REGATT 18-2009.qxd 15/10/2009 17.22 Pagina L 627 L ibri del mese / segnalazioni C. BALZARETTI, IL PAPA, NIETZSCHE E LA CIOCCOLATA. Saggio di morale gastronomica, EDB, Bologna 2009, pp. 256, € 18,90. 9788810104866 L’ autore sostiene che vi siano molte ragioni per riconoscere al cibo diritto di cittadinanza nella teologia. Si pensi al fatto che una storia del cristianesimo fatta di asceti e di penitenti dimentica il ruolo della festa, del precetto festivo e del pasto festivo. Pertanto egli ritiene che la disputa sulla cioccolata abbia una sua dignità, soprattutto se collocata nel contesto del digiuno ecclesiastico e della morale dell’epoca moderna. Va aggiunto che nel contesto storico in cui essa si avviò furono coinvolti nomi interessanti, quali ad esempio il De Medina, altrimenti noto in teologia morale a motivo del rimando al probabilismo (si può seguire un’opinione probabile, anche se ve n’è una più probabile). L’autore prende spunto dalla contestata direttiva europea, non quella sulla lunghezza dei baccelli di pisello o sulla circonferenza minima di altri frutti, su ciò che sia o non sia cioccolato, che ha visto l’Italia perdente davanti alla Corte di giustizia europea, per recuperare un altro, più alto dibattito protrattosi per oltre un secolo (per giunta senza giungere a conclusione): se cioè la cioccolata rompesse il digiuno (come sostennero domenicani e carmelitani) oppure no (come sostennero i gesuiti, che però erano importatori, e qualche francescano che, magari senza prendere posizione esplicita, sosteneva saggiamente che conveniva non turbare le coscienze dei fedeli, perché «qui enim scrupolos seminat peccata metet»). Non ci si deve stupire dello spazio fatto dai teologi dell’epoca a… tanta questione, semplicemente occorre tenere presente che le novità portate dalla scoperta del nuovo mondo ponevano di fronte a interrogativi etici prima impensabili, quale appunto quello se la cioccolata rompesse o meno il digiuno, tanto più che era presa come bevanda, ma bevanda non del tutto appariva a motivo della densità, per tacere degli effetti venerei che da più di qualche teologo e medico si sosteneva producesse. Se il casuista Thomas Hurtado altercava con i medici contemporanei a metà del 1600 se cioccolata e tabacco rompessero il digiuno eucaristico, poteva sempre dire di essere in buona compagnia visto che il card. Francesco Maria Brancaccio (1592-1675) aveva scritto a sua volta il De chocolatis potu diatribe. Quesito, quello del rapporto cioccolata/digiuno, risolto in maniera tranciante dal medico genovese Felini CLXXVII (1630-1711) nella sua Risposta dimostrativa che la cioccolata rompe il digiuno del cavalier Francesco Felini. Operetta non meno utile che necessaria al cristiano cioccolatiero, consacrata alla m. rev. suor Teresa Maria da San Giuseppe carmelitana scalza nel convento di Santa Teresa di Genova. Il Felini sostiene che il «cristiano cioccolatiero» è un cristiano a dir poco in imbarazzo, che riesce a coniugare digiuno e gola… se non fosse che santa Rosa da Lima nelle fatiche dell’estasi fu sostenuta da un angelo che le offriva proprio una tazza di cioccolata e questo nonostante fosse opinione diffusa tra i teologi e i medici che, ahimé, la cioccolata muove gli spiriti libidinosi. Ma anche un nome illustre come Daniele Concina, altrimenti impegnato con la storia del probabilismo e del rigorismo e la disciplina antica e moderna della Chiesa sul digiuno, regnante Benedetto XIV, pubblicava egli pure un Memorie storiche sopra l’uso della cioccolata in tempo di digiuno, esposte in una lettera a mons. illustris. e reverendis. arcivescovo di Venezia (1748). In sintesi, lo scritto di Balzaretti, che è mosso dalla volontà di completare e correggere le sommarie e imprecise informazioni sulla «disputa» diffuse dalle storie della cioccolata, illustra nella prima parte una serie di luoghi comuni ed errori che giustificano un riesame delle fonti. Nella seconda ricostruisce il contesto in cui si colloca la disputa morale, accenna a studi sull’alimentazione, sulle società, sul rapporto cibo/religione/digiuno. Nella terza parte si sofferma sui diversi momenti della disputa se la cioccolata sia bevanda o no e sulla rappresentatività del dibattito dei moralisti