0 4 ANDREA GIARDINA NERONE O DELL`IMPOSSIBILE

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ANDREA GIARDINA
N E RO N E O D E L L’ I M P O S S I B I L E
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Se Nerone fosse morto nei primissimi anni del suo regno, come accadde in sorte a Tito, forse non
sarebbe stato ritenuto degno dell’appellativo di “amore e delizia del genere umano”, ma certamente
lo ricorderemmo con epiteti favorevoli, molto lontani da quello, spietato, attribuitogli dal
contemporaneo Plinio il Vecchio: “veleno del mondo” (Storia Naturale, 22, 92). A proposito di
Tito, un autore antico ebbe la brillante spregiudicatezza di affermare che quella morte imprevista
gli era giunta propizia, giacché non era affatto certo che, proseguendo nella vita e nel potere,
quell’imperatore avrebbe evitato eccessi e crudeltà (Cassio Dione, 66, pp. 296 s. Cary). D’altronde,
alcune inclinazioni del suo carattere accreditavano l’opinione, diffusa anche a livello popolare, che
egli fosse, già prima di essere nominato imperatore, un secondo Nerone (Svetonio, Tito, 7). Gli
esordi di un principe erano in effetti cronicamente ambigui: potevano accedere al trono dei
ragazzi, dei semi-sconosciuti o degli uomini illustri con antenati prestigiosi e un bel curriculum,
ma quel singolare miscuglio di solitudine, onnipotenza, competizione e fragilità, che caratterizzava
a Roma il sommo potere rendeva comunque imprevedibile il futuro.
Se Nerone avesse avuto l’opportunità di morire presto, oggi ne parleremmo come di un giovane
abbastanza normale, coinvolto da adulti spregiudicati nella necessaria uccisione del fratellastro
Britannico, sentimentale al punto da perdere la testa per una liberta di nome Atte, sempre
inquieto a causa della tensione tra i doveri pubblici e la ricerca di uno spazio personale da dedicare
all’arte e alla poesia. Un giovane probabilmente destinato a diventare un buon imperatore. Ma
quale perdita per la storia! Quante emozioni non provate dai posteri, quali percorsi diversi per
l’arte e per l’architettura, quante musiche, tragedie e romanzi non scritti, quanti quadri non
dipinti, quanti film non girati...
La storia al condizionale può essere un esercizio utile e persino nobile, ma ha il difetto di crescere
su se stessa e di moltiplicare le ipotesi. È sempre opportuno fermarsi al momento giusto, per
evitare un estenuante avvitamento del discorso. Ma prima di passare alla storia “autentica” –
aggettivo in verità molto discutibile, soprattutto quando si parla di Nerone – è necessaria una
precisazione. Qualcuno potrebbe infatti chiedersi se i profitti culturali ed emotivi che la posterità
ha ottenuto dal fatto che Nerone non abbia regnato cinque anni ma quattordici, si pongano o
meno in un accettabile equilibrio con i danni morali e materiali eventualmente inferti al mondo
romano dalla fase ‘dispotica’ del suo governo. Porre questa domanda coincide con una distinta
valutazione politica delle due fasi – il quinquennio, i nove anni successivi – che caratterizzano il
principato neroniano. Sembra comunque da escludersi l’ipotesi che quei nove anni abbiano
introdotto nel sistema istituzionale e nella vita politica e civile romana dei virus stabili e tenaci,
destinati a spingere il futuro dell’impero verso orizzonti peggiori.
