XVI GIORNATA FAI DI PRIMAVERA 5 / 6 APRILE 2008 SCHEDE ARTISTICHE PER LA FORMAZIONE DEGLI “APPRENDISTI CICERONI” IL COMPLESSO MONASTICO DI S. ANTONIO VIA S. ANTONIO 5, MILANO IL PERCORSO ARTISTICO DELEGAZIONE FAI DI MILANO SIMBOLOGIA UTILIZZATA Gentili insegnanti, gentili studenti, questa scheda è il testo fondamentale per la preparazione degli “Apprendisti Ciceroni”, scritto appositamente per la Giornata FAI di Primavera 2008. Esso illustra i principali aspetti storico-artistici del complesso di S. Antonio Abate, selezionati in modo da essere funzionali al percorso che gli “Apprendisti Ciceroni” svolgeranno con il pubblico. All’interno del testo sono presenti numerosi collegamenti e spunti di discussione, che potranno essere approfonditi in classe. Illustriamo le icone utilizzate all’interno della scheda: Domanda e risposta Curiosità Approfondimento da parte dell’insegnante Nota storica Citazioni da documenti storico-letterari Personaggio storico Biografia dell’artista Nozioni storicoartistiche Nota critica Approfondimento letterario 2 IL COMPLESSO DI S. ANTONIO ABATE A MILANO CHI ERA S. ANTONIO ABATE? Antonio nacque in Egitto attorno al 251. Dopo la morte dei genitori vendette tutti i suoi beni per ritirarsi in solitudine nel deserto della Tebaide dove il diavolo lo tentò, ma invano. Si occupò anche d’istruire quanti desideravano condurre una vita simile alla sua e per questo è considerato uno dei fondatori del monachesimo. Ritenuto in vita santo e in grado di operare miracoli, morì ultracentenario nel 356. CHE COS’ERA IL FUOCO SACRO? Il complesso degli edifici, che gravita attorno alla chiesa di S. Antonio Abate, trae origine dall’ospedale fondato, agli inizi del XII secolo (1127), grazie a un lascito testamentario del milanese Ruggero del Cerro, per la cura della malattia denominata “fuoco sacro” ; questo primo ospedale iniziò ad essere attivo grazie all’operato di laici e sotto la direzione dei canonici della basilica di S. Nazaro, situata a poca distanza. Detto anche “fuoco di S. Antonio” o “lebbra occidentale”, era una malattia della pelle proveniente dall’Oriente che, attraverso diffuse vesciche, consumava i tessuti corporei conducendo alla morte fra atroci sofferenze. Con ogni probabilità le attuali forme di herpes, che portano il nome di “fuoco di S. Antonio”, non hanno più nulla a che vedere con l’antico morbo. 3 CHI ERANO I FRATI DI S. ANTONIO? L’ordine antoniano nacque alla fine del XI secolo in Francia come ordine cavalleresco, dedicandosi successivamente alla cura dei malati di “fuoco sacro” sotto la protezione di S. Antonio, poiché le sue reliquie, conservate nella città di Vienne (nella parte sud-ovest della Francia, tra Lione e Grenoble), avevano più volte guarito gli ammalati. CHE ATTIVITÁ SVOLGEVANO I FRATI DI S. ANTONIO? Negli archivi non sono presenti documenti che attestino la fondazione dell’edificio ecclesiastico, ma un sicuro stimolo allo sviluppo dell’intero complesso si può individuare con l’arrivo a Milano dei frati antoniani, probabilmente verso la fine del Duecento (1272 circa). La loro attività presso l’ospedale è motivata dalla dedizione dimostrata nella cura del suddetto morbo. Diverse testi- Gli Antoniani erano soliti allevare i maiali perché dal loro grasso, opportunamente fuso e mescolato con diverse erbe aromatiche, ricavavano un medicamento, detto ex ungia S. Antonii, adatto per la cura del “fuoco sacro”. Da questa attività proviene la tradizione iconografica della figura di S. Antonio con fiammella ed il maiale accovacciato ai suoi piedi. monianze rivelano la presenza dei frati di S. Antonio, dalla metà del Trecento in poi, mediante numerose donazioni e svariati privilegi a loro indirizzati, per intervento delle famiglie più importanti dell’epoca, tra le quali quella dei Visconti. Con l’affievolirsi della diffusione del “fuoco sacro”, gli Antoniani iniziarono a svolgere attività diplomatiche al servizio della città di Milano. U n o d e i l o r o incarichi più importanti del primo quarto del Quattrocento è ricordato da una colonna in La colonna doveva ricordare la cessione delle città di Parma e di Reggio Emilia da parte del Marchese Niccolò III D’Este a Filippo Maria Visconti, duca di Milano, atto firmato presso il complesso monastico nel 1420. p i e t r a r o s s a d i Ve r o n a , coronata da un c a p i tello piramidale decorato con pinnacoli, 4 recante l’immagine di S. Antonio ripetuta sui quattro lati; posta nella piazza davanti alla chiesa originaria, venne rimossa nel Settecento perché d’intralcio alla viabilità. La colonna fu successivamente acquistata da uno dei conti Belgiojoso per adornare il suo giardino e venne in seguito ceduta al Museo del Castello Sforzesco; le fonti tendono a riferirla allo scultore milanese Jacopino da Tradate, ma l’attribuzione non è certa. Nel 1452, dopo l’annessione dell’ospedale di S. Antonio all’Ospedale Maggiore, forse a causa di una lite tra i frati e i canonici di S. Nazaro, la chiesa e i suoi beni vennero dati in commenda alle famiglie Landriani e Trivulzio. Nel 1577 il complesso venne affidato ai padri Teatini che, giunti in città da Roma per volere di Carlo Borromeo, diedero inizio a un’ingente opera di rinnovamento soprattutto dell’edificio ecclesiale, sia nella sua struttura generale che nella sua decorazione interna. La chiesa, consacrata il 13 settembre del 1654, divenne un esempio coerente dell’arte nella Milano dei Borromeo, grazie alla presenza dei maggiori artisti del primo Seicento lombardo. Qualche decennio più tardi, esattamente nel 1683, ebbero inizio anche i lavori per la costruzione dell’Oratorio CHI ERANO I TEATINI? Ordine fondato da S. Gaetano da Thiene e da altri religiosi nel 1524, era composto non da frati, bensì da sacerdoti che si univano a vita comune alla dipendenza della Santa Sede. Si impegnavano a riformare i costumi del clero e del popolo cattolico nell’ambito della Controriforma. dedicato all’Immacolata, adiacente al lato destro della chiesa. I Teatini rimasero a Milano fino alla soppressione dell’ordine nel 1798. In seguito, il convento venne convertito ad usi civili e militari; sotto il governo asburgico vi trovò posto anche una prigione. La chiesa, riaperta al culto già nel 1799, diventò, in seguito, cappella militare e rischiò di essere convertita in magazzino, come del resto accadde per altre porzioni del complesso monastico. 5 Il periodo di decadenza si concluse solo nel 1930 quando, per intervento del cardinale Schuster, il complesso divenne proprietà della Curia Arcivescovile e sede dell’Azione Cattolica. Interventi di ripristino si resero necessari dopo i danni causati dalla Seconda Guerra Mondiale, soprattutto in seguito al bombardamento del 1943. Lavori di restauro, che hanno interessato differenti parti della struttura e condotti in più riprese dai primi anni del 1900 fino a pochi mesi fa, hanno riportato all’antico splendore l’intera struttura conventuale. Campanile (particolare) Il campanile La torre campanaria, l’elemento più antico rimasto dell’intero complesso, è visibile solo dal chiostro attiguo alla chiesa o dall’attuale via Bergamini e rappresenta un bellissimo esempio di architettura lombarda in cotto della metà del Quattrocento. Gli storici non sono concordi nell’attribuirla all’ultima fase del patronato antoniano, ma potrebbe essere stata eretta grazie ai primi commendatari. Si presenta a base quadrata ed è composta da due ordini separati da una cornice e da una serie di arcatelle che s’intrecciano in un complicato gioco di sovrapposizioni. Nel primo ordine sovrastante la navata si apre una monofora trilobata per lato, a ricco strombo; il secondo ordine, molto più leggero e vivacizzato da alcune zone intonacate di bianco, in contrasto col rosso del cotto, accoglie la cella campanaria e presenta elementi tipicamente gotici: bifore a ricco strombo ornate da piccoli rosoni; più in alto si ripete la serie di arcatelle, questa volta semplici, e una cornice più ampia rispetto alla precedente con una decorazione a rosette, su cui s’imposta la slanciata copertura dalla forma co- CHE COS’È IL “TAU“ O T GRECO? È un segno sacro molto antico, simbolo del centro del mondo, ultima lettera dell’alfabeto ebraico e allusione alle cose ultime e al destino; è una delle tante forme della croce che diventa simbolo araldico (come ad esempio la croce di S. Andrea o quella potenziata tipica dell’ordine di Malta). Uno degli attribuiti di S. Antonio è il bastone a forma di tau che ricorda quello usato dai malati afflitti dal “fuoco sacro”. nica, conclusa dalla banderuola e dalla croce in bronzo a forma di tau (o T greco). 6 La torre campanaria, come si presenta ai nostri occhi, mostra, inoltre, un intervento di restauro, iniziato nel 1893 ed eseguito da Luca Beltrami, ed uno successivo del 2003. I chiostri I due chiostri, uno accanto all’altro sul lato sinistro della chiesa, risalgono all’inizio del Cinquecento e furono commissionati dalle famiglie a cui era stata assegnata la commenda; entrambi presentano due ordini sovrapposti e sono stati restaurati in anni recenti. Nel primo chiostro, probabilmente commissionato dai Trivulzio, il lato meridionale, quello attiguo all’edificio ecclesiale, non presenta loggiati né partiti decorativi, ma li Il chiostro Trivulzio simula con modanature intonacate; i restanti tre lati mostrano colonnati che, nell’ordine inferiore, presentano capitelli tuscanici e, in quello superiore, ionici. Le terrecotte a stampo, parzialmente ricostruite secondo l’originale disegno cinquecentesco, trovano posto sul parapetto dei loggiati superiori e sugli archi del portico inferiore (escludendo, come già visto, il lato sud); il fregio della trabeazione è decorato nella parte Il chiostro coperto superiore da grifoni che sorreggono scudi a testa di cavallo, alternati a teste di vecchio con baffi e barba e a teste di giovane; appena sotto, separata da una cornice, corre una striscia a rosette; le ghiere degli archivolti presentano nastri a zig-zag e foglie di acanto sulla chiave di volta. Il chiostro, nel suo insieme, rappresenta un’ottima testimonianza del Rinascimento milanese, in parte ancora memore della tradizione bramantesca. Il secondo cortile ha risentito maggiormente delle vicissitudini che l’intero complesso ha dovuto subire: nel 1951 l’architetto Antonio Cassi Ramelli è intervenuto progettando una copertura traslucida, oscurata negli anni Ottanta per adibire la sala a Mensa Arcivescovile. 