Schede artistiche S.Antonio DEFINITIVE

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XVI GIORNATA
FAI DI PRIMAVERA
5 / 6 APRILE 2008
SCHEDE ARTISTICHE PER LA
FORMAZIONE DEGLI
“APPRENDISTI CICERONI”
IL COMPLESSO MONASTICO
DI S. ANTONIO
VIA S. ANTONIO 5, MILANO
IL PERCORSO ARTISTICO
DELEGAZIONE FAI DI MILANO
SIMBOLOGIA UTILIZZATA
Gentili insegnanti, gentili studenti,
questa scheda è il testo fondamentale per la preparazione
degli “Apprendisti Ciceroni”, scritto appositamente per la
Giornata FAI di Primavera 2008. Esso illustra i principali aspetti storico-artistici del complesso di S. Antonio Abate, selezionati in modo da essere funzionali al percorso che gli
“Apprendisti Ciceroni” svolgeranno con il pubblico. All’interno del testo sono presenti numerosi collegamenti e spunti di
discussione, che potranno essere approfonditi in classe.
Illustriamo le icone utilizzate all’interno della scheda:
Domanda e risposta
Curiosità
Approfondimento da
parte dell’insegnante
Nota storica
Citazioni da documenti
storico-letterari
Personaggio
storico
Biografia
dell’artista
Nozioni storicoartistiche
Nota critica
Approfondimento
letterario
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IL COMPLESSO DI
S. ANTONIO ABATE A MILANO
CHI ERA
S. ANTONIO
ABATE?
Antonio nacque
in Egitto attorno
al 251. Dopo la
morte dei genitori
vendette tutti i
suoi beni per ritirarsi in solitudine nel deserto
della Tebaide dove il diavolo
lo tentò, ma invano. Si occupò anche d’istruire quanti
desideravano condurre una
vita simile alla sua e per questo è considerato uno dei
fondatori del monachesimo.
Ritenuto in vita santo e in
grado di operare miracoli,
morì ultracentenario nel 356.
CHE
COS’ERA
IL FUOCO
SACRO?
Il complesso degli edifici, che gravita attorno alla chiesa
di S. Antonio Abate, trae origine dall’ospedale fondato,
agli inizi del XII secolo (1127), grazie a un lascito testamentario del milanese Ruggero del Cerro, per la cura
della malattia denominata “fuoco sacro” ; questo primo
ospedale iniziò ad essere attivo grazie all’operato di laici
e sotto la direzione dei canonici della basilica di S. Nazaro, situata a poca distanza.
Detto anche “fuoco di S. Antonio” o “lebbra occidentale”, era una malattia della pelle proveniente dall’Oriente
che, attraverso diffuse vesciche, consumava i tessuti corporei conducendo alla morte
fra atroci sofferenze. Con ogni probabilità le attuali forme di herpes, che portano il
nome di “fuoco di S. Antonio”, non hanno più nulla a
che vedere con l’antico morbo.
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CHI ERANO I FRATI
DI S. ANTONIO?
L’ordine antoniano
nacque alla fine del
XI secolo in Francia
come ordine cavalleresco, dedicandosi successivamente
alla cura dei malati di “fuoco
sacro” sotto la protezione di
S. Antonio, poiché le sue reliquie, conservate nella città di
Vienne (nella parte sud-ovest
della Francia, tra Lione e Grenoble), avevano più volte
guarito gli ammalati.
CHE ATTIVITÁ SVOLGEVANO I
FRATI DI S. ANTONIO?
Negli archivi non sono presenti documenti che attestino
la fondazione dell’edificio ecclesiastico, ma un sicuro
stimolo allo sviluppo dell’intero complesso si può individuare con l’arrivo a Milano dei frati antoniani, probabilmente verso la fine del Duecento (1272 circa). La loro
attività presso l’ospedale è motivata dalla dedizione dimostrata nella cura del suddetto morbo. Diverse testi-
Gli Antoniani erano soliti allevare i
maiali perché dal
loro grasso, opportunamente fuso e mescolato
con diverse erbe
aromatiche, ricavavano un
medicamento, detto ex ungia
S. Antonii, adatto per la cura
del “fuoco sacro”. Da questa
attività proviene la tradizione
iconografica della figura di S.
Antonio con fiammella ed il
maiale accovacciato ai suoi
piedi.
monianze rivelano la presenza dei frati di S. Antonio,
dalla metà del Trecento in poi, mediante numerose donazioni e svariati privilegi a loro indirizzati, per intervento
delle famiglie più importanti dell’epoca, tra le quali quella
dei Visconti. Con l’affievolirsi della diffusione del “fuoco
sacro”, gli Antoniani iniziarono a svolgere attività diplomatiche al servizio della città di Milano. U n o d e i l o r o
incarichi più importanti del primo quarto del
Quattrocento è ricordato da una colonna in
La colonna doveva ricordare la
cessione
delle
città di Parma e
di Reggio Emilia
da parte del Marchese Niccolò III
D’Este a Filippo
Maria
Visconti,
duca di Milano, atto firmato
presso il complesso monastico nel 1420.
p i e t r a r o s s a d i Ve r o n a , coronata da un c a p i tello piramidale decorato con pinnacoli,
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recante l’immagine di S. Antonio ripetuta sui quattro lati;
posta nella piazza davanti alla chiesa originaria, venne
rimossa nel Settecento perché d’intralcio alla viabilità.
La colonna fu successivamente acquistata da uno dei
conti Belgiojoso per adornare il suo giardino e venne in
seguito ceduta al Museo del Castello Sforzesco; le fonti
tendono a riferirla allo scultore milanese Jacopino da
Tradate, ma l’attribuzione non è certa.
Nel 1452, dopo l’annessione dell’ospedale di S. Antonio
all’Ospedale Maggiore, forse a causa di una lite tra i frati
e i canonici di S. Nazaro, la chiesa e i suoi beni vennero
dati in commenda alle famiglie Landriani e Trivulzio.
Nel 1577 il complesso venne affidato ai padri Teatini
che, giunti in città da Roma per volere di Carlo Borromeo, diedero inizio a un’ingente opera di rinnovamento soprattutto dell’edificio ecclesiale, sia nella sua struttura
generale che nella sua decorazione interna.
La chiesa, consacrata il 13 settembre del 1654, divenne
un esempio coerente dell’arte nella Milano dei Borromeo, grazie alla presenza dei maggiori artisti del primo Seicento lombardo.
Qualche decennio più tardi, esattamente nel 1683, ebbero inizio anche i lavori per la costruzione dell’Oratorio
CHI ERANO I TEATINI?
Ordine fondato
da S. Gaetano
da Thiene e da
altri
religiosi
nel 1524, era
composto non
da frati, bensì
da
sacerdoti
che si univano
a vita comune
alla dipendenza della Santa
Sede. Si impegnavano a
riformare i costumi del clero e del popolo cattolico
nell’ambito della Controriforma.
dedicato all’Immacolata, adiacente al lato destro della
chiesa.
I Teatini rimasero a Milano fino alla soppressione dell’ordine nel 1798. In seguito, il convento venne convertito
ad usi civili e militari; sotto il governo asburgico vi trovò
posto anche una prigione. La chiesa, riaperta al culto
già nel 1799, diventò, in seguito, cappella militare e rischiò di essere convertita in magazzino, come del resto
accadde per altre porzioni del complesso monastico.
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Il periodo di decadenza si concluse solo nel 1930 quando, per intervento del cardinale Schuster, il complesso
divenne proprietà della Curia Arcivescovile e sede dell’Azione Cattolica. Interventi di ripristino si resero necessari dopo i danni causati dalla Seconda Guerra Mondiale, soprattutto in seguito al bombardamento del 1943.
Lavori di restauro, che hanno interessato differenti parti
della struttura e condotti in più riprese dai primi anni del
1900 fino a pochi mesi fa, hanno riportato all’antico
splendore l’intera struttura conventuale.
Campanile (particolare)
Il campanile
La torre campanaria, l’elemento più antico rimasto dell’intero complesso, è visibile solo dal chiostro attiguo alla
chiesa o dall’attuale via Bergamini e rappresenta un bellissimo esempio di architettura lombarda in cotto della
metà del Quattrocento. Gli storici non sono concordi nell’attribuirla all’ultima fase del patronato antoniano, ma
potrebbe essere stata eretta grazie ai primi commendatari. Si presenta a base quadrata ed è composta da due
ordini separati da una cornice e da una serie di arcatelle
che s’intrecciano in un complicato gioco di sovrapposizioni. Nel primo ordine sovrastante la navata si apre una
monofora trilobata per lato, a ricco strombo; il secondo
ordine, molto più leggero e vivacizzato da alcune zone
intonacate di bianco, in contrasto col rosso del cotto, accoglie la cella campanaria e presenta elementi tipicamente gotici: bifore a ricco strombo ornate da piccoli rosoni; più in alto si ripete la serie di arcatelle, questa volta semplici, e
una cornice più ampia rispetto alla precedente con una decorazione a rosette, su cui s’imposta la slanciata copertura dalla forma co-
CHE
COS’È IL
“TAU“ O T
GRECO?
È un segno sacro molto antico, simbolo del centro del mondo,
ultima lettera dell’alfabeto
ebraico e allusione alle cose
ultime e al destino; è una delle tante forme della croce che
diventa simbolo araldico
(come ad esempio la croce di
S. Andrea o quella potenziata
tipica dell’ordine di Malta).
Uno degli attribuiti di S. Antonio è il bastone a forma di tau
che ricorda quello usato dai
malati afflitti dal “fuoco sacro”.
nica, conclusa dalla banderuola e dalla croce in bronzo a forma di
tau (o T greco).
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La torre campanaria, come si presenta ai nostri occhi,
mostra, inoltre, un intervento di restauro, iniziato nel 1893
ed eseguito da Luca Beltrami, ed uno successivo del
2003.
I chiostri
I due chiostri, uno accanto all’altro sul lato sinistro della
chiesa, risalgono all’inizio del Cinquecento e furono
commissionati dalle famiglie a cui era stata assegnata la
commenda; entrambi presentano due ordini sovrapposti
e sono stati restaurati in anni recenti.
Nel primo chiostro, probabilmente commissionato dai
Trivulzio, il lato meridionale, quello attiguo all’edificio ecclesiale, non presenta loggiati né partiti decorativi, ma li
Il chiostro Trivulzio
simula con modanature intonacate; i restanti tre lati mostrano colonnati che, nell’ordine inferiore, presentano
capitelli tuscanici e, in quello superiore, ionici. Le terrecotte a stampo, parzialmente ricostruite secondo l’originale disegno
cinquecentesco, trovano posto sul parapetto dei loggiati superiori e sugli archi del portico inferiore (escludendo, come già visto, il
lato sud); il fregio della trabeazione è decorato nella parte
Il chiostro coperto
superiore da grifoni che sorreggono scudi a testa di cavallo, alternati a teste di vecchio con baffi e barba e a
teste di giovane; appena sotto, separata da una cornice,
corre una striscia a rosette; le ghiere degli archivolti presentano nastri a zig-zag e foglie di acanto sulla chiave di
volta. Il chiostro, nel suo insieme, rappresenta un’ottima
testimonianza del Rinascimento milanese, in parte ancora memore della tradizione bramantesca. Il secondo
cortile ha risentito maggiormente delle vicissitudini che l’intero complesso ha dovuto subire: nel 1951 l’architetto Antonio Cassi Ramelli è intervenuto progettando una copertura traslucida, oscurata negli anni Ottanta per adibire la
sala a Mensa Arcivescovile.