cattolici sulla cioccolata come espressione di un contrasto tra le due Europe, quella cattolica appunto e quella protestante. Nella quarta parte infine discute su questa tesi e la dimostra insufficiente, per concludere con un riferimento alle varie interpretazioni della mela come frutto proibito del paradiso terrestre. Riferimento spiegato nelle conclusioni per la sua valenza teologica. Il senso della ricerca del nostro è una sollecitazione ai teologi a riprendere nei loro dibattiti temi maggiormente attinenti al vissuto dei cristiani. Insomma, il cibo dovrebbe interessare il teologo, perché il rapporto cibo/morale non è un problema marginale del cristianesimo, ma si colloca all’origine e al centro della teologia cristiana. All’origine, se è vero che il primo peccato e la storia della salvezza partono proprio da un atto di ghiottoneria, al centro perché l’eucaristia è un banchetto. Dunque è il momento che il teologo rifletta sul business legato alla cosmesi, alla salutistica, al body fitness e alla gourmandise, temi tutti che vedono invece la Chiesa un po’ distratta. Il corpo infatti pare interessare la Chiesa solo all’origine e alla fine, dunque morale della sessualità, della manipolazione genetica, problematiche dell’eutanasia. Oggi la bioetica si è so- stituita alla dietetica che è invece abbandonata in toto alla sfera temporale «con il ritorno di una vecchia tradizione interrotta nel Seicento, quando la gola si era emancipata dalla medicina ma, d’altra parte e paradossalmente, si assiste a «una ripresa di tematiche connotate religiosamente». Il protestantesimo all’inizio si caratterizzò per il rifiuto dei precetti alimentari ecclesiastici. Più recentemente anche il cattolicesimo abbandona tali norme, mentre molte confessioni protestanti usano prescrizioni dietetiche per preservare il corpo da cibi dannosi, religiosamente qualificati come impuri. Insomma a differenza di tradizioni religiose, che usano il cibo come segno di appartenenza e identità di gruppo, l’ossessione salutista è diventata la nuova morale di una religione che ha come oggetto di culto il corpo. Curioso anche che nella polemica tra cristiani la cioccolata fosse cattolica e il caffè protestante, proprio perché la cioccolata come bevanda termina la sua esistenza con l’Ancien régime e continua a vivere soprattutto come cioccolato, la cui produzione (e determinazione degli ingredienti da parte della Comunità europea) per ironia della sorte è oggi soprattutto in mano a paesi protestanti. Credo che queste considerazioni possano rendere interessante lo scritto, che è corredato da dotte appendici, tra cui il bando di scomunica in lingua spagnola contro i consumatori di cioccolata e l’elenco di tutti gli autori che hanno scritto sulla questione del rapporto cioccolata/digiuno. Quanto al titolo, una dettagliata spiegazione del quale è fornita a p. 84, la ricerca segue tre strade: l’interpretazione (Nietzsche) di un dibattito di teologia morale (il papa) che costituiva un episodio della storia dell’alimentazione (la cioccolata). Del dibattito morale c’è poco da dire, l’argomento non meritava tanto interesse e la morale magari avrebbe dovuto e dovrebbe preoccuparsi piuttosto degli schiavi di ieri e di oggi impiegati nella raccolta di cacao (oggi in Costa d’Avorio, che è il maggior produttore di cacao, sono soprattutto bambini schiavi provenienti dal Mali e da altri paesi più poveri a raccogliere il cacao). Tuttavia l’abbandono della pratica del digiuno e dell’astinenza ha una rilevanza storica che forse la Chiesa non ha meditato a sufficienza, restando vittima del processo di secolarizzazione e disincanto weberiano del mondo. Mary Douglas commentando la Paenitemini di Paolo VI, nel 1966, scrisse che il digiuno del venerdì era «il solo rito che potesse portare i simboli cristiani in cucina, in dispensa e sulla tavola apparecchiata, come avviene per le regole ebraiche di purità. Cancellare un simbolo che ha un significato non garantisce che il suo posto sarà occupato dallo spirito di carità: forse sarebbe stato più sicuro contare su quel piccolo muro simbolico, nella speranza che in avvenire giungesse a cingere il monte Sion; ma come abbiamo visto, IL REGNO - AT T UA L I T À 18/2009 627 REGATT 18-2009.qxd