7 Durante il restauro dei primi anni Novanta, lo spazio è stato adattato a salone culturale. È ancora visibile la struttura architettonica cinquecentesca con i due ordini sovrapposti: quello inferiore, interamente porticato, presenta capitelli tuscanici su tre lati e per un lato compositi, quello superiore, con due lati murati e due percorribili, mostra invece capitelli ionici. Sono visibili alcune decorazioni in cotto che caratterizzano gli archi e la struttura dell’architrave, stilisticamente ricollegabili alle precedenti, benché nettamente più scarse. La struttura della chiesa e il suo interno Dopo l’affidamento della chiesa ai padri Teatini (1577), l’architetto Dionigi Campazzo, (non Francesco Maria Richini, come erroneamente indicato nelle precedenti guide cittadine) venne incaricato di ricostruire la chiesa, inglobando quella più antica, ed occupando lo spazio fino ad allora riservato alla piazza antistante. Nel 1584, l’edificio assunse la sua struttura attuale, rispecchiando la volontà della committenza di aderire alla tipologia ecclesiale della Controriforma: la pianta è a croce latina, dotata di transetto pena ap- accen- nato e di un profondo coro rettangolare, tipico delle chiese conventuali; la navata è coperta da un’ampia volta a botte e lateralmente si apre su tre cappelle per lato. CHE CARATTERISTICHE HA UNA CHIESA CONTRORIFORMATA? A Milano, l’azione di riforma fu attuata, soprattutto, dal cardinale Carlo Borromeo che, con il suo scritto Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae (1577), giunse ad indicare quali fossero le regole da seguire: era necessario mantenere l’assoluta centralità della chiesa mediante un’aula unica, un altare maggiore sopraelevato e in netta evidenza, gli ingressi laterali chiusi al fine di ostacolare alcuna distrazione da parte dei fedeli. 8 La semplicità della pianta contrasta fortemente con la ricchezza della decorazione interna, di qualche decennio successiva: lo spazio è scandito da una fitta serie di lesene rastremate e dorate, coronate da splendidi capitelli compositi, sopra i quali scorre una trabeazione piuttosto aggettante, abbellita da angioletti realizzati in stucco. Anche l’apparato pittorico è decisamente ricco, pienamente in linea con il gusto seicentesco. La controfacciata Nella parte bassa della controfacciata, ai lati del portale d’ingresso, si possono ammirare due quadri che non hanno né una datazione né un’attribuzione certa, ma che sono interessanti a livello iconografico. Quello a sinistra del portale raffigura S. Nicola di Bari, riconoscibile sia per l’abito vescovile che per due suoi attributi piuttosto ricorrenti: gli involti d’oro che porta in mano e i tre bambini nel tino. Quello di destra rappresenta una donna che sta suonando l’organo mentre un angioletto le COSA STANNO AD INDICARE GLI ATTRIBUTI DI S. NICOLA? I tre involucri d’oro vogliono ricordare quelli che il giovane Nicola, nato in una famiglia benestante, lanciò di nascosto nel giardino del suo vicino; questi, caduto in miseria, voleva far prostituire le figlie perché non aveva una dote per loro ma, grazie al santo, le tre giovani furono salve. Il numero tre, simbolo di perfezione, ricorre spesso nelle sua storia: fece liberare tre ufficiali bizantini condannati ingiustamente per tradimento; col passare dei secoli la tradizione trasformò questi tre innocenti nei tre bambini resuscitati dal Santo dopo essere stati fatti a pezzi e messi in salamoia da un oste malvagio. L’episodio sarebbe accaduto nella notte di Natale e, per questo motivo, in molti paesi dell’Europa centrale e orientale è S. Nicola a portare i doni ai bambini. porge dall’alto corone di fiori; con ogni probabilità si tratta di S. Cecilia, solitamente accostata a questo strumento perché, accompagnata dalla sua musica, cantava lodi a Dio mentre si preparava alle nozze, non celebrate perché ella riuscì a convertire il promesso sposo ad una vita di santità. La scelta del soggetto di quest’ultima tela è strettamente connessa alla presenza dell’organo nella cantoria sovrastante. Lo strumento, risalente alla fine del Settecento, nel 1773 venne suonato da Wolfgang Amadeus Mozart, come testimonia una lettera scritta di suo pugno e indirizzata CHE COS’È LA CANTORIA? È la tribuna sopraelevata dove solitamente trovavano posto i cantori; non aveva una posizione fissa perché poteva trovarsi nel transetto, nell’abside o, a partire dal Cinquecento, al di sopra dell’ingresso insieme all’organo. alla sorella. 9 Nella parte più alta della parete la decorazione ad affresco si ricollega direttamente a quella della volta, descritta nel paragrafo successivo: ai lati del finestrone sono raffigurati due profeti, uno per lato, circondati da una cornice in stucco con putti dipinti che reggono un cartiglio recante frammentari inni alla Croce; il profeta di sinistra, grazie all’iscrizione sulla targa che reca in mano, è identificabile con Isaia, l’altro di destra potrebbe essere Ezechiele, ma non vi è certezza perché la targa risulta illeggibile. Poco più in basso sono dipinti due angeli seduti con in mano un libro. La volta Tra il 1630 e il 1632, due fratelli, Giovanni e Giovanni Battista Carloni, componenti di una famiglia di decoratori provenienti da Canton Ticino, ma attivi a Genova, ricevettero l’incarico di affrescare la volta della navata con le Storie della Croce; i Teatini, che vivevano in e- CHI ERA IL PREPOSITO? strema povertà, poterono affrontare la spesa solo grazie alle offerte dei cittadini milanesi, che trovarono così il modo di esprimere la loro gratitudine per l’attività svolta dai padri durante l’epidemia di peste dei due anni precedenti. L’opera venne commissionata dal preposito Ales- Il “preposito” o anche “preposto” era solitamente il parroco con funzione di vicario foraneo, cioè assegnato ad un vicariato che univa più parrocchie. sandro Porro che, probabilmente, ha ricoperto un ruolo importante anche nell’ideazione del programma iconografico, rispecchiante l’intensa spiritualità teatina. La volta della navata risulta divisa in tre riquadri dalla forma piuttosto allungata trasversalmente entro i quali sono affrescati tre episodi salienti della Leggenda della Croce: nel primo, partendo dalla controfacciata, la Croce appare a Costantino e gli angeli gli predicono la vittoria nella battaglia contro Massenzio, se combatterà nel nome di Cristo. Il secondo rappresenta il Ritrovamento della Croce da parte di Elena. L’atto più importante dell’imperatore romano Costantino fu l’emanazione dell’Editto di Milano del 313, con il quale si riconosceva ai cristiani la libertà di culto; il suo gesto si spiegava nell’ambito di un generale atteggiamento di riconciliazione nei confronti di quelle forze, come la Chiesa, che si erano inserite nel tessuto sociale dell’Impero. 10 LA LEGGENDA DELLA VERA CROCE Ripresa dalla Legenda Aurea (1255-66) di Jacopo da Varagine, la Storia della Vera Croce ebbe inizio quando furono posti in bocca ad Adamo, dopo la sua morte, alcuni semi dell’Albero della Conoscenza, lo stesso da cui egli stesso ed Eva avevano colto il frutto proibito. Secoli dopo, l’albero nato dalla tomba del primo uomo venne fatto tagliare da Salomone per la costruzione del suo tempio; la trave ricavata non si poté però utilizzare perché, per miracolo, cambiava continuamente dimensione: venne quindi impiegata come ponte sul fiume Siloe. La regina di Saba, in visita da Salomone, riconobbe, grazie a una premonizione, che su quel legno sarebbe stato crocifisso il Salvatore e avvertì il re che, invano, lo fece sotterrare. Dopo la morte di Cristo la Croce scomparve nuovamente; tre secoli più tardi riapparve in sogno a Costantino, che nel suo nome, vinse la battaglia di Ponte Milvio contro Massenzio nel 312. Elena, madre del vincitore, ritrovò le tre croci a Gerusalemme, dopo la confessione dell’ebreo Giuda che conosceva il luogo in cui erano nascoste; quella di Cristo fu individuata perché solo al suo contatto un giovane resuscitò. Nel 615 il re persiano Cosroe trafugò la reliquia, prontamente recuperata dall’imperatore d’Oriente Eraclio, che sconfisse il monarca infedele e lo fece decapitare. 11 Nella terza fascia l’Imperatore d’Oriente Eraclio riporta la Croce a Gerusalemme, dopo aver sconfitto il re persiano Cosroe, che l’aveva rubata. Eraclio non indossa abiti regali perché, secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, le porte di Gerusalemme si sarebbero aperte solo se egli si fosse presentato con la massima umiltà, seguendo l’esempio di Cristo; per questo motivo è raffigurato mentre porta la Croce sulle spalle, scalzo e con una veste dimessa. Nelle vele sovrastanti i finestroni sono raffigurati sei angeli con gli strumenti della Passione: i tre sulla destra, partendo dalla controfacciata, recano in mano la corona di spine, il cartiglio con la scritta INRI e la lancia, mentre quelli di sinistra mostrano i chiodi, la spugna imbevuta di aceto posta sull’asta e la scala. Nelle raffigurazioni che si susseguono fino all’incrocio con il transetto è stata privilegiata la dimensione storica della vicenda della Croce, ma considerando l’incrocio navata-transetto, prende il sopravvento quella più prettamente teologica. Questo spazio risulta diviso in cinque parti, una centrale, a cui è dato maggior risalto, e altre quattro che la incorniciano da ogni lato. In mezzo è raffigurato il Trionfo della Croce circondato da gruppi angelici. Tra la folla di beati in adorazione è possibile riconoscere, con buona probabilità, alcuni personaggi legati alla storia della chiesa di S. Antonio: all’estrema sinistra della Croce i due santi titolari, Antonio Abate e Nicola di Bari, l’uno riconoscibile per il saio scuro, l’altro per il ricco abito vescovile; sempre sulla sinistra, si genuflette Carlo Borromeo (che chiamò i Teatini a Milano) identificabile dalla veste cardinalizia; infine i teatini Gaetano da Thiene (fondatore della congregazione) e Andrea Avellino (primo preposito di S. Antonio) in abito sacerdotale esattamente uno di fronte all’altro, in piedi, nella seconda fila di santi sotto la Croce. 12 Lateralmente, entro riquadri trapezoidali, sono affrescati quattro episodi vetero-testamentari che alludono al sacrificio compiuto da Cristo sulla Croce: i Progenitori nel Paradiso Terrestre, il Sacrificio di Isacco, il Passaggio del Mar Rosso e l’Innalzamento del Serpente di Bronzo. In questo ultimo episodio compare uno dei simboli maggiormente legati alla figura di S. Antonio Abate: il bastone su cui Mosè solleva il serpente di bronzo ha la caratteristica forma di tau. La scelta di affrescare le Storie della Croce non è assolutamente casuale, ma ricorre molto spesso nelle chiese della Congregazione dei Teatini perché festeggiavano l’anniversario della loro fondazione proprio nel giorno dell’Esaltazione della Croce (14 settembre). L’opera dei fratelli Carloni è connotata da una particolare teatralità e da colori vividi, robusti, tipici della scuola genovese. Distinguere le mani dei due all’interno del ciclo risulta piuttosto complicato, ma le fonti affermano che, inizialmente, il lavoro venne assegnato al maggiore, Giovanni, e venne terminato da Giovanni Battista solo dopo la morte del fratello. Nell’ambito del loro cantiere rientrano anche i ricchi stucchi caratterizzati da un robusto plasticismo e da un’esuberanza decorativa, probabilmente attribuiti allo stuccatore Antonio Sala. Cappelle di sinistra Il lato sinistro della chiesa è strutturato in un primo vano decorato ad affreschi e da tre cappelle. 