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Nei corsi tenuti a Berlino tra il 1882 e il 1883, Theodor Mommsen ripeteva ai suoi allievi che mai
Roma, nell’intero arco della sua storia, ebbe fortuna migliore che essere affidata alle cure di
Seneca, il maestro di Nerone: “Seneca non ebbe un forte carattere, ma Roma non fu mai così ben
governata come quando fu sotto di lui. Traiano lo riconobbe. I primi cinque anni del regno di
Nerone furono per Roma l’età dell’oro” (Mommsen 1992, pp. 193 s.; il giudizio di Traiano si trova
in Aurelio Vittore, 5, 2, ma in un contesto alquanto confuso). Quando uno studioso tanto grande
proferisce una simile esagerazione – anche se non priva di riscontri nelle fonti antiche – possiamo
essere certi di trovarci in presenza di una forte deriva ideologica. Quale fosse la natura di
quest’ultima è facile intuire: le aspirazioni dell’intellettuale borghese, soprattutto se, come
Mommsen, non privo di vocazione politica, si riflettono anche sul lontano passato e ne ricavano
un modello, o meglio un canone, valido per ogni tempo e per ogni paese. La stessa evidente
contraddizione del giudizio mommseniano (come potesse mai un “carattere non forte” assicurare
un’epoca di splendore a un impero immenso e complicato come quello romano) si risolve appunto
nell’esaltazione del ruolo dell’intellettuale al potere: la cultura, se le viene offerta la possibilità di
governare, può riuscirci magnificamente, anche se chi è al vertice non ha una tempra energica.
Il problema del cosiddetto “quinquennio di Nerone”, il periodo di cinque anni in cui Nerone
governò appunto sotto la guida di Seneca (e, possiamo aggiungere, del prefetto al pretorio Burro,
cui Tacito attribuisce un’influenza riguardante soprattutto l’istruzione militare e la severità dei
costumi: Annali, 13, 2), – periodizza comunque la vicenda del nostro personaggio sotto un duplice
profilo, politico e psicologico. Politico, perché lo stile di governo di questo periodo ha poco in
comune con quello dei nove anni seguenti, che si conclusero con il suicidio del principe.
Psicologico, perché questo cambiamento, secondo una tradizione che si protrae ininterrotta
dall’antichità ai giorni nostri, viene molto spesso interpretato in chiave di degenerazione psicotica,
al punto da dissolvere la dimensione politica in quella cerebrale. Questa è infatti la prima e
fondamentale conseguenza del tema – terribile e affascinante – della “mostruosità” di Nerone.
L’indagine sull’effettivo ruolo politico di Seneca durante il quinquennio ha segnato il trionfo del
metodo indiziario: la materia è stata sottoposta a indagini minuziose e ha suscitato castelli di
ipotesi, forzature e un accanimento interpretativo sui silenzi (molti) e sulle informazioni (poche)
delle fonti. Un’analisi equilibrata e priva di pregiudizi positivi a favore del filosofo porta tuttavia a
un’inevitabile conclusione: il ruolo di Seneca si palesa nei discorsi e nei comportamenti pubblici
del giovane principe, ma non è possibile ricondurre a lui alcun concreto progetto di governo,
alcuna idea di riforma, alcuna proposta indirizzata al senato (Griffin 1976, p. 128).
Il ‘manifesto ideologico’ del nuovo regime è comunemente individuato nel De clementia, scritto da
Seneca tra la fine del 55 e i primi mesi del 56. Ridotto all’essenziale, il messaggio contenuto in
quest’opera colloca il principe in solitudine davanti a ciascun suddito, senza alcuna mediazione
(Gabba 1991, p. 261). Il dramma della colpa, della pena e del perdono esclude gli intermediari e
presuppone che i due protagonisti – il principe, il suddito che ha errato – si trovino virtualmente
uno di fronte all’altro. Il regime monarchico è dato ormai per acquisito e qualsiasi nostalgia
repubblicana è assente. L’immagine della monarchia che il filosofo offre al suo allievo, tuttavia, è
quella di un sistema cronicamente in bilico, a causa di un’immanente deviazione morale. Poiché la
distinzione formale tra monarchia e tirannide è impossibile, ciò che le rende diverse è unicamente
l’etica, affidata all’alternativa tra clementia e crudelitas. Per il sovrano, l’inclinazione alla crudeltà
coincide con uno slittamento verso la tirannide e, di conseguenza, verso una probabile catastrofe,
poiché la crudeltà suscita le rivolte. La pratica della clemenza rafforza invece il potere, perché i
sudditi che ne beneficiano, e coloro che, senza essere direttamente coinvolti, assistono alla
rappresentazione del principe che esercita questa virtù, sono inevitabilmente catturati da un
sentimento di amore nei suoi confronti. Inoltre, coloro che ricevono la clemenza sono spesso spinti
a non ripetere il crimine. La clemenza del principe è dunque un potente diffusore di sicurezza
sociale.