L 15/10/2009 17.22 Pagina ibri del mese / segnalazioni i responsabili delle decisioni ecclesiastiche hanno ricevuto assai spesso un’educazione che li rende indifferenti ai segni non-verbali, e ottusi al loro significato. Questo punto è fondamentale per spiegare la difficoltà in cui si dibatte oggi il cristianesimo: è come se i semafori della liturgia fossero manovrati da segnalatori daltonici».1 Ciò ricordato, si può aggiungere, ed è importante anche a livello pastorale, che se è vero che davanti alla fine della società postmoderna non siamo inclini a incasellare in schemi storiografici una disputa sulla cioccolata, è però altrettanto vero che possiamo considerarla come una provocazione a riflettere sulle morali dominanti e a mettere in luce la vera natura di ogni morale, e a maggior ragione di una norma giuridica che venga costruita ex post per giustificare una scelta irrazionale. Aimone Gelardi 1 H. DOUGLAS, I simboli naturali. Esplorazioni in cosmologia, Einaudi, Torino 1979; citato da Balzaretti a p. 174. J.B. METZ, MEMORIA PASSIONIS. Un ricordo provocatorio nella società pluralista, Queriniana, Brescia 2009, pp. 251, € 25,50. 978883990444 L a recente traduzione in lingua italiana di Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralista offre non solo l’opportunità d’attraversare in modo sistematico e sintetico l’opera di Metz, ma è anche l’occasione per declinare le possibili configurazioni tra cristianesimo e politica nel presente della nostra storia globale e nazionale. Nel volume si assiste a un passaggio di paradigma, nonché a un’evoluzione tematica nell’opera dell’autore: la teologia politica si fa mistica politica. Se negli anni Sessanta e Settanta la riflessione di Metz si era concentrata maggiormente sull’elaborazione della nuova teologia politica come sguardo rinnovato sul mondo e come teologia fondamentale pratica, negli ultimi due decenni, invece, il tema della memoria passionis ha inaugurato un’ermeneutica critica del cristianesimo, in quanto luogo di rammemorazione della sofferenza ingiusta e innocente.1 Dal momento che questi due poli tematici sono strettamente interconnessi, vorrei brevemente soffermarmi sulle caratteristiche essenziali della nuova teologia politica che vede in Metz sia il fondatore sia il più acuto studioso. Il cuore dell’annuncio evangelico ha una natura mondana e pubblica che non prefigura mai una salvezza privata. Allo stesso tempo 628 628 IL REGNO - AT T UA L I T À 18/2009 quella salvezza non è mai politicamente identificabile con una concreta istituzione storica, ma esperibile solo come processo critico-sociale mediante il quale le concrete istituzioni storiche vengono migliorate partendo dalla loro inappagata incompletezza. In Memoria passionis, quello che si presentava come un’ermeneutica critica della mediazione istituzionale ed ecclesiale del messaggio cristiano, si articola nella prassi individuale e collettiva del cristiano come soggetto politico e come membro di una comunità civile. Quello che agli occhi di Metz qualifica e distingue la prassi cristiana, in quanto naturalmente situata e collocabile in un contesto sociale, è l’esercizio della razionalità anamnestica in un contesto sociale pluralistico. All’interno della natura pubblica e mondana del cristianesimo, una cosa in particolare non è secolarizzabile: l’essere comunità di credenti che fa memoria della sofferenza, di quella sofferenza scomoda che risiede nel dolore dell’innocente e della vittima d’ingiustizia. Qui risiede il nucleo del concetto di memoria passionis: la vita cristiana è vista come la fatica comunitaria di far emergere il dolore rinserrato nelle fitte maglie del sociale, facendosi memoria con-passionevole della passione di Cristo. La sofferenza è il magma, la sostanza e la carne su cui il cristianesimo articola ogni gesto e informa ogni stile. Quella di Metz è una teologia critica della sofferenza sociale; essa poggia non su un’astratta fenomenologia del dolore umano, ma su una cruda antropologia del male in quanto ingiustizia. In questo punto teorico risiede anche il luogo di massima comunicazione della teologia di Metz con la teoria critica francofortese, in particolar modo con le movenze della dialettica negativa adorniana; è