarietà il fondamento della sua esistenza,
e che ha di conseguenza rinunciato a “vedere la terra promessa”.
Per questo, Nietzsche definisce il nichilismo nella seguente maniera: «Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al “perché?”; che
cosa significa nichilismo? — che i valori supremi si svalorizzano»4.
Ciò che in questa definizione del nichilismo colpisce è il fatto che
viene evocato un nesso tra valori e fini. Se qualcosa è un fine noi
ci indirizziamo verso di esso traendone “senso”. Questo senso è
però di fatto una organizzazione gerarchica di valori, poiché ogni
valore è tale in quanto rappresenta un mezzo in una gerarchia
di valori. Infatti, per essere un valore, deve essere ordinato a un
valore supremo, a un fine supremo in vista di cui esso ha valore.
Questo valore supremo funge dunque da fondamento dell’intera
gerarchia dei valori: esso è il senso della vita.
Che cosa accade oggi dunque? Che manca la risposta al perché. Che abbiamo valori, ma non sapremmo più indicare quale
sia il valore supremo a cui tutti i valori sono coordinati e da cui
ricevono la loro fondazione. Questa è appunto la conseguenza
della morte di Dio, che indica il venire meno del senso della vita,
cioè della possibilità stessa di un valore assoluto. Ma se viene meno
la possibilità di un valore assoluto, allora anche tutti gli altri valori sono destinati a svalorizzarsi. Privati del loro fondamento, essi
3. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887–88, p. 17.
4. Ivi: p. 12.
22
Vincenzo Costa
continuano a vivere di una luce che appartiene a una stella morta. Mano a mano che questa luce viene meno, anche quei valori
perdono la loro capacità di illuminare e di motivare le azioni degli
uomini. Per questo Nietzsche può scrivere che
il nichilismo radicale è la convinzione di un’assoluta insostenibilità
dell’esistenza, quando si <tratti> dei più alti valori riconosciuti; nonché
la comprensione che non abbiamo il minimo diritto di postulare un al di
là o un in sé delle cose che sia “divino”, che sia morale incarnata5.
La morte di Dio rappresenta un evento che non cesserà di avere conseguenze. La ricerca di nuovi valori, l’insistenza stessa sulla
questione del valore testimonia del fatto che non vi sono più valori
che siano tali, che valgano. Cercare nuovi valori significa ammettere
che non vi sono valori, che quelli vecchi non dispensano più vita
alcuna. Dopo la morte dei valori si apre un periodo di sperimentazione: si passa dalla ricerca del senso della vita alla vita del senso, al movimento puro del differirsi.
2. Il linguaggio del senso
Abbiamo così indicato in che modo la questione del senso
giunga a una certa dissoluzione. Dobbiamo ora chiederci come
possiamo affrontare questo problema da un punto di vista fenomenologico, e dunque a partire da un’analisi dell’esperienza. Per
fare questo cercheremo di organizzare il nostro discorso come un
libero percorso all’interno di Essere e tempo di Heidegger.
Cominciamo, dunque, col chiederci: In che senso il soggetto è
coinvolto nella domanda circa il senso della vita? Si tratta, in altri
termini, di stabilire che cosa cerchiamo quando ci chiediamo qual
sia il senso della vita. E di capire quando questa domanda diviene
urgente, e giunge a manifestarsi.
In questo senso, da Heidegger potremmo ricavare l’indicazione
che questa domanda non si manifesta nella quotidianità, dove viene, per così dire, messa a tacere. Questo riferimento al “mettere a
tacere” potremmo intenderlo in maniera letterale: vi è un uso del
linguaggio al cui interno il senso della vita o la vita del senso non si
5. Ivi: p. 211.
Esistenza ed autenticità: a partire da Heidegger
23
manifesta più. E ciò deriva, in ultima istanza, dalla struttura iterativa del segno. Roland Barthes ha notato acutamente che il segno
è pedissequo, gregario; in ogni segno sonnecchia un mostro: lo stereotipo: io posso parlare solo se raccatto ciò che ricorre continuamente nella
lingua. Dal momento che io enuncio, queste due rubriche si riuniscono e io sono al tempo stesso padrone e schiavo: io non mi accontento di ripetere ciò che è stato detto, di sistemarmi comodamente nella
schiavitù dei segni: io dico, affermo, ribadisco ciò che ripeto6.