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Durante il restauro dei primi anni Novanta, lo spazio è
stato adattato a salone culturale. È ancora visibile la
struttura architettonica cinquecentesca con i due ordini sovrapposti: quello inferiore, interamente porticato,
presenta capitelli tuscanici su tre lati e per un lato
compositi, quello superiore, con due lati murati e due
percorribili, mostra invece capitelli ionici. Sono visibili
alcune decorazioni in cotto che caratterizzano gli archi
e la struttura dell’architrave, stilisticamente ricollegabili
alle precedenti, benché nettamente più scarse.
La struttura della chiesa e il suo interno
Dopo l’affidamento della chiesa ai padri Teatini
(1577), l’architetto Dionigi Campazzo, (non Francesco Maria Richini, come erroneamente indicato nelle
precedenti guide cittadine) venne incaricato di ricostruire la chiesa, inglobando quella più antica, ed occupando lo spazio fino ad allora riservato alla piazza
antistante. Nel 1584, l’edificio assunse la sua struttura
attuale, rispecchiando la volontà della committenza di
aderire
alla
tipologia ecclesiale della
Controriforma: la pianta
è a croce latina, dotata di
transetto
pena
ap-
accen-
nato e di un profondo coro rettangolare, tipico delle
chiese conventuali; la navata è coperta da un’ampia
volta a botte e lateralmente si apre su tre cappelle per
lato.
CHE CARATTERISTICHE HA
UNA CHIESA
CONTRORIFORMATA?
A Milano, l’azione
di riforma fu attuata, soprattutto,
dal cardinale Carlo Borromeo che,
con il suo scritto
Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae
(1577), giunse ad indicare
quali fossero le regole da seguire: era necessario mantenere l’assoluta centralità della chiesa mediante un’aula
unica, un altare maggiore
sopraelevato e in netta evidenza, gli ingressi laterali
chiusi al fine di ostacolare
alcuna distrazione da parte
dei fedeli.
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La semplicità della pianta contrasta fortemente con la
ricchezza della decorazione interna, di qualche decennio successiva: lo spazio è scandito da una fitta serie di
lesene rastremate e dorate, coronate da splendidi capitelli compositi, sopra i quali scorre una trabeazione piuttosto aggettante, abbellita da angioletti realizzati in stucco. Anche l’apparato pittorico è decisamente ricco, pienamente in linea con il gusto seicentesco.
La controfacciata
Nella parte bassa della controfacciata, ai lati del portale
d’ingresso, si possono ammirare due quadri che non
hanno né una datazione né un’attribuzione certa, ma
che sono interessanti a livello iconografico. Quello a sinistra del portale raffigura S. Nicola di Bari, riconoscibile sia per l’abito vescovile che per due suoi attributi piuttosto ricorrenti: gli involti d’oro che porta in mano e i tre
bambini nel tino. Quello di destra rappresenta una donna che sta suonando l’organo mentre un angioletto le
COSA STANNO
AD INDICARE GLI
ATTRIBUTI DI S.
NICOLA?
I tre involucri d’oro vogliono ricordare quelli che il
giovane
Nicola,
nato in una famiglia benestante, lanciò di nascosto nel giardino del suo vicino; questi,
caduto in miseria, voleva far
prostituire le figlie perché non
aveva una dote per loro ma,
grazie al santo, le tre giovani
furono salve. Il numero tre,
simbolo di perfezione, ricorre
spesso nelle sua storia: fece
liberare tre ufficiali bizantini
condannati ingiustamente per
tradimento; col passare dei
secoli la tradizione trasformò
questi tre innocenti nei tre
bambini resuscitati dal Santo
dopo essere stati fatti a pezzi e
messi in salamoia da un oste
malvagio. L’episodio sarebbe
accaduto nella notte di Natale
e, per questo motivo, in molti
paesi dell’Europa centrale e
orientale è S. Nicola a portare i
doni ai bambini.
porge dall’alto corone di fiori; con ogni probabilità si tratta di S. Cecilia, solitamente accostata a questo strumento perché, accompagnata dalla sua musica, cantava lodi
a Dio mentre si preparava alle nozze, non celebrate perché ella riuscì a convertire il promesso sposo ad una
vita di santità. La scelta del soggetto di quest’ultima tela
è strettamente connessa alla presenza dell’organo nella
cantoria sovrastante.
Lo strumento, risalente alla fine del Settecento, nel 1773
venne suonato da Wolfgang Amadeus Mozart, come
testimonia una lettera scritta di suo pugno e indirizzata
CHE COS’È LA
CANTORIA?
È la tribuna
sopraelevata
dove solitamente trovavano
posto i cantori; non aveva
una posizione fissa perché
poteva trovarsi nel transetto,
nell’abside o, a partire dal
Cinquecento, al di sopra dell’ingresso insieme all’organo.
alla sorella.
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Nella parte più alta della parete la decorazione ad affresco si ricollega direttamente a quella della volta, descritta nel paragrafo successivo: ai lati del finestrone sono
raffigurati due profeti, uno per lato, circondati da una
cornice in stucco con putti dipinti che reggono un cartiglio recante frammentari inni alla Croce; il profeta di sinistra, grazie all’iscrizione sulla targa che reca in mano, è
identificabile con Isaia, l’altro di destra potrebbe essere
Ezechiele, ma non vi è certezza perché la targa risulta
illeggibile. Poco più in basso sono dipinti due angeli seduti con in mano un libro.
La volta
Tra il 1630 e il 1632, due fratelli, Giovanni e Giovanni
Battista Carloni, componenti di una famiglia di decoratori provenienti da Canton Ticino, ma attivi a Genova,
ricevettero l’incarico di affrescare la volta della navata
con le Storie della Croce; i Teatini, che vivevano in e-
CHI ERA IL
PREPOSITO?
strema povertà, poterono affrontare la spesa solo grazie
alle offerte dei cittadini milanesi, che trovarono così il
modo di esprimere la loro gratitudine per l’attività svolta
dai padri durante l’epidemia di peste dei due anni precedenti. L’opera venne commissionata dal preposito Ales-
Il “preposito”
o
anche
“preposto” era solitamente il
parroco con funzione di vicario foraneo, cioè assegnato ad
un vicariato che univa più parrocchie.
sandro Porro che, probabilmente, ha ricoperto un ruolo
importante anche nell’ideazione del programma iconografico, rispecchiante l’intensa spiritualità teatina.
La volta della navata risulta divisa in tre riquadri dalla
forma piuttosto allungata trasversalmente entro i quali
sono affrescati tre episodi salienti della Leggenda della
Croce: nel primo, partendo dalla controfacciata, la Croce appare a Costantino e gli angeli gli predicono la vittoria nella battaglia contro Massenzio, se combatterà nel
nome di Cristo. Il secondo rappresenta il Ritrovamento
della Croce da parte di Elena.
L’atto più importante dell’imperatore romano Costantino fu l’emanazione dell’Editto di
Milano del 313, con
il quale si riconosceva ai cristiani la
libertà di culto; il suo gesto
si spiegava nell’ambito di
un generale atteggiamento
di riconciliazione nei confronti di quelle forze, come
la Chiesa, che si erano inserite nel tessuto sociale
dell’Impero.
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LA LEGGENDA DELLA VERA CROCE
Ripresa dalla Legenda Aurea (1255-66) di Jacopo da Varagine, la Storia della Vera Croce ebbe inizio quando furono posti in bocca ad Adamo, dopo la sua morte, alcuni semi dell’Albero della Conoscenza, lo stesso da cui egli stesso ed Eva avevano colto il frutto proibito. Secoli dopo, l’albero nato dalla tomba
del primo uomo venne fatto tagliare da Salomone per la costruzione del suo tempio; la trave ricavata non si poté però utilizzare
perché, per miracolo, cambiava continuamente dimensione: venne quindi impiegata come ponte sul fiume Siloe. La regina di
Saba, in visita da Salomone, riconobbe, grazie a una premonizione, che su quel legno sarebbe stato crocifisso il Salvatore e
avvertì il re che, invano, lo fece sotterrare. Dopo la morte di Cristo la Croce scomparve nuovamente; tre secoli più tardi riapparve in sogno a Costantino, che nel suo nome, vinse la battaglia di
Ponte Milvio contro Massenzio nel 312. Elena, madre del vincitore, ritrovò le tre croci a Gerusalemme, dopo la confessione
dell’ebreo Giuda che conosceva il luogo in cui erano nascoste;
quella di Cristo fu individuata perché solo al suo contatto un
giovane resuscitò. Nel 615 il re persiano Cosroe trafugò la reliquia, prontamente recuperata dall’imperatore d’Oriente Eraclio, che sconfisse il monarca infedele e lo fece decapitare.
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Nella terza fascia l’Imperatore d’Oriente Eraclio riporta
la Croce a Gerusalemme, dopo aver sconfitto il re persiano Cosroe, che l’aveva rubata. Eraclio non indossa
abiti regali perché, secondo la Legenda Aurea di Jacopo
da Varagine, le porte di Gerusalemme si sarebbero aperte solo se egli si fosse presentato con la massima
umiltà, seguendo l’esempio di Cristo; per questo motivo
è raffigurato mentre porta la Croce sulle spalle, scalzo e
con una veste dimessa.
Nelle vele sovrastanti i finestroni sono raffigurati sei angeli con gli strumenti della Passione: i tre sulla destra,
partendo dalla controfacciata, recano in mano la corona
di spine, il cartiglio con la scritta INRI e la lancia, mentre
quelli di sinistra mostrano i chiodi, la spugna imbevuta di
aceto posta sull’asta e la scala.
Nelle raffigurazioni che si susseguono fino all’incrocio
con il transetto è stata privilegiata la dimensione storica
della vicenda della Croce, ma considerando l’incrocio
navata-transetto, prende il sopravvento quella più prettamente teologica. Questo spazio risulta diviso in cinque
parti, una centrale, a cui è dato maggior risalto, e altre
quattro che la incorniciano da ogni lato. In mezzo è raffigurato il Trionfo della Croce circondato da gruppi angelici. Tra la folla di beati in adorazione è possibile riconoscere, con
buona probabilità, alcuni personaggi legati alla storia della chiesa di S. Antonio: all’estrema sinistra della Croce i due santi titolari, Antonio Abate e Nicola di Bari, l’uno riconoscibile per il saio
scuro, l’altro per il ricco abito vescovile; sempre sulla sinistra, si
genuflette Carlo Borromeo (che chiamò i Teatini a Milano) identificabile dalla veste cardinalizia; infine i teatini Gaetano da Thiene (fondatore della congregazione) e Andrea Avellino (primo
preposito di S. Antonio) in abito sacerdotale esattamente uno di
fronte all’altro, in piedi, nella seconda fila di santi sotto la Croce.
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Lateralmente, entro riquadri trapezoidali, sono affrescati
quattro episodi vetero-testamentari che alludono al sacrificio compiuto da Cristo sulla Croce: i Progenitori nel
Paradiso Terrestre, il Sacrificio di Isacco, il Passaggio
del Mar Rosso e l’Innalzamento del Serpente di Bronzo.
In questo ultimo episodio compare uno dei simboli maggiormente legati alla figura di S. Antonio Abate: il bastone su cui Mosè solleva il serpente di bronzo ha la caratteristica forma di tau.
La scelta di affrescare le Storie della Croce non è assolutamente casuale, ma ricorre molto spesso nelle chiese
della Congregazione dei Teatini perché festeggiavano
l’anniversario della loro fondazione proprio nel giorno
dell’Esaltazione della Croce (14 settembre).