Seneca pensa a relazioni nettamente asimmetriche e non considera il fatto che la clemenza, se
elargita ai ceti alti, poteva risultare non già ammirevole, ma detestabile, poiché in un rapporto
concepito come tra pari (il principe romano era ancora considerato appunto come una sorta di
primus inter pares) essa metteva a nudo un detestabile nucleo di sudditanza. Questo insegnava
l’esemplare e rovinosa vicenda della clementia di Cesare, della quale già Montesquieu colse il
risvolto offensivo (Meier 2004, pp. 380 s.).
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Il filosofo propose invece un modello di governo da lui inteso come valido in assoluto e per tutti,
nei tempi presenti come in quelli futuri, e vide, nell’auspicata ascesa della clemenza ai vertici del
potere, incarnata da Nerone, l’apertura di una prospettiva epocale.
Le carenze progettuali di Seneca sono attribuite ora ai suoi limiti di pensatore politico, ora alle
caratteristiche fondamentali della cultura antica. Ma Seneca presentava il suo modello di principe
clemente come una novità assoluta, collimante con la scoperta di un principio naturale: l’uomo,
infatti, è clemente per natura, e di tutte le virtù nessuna è più umana della clemenza. Comune a
tutti gli uomini, la clemenza si adattava in sommo grado agli imperatores, offrendo loro
l’opportunità di avvicinarsi agli dei.
Che Seneca ne fosse consapevole o meno, questa visione aveva il grave difetto di un profondo
pessimismo. Anche se apriva il miraggio di un secolo felice, essa prendeva forma esclusivamente
entro lo schema della colpa e della punizione e considerava il merito come attenuante della pena.
La felicità del saeculum a venire era quindi incupita dalla condizione umana: gli uomini non
avrebbero mai smesso di peccare e i re di punire. Le effettive possibilità di durata della monarchia
clemente erano inoltre affidate a un fattore imponderabile come la deliberata assunzione di quella
virtù da parte di ciascun sovrano futuro. Splendido tema per uno stoico pessimista, la clemenza
era del tutto inadeguata se proposta come criterio ispiratore per il governo di un grandissimo
impero.
L’insegnamento di Seneca si manifestava nei discorsi pubblici di Nerone, tutti ispirati a criteri di
moderazione e tutti scritti dal filosofo stesso. Il giovane principe dichiarò di voler evitare
l’ingiustizia e gli eccessi dei processi politici esaminati a porte chiuse, di non essere disposto a
tollerare la corruzione dei governatori di provincia e gli intrighi di palazzo, di voler esaltare le
prerogative e l’autorità del senato. In taluni casi, alle dichiarazioni di principio seguirono azioni
coerenti (cfr. per esempio Tacito, Annali, 13, 5, 1: “Mantenne la parola, e molti furono i
provvedimenti presi per volontà del senato…”). Ma almeno in una circostanza il principe mostrò
un eccesso di entusiasmo che andò ben oltre i consigli del suo precettore: questo accadde nel 58,
quando egli manifestò il proposito di abolire le tasse indirette in tutto l’impero, un provvedimento
che avrebbe causato un’autentica catastrofe finanziaria e provocato un dissidio insanabile con
l’ordine equestre, e che fu garbatamente respinto dagli adulti che gli erano prossimi e dal senato.
Cose del genere capitano talvolta ai giovani che interpretano con eccessivo entusiasmo la lezione
dei loro amati maestri: “Nerone, come tutti i ventenni che sanno di avere un grande maestro, era
un consequenziario – era più senecano di Seneca” (Mazzarino 1973, p. 219).