Questo è il punto che ci interessa, perché ci consente di riprendere, innestandola sulla struttura del segno linguistico, la nozione
heideggeriana di chiacchiera. Questo termine non ha in Heidegger, almeno se ci atteniamo a quanto egli stesso scrive, alcun significato spregiativo o moralistico, ed in effetti può essere un termine
utile per indicare un fenomeno del linguaggio: il costante pericolo
del suo scadere nell’insignificanza. Il linguaggio ha la funzione di
aprire il soggetto all’esistenza e al senso, alle possibilità d’esistenza
che lo interpellano, e dunque a stesso in quanto ente temporale, a
se stesso in quanto ente che deve dare un senso alla sua esistenza.
Data tuttavia la sua natura iterativa, il linguaggio è da sempre,
cioè strutturalmente, esposto al rischio dell’ossificazione: le parole
possono essere ripetute avendo perso la loro originaria forza evocativa, la
quale agisce laddove il linguaggio si mostra in quella che secondo
Heidegger è la sua funzione più pura, e cioè nella poesia.
Qui, talvolta, una parola apre per noi un orizzonte di senso,
la parola ci investe e ci trasforma, attorno ad essa si costruisce
un mondo. La parola, dunque, fa apparire, porta allo scoperto
un mondo, ma attraverso la ripetizione, cioè attraverso la comunicazione intersoggettiva, il carattere scoprente può venire meno:
«Il discorso [die Rede], che rientra nella costituzione essenziale
dell’esserci e di cui con–costituisce l’apertura, ha in sé la possibilità di mutarsi in chiacchiera [das Gerede] e, come tale, di non tener
più aperto l’essere–nel–mondo in una comprensione articolata,
anzi di chiuderlo e di coprire così l’ente intramondano»7.
6. R. Barthes, Leçon, Éditions du Seuil, Paris 1978; trad. it. di R. Guidieri, Lezione,
Einaudi, Torino 1981, pp. 9–10.
7. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), Niemeyer, Tübingen 198414, p. 169 (d’ora in
poi nel testo come SZ); tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p.
213 (d’ora in poi nel testo come ET).
24
Vincenzo Costa
Il discorso rischia la consunzione nella misura in cui diviene
fenomeno collettivo (come mostra il Ge di Ge–Rede), cioè nella
misura in cui l’intersoggettività, la socialità del discorso non dà
luogo a una comunità di parlanti, ma solo a una sfera pubblica
anonima, a una «comunanza senza comunità politica»8.
Heidegger chiarisce, infatti, che il “Si” non è un singolo determinato esserci, ma tutti (non però come somma), e questa soggetto anonimo «decreta il modo di essere della quotidianità» (SZ
127; ET 163). Il “si” è il soggetto vero, che agisce e vive nei singoli
soggetti. Infatti, «nella quotidianità dell’Esserci la maggior parte
delle cose è fatta da qualcuno di cui si è costretti a dire che non era
nessuno» (SZ 127; ET 164), cosicché il man (il si) «appare come il
“soggetto realissimo” della quotidianità» (SZ 127; ET 165). Quando ciò accade la potenza del linguaggio viene meno, viene meno
la possibilità di fare emergere nuovi significati, nuovi modi di rapportarsi alle cose del mondo circostante: dunque viene meno la
manifestatività del senso.
Ora, Heidegger nota che nessuno può sottrarsi alla chiacchiera, e cioè a un certo stato interpretativo all’interno del quale è cresciuto. Vorremmo dire: il perdersi nell’anonimato del “si dice”, “si
fa”, il ripetere passivamente delle marche linguistiche non è qualcosa che una migliore forma educativa o una diversa forma sociale potrebbe allontanare, poiché la chiacchiera si impone “dentro”
il soggetto con l’apprendimento stesso del linguaggio.