L’opera dei fratelli Carloni è connotata da una particolare teatralità e da colori vividi, robusti, tipici della scuola
genovese. Distinguere le mani dei due all’interno del
ciclo risulta piuttosto complicato, ma le fonti affermano
che, inizialmente, il lavoro venne assegnato al maggiore, Giovanni, e venne terminato da Giovanni Battista solo dopo la morte del fratello. Nell’ambito del loro cantiere
rientrano anche i ricchi stucchi caratterizzati da un robusto plasticismo e da un’esuberanza decorativa, probabilmente attribuiti allo stuccatore Antonio Sala.
Cappelle di sinistra
Il lato sinistro della chiesa è strutturato in un primo vano
decorato ad affreschi e da tre cappelle.
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Cappella di San Gaetano
La prima cappella è dedicata a San Gaetano da Thiene, uno dei fondatori dell’Ordine dei Teatini che ressero
la chiesa dal 1577 al 1798, posta simmetricamente rispetto a quella dell’altro grande santo dell’Ordine Teatino, S. Andrea Avellino.
È la più ricca di decorazioni, contraddistinta da un classicismo fastoso e severo, ma anche da eleganza e raffinatezza, date dalla policromia dei marmi, delle pietre
dure e dei bronzi dorati. Venne sistemata nella seconda
metà del XVII secolo, in vista della canonizzazione del
Santo nel 1671, grazie al generoso lascito della nobildonna Girolama Dardadona Rho, ricordato dalle iscrizioni alle pareti che riportano la data 1674 (anno quindi di
fondazione della cappella).
Al centro la pala con L’estasi del Beato Gaetano con alcuni angeli del Cerano, è databile al primo decennio del
‘600. Era un dipinto molto venerato dal popolo in quanto, secondo le fonti antiche, davanti ad esso sarebbero
accaduti molti eventi miracolosi.
Il Santo è raffigurato in ginocchio mentre in alto gli appare la S. Croce, regge un tralcio di gigli e un libro aperto
con le parole “Conspicite lilia agri; respicite volatilia coeli; Pater vester coelestis nutrit et vestit” (“Guardate come
crescono i gigli nel campo…guardate gli uccelli del cie-
Tra i miracoli, tre
furono riconosciuti dalla Sacra Congregazione
dei
Riti: la liberazione dai demoni di
una tredicenne e le guarigioni di
una fanciulla e dell’anziano conte
Giorgio Trivulzio, marito di Olimpia Pallavicino Trivulzio, una delle
benefattrici dei Teatini e patrona
della cappella delle Reliquie.
lo...il vostro Padre li nutre e veste” Mt., 6, 26-30).
Il dipinto allude, con la chiarezza didascalica propria dell’arte sacra del periodo controriformistico, alla fiducia
nella Provvidenza e alla pratica della povertà evangelica, motivi salienti della personalità religiosa di S. Gaetano, nonché ideali caratterizzanti la Congregazione teatina.
Arte promossa
dalla Chiesa Cattolica per contrastare la diffusione della Riforma Protestante, secondo i dettami della Controriforma emersa col Concilio di Trento
(1545-1563). È un’arte didatticopopolare, cioè che attraverso un
linguaggio comprensibile a tutti
punta a coinvolgere e commuovere lo spettatore, per riportarlo a
sentirsi vicino alla dottrina cattolica.
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Collegate alle stesse tematiche sono le sculture in marmo di Carrara di Giuseppe Rusnati che, attraverso
continui riferimenti alla Fede e alla Provvidenza, celebrano il Santo e i fondamenti dell’Ordine.
Il Rusnati realizzò le statue e le formelle scolpite con Episodi della vita del Santo che partono dalla sua infanzia
e culminano con la Morte di S. Gaetano al centro del
paliotto.
Le scene sono caratterizzate da uno stile molto diverso da quello severo e ieratico della pala del Cerano: sono raffigurazioni movimentate, prive di dram-
CHE COS’È UN
PALIOTTO?
Il Paliotto è un
paramento
che
copre la parte
anteriore dell’altare. Può essere
realizzato
con
materiali diversi tra cui marmo (come in questo altare),
stoffe, metalli preziosi o legno.
maticità e spesso ricche di particolari aneddotici,
rese con un linguaggio fluido e morbido nei passaggi chiaroscurali.
Nella volta sono presenti tele sagomate, di un anonimo
lombardo del tardo Seicento, che raffigurano tre delle
tante visioni miracolose avute da S. Gaetano in vita: al
centro è la Visione natalizia del Santo (episodio in cui,
durante la Messa di Natale, gli sarebbe apparsa la Vergine nell’atto di porgergli in braccio il Bambin Gesù), ai
lati S. Gaetano si abbevera alla piaga del costato di Cristo e Il cuore si invola dal petto di S. Gaetano in estasi
sorretto dagli Angeli (due scene tratte dal repertorio fantasioso dell’agiografia se-
G. Rusnati, Morte di S. Gaetano
centesca sulle sue visioni):
nella prima, Gesù sarebbe
apparso porgendogli la Croce e invitandolo a bere il
Suo sangue, nella seconda
si racconta che il suo cuore
bruciò così tanto d’amore
per Dio che una volta lo vide andare verso il cielo con
ali di fuoco.
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Cappella dell’Annunciazione (Cappella Acerbi)
È chiamata anche cappella Acerbi in quanto,
secondo un documento
d’archivio, nel 1609, il
senatore Ludovico Acerbi (personaggio di
rilievo che ricoprì varie
cariche pubbliche per la
corona di Spagna) avrebbe
stipulato
una
convenzione per far erigere, a sue spese, una
cappella per la sua famiglia. La cappella venne completata probabilmente entro il 1612: ci sono infatti due
lapidi che riportano tale data l’indicazione del patronato.
Tutti i dipinti presenti sono attribuiti a Giulio Cesare Procaccini: al centro l’Annunciazione, a sinistra la Visitazione di Maria ad Elisabetta, a destra la Madonna col Bambino durante la
fuga in Egitto.
Le tre tele maggiori, realizzate ad olio, sono completate da un
quadretto con Tre Angeli sopra la pala e dalla tela a tempera
con l’Eterno in gloria sulla volta, eseguite probabilmente in
concomitanza coi lavori per l’altare, tra 1610 e 1612.
Le opere presenti all’interno della cappella rappresentano una nuova fase stilistica del Procaccini che si discostò da una certa drammaticità, caratteristica del primo
decennio da pittore, per aderire alla tecnica compositiva
dei pittori di Parma. Sono infatti Correggio e Parmigianino a influenzarne la pittura divenuta sciolta e ariosa.
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Le tele mostrano grazia espressiva, ritmi compositivi più morbidi, sottili avvolgenze chiaroscurali, allungamento delle figure secondo moduli emiliani e
scintillanti iridescenze cromatiche che rimandano
anche alle opere genovesi di Rubens; il colore è diventato più morbido, caldo, e sottilmente acceso di
sensuali finezze.
Nella grandiosa Annunciazione, tali caratteristiche appaiono in evidenza nella resa dell’atmosfera intima del
sacro evento, come nella preziosa dolcezza delle espressioni, nel fluire dei gesti, nei trapassi cromatici e
luminosi. Oltre al maestoso Arcangelo Gabriele a sinistra, e alla bellissima Vergine più a destra che, solitamente, sono gli unici personaggi ritratti nell’episodio,
Procaccini riproduce una scena affollata, con altri angeli
G.C. Procaccini, La Visitazione
che riempiono tutto lo spazio. L’angioletto in piedi in primo piano, che dà quasi le spalle allo spettatore, porge
alla Vergine un giglio bianco, simbolo della sua verginità, mentre una colomba bianca vola verso di lei compiendo le parole pronunciate dall’angelo: “Lo Spirito
Santo scenderà su di te”, accompagnate da un raggio di
luce dorata che parte dalla mano dell’angelo.
Nella Visitazione di Maria ad Elisabetta il fulcro della
scena sta al centro, nell’abbraccio avvolgente scambiato
NATURA
MORTA
tra le due donne in un fascio di luce dorata. La scena è
caratterizzata soprattutto da un gusto realista, ben visibile nel volto rugoso di Elisabetta racchiuso nella cuffia
bianca, nel muscoloso S. Giuseppe in basso, scorciato
secondo un ritmo curvilineo, teso con una mano ad afferrare la briglia dell’asino e con l’altra un cesto di frutta
(particolare che aumenta il realismo e costit u i s c e u n interessante esempio del nuovo genere della natura morta).
Pittura
di
genere che ha origini antiche,
ma si diffonde come genere
autonomo all’inizio del ‘600;
indica un dipinto in cui non
sono rappresentati soggetti
umani, ma solo elementi naturali o soggetti inanimati
(soprattutto fiori, frutta, vivande…), spesso caricati di
significati simbolici o, più in
generale, dove questi elementi sono i veri protagonisti
dell’opera rispetto agli altri.
17
La Madonna col Bambino durante la fuga in Egitto presenta una raffigurazione della scena particolare rispetto
al predominante modello con la Vergine seduta sull’asino. Al centro in piedi è posta Maria col Bambino in braccio, affiancati a destra da una figura femminile che potrebbe essere Salome, la levatrice che secondo una tradizione li accompagnò in Egitto e, sotto di lei, un putto
che regge un cesto di frutta, possibile riferimento al miracolo della palma (rimandato dal Vangelo apocrifo dello
Pseudo Matteo) secondo cui l’albero si piegò per dare a
Maria i suoi frutti, oppure potrebbe rappresentare il bambino che avrebbe condotto l’asinello che nelle icone è
spesso raffigurato con un cesto. Completano la scena a
sinistra S. Giuseppe e in alto un turbinio di angeli tra nu-
G.C. Procaccini, Madonna col
Bambino durante la fuga in Egitto
bi azzurre.
Cappella delle Reliquie (Cappella Trivulzio)
La cappella si trova in testa al braccio sinistro del transetto, più arretrata quindi rispetto all’asse di quelle esaminate fin’ora. Probabilmente, conclusi i lavori di architettura per la ricostruzione della chiesa, avviati nel 1584,
iniziò da qui la decorazione delle cappelle. Venne fatta
realizzare dalla famiglia Trivulzio, sopra quella che era
una precedente tomba dei membri di un ramo della famiglia.
Eretto l’altare, vi furono riunite le numerose reliquie già
venerate nella chiesa, oltre ad altre reliquie portate da
Roma dai Teatini, compresa quella della Santa Croce.
La presenza di questa preziosa reliquia ispirò il ciclo pittorico della volta.
L’elenco delle Reliquie conservate è inciso sulle lastre di
marmo nero poste sopra le piccole balaustre; tra le più
importanti si ricordano i brandelli delle vesti di Nostro
Signore e della Vergine.
18
La porzione del Legno della S. Croce è posta sopra l’altare in un piccolo tabernacolo coperto d’argento e lavorato a bellissimi intagli e mosaici di gusto barocco, non
visibile però in quanto coperto dalla pala d’altare, che
nasconde anche altre reliquie in custodie preziose.
La pala è una tela raffigurante l’Andata di Cristo al Calvario, buona copia da Jacopo Palma il Giovane, compiuta dal pittore veronese Pietro Perotti.
Sulle pareti a sinistra la Flagellazione, di un ignoto artista probabilmente toscano, e l’Incoronazione di spine
del vicentino Alessandro Maganza a destra, sono entrambe databili alla fine del XVI secolo.