13 Cappella di San Gaetano La prima cappella è dedicata a San Gaetano da Thiene, uno dei fondatori dell’Ordine dei Teatini che ressero la chiesa dal 1577 al 1798, posta simmetricamente rispetto a quella dell’altro grande santo dell’Ordine Teatino, S. Andrea Avellino. È la più ricca di decorazioni, contraddistinta da un classicismo fastoso e severo, ma anche da eleganza e raffinatezza, date dalla policromia dei marmi, delle pietre dure e dei bronzi dorati. Venne sistemata nella seconda metà del XVII secolo, in vista della canonizzazione del Santo nel 1671, grazie al generoso lascito della nobildonna Girolama Dardadona Rho, ricordato dalle iscrizioni alle pareti che riportano la data 1674 (anno quindi di fondazione della cappella). Al centro la pala con L’estasi del Beato Gaetano con alcuni angeli del Cerano, è databile al primo decennio del ‘600. Era un dipinto molto venerato dal popolo in quanto, secondo le fonti antiche, davanti ad esso sarebbero accaduti molti eventi miracolosi. Il Santo è raffigurato in ginocchio mentre in alto gli appare la S. Croce, regge un tralcio di gigli e un libro aperto con le parole “Conspicite lilia agri; respicite volatilia coeli; Pater vester coelestis nutrit et vestit” (“Guardate come crescono i gigli nel campo…guardate gli uccelli del cie- Tra i miracoli, tre furono riconosciuti dalla Sacra Congregazione dei Riti: la liberazione dai demoni di una tredicenne e le guarigioni di una fanciulla e dell’anziano conte Giorgio Trivulzio, marito di Olimpia Pallavicino Trivulzio, una delle benefattrici dei Teatini e patrona della cappella delle Reliquie. lo...il vostro Padre li nutre e veste” Mt., 6, 26-30). Il dipinto allude, con la chiarezza didascalica propria dell’arte sacra del periodo controriformistico, alla fiducia nella Provvidenza e alla pratica della povertà evangelica, motivi salienti della personalità religiosa di S. Gaetano, nonché ideali caratterizzanti la Congregazione teatina. Arte promossa dalla Chiesa Cattolica per contrastare la diffusione della Riforma Protestante, secondo i dettami della Controriforma emersa col Concilio di Trento (1545-1563). È un’arte didatticopopolare, cioè che attraverso un linguaggio comprensibile a tutti punta a coinvolgere e commuovere lo spettatore, per riportarlo a sentirsi vicino alla dottrina cattolica. 14 Collegate alle stesse tematiche sono le sculture in marmo di Carrara di Giuseppe Rusnati che, attraverso continui riferimenti alla Fede e alla Provvidenza, celebrano il Santo e i fondamenti dell’Ordine. Il Rusnati realizzò le statue e le formelle scolpite con Episodi della vita del Santo che partono dalla sua infanzia e culminano con la Morte di S. Gaetano al centro del paliotto. Le scene sono caratterizzate da uno stile molto diverso da quello severo e ieratico della pala del Cerano: sono raffigurazioni movimentate, prive di dram- CHE COS’È UN PALIOTTO? Il Paliotto è un paramento che copre la parte anteriore dell’altare. Può essere realizzato con materiali diversi tra cui marmo (come in questo altare), stoffe, metalli preziosi o legno. maticità e spesso ricche di particolari aneddotici, rese con un linguaggio fluido e morbido nei passaggi chiaroscurali. Nella volta sono presenti tele sagomate, di un anonimo lombardo del tardo Seicento, che raffigurano tre delle tante visioni miracolose avute da S. Gaetano in vita: al centro è la Visione natalizia del Santo (episodio in cui, durante la Messa di Natale, gli sarebbe apparsa la Vergine nell’atto di porgergli in braccio il Bambin Gesù), ai lati S. Gaetano si abbevera alla piaga del costato di Cristo e Il cuore si invola dal petto di S. Gaetano in estasi sorretto dagli Angeli (due scene tratte dal repertorio fantasioso dell’agiografia se- G. Rusnati, Morte di S. Gaetano centesca sulle sue visioni): nella prima, Gesù sarebbe apparso porgendogli la Croce e invitandolo a bere il Suo sangue, nella seconda si racconta che il suo cuore bruciò così tanto d’amore per Dio che una volta lo vide andare verso il cielo con ali di fuoco. 15 Cappella dell’Annunciazione (Cappella Acerbi) È chiamata anche cappella Acerbi in quanto, secondo un documento d’archivio, nel 1609, il senatore Ludovico Acerbi (personaggio di rilievo che ricoprì varie cariche pubbliche per la corona di Spagna) avrebbe stipulato una convenzione per far erigere, a sue spese, una cappella per la sua famiglia. La cappella venne completata probabilmente entro il 1612: ci sono infatti due lapidi che riportano tale data l’indicazione del patronato. Tutti i dipinti presenti sono attribuiti a Giulio Cesare Procaccini: al centro l’Annunciazione, a sinistra la Visitazione di Maria ad Elisabetta, a destra la Madonna col Bambino durante la fuga in Egitto. Le tre tele maggiori, realizzate ad olio, sono completate da un quadretto con Tre Angeli sopra la pala e dalla tela a tempera con l’Eterno in gloria sulla volta, eseguite probabilmente in concomitanza coi lavori per l’altare, tra 1610 e 1612. Le opere presenti all’interno della cappella rappresentano una nuova fase stilistica del Procaccini che si discostò da una certa drammaticità, caratteristica del primo decennio da pittore, per aderire alla tecnica compositiva dei pittori di Parma. Sono infatti Correggio e Parmigianino a influenzarne la pittura divenuta sciolta e ariosa. 16 Le tele mostrano grazia espressiva, ritmi compositivi più morbidi, sottili avvolgenze chiaroscurali, allungamento delle figure secondo moduli emiliani e scintillanti iridescenze cromatiche che rimandano anche alle opere genovesi di Rubens; il colore è diventato più morbido, caldo, e sottilmente acceso di sensuali finezze. Nella grandiosa Annunciazione, tali caratteristiche appaiono in evidenza nella resa dell’atmosfera intima del sacro evento, come nella preziosa dolcezza delle espressioni, nel fluire dei gesti, nei trapassi cromatici e luminosi. Oltre al maestoso Arcangelo Gabriele a sinistra, e alla bellissima Vergine più a destra che, solitamente, sono gli unici personaggi ritratti nell’episodio, Procaccini riproduce una scena affollata, con altri angeli G.C. Procaccini, La Visitazione che riempiono tutto lo spazio. L’angioletto in piedi in primo piano, che dà quasi le spalle allo spettatore, porge alla Vergine un giglio bianco, simbolo della sua verginità, mentre una colomba bianca vola verso di lei compiendo le parole pronunciate dall’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te”, accompagnate da un raggio di luce dorata che parte dalla mano dell’angelo. Nella Visitazione di Maria ad Elisabetta il fulcro della scena sta al centro, nell’abbraccio avvolgente scambiato NATURA MORTA tra le due donne in un fascio di luce dorata. La scena è caratterizzata soprattutto da un gusto realista, ben visibile nel volto rugoso di Elisabetta racchiuso nella cuffia bianca, nel muscoloso S. Giuseppe in basso, scorciato secondo un ritmo curvilineo, teso con una mano ad afferrare la briglia dell’asino e con l’altra un cesto di frutta (particolare che aumenta il realismo e costit u i s c e u n interessante esempio del nuovo genere della natura morta). Pittura di genere che ha origini antiche, ma si diffonde come genere autonomo all’inizio del ‘600; indica un dipinto in cui non sono rappresentati soggetti umani, ma solo elementi naturali o soggetti inanimati (soprattutto fiori, frutta, vivande…), spesso caricati di significati simbolici o, più in generale, dove questi elementi sono i veri protagonisti dell’opera rispetto agli altri. 17 La Madonna col Bambino durante la fuga in Egitto presenta una raffigurazione della scena particolare rispetto al predominante modello con la Vergine seduta sull’asino. Al centro in piedi è posta Maria col Bambino in braccio, affiancati a destra da una figura femminile che potrebbe essere Salome, la levatrice che secondo una tradizione li accompagnò in Egitto e, sotto di lei, un putto che regge un cesto di frutta, possibile riferimento al miracolo della palma (rimandato dal Vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo) secondo cui l’albero si piegò per dare a Maria i suoi frutti, oppure potrebbe rappresentare il bambino che avrebbe condotto l’asinello che nelle icone è spesso raffigurato con un cesto. Completano la scena a sinistra S. Giuseppe e in alto un turbinio di angeli tra nu- G.C. Procaccini, Madonna col Bambino durante la fuga in Egitto bi azzurre. Cappella delle Reliquie (Cappella Trivulzio) La cappella si trova in testa al braccio sinistro del transetto, più arretrata quindi rispetto all’asse di quelle esaminate fin’ora. Probabilmente, conclusi i lavori di architettura per la ricostruzione della chiesa, avviati nel 1584, iniziò da qui la decorazione delle cappelle. Venne fatta realizzare dalla famiglia Trivulzio, sopra quella che era una precedente tomba dei membri di un ramo della famiglia. Eretto l’altare, vi furono riunite le numerose reliquie già venerate nella chiesa, oltre ad altre reliquie portate da Roma dai Teatini, compresa quella della Santa Croce. La presenza di questa preziosa reliquia ispirò il ciclo pittorico della volta. L’elenco delle Reliquie conservate è inciso sulle lastre di marmo nero poste sopra le piccole balaustre; tra le più importanti si ricordano i brandelli delle vesti di Nostro Signore e della Vergine. 