Apprendere un linguaggio significa imparare a iterare passivamente marche linguistiche, a prelevarle da certi contesti per innestarle in altri. Ora, nella misura il linguaggio si impoverisce nella
chiacchiera, si impoverisce il mondo in cui l’essere umano vive,
cosicché «l’esserci che si mantiene nella chiacchiera, in quanto
essere–nel–mondo è del tutto tagliato fuori dal rapporto primario, originario e genuino del proprio essere col mondo, col con–
esserci e con l’in–essere stesso» (SZ 170; ET 214). Il “Si” e la chiacchiera sono allora il linguaggio che ha perduto la sua originaria capacità
di aprire una totalità di senso.
Emerge così il nesso tra il problema del senso della vita e il
problema del linguaggio: il problema del senso della vita è del
tutto interno alla vita del linguaggio. Di conseguenza, per Hei8. P. Virno, Mondanità. L’idea di “mondo” tra esperienza sensibile e sfera pubblica,
manifestolibri, Roma 1994, p. 79.
Esistenza ed autenticità: a partire da Heidegger
25
degger, prima ancora di essere un modo di pensare, la metafisica
è una certa grammatica, che ci costringe a pensare al problema del
senso in un determinato modo. Pertanto, quel modo di pensare
il senso come presenza, che già Nietzsche aveva denunciato, non
potrà essere superato attraverso una critica che ne accetta il linguaggio
e, prima ancora, una certa grammatica, ma sottraendosi ad essa. In
altri termini: si tratta, per Heidegger, di inventare un altro linguaggio, forzando e deformando quello che parliamo. Di qui la
differente direzione rispetto alla filosofia analitica, ed il fatto che
dove questa tenderà a individuare una violazione del gioco linguistico e dunque una assurdità, Heidegger vi ravviserà invece una
traccia del tentativo di fuoriuscire dalla metafisica. Così, per esempio,
dove in Wittgenstein troviamo l’invito a tacere rispetto a ciò di
cui non si può parlare, in Heidegger troviamo invece il tentativo
di dire, forzando la grammatica e la struttura delle parole, ciò che
a rigore non può essere detto (all’interno dei limiti di un certo
linguaggio).
3. La coscienza che abita il mondo
Per porre il problema del senso della vita dobbiamo allora chiarire prima la struttura del rapporto tra coscienza e mondo. L’impostazione cartesiana presuppone un io senza mondo che, esistendo
nella certezza apodittica di se stesso, deve poi giungere al mondo
esterno. Al contrario, e in opposizione a questa concezione, Heidegger vuole mostrare che l’io non è un soggetto che si rapporta
al mondo a partire da una propria autosussistenza, poiché «l’io
non è semplicemente un “io penso”, ma un “io penso qualcosa”»
(SZ 321; ET 386). La tradizione cartesiana ha cioè confuso l’“avere
in mente qualcosa”, dunque l’essere riferito a qualcosa, l’essere
nel mondo, con l’“avere nella mente”. Esistere, per l’uomo, significa essere nell’azione che sta compiendo, in ciò in cui è impegnato: abitare un mondo. E l’intenzionalità, il dirigersi verso,
l’essere dunque nel mondo è originario: «Il modo più immediato
del commercio intramondano non è il conoscere semplicemente percettivo, ma il prendersi cura maneggiante e usante, fornito
di una propria “conoscenza”» (SZ 67; ET 92). È solo alla prassi
manipolativa che, per esempio, si rivela il deterioramento di uno
strumento, mentre la più precisa determinazione percettiva non
26
Vincenzo Costa
potrebbe mai scoprire nulla di simile. A rigore non scoprirebbe affatto un martello, ma solo un oggetto spaziale come altri. Gli oggetti dell’esperienza sono dunque originariamente, prima che la
riflessione filosofica intervenga velando con costruzioni metafisiche questo terreno, pragmata. Ogni cosa dell’esperienza è dunque
un mezzo, ma «un mezzo isolato è ontologicamente impossibile»
(SZ 353; ET 423). Con questa affermazione Heidegger vuole indicare che è solo perché viviamo all’interno di una totalità di rimandi che possiamo aspettarci qualcosa e un oggetto d’uso può essere
tale, cioè un mezzo atto a. Il martello è un martello solo perché
serve per piantare il chiodo, che serve a sua volta per tenere appeso il quadro etc., e ciò significa che «prima del singolo mezzo, è
già scoperta una totalità di mezzi» (SZ 69; ET 95). Ma ciò significa
che i significati non abitano l’interiorità tabernacolare di una coscienza, ma il mondo, il quale è dunque, per un essere umano, la
totalità delle sue possibilità d’azione9, la totalità di ciò che può fare.