proprio Adorno, infatti, ad aver messo davanti agli occhi della speculazione filosofica contemporanea la natura sociale del fianco squarciato dell’uomo.2 Metz rinnova l’acuto e interpellante grido della teodicea ricollocandolo nell’umanità contemporanea la quale, nello stesso momento in cui si scopre sofferente, si riscopre affamata di giustizia. Peccato o sofferenza? Queste sono le due categorie ermeneutiche su cui si gioca il volto con-passionevole del cristianesimo. Da tale scelta scaturiranno pratiche sociali e politiche diverse se non contrastanti tra loro. «La questione che inquieta la fede d’Israele, della giustizia per gli innocenti che soffrono, nel cristianesimo fu mutata e trasformata troppo velocemente nella questione della redenzione dei colpevoli (…). Abbiamo forse, nel corso del tempo, interpretato il cristianesimo troppo esclusivamente come religione sensibile al peccato e perciò troppo poco come religione sensibile alla sofferenza?» (62). Ma se la sofferenza si dà come esperienza sociale, se la sofferenza non è mai pre-politica, qual è il suo tratto distintivo e sostanziale? Il cuore della sofferenza sta nel non poter più amare.3 Questa visione sociale della sofferenza umana, in quanto impossibilità di relazioni di re- ciprocità, è in stretta sintonia con la linea predominante nell’antropologia sociale contemporanea.4 La vera sofferenza sociale non deve essere ascritta meramente alla negazione o al misconoscimento di diritti individuali, bensì all’assenza di condizioni politiche e di spazi pubblici regolamentati, in cui gli individui possano articolare nuove e plurali relazioni. Qui, in questo preciso passaggio, la memoria del dolore sociale dell’innocente diviene ricerca comune di regole di giustizia. Qui la teologia critica della società, a cui Metz ha dedicato le sue ricerche, si fa prassi politica fondata sulla partecipazione democratica al rinvenimento qualificato di norme di giustizia sociale. D’altro canto, il laicato cattolico non può tralasciare il primato impellente della ricerca dei sofferenti; quel laicato, alla luce della memoria passionis, è chiamato a dare volti e nomi a coloro che soffrono ingiustamente, per non potersi neanche dire, per non poter instaurare libere relazioni di reciprocità in cui quell’identità possa essere costruita. Le scienze umane come la stessa teologia sociale hanno quindi il compito d’essere «l’espressione discorsiva delle diverse forme di torto che derivano dalla sofferenza umana immotivata che si manifesta nel contesto di un costante bisogno d’individuare forme di sofferenza non prevedibili».5 Allo stesso modo, il gesto che più intrinsecamente identifica l’azione e il compito del politico consiste nella capacità di avvertire l’assenza, risiede cioè nella compartecipazione dei membri della comunità politica al rinvenimento dell’incompletezza delle istituzioni presenti, nel portare alla luce il non-ancora-realizzato nei rapporti di giustizia tra gli uomini.7 Per Metz, l’antitesi di tale concezione del politico consiste nella morale della maggioranza appagata, ovvero in uno stile politico in cui una maggioranza democraticamente eletta, o socialmente rappresentativa del senso comune, impone, sazia e paffuta, il suo diritto ad agire in nome del consenso, ignorando sia la minoranza politica sia le minoranze sociali. La memoria passionis, ovvero la mistica politica della con-passione, agisce anche come rimedio al processo di auto-privatizzazione della Chiesa nella sfera pubblica. A tal proposito Metz mette in guardia da due derive. Da un lato, il percepirsi come piccolo gregge, ovvero la tendenza della comunità ecclesiale a definirsi in maniera esclusiva, ignorando che «chi conosce unicamente la Chiesa, non può dire di conoscere neppure la Chiesa» (172). Dall’altro lato, la teologia critica di Metz tende a contrastare la tendenza borghese e assistenziale per cui la comunità dei credenti diventa Chiesa-di-servizi. In questo caso, ritengo che l’accento più pericoloso che Metz voglia evidenziare non risieda tanto nella deriva funzionale e benefattrice delle attività ecclesiali, quanto nel pericolo che la Chiesa stessa si trasformi in agenzia sociale e politica. «C’è (invece) bisogno di un cristianesi- CLXXVIII