18 La porzione del Legno della S. Croce è posta sopra l’altare in un piccolo tabernacolo coperto d’argento e lavorato a bellissimi intagli e mosaici di gusto barocco, non visibile però in quanto coperto dalla pala d’altare, che nasconde anche altre reliquie in custodie preziose. La pala è una tela raffigurante l’Andata di Cristo al Calvario, buona copia da Jacopo Palma il Giovane, compiuta dal pittore veronese Pietro Perotti. Sulle pareti a sinistra la Flagellazione, di un ignoto artista probabilmente toscano, e l’Incoronazione di spine del vicentino Alessandro Maganza a destra, sono entrambe databili alla fine del XVI secolo. Sono presenti poi, sulla volta, tre tele ad olio incorniciate da stucchi col Compianto sul corpo di Cristo (Pietà) al centro, la Deposizione dalla Croce a destra e la Messa al sepolcro a sinistra. Dopo varie attribuzioni, soprattutto al Carracci e a Tanzio da Varallo, si è giunti al nome del bolognese Lorenzo Garbieri, allievo di Ludovico Carracci, che qui dipinge con ricordi caravaggeschi. Il tema della Passione di Cristo non ispira soltanto il programma iconografico della cappella, ma anche quello dei grandi dipinti bislunghi del transetto sinistro realizzati da Enea Salmeggia detto il Talpino, con la Cattura di Cristo nell’orto a sinistra e l’Orazione di Cristo nell’orto degli Ulivi a destra. L’arco trionfale L’arco trionfale, che immette nella zona presbiteriale, è decorato con sette medaglioni: in quello centrale sorretto da una coppia di angioletti in stucco è affrescato il busto di Cristo, nei sei laterali quelli degli apostoli a due a due. Questa sezione dell’apparato decorativo è stata spesso assegnata al Salmeggia, ma gli studi monografici a lui dedicati non hanno confermato l’attribuzione. 19 Si è pensato anche di ricollegare i medaglioni alla deco- QUALI SONO GLI ATTRIBUTI DI S. ANTONIO? razione della volta della navata per affinità stilistiche sia degli affreschi che degli stucchi, ma non ci sono prove sicure neppure in tal senso. Le sezioni di partito murario che reggono l’arco presentano inoltre due sculture lignee policrome, dislocate entro nicchie, raffiguranti S. Antonio, a sinistra rispetto all’altare maggiore, e S. Carlo al lato opposto; probabilmente la base delle figure fungeva da reliquiario come lascerebbero intendere le iscrizioni sottostanti. Il presbiterio È riconoscibile per il saio che ricorda il suo impegno nella diffusione del monachesimo, per il bastone a forma di “tau” e per il campanello, solitamente ad esso appeso, perché erano usati dai malati di “fuoco sacro”, detto anche “fuoco di S. Antonio”; infine, molto spesso, ai piedi del santo è raffigurato anche un maialino, animale allevato dai frati antoniani per curare la stessa malattia. La decorazione del presbiterio è compresa nei lavori di rinnovamento attuati a seguito dell’assegnazione della chiesa ai padri Teatini; documenti d’archivio indicano la contessa Olimpia Pallavicino Trivulzio come promotrice, nello specifico, della decorazione ad affresco della volta per gli anni successivi al 1610. La volta a botte che copre il vano presbiteriale di forma rettangolare risulta suddivisa in tre sezioni di diversa larghezza separate da fasce con ricche decorazioni a stucco e medaglioni con putti dipinti. S. Antonio è il protagonista di tutti gli episodi affrescati che vengono assegnati al pittore piemontese Guglielmo Caccia, soprannominato Moncalvo. Il primo settore, partendo dall’arcone, risulta essere quello più stretto, ed ospita l’immagine di S. Antonio (sulla destra) innalzato in cielo da tre angeli al cospetto del Cristo in gloria (dalla parte opposta), anch’egli circondato da figure angeliche. La sezione centrale raffigura nella parte destra S. Antonio circondato da una leggera boscaglia, mentre osserva l’anima di S. Paolo Eremita portata in cielo dagli angeli (al centro); nell’estrema sinistra si ritrova lo stesso santo davanti alla sua spelonca, in atteggiamento di preghiera: sfogliando la Legenda Aurea si scopre che S. Paolo muore in questa posizione e si spiega così il motivo per cui la sua immagine compare due COSA LEGA S. ANTONIO A S. PAOLO EREMITA? La Legenda Aurea racconta che S. Paolo Eremita, durante la persecuzione dell’imperatore Decio (metà del III secolo circa), si ritirò nel deserto dove visse per sessant’anni in una spelonca. S. Antonio credeva di essere il primo eremita, ma apprese in sogno che vi era un altro migliore di lui e, dopo lungo errare, riuscì ad incontrarlo con grande gioia per entrambi. Mentre S. Antonio ritornava al suo eremo vide l’anima di Paolo portata in cielo dagli angeli, quindi ritornò in fretta sui suo passi e trovò il corpo del santo senza vita, ma inginocchiato come se fosse in preghiera; S. Antonio avrebbe voluto seppellirlo quando apparvero due leoni giunti in suo aiuto scavando una fossa. Infine S. Antonio prese la veste fatta di palme intrecciate di S. Paolo e la indossò da quel momento in poi nei giorni festivi. volte nella stessa scena. 20 L’ultima raffigurazione, quella contigua alla parete absidale, propone nuovamente S. Antonio che osserva delle anime raffigurate sotto forma di fanciulli: alcune di esse sono trasportate in cielo dagli angeli, mentre altre (nelle zona a sinistra) sono fermate da due diavoli che le percuotono e le afferrano per i capelli. Moncalvo, S. Paolo portato in Gli affreschi sono caratterizzati dall’impiego di colo- cielo dagli angeli ri delicati, che ben si adattano alle figure angeliche e alle anime in ascesa; le scene risultano più ariose e meno affollate rispetto a quelle della volta della navata, a discapito, però, della monumentalità dell’insieme. Passando alla decorazioni della parete di fondo del coro, le prime opere visibili partendo dall’alto sono le due tele di Fede Galizia poste ai lati del finestrone (successive al 1616): quella di destra ha come protagonista S. Paolo, mentre l’altra S. Antonio, il primo riconoscibile per la corta veste fatta di palme intrecciate, l’altro per il caratteristico saio. Ad un primo impatto i due eremiti sembrerebbero descritti singolarmente, ma dalla lettura della Legenda Aurea emerge la volontà della pittrice di rappresentare un episodio ben preciso, svoltosi appena prima di quello affrescato sulla volta: i due santi, subito dopo essersi incontrati, spezzano insieme il pane consegnato da un corvo ogni giorno a S. Paolo. F. Galizia, S. Antonio e S. Paolo Eremita 21 La decorazione della parete di fondo si conclude con la tela realizzata da Camillo Procaccini negli anni di poco successivi al 1610: Gesù Cristo appare a S. Antonio e risana le sue ferite dopo che questi ha resistito alla lotta contro i demoni. Le due figure sono imponenti: Cristo, reso con uno scorcio ardito, scende dai cieli assistito da due angioletti, mentre il santo, nella parte bassa della tela, apre le braccia sfinito dalla lotta; di grande intensità è anche il muto dialogo che si instaura fra loro. Da notare il linearismo piuttosto accentuato dei panneggi, che potrebbe avere avuto una certa influenza anche nella tela di Fe- “Capì allora Antonio che Cristo gli era vicino e disse: «Dove eri, mio Signore Gesù, dove eri? Perché non sei venuto subito in mio aiuto, a guarirmi di tante ferite?». Rispose il Signore: «Io ero qui e assistevo alla tua lotta: hai combattuto virilmente onde diffonderò la tua gloria per il mondo intero» (Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, traduzione di C. Lisi) de Galizia appena descritta e rappresentante lo stesso santo. Le pareti laterali del presbiterio sono abbellite da quattro quadri, di considerevoli dimensioni, idealmente e stilisticamente collegati a quello di Camillo Procaccini, attribuiti a Domenico Pellegrini. Le opere descrivono alcuni episodi salienti della vita di S. Antonio, ad esempio, nel primo quadro di sinistra, il santo è raffigurato mentre il diavolo lo tenta sottoforma di attraenti fanciulle. Appena al di sotto dei dipinti si dispongono gli stalli lignei del coro, abbelliti da decorazioni a volute e, nella parte più alta, da volti di angeli; furono forse eseguiti su disegno di Francesco Maria Richini. All’imbocco del presbiterio, ai lati dell’altare, tro- CHE COSA SONO GLI STALLI? È definito stallo ciascuno dei sedili allineati in file simmetriche ai lati del coro, solitamente forniti di spalliera e braccioli. vano posto altri due quadri di minori dimensioni riferibili al p i t t o r e l o m b a r d o s e i c e n t e s c o C a r l o Cane, raffiguranti S. Nicola di Bari. 22 Sacrestia e antisacrestia Una piccola porta situata a sinistra del transetto di destra conduce all’antisacrestia e quindi alla sacrestia. Nell’antisacrestia sono collocati alle pareti due antichi paliotti d’altare, di raffinata esecuzione: a sinistra il paliotto dell’altare maggiore, dedicato a S. Antonio e S. Nicola, risalente al 1654, a destra quello dedicato ai martiri Giacinto e Fortunato. Paliotto dell’altare maggiore Sono poi conservati alcuni dei quadri di grandi dimensioni eseguiti per la canonizzazione di S. Gaetano del 1671. Queste raffigurazioni, di modesta qualità, furono realizzate in occasione della festa celebrata in chiesa, lungo la strada della contrada, nel cimitero attiguo e nel chiostro, con lo scopo didascalico di illustrare episodi della vita del Santo, i suoi miracoli e le sue virtù. Oggi ne restano solo una decina di opere, delle 37 originarie, dedicate alla vita del santo (prima tenuti nella sagrestia): quattro sono situate qui e le restanti nella casa del rettore. Purtroppo sono in cattive condizioni soprattutto a causa di un incendio avvenuto almeno un secolo fa. I due appesi alle pareti raffigurano il Viaggio da Roma a Napoli sotto la guida di una angelo e la Prigionia di S. Gaetano durante il Sacco di Roma del 1527. COSA AVVENNE DURANTE IL SACCO DI ROMA? Nel 1527 le milizie mercenarie tedesche dei luterani Lanzichenecchi, mandati dall’imperatore Carlo V contro Papa Clemente VII, devastano Roma e assediano il Papa rinchiuso in Castel Sant’Angelo, ma una grave pestilenza obbliga le truppe imperiali a ritirarsi. 23 Da una porta a destra si accede all’ampia sacrestia ornata, alle pareti laterali, da imponenti armadi settecenteschi in noce, decorati da intagli a forma di frutti, foglie e teste di cherubini e contenenti palii e paramenti sacri, argenterie e oggetti in rame argentato che, in alcune ricorrenze, venivano adoperate per ornare l’altare maggiore e la chiesa. Vi sono poi risposte Sacre Reliquie, contenute in busti di Santi e Sante solitamente in rame argentato: la loro presenza e ricordata dalle lettere RR. SS. (Reliquiae Sanctorum) su alcune ante a destra. Sopra gli armadi sono presenti numerosi quadri: la maggior parte sono tele a tempera appartenenti al ciclo sulla vita di S. Andrea Avellino realizzato per la festa della sua canonizzazione avvenuta nel 1712; per l’occasione furono, infatti, realizzati solo nove quadroni a tempera (se ne conservano otto), la cui realizzazione è per tradizione attribuita a Sebastiano Ricci. Alla sinistra, intervallati dalle finestre, sono presenti la Vocazione di S. Andrea Avellino e S. Andrea Avellino assalito da tre sicari: nel primo il santo, ancora ragazzo, è ritratto in abiti lussuosi; educato in modo fortemente religioso, riuscì a rifiutare sempre tutte le lusinghe da parte delle donne, una delle quali è raffigurata accanto al giovane che non le rivolge nemmeno uno sguardo poichè rapito dalla chiamata che viene dall’alto. Il secondo lo raffigura come un novizio durante un’aggressione causata dalla sua COS’È UN NOVIZIO? Un novizio è chi è gia entrato in un Ordine Religioso ma non ha ancora pronunciato i voti. riforma spirituale per le religiose del Monastero di S. Arcangelo a Baiano. 