Esistere, per l’essere umano, non significa riflettere tra sé e sé,
all’interno della propria testa, ma rapportarsi a possibilità d’azione all’interno di un contesto di senso, che è anche e soprattutto
sociale, intersoggettivo o, semplicemente, storico. Ora, che il mio
mondo sia la totalità delle mie possibilità d’azione significa che la
maniera cartesiana di concepire il sé non è solo insufficiente, ma
anche radicalmente fuorviante. Rapportarsi a se stessi non significa
rapportarsi a un soggetto atemporale, a un nucleo di identità che si
mantiene costante e che accompagna tutte le mie rappresentazioni,
ma rapportarsi al proprio poter–essere, cioè alla proprie possibilità
d’azione, e quindi al proprio aver–da–essere a partire dal proprio aver già
e dal proprio esser–già. Significa rapportarsi al proprio futuro, a come
consumare le proprie possibilità. Di qui bisogna prendere le mosse
per porre il problema del senso della vita: dal movimento dell’esistenza, dal suo muoversi all’interno di un’apertura di senso.
Il modo di essere dell’uomo è, infatti, quello di essere costituito da ciò che non è ancora, di essere sempre più di quel che è. Il
non–ancora non è per l’uomo qualcosa di staccato dal presente,
ma lo costituisce, e ciò significa che il mio “io sono” è determinato in profondità dal mio poter essere. In ogni istante abbiamo da
scegliere chi e come vogliamo essere.
9. E. Tugendhat, Selbstbewusstsein und Selbstbestimmung. Sprachanalytische Interpretationen, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1997, pp. 171 e ss.
Esistenza ed autenticità: a partire da Heidegger
27
È in questo senso che possiamo interpretare il senso della “gettatezza”, della fatticità dell’esistenza. Esistere significa per l’uomo
essere in una certa e determinata totalità di possibilità d’azione, e
quindi essere nella necessità di scegliere all’interno di essa, poiché
anche la non scelta è, dal punto di vista pratico, una scelta, un certo modo di rapportarsi a delle possibilità. Esistere, avere–da–essere
significa dovere scegliere, ed è quindi nel modo della decisione che
ci si rapporta a se stessi e dunque al senso della vita, cioè al proprio aver da essere, al proprio futuro. In ogni istante io sono posto
davanti alla domanda «come voglio essere, come voglio vivere?»10.
Questa è la differenza tra l’uomo (per il quale il problema del
senso della vita diventa rilevante) e l’animale (per il quale non lo
diventa).
Per l’animale è in gioco solo il mantenimento della vita, mentre per l’uomo viene in questione la buona vita. Per l’animale si
tratta, nelle sue scelte, di scegliere ciò che permette di continuare
a vivere, per l’uomo di scegliere il proprio poter essere facendo
in modo che la sua vita appaia a se stesso una vita sensata. Poi
è possibile che, nel determinare che cosa è una vita sensata, egli
sia determinato da circostanze sociali, psicologiche o addirittura
biologiche. Ma non è questo il punto. Qui non si sostiene nulla né a favore né contro simili ipotesi. Intendiamo soltanto dire
che per l’uomo viene in questione non il semplice vivere, ma la
buona vita. Essere in un mondo, esistere come soggetto umano
significa, infatti, rapportarsi a delle possibilità d’azione all’interno
delle quali ci si trova ad esistere, e ciò significa che esistere, per
l’uomo, non significa soltanto vivere, essere qualcosa di presente,
ma rapportarsi a se stesso come temporalità, cioè non come ad una
realtà, ma come a delle possibilità. Questo significa però che l’essere
umano può rapportarsi a se stesso, cioè al suo aver–da–essere,
solo perché ha una capacità di anticipazione, di rapportarsi a ciò
che sono le sue possibilità d’azione (e di essere questo o quello).