Sono presenti poi, sulla volta, tre tele ad olio incorniciate
da stucchi col Compianto sul corpo di Cristo (Pietà) al
centro, la Deposizione dalla Croce a destra e la Messa
al sepolcro a sinistra. Dopo varie attribuzioni, soprattutto
al Carracci e a Tanzio da Varallo, si è giunti al nome del
bolognese Lorenzo Garbieri, allievo di Ludovico Carracci, che qui dipinge con ricordi caravaggeschi.
Il tema della Passione di Cristo non ispira soltanto il programma iconografico della cappella, ma anche quello
dei grandi dipinti bislunghi del transetto sinistro realizzati
da Enea Salmeggia detto il Talpino, con la Cattura di
Cristo nell’orto a sinistra e l’Orazione di Cristo nell’orto
degli Ulivi a destra.
L’arco trionfale
L’arco trionfale, che immette nella zona presbiteriale, è
decorato con sette medaglioni: in quello centrale sorretto da una coppia di angioletti in stucco è affrescato il busto di Cristo, nei sei laterali quelli degli apostoli a due a
due. Questa sezione dell’apparato decorativo è stata
spesso assegnata al Salmeggia, ma gli studi monografici a lui dedicati non hanno confermato l’attribuzione.
19
Si è pensato anche di ricollegare i medaglioni alla deco-
QUALI SONO GLI
ATTRIBUTI DI S. ANTONIO?
razione della volta della navata per affinità stilistiche sia
degli affreschi che degli stucchi, ma non ci sono prove
sicure neppure in tal senso.
Le sezioni di partito murario che reggono l’arco presentano inoltre due sculture lignee policrome, dislocate entro nicchie, raffiguranti S. Antonio, a sinistra rispetto all’altare maggiore, e S. Carlo al lato opposto; probabilmente la base delle figure fungeva da reliquiario come
lascerebbero intendere le iscrizioni sottostanti.
Il presbiterio
È riconoscibile
per il saio che
ricorda il suo
impegno
nella
diffusione
del
monachesimo,
per il bastone a
forma di “tau” e
per il campanello, solitamente ad esso appeso,
perché erano usati dai malati di “fuoco sacro”, detto
anche “fuoco di S. Antonio”; infine, molto spesso,
ai piedi del santo è raffigurato anche un maialino,
animale allevato dai frati
antoniani per curare la
stessa malattia.
La decorazione del presbiterio è compresa nei lavori di rinnovamento attuati a seguito dell’assegnazione della chiesa ai padri
Teatini; documenti d’archivio indicano la contessa Olimpia Pallavicino Trivulzio come promotrice, nello specifico, della decorazione ad affresco della volta per gli anni successivi al 1610. La
volta a botte che copre il vano presbiteriale di forma rettangolare
risulta suddivisa in tre sezioni di diversa larghezza separate da
fasce con ricche decorazioni a stucco e medaglioni con putti
dipinti. S. Antonio è il protagonista di tutti gli episodi affrescati
che vengono assegnati al pittore piemontese Guglielmo Caccia,
soprannominato Moncalvo. Il primo settore, partendo dall’arcone, risulta essere quello più stretto, ed ospita l’immagine di S.
Antonio (sulla destra) innalzato in cielo da tre angeli al cospetto
del Cristo in gloria (dalla parte opposta), anch’egli circondato da
figure angeliche. La sezione centrale raffigura nella parte destra
S. Antonio circondato da una leggera boscaglia, mentre osserva
l’anima di S. Paolo Eremita portata in cielo dagli angeli (al centro); nell’estrema sinistra si ritrova lo stesso santo davanti alla
sua spelonca, in atteggiamento di preghiera: sfogliando la Legenda Aurea si scopre che S. Paolo muore in questa posizione
e si spiega così il motivo per cui la sua immagine compare due
COSA LEGA
S. ANTONIO
A S. PAOLO
EREMITA?
La Legenda Aurea racconta
che S. Paolo Eremita, durante la persecuzione dell’imperatore Decio (metà del III
secolo circa), si ritirò nel
deserto dove visse per sessant’anni in una spelonca.
S. Antonio credeva di essere il primo eremita, ma apprese in sogno che vi era un
altro migliore di lui e, dopo
lungo errare, riuscì ad incontrarlo con grande gioia
per entrambi. Mentre S. Antonio ritornava al suo eremo
vide l’anima di Paolo portata
in cielo dagli angeli, quindi
ritornò in fretta sui suo passi e trovò il corpo del santo
senza vita, ma inginocchiato
come se fosse in preghiera;
S. Antonio avrebbe voluto
seppellirlo quando apparvero due leoni giunti in suo
aiuto scavando una fossa.
Infine S. Antonio prese la
veste fatta di palme intrecciate di S. Paolo e la indossò da quel momento in poi
nei giorni festivi.
volte nella stessa scena.
20
L’ultima raffigurazione, quella contigua alla parete absidale, propone nuovamente S. Antonio che osserva delle
anime raffigurate sotto forma di fanciulli: alcune di esse
sono trasportate in cielo dagli angeli, mentre altre (nelle
zona a sinistra) sono fermate da due diavoli che le percuotono e le afferrano per i capelli.
Moncalvo, S. Paolo portato in
Gli affreschi sono caratterizzati dall’impiego di colo- cielo dagli angeli
ri delicati, che ben si adattano alle figure angeliche e
alle anime in ascesa; le scene risultano più ariose e
meno affollate rispetto a quelle della volta della navata, a discapito, però, della monumentalità dell’insieme. Passando alla decorazioni della parete di fondo
del coro, le prime opere visibili partendo dall’alto sono le
due tele di Fede Galizia poste ai lati del finestrone
(successive al 1616): quella di destra ha come protagonista S. Paolo, mentre l’altra S. Antonio, il primo riconoscibile per la corta veste fatta di palme intrecciate, l’altro
per il caratteristico saio. Ad un primo impatto i due
eremiti sembrerebbero descritti singolarmente, ma
dalla lettura della Legenda Aurea emerge la volontà della pittrice di rappresentare un episodio
ben preciso, svoltosi appena prima di quello affrescato sulla volta: i due santi, subito dopo essersi
incontrati, spezzano insieme il pane consegnato
da un corvo ogni giorno a S. Paolo.
F. Galizia, S. Antonio e S. Paolo
Eremita
21
La decorazione della parete
di fondo si conclude con la
tela realizzata da Camillo
Procaccini negli anni di poco successivi al 1610: Gesù
Cristo appare a S. Antonio e
risana le sue ferite dopo che
questi ha resistito alla lotta
contro i demoni. Le due figure sono imponenti: Cristo,
reso con uno scorcio ardito,
scende dai cieli assistito da due angioletti, mentre il santo, nella parte bassa della tela, apre le braccia sfinito
dalla lotta; di grande intensità è anche il muto dialogo
che si instaura fra loro. Da notare il linearismo piuttosto accentuato dei panneggi, che potrebbe avere avuto una certa influenza anche nella tela di Fe-
“Capì allora Antonio che Cristo
gli era vicino e
disse: «Dove eri,
mio Signore Gesù, dove eri? Perché non sei
venuto subito in mio aiuto, a
guarirmi di tante ferite?». Rispose il Signore: «Io ero qui
e assistevo alla tua lotta: hai
combattuto virilmente onde
diffonderò la tua gloria per il
mondo intero» (Jacopo da
Varagine, Legenda Aurea,
traduzione di C. Lisi)
de Galizia appena descritta e rappresentante lo stesso
santo. Le pareti laterali del presbiterio sono abbellite da
quattro quadri, di considerevoli dimensioni, idealmente
e stilisticamente collegati a quello di Camillo Procaccini,
attribuiti a Domenico Pellegrini. Le opere descrivono
alcuni episodi salienti della vita di S. Antonio, ad esempio, nel primo quadro di sinistra, il santo è raffigurato
mentre il diavolo lo tenta sottoforma di attraenti fanciulle.
Appena al di sotto dei dipinti si dispongono gli stalli lignei del coro, abbelliti da decorazioni a volute e, nella
parte più alta, da volti di angeli; furono forse eseguiti su
disegno di Francesco Maria Richini.
All’imbocco del presbiterio, ai lati dell’altare, tro-
CHE COSA
SONO GLI STALLI?
È definito stallo ciascuno dei sedili allineati in
file simmetriche ai lati del
coro, solitamente forniti di
spalliera e braccioli.
vano posto altri due quadri di minori dimensioni
riferibili al p i t t o r e l o m b a r d o s e i c e n t e s c o C a r l o
Cane, raffiguranti S. Nicola di Bari.
22
Sacrestia e antisacrestia
Una piccola porta situata a sinistra del transetto di destra conduce all’antisacrestia e quindi alla sacrestia.
Nell’antisacrestia sono collocati alle pareti due antichi
paliotti d’altare, di raffinata esecuzione: a sinistra il paliotto dell’altare maggiore, dedicato a S. Antonio e S. Nicola, risalente al 1654, a destra quello dedicato ai martiri
Giacinto e Fortunato.
Paliotto dell’altare maggiore
Sono poi conservati alcuni dei quadri di grandi dimensioni eseguiti per la canonizzazione di S. Gaetano del
1671. Queste raffigurazioni, di modesta qualità,
furono realizzate in occasione della festa celebrata in chiesa, lungo la strada della contrada, nel
cimitero attiguo e nel chiostro, con lo scopo didascalico di illustrare episodi della vita del Santo, i suoi
miracoli e le sue virtù. Oggi ne restano solo una
decina di opere, delle 37 originarie, dedicate alla
vita del santo (prima tenuti nella sagrestia): quattro sono situate qui e le restanti nella casa del
rettore. Purtroppo sono in cattive condizioni soprattutto a causa di un incendio avvenuto almeno
un secolo fa. I due appesi alle pareti raffigurano il
Viaggio da Roma a Napoli sotto la guida di una
angelo e la Prigionia di S. Gaetano durante il
Sacco di Roma del 1527.
COSA AVVENNE
DURANTE IL
SACCO DI
ROMA?
Nel 1527 le milizie
mercenarie
tedesche dei luterani Lanzichenecchi, mandati dall’imperatore Carlo V contro Papa Clemente VII, devastano Roma e
assediano il Papa rinchiuso
in Castel Sant’Angelo, ma
una grave pestilenza obbliga
le truppe imperiali a ritirarsi.
23
Da una porta a destra si accede all’ampia sacrestia ornata, alle pareti laterali, da imponenti armadi settecenteschi in noce, decorati da intagli a forma di frutti, foglie e
teste di cherubini e contenenti palii e paramenti sacri,
argenterie e oggetti in rame argentato che, in alcune ricorrenze, venivano adoperate per ornare l’altare maggiore e la chiesa. Vi sono poi risposte Sacre Reliquie,
contenute in busti di Santi e Sante solitamente in rame
argentato: la loro presenza e ricordata dalle lettere RR.
SS. (Reliquiae Sanctorum) su alcune ante a destra.
Sopra gli armadi sono presenti numerosi quadri: la maggior parte sono tele a tempera appartenenti al ciclo sulla
vita di S. Andrea Avellino realizzato per la festa della
sua canonizzazione avvenuta nel 1712; per l’occasione
furono, infatti, realizzati solo nove quadroni a tempera
(se ne conservano otto), la cui realizzazione è per tradizione attribuita a Sebastiano Ricci.