24 Alla parete destra sono appesi: un S. Paolo in abiti sontuosi, databile tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600; S. Andrea Avellino che cade da cavallo ed è aiutato da S. Tommaso d’Aquino a cui era molto devoto; S. Andrea Avellino in preghiera; S. Genesio martire raffigurato con maschere e violino a ricordo della sua professione d’attore esercitata prima di diventare cristiano. Sulla controfacciata sono presenti S. Andrea Avellino nel cammino notturno, S. Antonio tentato da tre fanciulle, molto rovinato, e la Morte di S. Andrea Avellino, avvenuta improvvisamente mentre celebrava la S. Messa. Il Santo è raffigurato sdraiato, con attorno i fedeli che osservano un dottore che gli sta praticando dei tagli. CHI ERA S. GENESIO? Genesio era un attore pagano che, all’epoca di Diocleziano, faceva la parodia dei cristiani e delle loro cerimonie. Successivamente si convertì e si fece battezzare, perciò quando pubblico e Imperatore si resero conto che Genesio non fingeva più di officiare i riti cristiani, ma li compiva con sincero ardore religioso, venne fatto arrestare, torturare e infine decapitare nel 303. Oggi è patrono e protettore della gente di teatro. Accadde infatti che, mentre stavano per seppellirlo, ci si accorse che, come da una persona viva, usciva del sangue da un taglio dietro l’orecchio, provocato da un fedele che voleva tenere per sé una ciocca dei suoi capelli. Vennero allora chiamati due dottori che gli fecero tre incisioni sul corpo per veder se fosse ancora vivo. Il Santo era morto, ma il sangue continuò a fluire ed egli fu sepolto solo dopo quattro giorni, come lui stesso aveva predetto quando era in vita. Appesi all’ingresso dello spazio dell’altare vi sono i quadroni con S. Andrea Avellino che guarisce un’ indemoniata a sinistra, e a destra S. Andrea Avellino in gloria, che in abiti teatini e sorretto da Il quadro ricorda quando Andrea, nonostante buio e pioggia, rifiutò una carrozza con cui farsi riaccompagnare dopo una visita in una casa e si incamminò con alcuni compagni e un paggetto che faceva strada con la lampada; poco dopo le raffiche di vento spensero la lampada, ma i confratelli proseguirono, rischiarati dalla luce emanata dalla persona di S. Andrea e una volta giunti si accorsero anche che, nonostante la forte pioggia, nessuno di essi aveva i vestiti bagnati. angeli, viene portato verso Cristo e verso il Padre. Tra i due quadroni, sopra l’arco d’accesso allo spazio di fondo è visibile lo stemma dei Teatini in stucco. Davanti alla cappella un bellissimo Crocifisso secentesco, proveniente dall’altare maggiore e riferibile alla scuola bergamasca dei Fantoni, è stato ricavato da una sola zanna d’avorio e poi dipinto. 25 Nella piccola abside al centro la pala d’altare con l’Assunzione della Vergine è attribuita solitamente al Moncalvo, a destra la Natività è di Camillo Procaccini, databile intorno al 1610 e da poco restaurata e, a sinistra, La Vergine col Bambino, S. Anna e S. Giuseppe è stata dipinta da un autore ignoto e versa in cattive condizioni di leggibilità. Cappelle di destra Il lato destro della navata è scandito da tre cappelle e da un vano decorato che immette, tramite una porta di legno, all’Oratorio dell’Immacolata. Cappella dell’Ascensione La cappella posta in testa al transetto e intitolata all’Ascensione, fu eretta da un nobile milanese, Emanuele Dal Pozzo che, dal 1610, fece eseguire, in un breve periodo di tempo, la decorazione pittorica a stucco e il progetto architettonico dell’altare. Il corredo pittorico della cappella e del corrispondente braccio del transetto è dedicato alla glorificazione di Cristo, programma iconografico che è in stretto collegamento con quello dell’antistante cappella dedicata alla Passione. Al di sopra dell’altare in marmo si trova l’Ascensione del Malosso e a destra il quadro dipinto da Alessandro Vaiani con la Pentecoste, realizzati entrambe nel 1610. Al Vaiani possono essere attribuite anche le tre tele con la Circoncisione di Gesù, l’Incoronazione di Maria e la Trasfigurazione, databili al medesimo periodo e situate nella volta della stessa cappella. 26 Sulla parete sinistra della cappella è collocata la Resurrezione di Cristo dipinta da Cerano intorno al 1610, opera di straordinaria potenza visionaria: la figura del Cristo, con il braccio destro alzato, è avvolta dal candore dello stendardo crociato che egli stesso tiene nella mano sinistra ed emerge al di sopra della massa di guardie atterrate e disposte ai lati. Sotto la figura del Cristo, a destra in piedi, è raffigurata una guardia con turbante, lorica e scudo, in primo piano nell’angolo in basso una guardia anziana a torso nudo sotto un mantello di pelliccia, atterrata dall’apparizione. CHE COS’È LA LORICA? La lorica era un’ armatura che copriva il petto, pancia e fianchi. A sinistra, con un braccio appoggiato al sepolcro, è dipinta una guardia ancora dormiente, mentre sul fondo si staglia un indefinito gruppo di guardie in fuga. Sempre nel transetto destro, ma al di fuori della cappella dell’Ascensione, è collocata sul lato sinistro una Natività dipinta da Ludovico Carracci intorno al 1611-1612, sul lato destro, invece, la tela coeva con l’Adorazione dei magi dipinta da Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone. Ludovico Carracci, nella Natività, riesce abilmente a sfruttare lo spazio disponendo la sua composizione in verticale con suggestivi effetti di luce, irradiata dal piccolo Gesù ed altri effetti di controluce nelle figure dei pastori in primo e secondo piano. Il fulcro del quadro è il Bambino che, avvolto da luce divina, è adorato da Maria, Giuseppe, angeli e pastori. Verticalmente sono ben visibili tre fasce, la prima, quella più in alto, ospita la folta schiera angelica che è accorsa per festeggiare l’evento con canti di giubilo; la seconda fascia, quella centrale, è dedicata alla Sacra Famiglia; e nella terza trovano posto i pastori, il bue e l’agnellino. L. Carracci, Natività, 1611-12 27 Queste tre fasce sono connotate anche da una diminuzione di brillantezza e di luce, dall’alto verso il basso, a significare un passaggio dalla sfera celeste a quella terrena. L’artista vuole richiamare il fedele ponendo l’attenzione sul significato mistico del soggetto: l’offerta da parte della Vergine del proprio figlio, agnello sacrificale per la redenzione dell’umanità, esplicitamente paragonato agli agnelli che i pastori portano in dono al neonato. Il Morazzone, ne l’Adorazione dei magi, sfrutta l’originale formato della tela per movimentare la scena, fa ruotare le colossali, ma eleganti, figure intorno alla Madonna, poi crea una cesura a mezza altezza nella composizione e al di sopra vi colloca un gruppo di angeli vibranti di luce. Il gruppo piramidale della Vergine e dei Magi con i due paggi, è caratterizzato da bagliori di luce che si soffermano su alcuni particolari (un orecchio o le pieghe Grazie ai Vangeli Apocrifi risaliamo al nome e alla provenienza dei Magi: Melchiorre, re dei persiani; Gasparre, re degli Indi e Baldassarre, re degli arabi. I doni portati sono l’oro, simbolo della natura regale (signum regis), l’incenso, simbolo della natura divina (signum dei) e la mirra, simbolo della natura umana e quindi mortale (signum sepulturae). degli abiti serici), che fanno emergere i personaggi da un fondo campestre sommariamente descritto. 28 Cappella dell’Immacolata In questa cappella, rispetto alle altre della chiesa, non vi è unità tra architettura e decorazione, poiché vennero realizzate in periodi differenti. Nel 1656 la cappella passò in patronato a Giuseppe Diviziolo che promosse la ricostruzione dell’altare. Nei primi anni Trenta del Seicento, giunse da Napoli una statua lignea della Vergine che rimase sull’altare fino agli anni dell’occupazione francese e che poi andò perduta. Successivamente, sull’altare fu posizionata in una nicchia la Madonna col Bambino scolpita in marmo da Giuseppe Rusnati. L’altare è sovrastato da quattro colonne di pietra rossa di Verona ornate da capitelli che sorreggono un frontone spezzato in marmo grigio, ai lati del quale due splendidi angeli in marmo di Carrara tengono in mano l’uno il sole, TABERNACOLO l’altro la luna in bronzo dorato. Di mirabile bellezza è il tabernacolo in marmo e pietre dure, con colonne di cristallo di rocca che si trova posto piccola edicola a forma di tempio posta sull’altare,nella quale sono conservate le ostie consacrate. sulla mensa marmorea dell’altare ma, un tempo, conservato nella cappella di S. Gaetano. La statua dell’Immacolata e il Cristo morto scolpiti dal Rusnati, erano stati concepiti per un altro ambiente, l’attiguo Oratorio dell’Immacolata e furono realizzate entro il 1686. Una marcata somiglianza stilistica lega la statua dell’Immacolata agli angeli reggi mensa e alle virtù della cappella di S. Gaetano, anche se, alla calma di queste ultime, si oppone nel gruppo della Vergine col Bambino un maggior dinamismo che gonfia i panneggi e protende in avanti le figure. Il virtuosismo tecnico non toglie alla rappresentazione il sentimento di maternità manifestato dal volto, dal gesto e dalla delicatezza di Maria. 29 In questo gruppo scultoreo è evidente il richiamo alla tela di Giovan Ambrogio Figino, la Madonna della serpe, (opera conservata attualmente all’interno dell’Oratorio) che esprime mirabilmente il concetto teologico della vittoria sul peccato e sul demonio di Maria Immacolata per merito di Gesù Cristo. Stupefacente è il Cristo morto posto al di sotto della mensa dell’altare: l’opera è caratterizzata da un dolore e una drammaticità contenuta, la compostezza e l’equilibrio formale accentuano l’autentica sofferenza che pervade il soggetto e una cadenza pietosa è offerta dagli angeli che compiangono il Cristo in atteggiamento abbandonato e pieno di poesia. Nel 1637 pervennero alla chiesa, grazie ad una donazione di Ercole Bianchi, la tela con la Natività di Maria e la Madonna della serpe. La tela con la Natività di Maria fu sistemata nella parete di destra della cappella, allora intitolata alla Beata Vergine del Suffragio. Tra le opere del Figino è una di quelle su cui si hanno meno notizie, ma analizzando la composizione gremita di figure, si può far risalire l’opera all’attività tarda del pittore intorno al 1605; i corpi hanno una resa muscolosa, i volti sono aspri e stanchi e il tutto si unisce ad un colorito spento delle tinte come se i colori fossero stati impastati con il gesso. La composizione si divide in due parti: la parte superiore con S. An- I vangeli canonici non dicono nulla a riguardo della vita di Maria antecedente l’Annunciazione; il Protovangelo di Giacomo, vangelo apocrifo è la prima fonte che ci narra di fatti quali la nascita di Maria, il nome dei suoi genitori (Gioacchino e Anna), la presentazione al tempio e la storia dello sposalizio con Giuseppe.