Questo rapportasi a se stesso, al proprio sé come ad un avere–da–essere, come un dover decidere chi essere, è una necessità
alla quale l’essere umano non può sottrarsi e, consapevolmente o
meno, lo fa sempre. Si chiarisce così che cosa intendevamo prima
quando suggerivamo di legare intimamente e indissolubilmente
la nozione di sé a quella di tempo: l’essere umano si rapporta a
10. Ivi: p. 184.
28
Vincenzo Costa
se stesso rapportandosi al proprio futuro nel modo della decisione, ed è
a partire dalla decisione rivolta al futuro che si rapporta al proprio presente e al proprio passato, per esempio quando giudichiamo negativamente la maniera in cui abbiamo giocato le nostre possibilità.
Un essere è una soggettività autonoma, può dire “io” quando può
rapportarsi al mondo come a delle possibilità d’azione.
Ma questo rapportarsi a se stessi come al proprio avere–da–essere, dunque la decisione, non avviene in uno stato neutro, bensì
all’interno di certe situazioni emotive e di una certa comprensione [Verstehen]. In Essere e tempo Heidegger scrive che «l’esserci, in
quanto per essenza emotivamente situato [wesenhaft befindliches],
è già sempre insediato in determinate possibilità, e in quanto è
quel poter–essere che è, ne ha già sempre lasciate perdere alcune» (SZ 144; ET 183). È qui la radice dell’individuazione, poiché
non vi è un rapportarsi universale alle possibilità d’azione. Ognuno di noi si rapporta a queste all’interno di un certo quadro e
questo quadro viene determinato dalla tonalità emotiva e dalla
comprensione. Quella di Heidegger è un’affermazione, in effetti,
sufficientemente chiara. La situazione emotiva è la condizione di
possibilità all’interno della quale certe possibilità d’azione emergono e altre vengono invece “coperte”. Per esempio, all’interno
dello stato emotivo della noia è impossibile che io mi rapporti a
me stesso dicendo “ti sei comportato male”, e dunque nel modo
di una decisione tesa a scegliere un certo modo di essere e come
essere. Nello stato emotivo della noia vi è un’indifferenza nei
confronti delle possibilità d’azione, che vengono tutte livellate,
cosicché la noia è un impedimento rispetto ad una scelta. Nello
stato emotivo della noia ci si rapporta a se stessi nel modo dell’indifferenza e del fastidio, in uno stato emotivo in cui, per usare
un’espressione di Heidegger, l’esistenza, cioè il nostro avere da
essere, ci si rivela come un peso. Qui la vita si fa avanti nel modo
dell’insensatezza.
La nozione di senso è dunque legata, secondo Heidegger, a
quella di progetto, poiché «la comprensione ha in se stessa la
struttura esistenziale che noi chiamiamo progetto [Entwurf]» (SZ
145; ET 185), ed è a partire dalla nozione di progetto che possiamo
prendere le mosse per interpretare in che senso l’essere umano
può rapportarsi a se stesso autenticamente o inautenticamente, e
dunque esperendo un senso della sua esistenza o esperendo l’esistenza come un “rovinio”.
Esistenza ed autenticità: a partire da Heidegger
29
Noi abbiamo sinora preso in esame singole azioni. Abbiamo visto che esse sono rese possibili dalla situazione emotiva
e dalla comprensione, ma la comprensione si radica nel progetto. Le possibilità d’azione che noi comprendiamo e il modo
in cui le comprendiamo hanno il loro fondamento ontologico
nel progetto. È questa nozione che dobbiamo allora cercare di
chiarire meglio. Heidegger lo definisce nella seguente maniera:
«Il progetto è la costituzione esistenziale d’essere [esistenziale
Seinverfassung] dello spazio di gioco [Spielraum] del poter–essere
fattuale» (SZ 145; ET 185, trad. it. mod.). Si tratta di una formulazione per nulla chiara, ma preziosa per le indicazione che può
offrici. Il progetto, così intendiamo riprenderne la tematica, è
una struttura che determina un certo spazio di manovra di ciò
che può essere attualmente eseguito. Vediamo meglio. Ogni
singola azione deriva da una comprensione del poter–essere,
ma la comprensione della singola azione si radica nella struttura del progetto. Ciò significa, allora, che ogni singola azione,
ogni singola possibilità d’azione si radica in una comprensione
resa possibile da una concezione complessiva dell’esistenza. E così
che vogliamo qui interpretare la nozione di progetto: come
concezione complessiva, o concezione di sfondo, dell’esistenza,
e questa rappresenta lo spazio di gioco all’interno del quale appaiono certe possibilità d’azione, mentre altre vengono ritenute inutili, insensate, pericolose, mostruose, folli. «Il progetto —
scrive Heidegger — concerne sempre l’apertura totale dell’essere nel mondo» (SZ 146; ET 185). Le mie possibilità d’azione, il
mio mondo trovano la loro delimitazione nel mio progetto, il
progetto è cioè il limite del mio mondo, delle mie possibilità d’azione.