Alla sinistra, intervallati dalle finestre, sono presenti la Vocazione
di S. Andrea Avellino e S. Andrea Avellino assalito da tre sicari:
nel primo il santo, ancora ragazzo, è ritratto in abiti lussuosi; educato in modo fortemente religioso, riuscì a rifiutare sempre tutte
le lusinghe da parte delle donne, una delle quali è raffigurata
accanto al giovane che non le rivolge nemmeno uno sguardo
poichè rapito dalla chiamata che viene dall’alto. Il secondo lo
raffigura come un
novizio
durante
un’aggressione
causata dalla sua
COS’È UN
NOVIZIO?
Un novizio è chi è
gia entrato in un Ordine Religioso ma non ha ancora pronunciato i voti.
riforma spirituale
per
le
religiose
del Monastero di
S.
Arcangelo
a
Baiano.
24
Alla parete destra sono appesi: un S. Paolo in abiti sontuosi, databile tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600; S.
Andrea Avellino che cade da cavallo ed è aiutato da S.
Tommaso d’Aquino a cui era molto devoto; S. Andrea
Avellino in preghiera; S. Genesio martire raffigurato
con maschere e violino a ricordo della sua professione
d’attore esercitata prima di diventare cristiano.
Sulla controfacciata sono presenti S. Andrea Avellino
nel cammino notturno, S. Antonio tentato da tre fanciulle, molto rovinato, e la Morte di S. Andrea Avellino,
avvenuta improvvisamente mentre celebrava la S. Messa. Il Santo è raffigurato sdraiato, con attorno i fedeli
che osservano un dottore che gli sta praticando dei tagli.
CHI ERA S. GENESIO?
Genesio era un
attore pagano
che, all’epoca
di
Diocleziano,
faceva la parodia dei cristiani
e
delle loro cerimonie. Successivamente si convertì e si
fece battezzare, perciò quando pubblico e Imperatore si
resero conto che Genesio
non fingeva più di officiare i
riti cristiani, ma li compiva
con sincero ardore religioso,
venne fatto arrestare, torturare e infine decapitare nel 303.
Oggi è patrono e protettore
della gente di teatro.
Accadde infatti che, mentre stavano per seppellirlo, ci si
accorse che, come da una persona viva, usciva del sangue da un taglio dietro l’orecchio, provocato da un fedele che voleva tenere per sé una ciocca dei suoi capelli.
Vennero allora chiamati due dottori che gli fecero tre incisioni sul corpo per veder se fosse ancora vivo. Il Santo
era morto, ma il sangue continuò a fluire ed egli fu sepolto solo dopo quattro giorni, come lui stesso aveva
predetto quando era in vita.
Appesi all’ingresso dello spazio dell’altare vi sono
i quadroni con S. Andrea Avellino che guarisce
un’ indemoniata a sinistra, e a destra S. Andrea
Avellino in gloria, che in abiti teatini e sorretto da
Il quadro ricorda quando
Andrea, nonostante buio e
pioggia, rifiutò una carrozza con cui farsi
riaccompagnare dopo una
visita in una casa e si incamminò con alcuni compagni e
un paggetto che faceva strada con la lampada; poco dopo le raffiche di vento spensero la lampada, ma i confratelli proseguirono, rischiarati
dalla luce emanata dalla persona di S. Andrea e una volta
giunti si accorsero anche
che, nonostante la forte pioggia, nessuno di essi aveva i
vestiti bagnati.
angeli, viene portato verso Cristo e verso il Padre.
Tra i due quadroni, sopra l’arco d’accesso allo
spazio di fondo è visibile lo stemma dei Teatini in
stucco. Davanti alla cappella un bellissimo Crocifisso secentesco, proveniente dall’altare maggiore
e riferibile alla scuola bergamasca dei Fantoni, è
stato ricavato da una sola zanna d’avorio e poi
dipinto.
25
Nella piccola abside al centro la pala d’altare con l’Assunzione della Vergine è attribuita solitamente al Moncalvo, a destra la Natività è di Camillo Procaccini, databile intorno al 1610 e da poco restaurata e, a sinistra, La
Vergine col Bambino, S. Anna e S. Giuseppe è stata dipinta da un autore ignoto e versa in cattive condizioni di
leggibilità.
Cappelle di destra
Il lato destro della navata è scandito da tre cappelle e da
un vano decorato che immette, tramite una porta di legno, all’Oratorio dell’Immacolata.
Cappella dell’Ascensione
La cappella posta in testa al
transetto e intitolata all’Ascensione, fu eretta da un nobile
milanese, Emanuele Dal Pozzo
che, dal 1610, fece eseguire, in
un breve periodo di tempo, la
decorazione pittorica a stucco
e il progetto architettonico dell’altare. Il corredo pittorico della
cappella e del corrispondente
braccio del transetto è dedicato alla glorificazione di Cristo, programma iconografico che è in stretto collegamento con quello dell’antistante cappella dedicata alla
Passione.
Al di sopra dell’altare in marmo si trova l’Ascensione del
Malosso e a destra il quadro dipinto da Alessandro
Vaiani con la Pentecoste, realizzati entrambe nel 1610.
Al Vaiani possono essere attribuite anche le tre tele con
la Circoncisione di Gesù, l’Incoronazione di Maria e la
Trasfigurazione, databili al medesimo periodo e situate
nella volta della stessa cappella.
26
Sulla parete sinistra della cappella è collocata la Resurrezione di Cristo dipinta da Cerano intorno al 1610, opera di straordinaria potenza visionaria: la figura del Cristo,
con il braccio destro alzato, è avvolta dal candore dello
stendardo crociato che egli stesso tiene nella mano sinistra ed emerge al di sopra della massa di guardie atterrate e disposte ai lati.
Sotto la figura del Cristo, a destra in piedi, è raffigurata
una guardia con turbante, lorica e scudo, in primo piano
nell’angolo in basso una guardia anziana a torso nudo
sotto un mantello di pelliccia, atterrata dall’apparizione.
CHE COS’È LA
LORICA?
La lorica era un’ armatura
che copriva il petto, pancia e
fianchi.
A sinistra, con un braccio appoggiato al sepolcro, è dipinta una guardia ancora dormiente, mentre sul fondo si
staglia un indefinito gruppo di guardie in fuga.
Sempre nel transetto destro, ma al di fuori della cappella
dell’Ascensione, è collocata sul lato sinistro una Natività
dipinta da Ludovico Carracci intorno al 1611-1612, sul
lato destro, invece, la tela coeva con l’Adorazione dei
magi dipinta da Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone.
Ludovico Carracci, nella Natività, riesce abilmente
a sfruttare lo spazio disponendo la sua composizione in verticale con suggestivi effetti di luce, irradiata dal piccolo Gesù ed altri effetti di controluce nelle figure dei pastori in primo e secondo piano. Il fulcro del quadro è il Bambino che, avvolto
da luce divina, è adorato da Maria, Giuseppe, angeli e pastori. Verticalmente sono ben visibili tre
fasce, la prima, quella più in alto, ospita la folta
schiera angelica che è accorsa per festeggiare
l’evento con canti di giubilo; la seconda fascia,
quella centrale, è dedicata alla Sacra Famiglia; e
nella terza trovano posto i pastori, il bue e l’agnellino.
L. Carracci, Natività, 1611-12
27
Queste tre fasce sono connotate anche da una diminuzione di brillantezza e di luce, dall’alto verso il
basso, a significare un passaggio dalla sfera celeste
a quella terrena.
L’artista vuole richiamare il fedele ponendo l’attenzione sul significato mistico del soggetto: l’offerta
da parte della Vergine del proprio figlio, agnello sacrificale per la redenzione dell’umanità, esplicitamente paragonato agli agnelli che i pastori portano
in dono al neonato.
Il Morazzone, ne l’Adorazione dei magi, sfrutta l’originale formato della tela per movimentare la scena, fa ruotare le colossali, ma eleganti, figure intorno alla Madonna,
poi crea una cesura a mezza altezza nella composizione e al di sopra vi
colloca un gruppo
di angeli vibranti di
luce. Il gruppo piramidale della Vergine e dei Magi con i
due paggi, è caratterizzato da bagliori
di luce che si soffermano su alcuni
particolari (un orecchio o le pieghe
Grazie ai
Vangeli
Apocrifi
risaliamo
al nome e
alla provenienza dei Magi:
Melchiorre, re dei persiani;
Gasparre, re degli Indi e Baldassarre, re degli arabi. I doni portati sono l’oro, simbolo
della natura regale (signum
regis), l’incenso, simbolo della natura divina (signum dei)
e la mirra, simbolo della natura umana e quindi mortale
(signum sepulturae).
degli abiti serici),
che fanno emergere i personaggi da
un fondo campestre sommariamente descritto.
28
Cappella dell’Immacolata
In questa cappella, rispetto alle altre della chiesa, non vi
è unità tra architettura e decorazione, poiché vennero
realizzate in periodi differenti.
Nel 1656 la cappella passò in patronato a Giuseppe Diviziolo che promosse la ricostruzione dell’altare. Nei primi anni Trenta del Seicento, giunse da Napoli una statua lignea della Vergine che rimase sull’altare fino agli
anni dell’occupazione francese e che poi andò perduta.
Successivamente, sull’altare fu posizionata in una nicchia la Madonna col Bambino scolpita in marmo da Giuseppe Rusnati. L’altare è sovrastato da quattro colonne di pietra rossa di Verona ornate da capitelli
che sorreggono un frontone spezzato in marmo
grigio, ai lati del quale due splendidi angeli in
marmo di Carrara tengono in mano l’uno il sole,
TABERNACOLO
l’altro la luna in bronzo dorato.
Di mirabile bellezza è il tabernacolo in marmo e pietre
dure, con colonne di cristallo di rocca che si trova posto
piccola edicola
a forma di tempio posta sull’altare,nella quale sono conservate le ostie consacrate.
sulla mensa marmorea dell’altare ma, un tempo, conservato nella cappella di S. Gaetano.
La statua dell’Immacolata e il Cristo morto scolpiti dal Rusnati, erano stati concepiti per un altro ambiente, l’attiguo
Oratorio dell’Immacolata e furono realizzate entro il 1686.
Una marcata somiglianza stilistica lega la statua dell’Immacolata agli angeli reggi mensa e
alle virtù della cappella di S. Gaetano, anche
se, alla calma di queste ultime, si oppone nel
gruppo della Vergine col Bambino un maggior
dinamismo che gonfia i panneggi e protende in
avanti le figure. Il virtuosismo tecnico non toglie alla rappresentazione il sentimento di maternità manifestato dal volto, dal gesto e dalla
delicatezza di Maria.
29
In questo gruppo scultoreo è evidente il richiamo alla tela di Giovan Ambrogio Figino, la Madonna della serpe, (opera conservata attualmente all’interno dell’Oratorio) che esprime mirabilmente il concetto teologico della vittoria sul peccato e sul demonio di
Maria Immacolata per merito di Gesù Cristo.
Stupefacente è il Cristo morto posto al di sotto della mensa
dell’altare: l’opera è caratterizzata da un dolore e una drammaticità contenuta, la compostezza e l’equilibrio formale accentuano l’autentica sofferenza che pervade il soggetto e
una cadenza pietosa è offerta dagli angeli che compiangono
il Cristo in atteggiamento abbandonato e pieno di poesia.
Nel 1637 pervennero alla chiesa, grazie ad una donazione di Ercole Bianchi, la tela con la Natività di Maria e la Madonna della
serpe.
La tela con la Natività di Maria fu sistemata nella parete di destra
della cappella, allora intitolata alla Beata Vergine del Suffragio.