“si compirono i mesi della gravidanza, nel nono mese Anna partorì e domandò alla levatrice: Che cosa ho messo al mondo? quella rispose: una femmina. Allora Anna esclamò: oggi la mia anima è stata magnificata! Pose la bimba nella culla.” na nell’alcova che si riposa dopo il parto e quella inferiore dove appare un ancella che tiene in braccio Maria, circondata da altre donne. In alto a destra viene raffigurata la nube con la gloria angelica, la quale si rispecchia, come se fosse l’esatta proiezione ortogonale, nella bocca del bacile ornato da festoni e putti alati. 30 Le figure intorno al bacile sono caratterizzate da movimenti lenti e ben cadenzati che sembrano accompagnare il gesto dell’ancella in primo piano, la quale sta per immergere Maria Bambina. Tutta questa composizione determina però una prospettiva irreale, in cui il letto di S. Anna e le figure intorno ad essa non sembrano più posate con rigore logico sul pavimento, ma sembrano un’apparizione divina come la nuvola sull’altro lato. Alla sensibilità disegnativa è affidato lo sviluppo dei panneggi e delle pieghe che sembrano nascere l’uno dall’altro, ma proprio di ogni personaggio qui raffigurato è la monumentalità del modellato di stampo michelangiolesco. Sulla parete sinistra della cappella è posizionata una tela dipinta da Bernardino Campi raffigurante la Madonna Bambino santi Paolo col e i Barbara, e Gio- vannino; a coronamento di questa tela fu aggiunta primi nei decenni del seicento una schiera di angeli adoranti dipinti da Camillo Procaccini. Sul giaciglio del bambino è posta un’iscrizione con nome dell’autore e data: BERNARDINUS CAMPUS CREMOSIA M D L X V . 31 Cappella di S. Andrea Avellino La cappella, eretta in onore del santo, rispecchia puntualmente nel programma iconografico alcune vicende della sua vita. Non esistono documenti ufficiali che attestino l’anno di intitolazione della cappella ma, probabilmente, sono successivi al 1624, data di beatificazione del santo. La pala centrale di Francesco del Cairo con lo Svenimento del Beato Andrea Avellino, databile intorno al 1632, lo raffigura dinnanzi all’altare, colpito da morte improvvisa mentre stava celebrando l’Eucaristia. Il dipinto è scandito in due zone delimitate da una linea immaginaria in diagonale: in basso a sinistra è rappresentato mentre viene soccorso da un uomo e all’opposto, in alto a destra, la gloria celeste con Dio Padre e la Vergine Maria. La figura livida del protagonista, che si accascia, percosso da una luce radente che accentua il chiaroscuro delle figure, è uno degli esiti più alti del periodo giovanile del pittore, segnato dall’influsso dell’ambito milanese in cui avvenne la sua formazione pittorica. Nei primi anni del Settecento, in onore della canonizzazione, avvenuta nel 1712, la cappella venne rinnovata; a questo evento sono da mettere in relazione le due tele laterali di Filippo Abbiati, l’architettura dell’altare e gli angeli al coronamento di quest’ultimo, attribuiti a Giuseppe Rusnati. I due quadri laterali, l’Arrivo a Milano di Andrea e l’Incoronazione di Paola Cusani Visconti, evidenziano i legami tra Carlo Borromeo e l’Avellino, mostrando l’influsso dello stile del Cerano sull’autore delle tele. 32 L’Oratorio dell’Immacolata L’Oratorio dell’Immacolata Concezione fu eretto dai Teatini a Milano nel XVII secolo e sorse su un antico cimitero già annesso all’ospedale antoniano, poi recuperato dai Teatini, decorato e usato per seppellire i benefattori. Alla metà del XVII secolo, il periodo di massima espansione dell’ordine, vengono istituite diverse confraternite, le quali testimoniano il seguito dei Teatini nei vari strati sociali. La congregazione, riservata alla nobiltà, usava riunirsi tutti i sabati per gli esercizi spirituali, per ascoltare la parola di Dio, ma anche per visitare gli ammalati del vicino Ospedale Maggiore. L’edificio, progettato da Andrea Biffi, fu costruito tra il 1683 e il 1686. L’Oratorio è un edificio a navata unica animata lateralmente da esedre, concluso da un’abside rettangolare. Una cupola si innalza sopra al presbiterio, una seconda è impostata sulla campata più ampia della navata ed è mascherata esternamente da un tiburio cilindrico. L’ingresso principale dell’Oratorio si apre sulla strada al centro della facciata, ora spoglia per via delle modifiche a cui è stata soggetta nel corso degli anni. La struttura architettonica è modulata all’interno da una diffusa luminosità dovuta alle finestre del tamburo della cupola e amplificata un tempo dall’intonacatura bianca dei muri. L’interno è scandito da una chiara e razionale ripartizione degli spazi, secondo dettami di classicismo che caratterizzavano molti edifici di Milano a causa delle prescrizioni in materia di edilizia stese da Carlo Borromeo. Dal 1686 al 1689 si continuarono i lavori di decorazione e in particolare con la costruzione dell’altare adorno delle statue di Giuseppe Rusnati. 33 Nel 1798 i Teatini, secondo il decreto napoleonico di soppressione della congregazioni religiose, vengono allontanati da Milano, l’Oratorio fu convertito ad usi civili e spogliato di ogni arredo; sono superstiti però il gruppo del Cristo morto e la statua dell’Immacolata in marmo bianco di Carrara e i due putti reggi ceri conservati nella cappella dell’Immacolata, ora all’interno della chiesa di S. Antonio Abate. Dopo il 1798 l’Oratorio fu acquistato dalla municipalità del circondario e adibito ad usi civili, fu utilizzato probabilmente come scuola nel periodo napoleonico, ospitò botteghe e fu adibito ad abitazione, il cui affitto andava alla parrocchia di S. Nazaro. Nel secondo dopoguerra divenne un’autorimessa. Negli ultimi anni è ritornato ad essere un luogo di culto, ripristinato nell’originale veste architettonica e dotato di quadri provenienti dall’attigua chiesa tra i quali la Madonna della serpe del Figino, collocata sull’altare insieme a due tele di Camillo Procaccini che raffigurano la Vocazione e la Morte di S. Antonio. Oggi l’Oratorio è sede della Compagnia di Maria Santissima Riparatrice. La Madonna della serpe, tela dipinta da Giovan Ambrogio Figino fu realizzata per la chiesa di S. Fedele a Milano tra il 1582 e il 1583; giunse nella chiesa di S. Antonio nel 1637, per donazione di Ercole Bianchi, e fu posizionata nella prima cappella di destra al di sopra della porta che immetteva all’antico cimitero (attuale Orato- G. A. Figino, La Madonna della serpe, 1582-83 rio). Successivamente fu spostata e la ritroviamo nell’abside dell’Oratorio dell’Immacolata, sul lato sinistro dell’altare. Sullo sfondo di un paesaggio campestre, caratterizzato da un albero e un fiume, vediamo un ammasso di nuvole stratiformi che insieme alle teste di quattro angeli definiscono un arco a tutto tondo al di sopra del gruppo principale. Tra le nubi filtra la luce che raggiunge il primo piano ed evidenzia, grazie a un gioco di chiaroscuri, il blocco poderoso della Vergine con il Figlio. 34 Maria si protende dall’alto e accompagna il lento movimento del Bambino che appoggia il suo piede su quello della madre, insieme sono uniti nell’atto di schiacciare il serpente sotto di loro. La coerenza compositiva del gruppo piramidale è data dall’abbraccio unificatore della madre che annette a sé tutti i volumi. In quest’opera sono evidenti i riferimenti a Michelangelo e a Raffaello per la magniloquenza volumetrica delle forme. Il gruppo è scandito plasticamente dalle gamme cromatiche del rosso acceso e del blu, alternate in toni puri. La facciata La facciata rimase incompleta Caravaggio dipinge nel 1605 la Madonna dei Palafrenieri tradizionalmente indicata come Madonna della serpe, opera che doveva essere destinata ad uno dei nuovi sette altari in S. Pietro per il riassetto voluto da Papa Borghese. Roberto Longhi aveva riconosciuto l’immediato precedente figurativo del dipinto del Caravaggio nella Madonna della serpe dipinta da Ambrogio Figino, a prova della tesi sostenuta circa l’origine lombarda della cultura artistica del pittore. per molto tempo e ricevette una adeguata sistemazione solo nel 1832, per opera dell’architetto Giacomo Tazzini . È scandita da strette e alte lesene con capitello ionico che cercano di conferire un certo slancio verticale, subito frenato da una trabeazione fortemente aggettante; più in alto, la parete muraria è alleggerita da un ampio finestrone a lunetta e coronata da un frontone ornato da sporgenti cornici. Nella parte inferiore si aprono inoltre quattro nicchie, due per lato del portale, ognuna delle quali ospita una statua, probabilmente realizzate da uno ignoto scultore romano, forse tale Guelfi. Esse rappresentano da sinistra S. Gaetano, S. Nicolao (ovvero S. Nicola) e dall’altro lato S. Antonio e S. Andrea Avellino. La facciata, nella sua grande semplicità, non riesce ad imporsi visivamente sulle costruzioni che l’affiancano, anche perché la sua muratura non emerge volumetricamente in alcun modo. La visione d’insieme risulta gravemente compromessa già all’inizio del Settecento, infatti lo spiazzo antistante la chiesa venne occupato da palazzo Greppi sorto a pochissimi metri di distanza. I Greppi, ricchi appaltatori, affidano la costruzione del palazzo di famiglia al famoso architetto neoclassico Giuseppe Piermarini nel 1776. La facciata, composta e severa, nella parte inferiore è a bugnato, mentre quella superiore è scandita da fasce e lesene; il centro focale è il portale con quattro colonne doriche che reggono il balcone soprastante. Il cortile interno è racchiuso su tutti e quattro i lati da un portico. Le sale presentano un apparato decorativo realizzato dagli artisti neoclassici Albertolli, Knoller e Appiani. 