Rappresenta il limite del mio mondo, benché questo limite non
appaia. Di esso, dello spazio di gioco all’interno del quale mi
muovo, non sono cosciente. Questa concezione di sfondo dirige
e governa, per il semplice fatto che le rende visibili o le copre,
tutte le mie possibilità d’azione. Pertanto, tutte le mie scelte
rimangono inautentiche, cioè prive di trasparenza, determinate
dal Si, sin tanto che mi muovo all’interno di una concezione
della vita (un progetto) che non ho scelto io, in cui sono stato
gettato e che, per lo più, nella vita quotidiana, sta alle spalle del
soggetto cosciente, poiché «l’esserci, nota Heidegger, non può
mai sottrarsi a questo stato interpretativo quotidiano nel quale
è cresciuto» (SZ 169; ET 214).
30
Vincenzo Costa
Heidegger, in Essere e tempo, non si chiede esplicitamente come
la concezione di sfondo giunga a determinare la concezione complessiva della vita e le singole scelte. Ma certamente noi non possiamo non porci questo problema, e la risposta abbiamo in realtà
già cominciato a darla: con il linguaggio. L’essere umano è un
essere che si rapporta al mondo, alle proprie possibilità pratiche attraverso il linguaggio. Questo è già interamente presente
in Essere e tempo. «L’Esserci — nota Heidegger — ha il linguaggio», «l’uomo si presenta come l’ente che parla» (SZ 165; ET 209).
Parlare significa però iterare marche, e quando l’essere umano
si rapporta a certe possibilità d’azione, egli lo fa iterando certe
marche, certi sintagmi, e questa iterazione di marche linguistiche è
ciò che apre un certo mondo di possibilità d’azione e ne occulta altri. Il
linguaggio è ciò che apre il mondo umano, poiché se noi ci rapportiamo alle nostre possibilità attraverso la situazione emotiva e
la comprensione, queste sono strutturate dal discorso, e quando
sono determinate da una discorso che si è ridotto chiacchiera,
allora «il predominio dello stato interpretativo pubblico ha già
deciso delle stesse possibilità emotive, cioè del modo fondamentale in cui l’Esserci si lascia influenzare dal mondo. Il Si prescrive
la situazione emotiva, esso stabilisce che cosa si “vede” e come si
“vedono” le cose» (SZ 169–170; ET 214). Il Si, di cui qui interpretiamo il carattere anonimo come una funzione del linguaggio, rappresenta dunque la maniera in cui i significati linguistici (le differenze linguistiche) determinano il nostro rapporto alle possibilità
d’azione. Giungiamo così a definire come il Sì, l’interpretazione
prevalente, si insinui nella vita del singolo e determini il modo
in cui questi si rapporta alle proprie possibilità, e cioè attraverso il fatto che l’essere umano si rapporta al proprio mondo, alle
proprie possibilità attraverso la situazione emotiva e la comprensione, che vengono a loro volta messe in forma dal linguaggio,
cosicché questo determina quel che vediamo e come lo vediamo.
Non nel senso che ci fa vedere giallo quello che è rosso, cioè nel
senso che determina la percezione sensoriale, ma nel senso che fa
apparire certe possibilità pratiche piuttosto che altre. In questo senso
Heidegger può scrivere che «il linguaggio, in quanto espressione, porta con sé un’interpretazione stabilita della comprensione
dell’esserci» (SZ 167; ET 212). Inautentica è dunque un’esistenza che
subisce l’epoca, poiché questa gli offre i criteri della propria azione senza
che il soggetto abbia coscienza tematica di questi criteri.
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