Tra le opere del Figino è una
di quelle su cui si hanno meno
notizie, ma analizzando la
composizione gremita di figure, si può far risalire l’opera
all’attività tarda del pittore intorno al 1605; i corpi hanno una
resa muscolosa, i volti sono
aspri e stanchi e il tutto si unisce ad un colorito spento delle
tinte come se i colori fossero
stati impastati con il gesso. La
composizione si divide in due parti: la parte superiore con S. An-
I vangeli canonici non dicono
nulla a riguardo
della vita di Maria antecedente
l’Annunciazione; il Protovangelo di Giacomo, vangelo apocrifo è la prima fonte che ci narra di fatti
quali la nascita di Maria, il
nome dei suoi genitori
(Gioacchino e Anna), la presentazione al tempio e la storia dello sposalizio con Giuseppe.“si compirono i mesi
della gravidanza, nel nono
mese Anna partorì e domandò alla levatrice: Che cosa ho
messo al mondo? quella rispose: una femmina. Allora
Anna esclamò: oggi la mia
anima è stata magnificata!
Pose la bimba nella culla.”
na nell’alcova che si riposa dopo il parto e quella inferiore dove
appare un ancella che tiene in braccio Maria, circondata da altre
donne. In alto a destra viene raffigurata la nube con la gloria angelica, la quale si rispecchia, come se fosse l’esatta proiezione
ortogonale, nella bocca del bacile ornato da festoni e putti alati.
30
Le figure intorno al bacile sono caratterizzate da
movimenti lenti e ben cadenzati che sembrano accompagnare il gesto dell’ancella in primo piano, la
quale sta per immergere Maria Bambina.
Tutta questa composizione determina però una prospettiva irreale, in cui il letto di S. Anna e le figure
intorno ad essa non sembrano più posate con rigore
logico sul pavimento, ma sembrano un’apparizione
divina come la nuvola sull’altro lato.
Alla sensibilità disegnativa è affidato lo sviluppo dei
panneggi e delle pieghe che sembrano nascere l’uno dall’altro, ma proprio di ogni personaggio qui raffigurato è la monumentalità del modellato di stampo
michelangiolesco.
Sulla parete sinistra della cappella è posizionata
una
tela
dipinta da Bernardino Campi
raffigurante
la
Madonna
Bambino
santi
Paolo
col
e
i
Barbara,
e
Gio-
vannino; a coronamento
di
questa tela fu
aggiunta
primi
nei
decenni
del seicento una schiera di angeli adoranti dipinti da
Camillo Procaccini. Sul giaciglio del bambino è posta
un’iscrizione con nome dell’autore e data: BERNARDINUS CAMPUS CREMOSIA M D L X V .
31
Cappella di S. Andrea Avellino
La cappella, eretta in onore del santo, rispecchia puntualmente nel programma iconografico alcune vicende
della sua vita. Non esistono documenti ufficiali che attestino l’anno di intitolazione della cappella ma, probabilmente, sono successivi al 1624, data di beatificazione
del santo.
La pala centrale di Francesco del Cairo con lo
Svenimento del Beato Andrea Avellino, databile
intorno al 1632, lo raffigura dinnanzi all’altare,
colpito da morte improvvisa mentre stava celebrando l’Eucaristia. Il dipinto è scandito in due zone delimitate da una linea immaginaria in diagonale: in basso a sinistra è rappresentato mentre
viene soccorso da un uomo e all’opposto, in alto a
destra, la gloria celeste con Dio Padre e la Vergine
Maria.
La figura livida del protagonista, che si accascia, percosso da una luce radente che accentua il chiaroscuro delle figure, è uno degli esiti più alti del periodo giovanile del pittore, segnato dall’influsso dell’ambito milanese in cui
avvenne la sua formazione pittorica.
Nei primi anni del Settecento, in onore della canonizzazione, avvenuta nel 1712, la cappella venne rinnovata; a questo evento sono da mettere in relazione le due tele laterali di
Filippo Abbiati, l’architettura dell’altare e gli angeli al coronamento di quest’ultimo, attribuiti a Giuseppe Rusnati. I due
quadri laterali, l’Arrivo a Milano di Andrea e l’Incoronazione
di Paola Cusani Visconti, evidenziano i legami tra Carlo Borromeo e l’Avellino, mostrando l’influsso dello stile del Cerano sull’autore delle tele.
32
L’Oratorio dell’Immacolata
L’Oratorio dell’Immacolata Concezione fu eretto dai Teatini a Milano nel XVII secolo e sorse su un antico cimitero già annesso all’ospedale antoniano, poi recuperato
dai Teatini, decorato e usato per seppellire i benefattori.
Alla metà del XVII secolo, il periodo di massima
espansione dell’ordine, vengono istituite diverse
confraternite, le quali testimoniano il seguito dei
Teatini nei vari strati sociali.
La congregazione, riservata alla nobiltà, usava riunirsi
tutti i sabati per gli esercizi spirituali, per ascoltare la parola di Dio, ma anche per visitare gli ammalati del vicino
Ospedale Maggiore.
L’edificio, progettato da Andrea Biffi, fu costruito tra il
1683 e il 1686.
L’Oratorio è un edificio a navata unica animata lateralmente da esedre, concluso da un’abside rettangolare.
Una cupola si innalza sopra al presbiterio, una seconda
è impostata sulla campata più ampia della navata ed è
mascherata esternamente da un tiburio cilindrico.
L’ingresso principale dell’Oratorio si apre sulla strada al
centro della facciata, ora spoglia per via delle modifiche
a cui è stata soggetta nel corso degli anni.
La struttura architettonica è modulata all’interno da una
diffusa luminosità dovuta alle finestre del tamburo della
cupola e amplificata un tempo dall’intonacatura bianca
dei muri. L’interno è scandito da una chiara e
razionale ripartizione degli spazi, secondo
dettami di classicismo che caratterizzavano
molti edifici di Milano a causa delle prescrizioni in materia di edilizia stese da Carlo Borromeo. Dal 1686 al 1689 si continuarono i lavori di decorazione e in particolare con la costruzione dell’altare adorno delle statue di Giuseppe Rusnati.
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Nel 1798 i Teatini, secondo il decreto napoleonico di soppressione della congregazioni religiose, vengono allontanati da Milano, l’Oratorio fu convertito ad usi civili e spogliato di ogni arredo; sono superstiti però il gruppo del Cristo morto e la statua dell’Immacolata in marmo bianco di
Carrara e i due putti reggi ceri conservati nella cappella
dell’Immacolata, ora all’interno della chiesa di S. Antonio
Abate.
Dopo il 1798 l’Oratorio fu acquistato dalla municipalità del
circondario e adibito ad usi civili, fu utilizzato probabilmente come scuola nel periodo napoleonico, ospitò botteghe e
fu adibito ad abitazione, il cui affitto andava alla parrocchia
di S. Nazaro. Nel secondo dopoguerra divenne un’autorimessa. Negli ultimi anni è ritornato ad essere un luogo di
culto, ripristinato nell’originale veste architettonica e dotato
di quadri provenienti dall’attigua chiesa tra i quali la Madonna della serpe del Figino, collocata sull’altare insieme
a due tele di Camillo Procaccini che raffigurano la Vocazione e la Morte di S. Antonio. Oggi l’Oratorio è sede della
Compagnia di Maria Santissima Riparatrice.
La Madonna della serpe, tela dipinta da Giovan Ambrogio Figino
fu realizzata per la chiesa di S. Fedele a Milano tra il 1582 e il 1583; giunse nella chiesa di S. Antonio nel 1637, per donazione di Ercole Bianchi, e fu posizionata nella prima cappella di destra al di
sopra della porta che immetteva all’antico cimitero (attuale Orato-
G. A. Figino, La Madonna della
serpe, 1582-83
rio). Successivamente fu spostata e la ritroviamo nell’abside dell’Oratorio dell’Immacolata, sul lato sinistro dell’altare.
Sullo sfondo di un paesaggio campestre, caratterizzato da un albero e un fiume, vediamo un ammasso di nuvole stratiformi che
insieme alle teste di quattro angeli definiscono un arco a tutto tondo al di sopra del gruppo principale. Tra le nubi filtra la luce che
raggiunge il primo piano ed evidenzia, grazie a un gioco di chiaroscuri, il blocco poderoso della Vergine con il Figlio.
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Maria si protende dall’alto e accompagna il lento movimento del
Bambino che appoggia il suo piede su quello della madre, insieme sono uniti nell’atto di schiacciare il serpente sotto di loro.
La coerenza compositiva del gruppo piramidale è data dall’abbraccio unificatore della madre che annette a sé tutti i volumi. In quest’opera sono evidenti i riferimenti a Michelangelo e a Raffaello per la magniloquenza volumetrica delle forme. Il gruppo è scandito plasticamente dalle gamme cromatiche
del rosso acceso e del blu, alternate in toni puri.
La facciata
La facciata rimase incompleta
Caravaggio
dipinge nel
1605 la Madonna
dei
Palafrenieri
tradizionalmente indicata come Madonna della serpe, opera che doveva essere destinata ad uno dei nuovi sette
altari in S. Pietro per il riassetto voluto da Papa Borghese. Roberto Longhi aveva
riconosciuto l’immediato precedente figurativo del dipinto
del Caravaggio nella Madonna della serpe dipinta da Ambrogio Figino, a prova della
tesi sostenuta circa l’origine
lombarda della cultura artistica del pittore.
per molto tempo e ricevette una
adeguata sistemazione solo nel
1832, per opera dell’architetto
Giacomo Tazzini . È scandita
da strette e alte lesene con
capitello ionico che cercano di
conferire un certo slancio verticale, subito frenato da una trabeazione fortemente aggettante; più in alto, la parete muraria è alleggerita da un ampio finestrone a lunetta e coronata da un frontone
ornato da sporgenti cornici. Nella parte inferiore si aprono inoltre
quattro nicchie, due per lato del portale, ognuna delle quali ospita
una statua, probabilmente realizzate da uno ignoto scultore romano, forse tale Guelfi. Esse rappresentano da sinistra S. Gaetano, S. Nicolao (ovvero S. Nicola) e dall’altro lato S. Antonio e S.
Andrea Avellino. La facciata, nella sua grande semplicità, non
riesce ad imporsi visivamente sulle costruzioni che l’affiancano,
anche perché la sua muratura non emerge volumetricamente in
alcun modo. La visione d’insieme risulta gravemente compromessa già all’inizio del Settecento, infatti lo spiazzo antistante la
chiesa venne occupato da palazzo Greppi sorto a pochissimi
metri di distanza.
I Greppi, ricchi appaltatori, affidano la
costruzione
del palazzo di famiglia al famoso architetto neoclassico
Giuseppe Piermarini nel 1776.
La facciata, composta e severa, nella parte inferiore è a
bugnato, mentre quella superiore è scandita da fasce e
lesene; il centro focale è il
portale con quattro colonne
doriche che reggono il balcone soprastante. Il cortile interno è racchiuso su tutti e
quattro i lati da un portico. Le
sale presentano un apparato
decorativo realizzato dagli
artisti neoclassici Albertolli,
Knoller e Appiani.