35 BIOGRAFIE PERSONAGGI STORICI SAN GAETANO DA THIENE (Vicenza, 1480-Napoli, 1547) nacque dalla nobile famiglia dei conti di Thiene e si narra che fin da bambino fosse animato da carità cristiana. Nel 1504 si laureò in diritto civile e canonico e si dedicò allo stato ecclesiastico, senza farsi ordinare sacerdote, perché non si sentiva degno. Nel 1506, Papa Giulio II lo volle a Roma come suo segretario, e presto divenne pronotario apostolico (funzionario della Curia che ha funzione di rogare gli atti più importanti). A contatto con la Curia, ebbe modo di vederne la sua miseria morale: è così che iniziò a pensare ad un’azione riformatrice dei costumi della Chiesa. Venne ordinato sacerdote nel settembre del 1516. Insieme a Gian Pietro Carafa (diventato vescovo di Chieti), Bonifacio Colli e Paolo Consiglieri, ottennero da Papa Clemente VII il permesso di fondare la “Congregazione dei Chierici Regolari” (detti poi Teatini dall’antico nome latino di Chieti, cioè Teate). Nel 1527, durante il sacco di Roma, venne torturato e imprigionato con i confratelli. Liberati da un ufficiale spagnolo, fuggirono a Venezia, dove lavorarono curando i poveri e gli ammalati. Rimasero nel Veneto fino al 1531 diffondendo l’Ordine poi, nel 1533, si spostarono nel Vicereame di Napoli, dove fondarono la prima Casa Teatina, prodigandosi nell’assistenza ai poveri. Quando le autorità civili vollero instaurare nel Vicereame il tribunale dell’Inquisizione, il popolo napoletano si ribellò, ma la repressione spagnola fu violenta. Gaetano fece di tutto per evitare il massacro e infine offrì a Dio la sua vita in cambio della pace: morì il 7 agosto 1547 e due mesi dopo la pace ritornò. Venne sepolto nella basilica di San Paolo Maggiore, beatificato nel 1629 e santificato il 12 aprile 1671. S. ANDREA AVELLINO (Castronuovo, 1521-Napoli, 1608) Ordinato sacerdote nel 1545, si trasferì a Napoli nel 1547 per frequentare la facoltà di diritto. Fu avvocato ecclesiastico, ma abbandonò la professione in seguito a una menzogna sfuggitagli durante un processo, fatto che lo turbò profondamente. Nel 1551 riformò il monastero di S. Arcangelo di Baiano, ma poiché la sua opera non fu gradita, fu ripetutamente aggredito e pure ferito gravemente; guarì miracolosamente ed entrò a far parte dei Teatini di S. Paolo Maggiore, cambiando il suo nome, Lancellotto, con quello di Andrea. Nel 1570 il Capitolo Generale della Congregazione lo nominò Vicario della Casa di S. Maria di S. Calimero a Milano, poi Carlo Borromeo lo elesse preposto di S. Antonio Abate, nuova sede dell’ordine a Milano dal 1577. Nel 1582 ritornò a Napoli dove visse fino alla morte; qui riprese la sua attività predicando, scrivendo e guidando i fedeli. Il 10 novembre del 1608, mentre si accingeva a celebrare la messa, cadde a terra ai piedi dell’altare colpito da un malore e morì la stessa sera. Fu beatificato nel 1624 e divenne santo nel 1712. Il suo corpo si venera nella chiesa di S. Paolo Maggiore a Napoli. S. Andrea è invocato come protettore contro la morte improvvisa. 36 BIOGRAFIE ARTISTI FILIPPO ABBIATI (Milano, 1640-1675) Allievo di Carlo Francesco Nuvolone, si formò specialmente sullo studio dei lombardi del primo Seicento, assimilò a fondo la lezione del Cerano e del Morazzone che cercò di interpretare in forme più sciolte; sin dalla giovinezza, fu in rapporto con la cultura figurativa di altri centri della penisola tra cui Genova e Napoli. LUCA BELTRAMI (Milano, 1854-Roma, 1933): architetto italiano e rappresentante del restauro storico, cioè di una ricostruzione dei monumenti fondata su precise documentazioni; a lui si devono i restauri di S. Maria delle Grazie e del Castello Sforzesco a Milano. GUGLIELMO CACCIA (Montabone, Asti, 1568-Moncalvo, Asti, 1625) è detto anche MONCALVO, non perché in questa città avesse avuto i natali, ma perché ne fece la sua seconda patria; la sua prima produzione fece riferimento a quella, dimessa ed edificante degli epigoni di Gaudenzio Ferrari (soprattutto i Lanino, Bernardino, ma anche Pierfrancesco e Gerolamo, con cui collabora in S. Michele di Candia Lomellina). Successivamente lavorò con lo Zuccari alla perduta galleria che collegava Palazzo Reale e Palazzo Madama a Torino, avvicinandosi così alla sua maniera; nel 1617 si trasferì per un paio di anni a Milano dove collaborò con Daniele Crespi (affreschi della cupola di S. Vittore al corpo e cappella di S. Bruno in S. Pietro in Gessate). In seguito fu attivo in diversi centri della Lombardia, del Piemonte e ovviamente a Moncalvo, proponendo i propri moduli devozionali, accordati a una cromia tenue e sfumata. FRANCESCO DEL CAIRO (S. Stefano in Brivio, Varese 1607-Milano 1665) Pittore suggestionato durante la fase giovanile dalle opere del Morazzone e del Cerano, realizzò soprattutto soggetti sacri permeati da un intenso patetismo. Fu denominato il pittore delle Erodiadi e delle Lucrezie, tragiche figure bibliche e della storia dell’antica Roma, ritratte a mezzo busto. L’attenzione all’ uso della luce e la resa dei con strati ombra/luce dimostrano che fu influenzato dalla lezione caravaggesca. Dopo l’apprendistato giovanile nel milanese si trasferì dal 1633 al 1648 alla corte sabauda di Vittorio Amedeo, salvo un viaggio a Roma, lavorò in Piemonte e in Lombardia. DIONIGI CAMPAZZO: scarse notizie, attivo a Milano e nel Milanese nella seconda metà del Cinquecento; nel 1580 eresse alcune celle nel convento di SS. Damiano e Lazzaro, dal 1590 diresse i lavori nel convento di S. Maria Maddalena; fu impegnato anche in S. Maria della Passione e in S. Carlo al Lazzaretto, oltre al rifacimento della chiesa di S. Antonio. BERNARDINO CAMPI (Reggio Emilia, 1522-1591) Pittore cremonese, fu una delle figure di maggior spicco nel campo della cultura manieristica lombarda. Nonostante il cognome, non è legato da vincoli di parentela alla famiglia dei pittori Campi. Fu allievo di Giulio Campi, ma ben 37 presto si orientò verso la cultura emiliana, specialmente toccato dall’opera di Parmigianino. Svolse una feconda attività tra Cremona e Milano, ispirandosi a C. Boccaccino di cui interpretò il prezioso decorativismo e l’aggraziata eleganza. Durante gli anni Cinquanta intervenne nel capoluogo lombardo con opere di carattere profano, ma nel frattempo andava imponendosi anche nel campo della pittura religiosa. Riscosse molto successo sia come ritrattista, sia come autore di affreschi. Negli ultimi anni della sua vita fu soprattutto attratto dal territorio mantovano, dove lavorò per i Gonzaga. CARLO CANE (Gallarate, 1615-1688): dopo essersi inizialmente dedicato a opere di piccolo formato, si volse alla pittura del Morazzone a Varallo; tra le sue opere di carattere religioso si ricordano le Storie di S. Giovanni Battista per l’abside del Duomo di Monza e alcuni episodi della Vita di Ambrogio nella Certosa di Pavia, oltre ovviamente le due tele per la chiesa di S. Antonio. Sono ricordate anche alcune sue nature morte, alla volte con strumenti musicali. GIOVANNI (Genova, 1584 -Milano, 1631) e GIOVANNI BATTISTA CARLONI (Genova, 1603Torino, 1683-1684): nati da una famiglia di decoratori trasferitasi a Genova da Rovio, nel Canton Ticino, condivisero lo stesso percorso formativo e alcuni viaggi (a Firenze e a Roma); influenzati dal tardo manierismo toscano, furono attivi soprattutto in Liguria e lavorarono spesso fianco a fianco (nella Chiesa del Gesù e all’Annunciata del Vastato a Genova); dopo la morte di Giovanni, il fratello concluse la decorazione della volta della chiesa di S. Antonio Abate, per poi proseguire la carriera nella città natale, collaborando col figlio Niccolò (Chiesa di S. Siro), e tornando anche in Lombardia (Certosa di Pavia). LUDOVICO CARRACCI (Bologna, 1555-1619) È il più anziano esponente della famiglia dei Carracci, cugino di Annibale. Ludovico ebbe un ruolo fondamentale nella formazione dell’Accademia dei Carracci, sia per quanto riguarda il programma di superamento delle norme manieristiche sia per lo sforzo di rinnovamento della pittura religiosa secondo gli orientamenti postconciliari, che richiedevano all’arte di svolgere un compito moralizzante. A parte un breve soggiorno romano nel 1602, la sua attività si svolse in patria e nell’area emiliana, dove fece scuola a una schiera di allievi. La sua vena patetica e commossa è riscontrabile nelle opere dell’ultimo periodo (affreschi con Annunciazione nel Duomo di Bologna 1618-1619). ANTONIO CASSI-RAMELLI (Milano, 1905-1980) architetto italiano. Laureato in Architettura nel 1927. Ordinario di composizione architettonica al Politecnico di Milano. Svolse numerose attività nel campo delle costruzioni industriali e dell’arredamento costruendo case, palazzi per uffici (Snia-Viscosa, Assicurazioni Generali, Alfa Romeo, Alemagna); ristrutturando e ricostruendo edifici monumentali distrutti dalla seconda Guerra Mondiale (Palazzo Spinola, Chiostro di S. Antonio). Ha curato arredamenti di grandi negozi ed esposizioni; ha costruito chiese (Parrocchiale di Milanino e S. Anna a Milano), stabilimenti industriali, cinema, alberghi (Sirmione, Cervinia) e teatri (Il Lirico di Milano). 38 GIOVAN BATTISTA CRESPI detto il CERANO (Cerano, Novara 1573-Milano,1632) Pittore, scultore e architetto la cui formazione risente sia dell’educazione lombarda che della conoscenza della pittura bolognese (L. Carracci), romana ( Raffaello, F. Barocci), e dei manieristi nordici. Diventa famoso soprattutto durante l’episcopato di Federico Borromeo (1595-1631), ponendosi come uno dei maggiori interpreti del suo programma religioso e culturale legato alla Controriforma. Tra le varie opere si ricordano i quadroni a tempera dipinti per la beatificazione di S. Carlo (1602) e per la sua canonizzazione (1610), conservati in Duomo. Nel 1621 dirige la scuola di pittura dell’Accademia Ambrosiana. JACOPINO DA TRADATE (Milano, notizie dal 1401-Mantova, 1440): scultore italiano, attivo tra il 1401 e il 1425 in posizione di assoluta preminenza nella fabbrica del Duomo di Milano, di sicura attribuzione si conosce la statua di Papa Martino V (1421); le sue figure si distinguono per le fisionomie caratteristiche e per i panneggi dalle cadenze complicatissime, tipicamente gotiche. FANTONI famiglia di scultori e intagliatori operanti tra i secoli XV e XIX, soprattutto in Val Seriana e nel Bergamasco. GIOVANNI AMBROGIO FIGINO (Milano, 1553-1608) Discepolo del Lomazzo, nell’ambiente del capoluogo lombardo acquisì i primi insegnamenti attraverso la conoscenza dei manieristi del luogo, ma ancor di più attraverso le reminiscenze della cultura leonardesca. Intorno agli anni 1580-1582 fece un viaggio a Roma dove copiò opere di Michelangelo, Raffaello e sculture antiche. L’impostazione michelangiolesca che trae da questo viaggio lo accompagnerà in tutte le opere del periodo successivo. Negli ultimi decenni del Cinquecento si afferma a Milano in vari campi della cultura figurativa, dalla ritrattistica ad opere