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BIOGRAFIE PERSONAGGI STORICI
SAN GAETANO DA THIENE (Vicenza, 1480-Napoli, 1547) nacque dalla nobile famiglia dei
conti di Thiene e si narra che fin da bambino fosse animato da carità cristiana. Nel 1504 si laureò in diritto civile e canonico e si dedicò allo stato ecclesiastico, senza farsi ordinare sacerdote, perché non si sentiva degno. Nel 1506, Papa Giulio II lo volle a Roma come suo segretario,
e presto divenne pronotario apostolico (funzionario della Curia che ha funzione di rogare gli
atti più importanti). A contatto con la Curia, ebbe modo di vederne la sua miseria morale: è
così che iniziò a pensare ad un’azione riformatrice dei costumi della Chiesa. Venne ordinato
sacerdote nel settembre del 1516. Insieme a Gian Pietro Carafa (diventato vescovo di Chieti),
Bonifacio Colli e Paolo Consiglieri, ottennero da Papa Clemente VII il permesso di fondare la
“Congregazione dei Chierici Regolari” (detti poi Teatini dall’antico nome latino di Chieti, cioè
Teate). Nel 1527, durante il sacco di Roma, venne torturato e imprigionato con i confratelli.
Liberati da un ufficiale spagnolo, fuggirono a Venezia, dove lavorarono curando i poveri e gli
ammalati. Rimasero nel Veneto fino al 1531 diffondendo l’Ordine poi, nel 1533, si spostarono
nel Vicereame di Napoli, dove fondarono la prima Casa Teatina, prodigandosi nell’assistenza
ai poveri. Quando le autorità civili vollero instaurare nel Vicereame il tribunale dell’Inquisizione,
il popolo napoletano si ribellò, ma la repressione spagnola fu violenta. Gaetano fece di tutto
per evitare il massacro e infine offrì a Dio la sua vita in cambio della pace: morì il 7 agosto 1547 e due mesi dopo la pace ritornò. Venne sepolto nella basilica di San Paolo Maggiore, beatificato nel 1629 e santificato il 12 aprile 1671.
S. ANDREA AVELLINO (Castronuovo, 1521-Napoli, 1608) Ordinato sacerdote nel 1545, si
trasferì a Napoli nel 1547 per frequentare la facoltà di diritto. Fu avvocato ecclesiastico, ma
abbandonò la professione in seguito a una menzogna sfuggitagli durante un processo, fatto
che lo turbò profondamente. Nel 1551 riformò il monastero di S. Arcangelo di Baiano, ma poiché la sua opera non fu gradita, fu ripetutamente aggredito e pure ferito gravemente; guarì
miracolosamente ed entrò a far parte dei Teatini di S. Paolo Maggiore, cambiando il suo nome, Lancellotto, con quello di Andrea. Nel 1570 il Capitolo Generale della Congregazione lo
nominò Vicario della Casa di S. Maria di S. Calimero a Milano, poi Carlo Borromeo lo elesse
preposto di S. Antonio Abate, nuova sede dell’ordine a Milano dal 1577. Nel 1582 ritornò a
Napoli dove visse fino alla morte; qui riprese la sua attività predicando, scrivendo e guidando i
fedeli. Il 10 novembre del 1608, mentre si accingeva a celebrare la messa, cadde a terra ai
piedi dell’altare colpito da un malore e morì la stessa sera. Fu beatificato nel 1624 e divenne
santo nel 1712. Il suo corpo si venera nella chiesa di S. Paolo Maggiore a Napoli. S. Andrea è
invocato come protettore contro la morte improvvisa.
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BIOGRAFIE ARTISTI
FILIPPO ABBIATI (Milano, 1640-1675) Allievo di Carlo Francesco Nuvolone, si formò specialmente sullo studio dei lombardi del primo Seicento, assimilò a fondo la lezione del Cerano e
del Morazzone che cercò di interpretare in forme più sciolte; sin dalla giovinezza, fu in rapporto
con la cultura figurativa di altri centri della penisola tra cui Genova e Napoli.
LUCA BELTRAMI (Milano, 1854-Roma, 1933): architetto italiano e rappresentante del restauro storico, cioè di una ricostruzione dei monumenti fondata su precise documentazioni; a lui si
devono i restauri di S. Maria delle Grazie e del Castello Sforzesco a Milano.
GUGLIELMO CACCIA (Montabone, Asti, 1568-Moncalvo, Asti, 1625) è detto anche MONCALVO, non perché in questa città avesse avuto i natali, ma perché ne fece la sua seconda
patria; la sua prima produzione fece riferimento a quella, dimessa ed edificante degli epigoni di
Gaudenzio Ferrari (soprattutto i Lanino, Bernardino, ma anche Pierfrancesco e Gerolamo, con
cui collabora in S. Michele di Candia Lomellina). Successivamente lavorò con lo Zuccari alla
perduta galleria che collegava Palazzo Reale e Palazzo Madama a Torino, avvicinandosi così
alla sua maniera; nel 1617 si trasferì per un paio di anni a Milano dove collaborò con Daniele
Crespi (affreschi della cupola di S. Vittore al corpo e cappella di S. Bruno in S. Pietro in Gessate). In seguito fu attivo in diversi centri della Lombardia, del Piemonte e ovviamente a Moncalvo, proponendo i propri moduli devozionali, accordati a una cromia tenue e sfumata.
FRANCESCO DEL CAIRO (S. Stefano in Brivio, Varese 1607-Milano 1665) Pittore suggestionato durante la fase giovanile dalle opere del Morazzone e del Cerano, realizzò soprattutto
soggetti sacri permeati da un intenso patetismo. Fu denominato il pittore delle Erodiadi e delle
Lucrezie, tragiche figure bibliche e della storia dell’antica Roma, ritratte a mezzo busto. L’attenzione all’ uso della luce e la resa dei con strati ombra/luce dimostrano che fu influenzato
dalla lezione caravaggesca. Dopo l’apprendistato giovanile nel milanese si trasferì dal 1633 al
1648 alla corte sabauda di Vittorio Amedeo, salvo un viaggio a Roma, lavorò in Piemonte e in
Lombardia.
DIONIGI CAMPAZZO: scarse notizie, attivo a Milano e nel Milanese nella seconda metà del
Cinquecento; nel 1580 eresse alcune celle nel convento di SS. Damiano e Lazzaro, dal 1590
diresse i lavori nel convento di S. Maria Maddalena; fu impegnato anche in S. Maria della Passione e in S. Carlo al Lazzaretto, oltre al rifacimento della chiesa di S. Antonio.
BERNARDINO CAMPI (Reggio Emilia, 1522-1591) Pittore cremonese, fu una delle figure di
maggior spicco nel campo della cultura manieristica lombarda. Nonostante il cognome, non è
legato da vincoli di parentela alla famiglia dei pittori Campi. Fu allievo di Giulio Campi, ma ben
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presto si orientò verso la cultura emiliana, specialmente toccato dall’opera di Parmigianino.
Svolse una feconda attività tra Cremona e Milano, ispirandosi a C. Boccaccino di cui interpretò
il prezioso decorativismo e l’aggraziata eleganza. Durante gli anni Cinquanta intervenne nel
capoluogo lombardo con opere di carattere profano, ma nel frattempo andava imponendosi
anche nel campo della pittura religiosa. Riscosse molto successo sia come ritrattista, sia come
autore di affreschi. Negli ultimi anni della sua vita fu soprattutto attratto dal territorio mantovano, dove lavorò per i Gonzaga.
CARLO CANE (Gallarate, 1615-1688): dopo essersi inizialmente dedicato a opere di piccolo
formato, si volse alla pittura del Morazzone a Varallo; tra le sue opere di carattere religioso si
ricordano le Storie di S. Giovanni Battista per l’abside del Duomo di Monza e alcuni episodi
della Vita di Ambrogio nella Certosa di Pavia, oltre ovviamente le due tele per la chiesa di S.
Antonio. Sono ricordate anche alcune sue nature morte, alla volte con strumenti musicali.
GIOVANNI (Genova, 1584 -Milano, 1631) e GIOVANNI BATTISTA CARLONI (Genova, 1603Torino, 1683-1684): nati da una famiglia di decoratori trasferitasi a Genova da Rovio, nel Canton Ticino, condivisero lo stesso percorso formativo e alcuni viaggi (a Firenze e a Roma); influenzati dal tardo manierismo toscano, furono attivi soprattutto in Liguria e lavorarono spesso
fianco a fianco (nella Chiesa del Gesù e all’Annunciata del Vastato a Genova); dopo la morte
di Giovanni, il fratello concluse la decorazione della volta della chiesa di S. Antonio Abate, per
poi proseguire la carriera nella città natale, collaborando col figlio Niccolò (Chiesa di S. Siro), e
tornando anche in Lombardia (Certosa di Pavia).
LUDOVICO CARRACCI (Bologna, 1555-1619) È il più anziano esponente della famiglia dei
Carracci, cugino di Annibale. Ludovico ebbe un ruolo fondamentale nella formazione dell’Accademia dei Carracci, sia per quanto riguarda il programma di superamento delle norme manieristiche sia per lo sforzo di rinnovamento della pittura religiosa secondo gli orientamenti
postconciliari, che richiedevano all’arte di svolgere un compito moralizzante. A parte un breve
soggiorno romano nel 1602, la sua attività si svolse in patria e nell’area emiliana, dove fece
scuola a una schiera di allievi. La sua vena patetica e commossa è riscontrabile nelle opere
dell’ultimo periodo (affreschi con Annunciazione nel Duomo di Bologna 1618-1619).
ANTONIO CASSI-RAMELLI (Milano, 1905-1980) architetto italiano. Laureato in Architettura
nel 1927. Ordinario di composizione architettonica al Politecnico di Milano. Svolse numerose
attività nel campo delle costruzioni industriali e dell’arredamento costruendo case, palazzi per
uffici (Snia-Viscosa, Assicurazioni Generali, Alfa Romeo, Alemagna); ristrutturando e ricostruendo edifici monumentali distrutti dalla seconda Guerra Mondiale (Palazzo Spinola, Chiostro di S. Antonio). Ha curato arredamenti di grandi negozi ed esposizioni; ha costruito chiese
(Parrocchiale di Milanino e S. Anna a Milano), stabilimenti industriali, cinema, alberghi
(Sirmione, Cervinia) e teatri (Il Lirico di Milano).
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GIOVAN BATTISTA CRESPI detto il CERANO (Cerano, Novara 1573-Milano,1632) Pittore,
scultore e architetto la cui formazione risente sia dell’educazione lombarda che della conoscenza della pittura bolognese (L. Carracci), romana ( Raffaello, F. Barocci), e dei manieristi
nordici. Diventa famoso soprattutto durante l’episcopato di Federico Borromeo (1595-1631),
ponendosi come uno dei maggiori interpreti del suo programma religioso e culturale legato alla
Controriforma. Tra le varie opere si ricordano i quadroni a tempera dipinti per la beatificazione
di S. Carlo (1602) e per la sua canonizzazione (1610), conservati in Duomo. Nel 1621 dirige la
scuola di pittura dell’Accademia Ambrosiana.
JACOPINO DA TRADATE (Milano, notizie dal 1401-Mantova, 1440): scultore italiano, attivo
tra il 1401 e il 1425 in posizione di assoluta preminenza nella fabbrica del Duomo di Milano, di
sicura attribuzione si conosce la statua di Papa Martino V (1421); le sue figure si distinguono
per le fisionomie caratteristiche e per i panneggi dalle cadenze complicatissime, tipicamente
gotiche.
FANTONI famiglia di scultori e intagliatori operanti tra i secoli XV e XIX, soprattutto in Val Seriana e nel Bergamasco.
GIOVANNI AMBROGIO FIGINO (Milano, 1553-1608) Discepolo del Lomazzo, nell’ambiente
del capoluogo lombardo acquisì i primi insegnamenti attraverso la conoscenza dei manieristi
del luogo, ma ancor di più attraverso le reminiscenze della cultura leonardesca. Intorno agli
anni 1580-1582 fece un viaggio a Roma dove copiò opere di Michelangelo, Raffaello e sculture antiche. L’impostazione michelangiolesca che trae da questo viaggio lo accompagnerà in
tutte le opere del periodo successivo. Negli ultimi decenni del Cinquecento si afferma a Milano
in vari campi della cultura figurativa, dalla ritrattistica ad opere di tema sacro ottenendo lodi di
letterati e scrittori del tempo.
LORENZO GARBIERI (Bologna, 1580-1654) Pittore che svolse il suo apprendistato presso la
bottega di Ludovico Carracci, di cui prese il fare drammatico e con il quale lavorò diversi anni
per le chiese bolognesi (più volte i quadri di Lorenzo sono stati attribuiti a Ludovico). A partire
soprattutto dal secondo decennio del ‘600, al fare del maestro si aggiunse anche l’influenza
caravaggesca: venne infatti a contatto con artisti al seguito del Merisi, ed ebbe modo di vedere
la sua Incredulità di San Tommaso a Bologna. Lavorò in diverse città tra cui Milano, Modena e
Mantova, ma poi la sua produzione, dopo un ricco matrimonio e per problemi di salute, subì
una decelerazione notevole, finché morì cieco nel 1654.
FEDE GALIZIA (Milano o Trento, 1578-Milano, 1630): pittrice italiana, figlia di un miniatore di
Trento, trasferito da tempo a Milano. La sua fama fu legata inizialmente a ritratti e dipinti da
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stanza, in parte anche copie da artisti precedenti, ma dipinse anche pale d’altare e precocissime (1602) nature morte (New York, Collezione Sperling; Bergamo, Collezione Previtali). La
sua pala raffigurante il Noli me tangere (in S. Stefano a Milano) rappresenta bene la sua ispirazione emiliana, basata su una lettura del Correggio filtrata dai pittori bolognesi del tardo Cinquecento. Influssi bolognesi le giungono anche grazie a un’altra pittrice, Lavinia Fontana.
ALESSANDRO MAGANZA (Vicenza, 1556-1630/40 ca.) Figlio dell’altrettanto famoso pittore
Giambattista. Operò attivamente nelle chiese del territorio vicentino insieme ai suoi figli, che
morirono prematuramente a causa della peste, circostanza che lo segnò profondamente. Numerosi suoi dipinti si trovano nelle chiese di Brescia, Mantova e di altre città vicine. Il suo stile
guarda a Palma il Giovane e al Veronese, ed è caratterizzato da un tessuto cromatico cupo,
drammatico, in linea con la sensibilità controriformista della sua formazione.
PIER FRANCESCO MAZZUCCHELLI detto il MORAZZONE (Morazzone, Varese, 1573Piacenza, 1626) durante un giovanile soggiorno romano entrò in contatto con gli ambienti artistici influenzati dai Barocci e da Federico Zuccari. Rientrato in patria nel 1598 svolse un’intensa attività nella provincia lombarda, partecipando a più riprese alla decorazione dei Sacri Monti
di Varallo, di Varese. Dall’enfasi delle opere giovanili, memori dell’esperienza romana, il suo
stile, in accordo con le prescrizioni di Carlo Borromeo, volse a un’interpretazione emozionale
delle immagini religiose, sovente toccate da un contenuto patetismo.
JACOPO NEGRELLI detto PALMA IL GIOVANE (Venezia, 1548-1628) Pittore pronipote di
Palma il Vecchio. Si formò a contatto con ambienti veneziani, poi con la conoscenza dei pittori
di Urbino (soprattutto Raffello) essendosi trasferito nella città umbra dal 1564 per prestare servizio presso Guidobaldo della Rovere, che gli chiese di eseguire copie da Tiziano e Raffaello.
Venne successivamente inviato a Roma, dove risedette dal 1567 al 1574 circa, frequentando
l’ambiente dei manieristi romani. Tornato a Venezia rimase influenzato soprattutto dal Tintoretto. Lo stile più maturo unisce gli influssi formali romani al luminismo veneto. Il catalogo delle
sue opere è amplissimo (addirittura circa 600).
DOMENICO PELLEGRINI (Milano, 1580 ca.-post 1625): artista noto soprattutto nell’ambito
dei lavori in onore di S. Carlo commissionati dal Duomo di Milano e dal cardinale Federico
Borromeo; probabilmente ottenne questa commissione in virtù della parentela di suo padre
con Pellegrino Tibaldi. In occasione della beatificazione di S. Carlo (1603), Domenico realizzò
il quadrone con il Trasporto delle reliquie, uno dei meno apprezzati dell’intero ciclo; i pochi
frammenti superstiti degli affreschi del chiostro di S. Marco a Milano mostrano però una maggiore vivacità. L’artista fu segnalato l’ultima volta nei registri di pagamento del Duomo nel 1625.
CAMILLO PROCACCINI (Bologna, 1555 circa-1629): figlio del pittore Ercole il Vecchio, si formò principalmente a Bologna dove risiedeva la famiglia; in quella città erano già presenti le
innovazioni naturalistiche ed accademizzanti dei fratelli Carracci. Intorno al 1585 avvenne il
contatto con Pirro Visconti Borromeo che portò il Procaccini a Milano per decorare il ninfeo
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della Villa Visconti di Lainate. Nel 1595, dopo essersi stabilito nella città dei Borromeo, iniziò la
realizzazione delle quattro ante d’organo del Duomo mentre al 1602 risalgono i dipinti nella
sagrestia e nella cappella di san Gregorio in San Vittore al Corpo. Tra il 1615 ed il 1617
realizzò la Disputa dei Santi Ambrogio e Agostino in San Marco mentre la sua ultima
opera può essere considerata l’Adorazione dei Magi nella Parrocchiale di Biumo Inferiore a Varese del 1629.
GIULIO CESARE PROCACCINI (Bologna, 1574-Milano, 1625)Membro di una famiglia di pittori di origine bolognese che dal 1585 si trasferì a Milano. Figlio di Ercole il Vecchio e fratello di
Camillo. Iniziò la sua attività come scultore (è documentato per esempio nel Cantiere del Duomo), per poi dedicarsi alla pittura a partire dai primi anni del ‘600, forse grazie anche ad alcuni
viaggi che compì in quegli anni nei maggiori centri italiani come Roma, Venezia e soprattutto
Parma, dove rimase fortemente influenzato dalla grazia delle opere del Correggio e del Parmigianino. Le suggestioni derivate da Rubens furono invece dovute ai numerosi contatti con
committenze genovesi. Le sue opere si caratterizzano per la grazia espressiva, la raffinata
eleganza delle figure e l’equilibrio cromatico, con cui abbandona un primo stile più aspro; la
qualità della sua produzione ne fa il protagonista sulla scena della Milano borromaica, insieme
all’amico Cerano, e uno dei maggiori artisti lombardi della prima metà del secolo. Le prime
opere pittoriche sono svolte in Santa Maria presso S. Celso (decorazione della Cappella della
Pietà del 1604 e Martirio dei SS. Nazzaro e Celso, 1606); famose sono poi le sei tele coi Miracoli di S. Carlo che realizza per il Duomo nel 1610.L’ultima produzione, dopo il 1620, sembra
invece perdere l’eleganza atmosferica per farsi più scultorea e manieristica.
SEBASTIANO RICCI (Belluno, 1659-Venezia, 1734): si formò a Venezia, Bologna e Parma,
dove rimase influenzato dalle opere dei Carracci e di Correggio. A Roma studiò la grande decorazione barocca di Piero da Cortona e del Baciccio, poi dal 1694 lavorò in Lombardia dove
la struttura compositiva delle sue opere si fece sempre più complessa e ardita. Verso la fine
del ‘600, tornato nel Veneto, mutò ancora la sua pittura verso gli schemi compositivi e l’intonazione cromatica chiara e luminosa del Veronese, con composizioni sempre più sciolte e vivaci.
FRANCESCO MARIA RICHINI o Richino (Milano, 1584-1658): architetto italiano, fu impegnato a Milano al servizio della curia e delle autorità spagnole; divenne, inoltre, capomastro del
Duomo e si occupò sia di edilizia religiosa che civile. Le sue opere furono fra le più significative del Seicento milanese: si possono ricordare, ad esempio la chiesa di S. Giuseppe, il palazzo di Brera e il Collegio Elvetico.
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GIUSEPPE RUSNATI (Gallarate, Varese 1650-Milano, 1713) Rusnati fu scultore e architetto.
Si formò nel cantiere del Duomo milanese e fu allievo del Bussola. Dopo aver studiato a Roma
la tematica barocca presso il Ferrata rientrò a Milano nel 1675. Personalità chiave nell’ambito
della scultura lombarda, anello di congiunzione tra il ‘600 e il ‘700. Le sue composizioni sono
permeate dalla grazia e si caratterizzano per una resa morbida e pittorica del modellato.
ENEA SALMEGGIA (Bergamo, 1565 ca.-1626): eseguì le sue prime opere dal 1590 per Bergamo e dintorni rivelando una sorta di matrice puristica, maturata su esempi bergamascobresciani, soprattutto del Lotto, del Moretto, del Moroni e anche dei Bassano. La sua attività
milanese ebbe inizio nel 1596 con l’Annunciazione per la Certosa di Garegnano; seguirono
lavori per il Duomo tra il 1598 e il 1601 (Sposalizio della Vergine), per S. Maria della Passione
nel 1609 (Flagellazione di Cristo e Orazione nell’orto) e dieci anni più tardi per S. Simpliciano
(Miracolo di S. Benedetto). La volontà di recupero del classicismo luinesco caratterizzò il suo
stile maturo e si fuse con gli intenti didascalici sollecitati da Federico Borromeo.
GIACOMO TAZZINI (Milano, 1785?-1861): architetto di corte e consigliere ispettore dell’Accademia di Brera a Milano; sempre in questa città diresse la costruzione della parte posteriore di
Villa Reale e il rinnovamento della cappella Borromeo in S. Maria in Podone (1827 circa).
GIOVAN BATTISTA TROTTI detto il MALOSSO (Cremona, 1556-Parma, 1619) Scolaro, genero ed erede di Bernardino Campi, dipinse a Cremona numerose tele: Martirio di Santo Stefano, Sant’Agata; Decollazione del Battista, (1592) Museo Civico; Adorazione del nome di Cristo, (1583) San Pietro al Po) e vi realizzò gli affreschi del coro di Sant’Abbondio (1594). Nel
1604 decorò il Palazzo del Giardino per Ranuccio Farnese e provvide ad apparati per feste e
ricevimenti.
ALESSANDRO VAIANI (nato intorno al 1570) Ad attestare le origini di questo pittore resta
solo il soprannome di “Fiorentino” con cui le fonti lo ricordano. L’iter di formazione prese il via a
Genova, dove fu attivo presso Giovan Carlo Doria, probabilmente a seguito degli interessi del
suo committente passò a Milano nel 1610; in questo contesto realizzò il dipinto raffigurante Il
miracolo di suor Angelica Mandriani e le tele per S. Antonio Abate. Successivamente lavorò
come frescante per il palazzo Ducale di Milano nel 1617; dopo questa data le fonti non registrano più informazioni in ambito milanese. Nel 1628 fu attivo nell’Urbe per affrescare la cappella di S. Filippo presso la chiesa di S. Maria in Via. A Roma godette della stima di Francesco
Barberini che, nel 1631, gli commissionò alcune opere.
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KATIA COLOMBO
LAURA STEFANINI
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