di tema sacro ottenendo lodi di letterati e scrittori del tempo. LORENZO GARBIERI (Bologna, 1580-1654) Pittore che svolse il suo apprendistato presso la bottega di Ludovico Carracci, di cui prese il fare drammatico e con il quale lavorò diversi anni per le chiese bolognesi (più volte i quadri di Lorenzo sono stati attribuiti a Ludovico). A partire soprattutto dal secondo decennio del ‘600, al fare del maestro si aggiunse anche l’influenza caravaggesca: venne infatti a contatto con artisti al seguito del Merisi, ed ebbe modo di vedere la sua Incredulità di San Tommaso a Bologna. Lavorò in diverse città tra cui Milano, Modena e Mantova, ma poi la sua produzione, dopo un ricco matrimonio e per problemi di salute, subì una decelerazione notevole, finché morì cieco nel 1654. FEDE GALIZIA (Milano o Trento, 1578-Milano, 1630): pittrice italiana, figlia di un miniatore di Trento, trasferito da tempo a Milano. La sua fama fu legata inizialmente a ritratti e dipinti da 39 stanza, in parte anche copie da artisti precedenti, ma dipinse anche pale d’altare e precocissime (1602) nature morte (New York, Collezione Sperling; Bergamo, Collezione Previtali). La sua pala raffigurante il Noli me tangere (in S. Stefano a Milano) rappresenta bene la sua ispirazione emiliana, basata su una lettura del Correggio filtrata dai pittori bolognesi del tardo Cinquecento. Influssi bolognesi le giungono anche grazie a un’altra pittrice, Lavinia Fontana. ALESSANDRO MAGANZA (Vicenza, 1556-1630/40 ca.) Figlio dell’altrettanto famoso pittore Giambattista. Operò attivamente nelle chiese del territorio vicentino insieme ai suoi figli, che morirono prematuramente a causa della peste, circostanza che lo segnò profondamente. Numerosi suoi dipinti si trovano nelle chiese di Brescia, Mantova e di altre città vicine. Il suo stile guarda a Palma il Giovane e al Veronese, ed è caratterizzato da un tessuto cromatico cupo, drammatico, in linea con la sensibilità controriformista della sua formazione. PIER FRANCESCO MAZZUCCHELLI detto il MORAZZONE (Morazzone, Varese, 1573Piacenza, 1626) durante un giovanile soggiorno romano entrò in contatto con gli ambienti artistici influenzati dai Barocci e da Federico Zuccari. Rientrato in patria nel 1598 svolse un’intensa attività nella provincia lombarda, partecipando a più riprese alla decorazione dei Sacri Monti di Varallo, di Varese. Dall’enfasi delle opere giovanili, memori dell’esperienza romana, il suo stile, in accordo con le prescrizioni di Carlo Borromeo, volse a un’interpretazione emozionale delle immagini religiose, sovente toccate da un contenuto patetismo. JACOPO NEGRELLI detto PALMA IL GIOVANE (Venezia, 1548-1628) Pittore pronipote di Palma il Vecchio. Si formò a contatto con ambienti veneziani, poi con la conoscenza dei pittori di Urbino (soprattutto Raffello) essendosi trasferito nella città umbra dal 1564 per prestare servizio presso Guidobaldo della Rovere, che gli chiese di eseguire copie da Tiziano e Raffaello. Venne successivamente inviato a Roma, dove risedette dal 1567 al 1574 circa, frequentando l’ambiente dei manieristi romani. Tornato a Venezia rimase influenzato soprattutto dal Tintoretto. Lo stile più maturo unisce gli influssi formali romani al luminismo veneto. Il catalogo delle sue opere è amplissimo (addirittura circa 600). DOMENICO PELLEGRINI (Milano, 1580 ca.-post 1625): artista noto soprattutto nell’ambito dei lavori in onore di S. Carlo commissionati dal Duomo di Milano e dal cardinale Federico Borromeo; probabilmente ottenne questa commissione in virtù della parentela di suo padre con Pellegrino Tibaldi. In occasione della beatificazione di S. Carlo (1603), Domenico realizzò il quadrone con il Trasporto delle reliquie, uno dei meno apprezzati dell’intero ciclo; i pochi frammenti superstiti degli affreschi del chiostro di S. Marco a Milano mostrano però una maggiore vivacità. L’artista fu segnalato l’ultima volta nei registri di pagamento del Duomo nel 1625. CAMILLO PROCACCINI (Bologna, 1555 circa-1629): figlio del pittore Ercole il Vecchio, si formò principalmente a Bologna dove risiedeva la famiglia; in quella città erano già presenti le innovazioni naturalistiche ed accademizzanti dei fratelli Carracci. Intorno al 1585 avvenne il contatto con Pirro Visconti Borromeo che portò il Procaccini a Milano per decorare il ninfeo 40 della Villa Visconti di Lainate. Nel 1595, dopo essersi stabilito nella città dei Borromeo, iniziò la realizzazione delle quattro ante d’organo del Duomo mentre al 1602 risalgono i dipinti nella sagrestia e nella cappella di san Gregorio in San Vittore al Corpo. Tra il 1615 ed il 1617 realizzò la Disputa dei Santi Ambrogio e Agostino in San Marco mentre la sua ultima opera può essere considerata l’Adorazione dei Magi nella Parrocchiale di Biumo Inferiore a Varese del 1629. GIULIO CESARE PROCACCINI (Bologna, 1574-Milano, 1625)Membro di una famiglia di pittori di origine bolognese che dal 1585 si trasferì a Milano. Figlio di Ercole il Vecchio e fratello di Camillo. Iniziò la sua attività come scultore (è documentato per esempio nel Cantiere del Duomo), per poi dedicarsi alla pittura a partire dai primi anni del ‘600, forse grazie anche ad alcuni viaggi che compì in quegli anni nei maggiori centri italiani come Roma, Venezia e soprattutto Parma, dove rimase fortemente influenzato dalla grazia delle opere del Correggio e del Parmigianino. Le suggestioni derivate da Rubens furono invece dovute ai numerosi contatti con committenze genovesi. Le sue opere si caratterizzano per la grazia espressiva, la raffinata eleganza delle figure e l’equilibrio cromatico, con cui abbandona un primo stile più aspro; la qualità della sua produzione ne fa il protagonista sulla scena della Milano borromaica, insieme all’amico Cerano, e uno dei maggiori artisti lombardi della prima metà del secolo. Le prime opere pittoriche sono svolte in Santa Maria presso S. Celso (decorazione della Cappella della Pietà del 1604 e Martirio dei SS. Nazzaro e Celso, 1606); famose sono poi le sei tele coi Miracoli di S. Carlo che realizza per il Duomo nel 1610.L’ultima produzione, dopo il 1620, sembra invece perdere l’eleganza atmosferica per farsi più scultorea e manieristica. SEBASTIANO RICCI (Belluno, 1659-Venezia, 1734): si formò a Venezia, Bologna e Parma, dove rimase influenzato dalle opere dei Carracci e di Correggio. A Roma studiò la grande decorazione barocca di Piero da Cortona e del Baciccio, poi dal 1694 lavorò in Lombardia dove la struttura compositiva delle sue opere si fece sempre più complessa e ardita. Verso la fine del ‘600, tornato nel Veneto, mutò ancora la sua pittura verso gli schemi compositivi e l’intonazione cromatica chiara e luminosa del Veronese, con composizioni sempre più sciolte e vivaci. FRANCESCO MARIA RICHINI o Richino (Milano, 1584-1658): architetto italiano, fu impegnato a Milano al servizio della curia e delle autorità spagnole; divenne, inoltre, capomastro del Duomo e si occupò sia di edilizia religiosa che civile. Le sue opere furono fra le più significative del Seicento milanese: si possono ricordare, ad esempio la chiesa di S. Giuseppe, il palazzo di Brera e il Collegio Elvetico. 41 GIUSEPPE RUSNATI (Gallarate, Varese 1650-Milano, 1713) Rusnati fu scultore e architetto. Si formò nel cantiere del Duomo milanese e fu allievo del Bussola. Dopo aver studiato a Roma la tematica barocca presso il Ferrata rientrò a Milano nel 1675. Personalità chiave nell’ambito della scultura lombarda, anello di congiunzione tra il ‘600 e il ‘700. Le sue composizioni sono permeate dalla grazia e si caratterizzano per una resa morbida e pittorica del modellato. ENEA SALMEGGIA (Bergamo, 1565 ca.-1626): eseguì le sue prime opere dal 1590 per Bergamo e dintorni rivelando una sorta di matrice puristica, maturata su esempi bergamascobresciani, soprattutto del Lotto, del Moretto, del Moroni e anche dei Bassano. La sua attività milanese ebbe inizio nel 1596 con l’Annunciazione per la Certosa di Garegnano; seguirono lavori per il Duomo tra il 1598 e il 1601 (Sposalizio della Vergine), per S. Maria della Passione nel 1609 (Flagellazione di Cristo e Orazione nell’orto) e dieci anni più tardi per S. Simpliciano (Miracolo di S. Benedetto). La volontà di recupero del classicismo luinesco caratterizzò il suo stile maturo e si fuse con gli intenti didascalici sollecitati da Federico Borromeo. GIACOMO TAZZINI (Milano, 1785?-1861): architetto di corte e consigliere ispettore dell’Accademia di Brera a Milano; sempre in questa città diresse la costruzione della parte posteriore di Villa Reale e il rinnovamento della cappella Borromeo in S. Maria in Podone (1827 circa). GIOVAN BATTISTA TROTTI detto il MALOSSO (Cremona, 1556-Parma, 1619) Scolaro, genero ed erede di Bernardino Campi, dipinse a Cremona numerose tele: Martirio di Santo Stefano, Sant’Agata; Decollazione del Battista, (1592) Museo Civico; Adorazione del nome di Cristo, (1583) San Pietro al Po) e vi realizzò gli affreschi del coro di Sant’Abbondio (1594). Nel 1604 decorò il Palazzo del Giardino per Ranuccio Farnese e provvide ad apparati per feste e ricevimenti. ALESSANDRO VAIANI (nato intorno al 1570) Ad attestare le origini di questo pittore resta solo il soprannome di “Fiorentino” con cui le fonti lo ricordano. L’iter di formazione prese il via a Genova, dove fu attivo presso Giovan Carlo Doria, probabilmente a seguito degli interessi del suo committente passò a Milano nel 1610; in questo contesto realizzò il dipinto raffigurante Il miracolo di suor Angelica Mandriani e le tele per S. Antonio Abate. Successivamente lavorò come frescante per il palazzo Ducale di Milano nel 1617; dopo questa data le fonti non registrano più informazioni in ambito milanese. Nel 1628 fu attivo nell’Urbe per affrescare la cappella di S. Filippo presso la chiesa di S. Maria in Via. A Roma godette della stima di Francesco Barberini che, nel 1631, gli commissionò alcune opere. 42 BIBLIOGRAFIA J. DA VARAGINE, Legenda Aurea; [trad. dal latino, C. LISI, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1952]. A. SANTAGOSTINO, L’ immortalità e la gloria del pennello: catalogo delle pitture insigni che stanno esposte al pubblico nelle città di Milano, F. Agnelli, Milano, 1671; [Nuova ed. a cura di M. BONA CASTELLOTTI, Il Profilo, Milano, 1980]. C. TORRE, Il ritratto di Milano, Milano, 1714; [ristampa, A. Forni-G. Urso, Bologna, 1972]. C. BIANCONI, Nuova guida di Milano per gli amanti delle belle arti, stamperia Sirtori, Milano, 1787; [ristampa, Monte di credito-Banca del Monte di Milano, Milano, 1979]. 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