Ma che la vita di palazzo mal si conciliasse con la clemenza e fosse sempre condizionata, se non
sopraffatta, da costrizioni ambientali, fu manifesto quando morì Britannico, fratellastro di Nerone,
figlio naturale del defunto imperatore Claudio e antagonista oggettivo del nuovo principe. Che si
trattasse di avvelenamento fu chiaro a tutti, e che Nerone fosse responsabile del delitto, insieme
con Seneca e con Burro (difficile valutare il ruolo effettivo di ciascuno), fu opinione di molti
contemporanei, ritenuta attendibile da numerosi studiosi moderni. Per evitare che nella
valutazione di un episodio come questo – e degli altri ancora più gravi che sarebbero seguiti
qualche anno dopo – prevalgano giudizi attualizzanti, è opportuno non dimenticare che le banali
regole della morale non valgono per le famiglie dei sovrani. Lo ricorda in modo perfetto Plutarco,
quando, riguardo al comportamento dei regnanti, qualifica il fratricidio come un postulato
geometrico: “quanto all’assassinio dei fratelli, vi si pensava allo stesso modo degli studiosi di
geometria, che partono dai postulati: appunto un tipo di postulato (àitema) ritenuto comune ai re
e a loro pertinente, al fine di tutelarsi” (Plutarco, Demetrio, 3).
Nel caso della Roma imperiale, il problema era accentuato dal fatto che non esistevano norme,
oggi diremmo “costituzionali”, volte a disciplinare la successione al sommo potere. I modi
attraverso i quali si diventava imperatore rivelano alcune costanti ma il nodo profondo del potere
non era fatto di lacci e regole legali, ma di rapporti di forza (Flaig 1992; Veyne 2007, cap. 1).
Il connubio tra fratricidio e monarchia si presta bene al confronto storico. Gli esempi da scegliere
sarebbero infiniti, ma nessuno – per chi voglia rendere concreto il postulato geometrico formulato
da Plutarco – è più convincente di quanto accadde ai tempi del grande Mehmed II, il
conquistatore di Costantinopoli. Il potere degli imperatori romani – com’è stato osservato – ha
molti punti in comune con quello dei sultani ottomani. Anche qui le regole della successione erano
incerte, anche qui a ogni cambiamento di regno c’era un rischio di guerra civile, anche qui il
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fratricidio era una necessità. Inoltre la moltiplicazione dei fratelli, causata dall’istituto dell’harem,
rendeva il problema ancora più grave. Fu così che Mehmed II, in mancanza di una norma sulla
primogenitura, decise d’introdurre la cosiddetta legge del fratricidio, secondo la quale quando un
sultano saliva al trono tutti i suoi fratelli dovevano essere giustiziati (ma l’eliminazione fisica era
spesso estesa ad altri consanguinei). Quando, nel 1595, Mehmed III prese il sommo potere, il
popolo di Istanbul si commosse nel vedere sfilare l’interminabile corteo funebre che accompagnava
i cadaveri di diciannove principi.
Anche se legalizzata, quest’usanza doveva apparire terribile e scuotere le coscienze. E così il
successore di Mehmed III, Ahmed I, l’abolì. Dopo la sua ascesa al trono, nel 1603, i principi
ottomani non furono più uccisi, però furono rinchiusi a vita in uno spazio recondito del palazzo, la
cosiddetta “gabbia” (kafes). Una sorte comunque miserabile, perché questi individui trascinavano
la propria esistenza sospesi, intrattenuti da concubine sterili, in attesa di essere un giorno, forse,
tirati fuori dalla gabbia e portati al trono. Ai fini del buongoverno, questa soluzione, in apparenza
più umana, fu peggiore della precedente. Dobbiamo infatti distinguere – e non importa se
parliamo d’impero romano o di sultanato ottomano – i due livelli: quello umanitario e quello
politico. Non sempre essi coincidono. Quando erano tirati fuori dalla loro prigionia per salire al
trono, molti di questi individui erano già istupiditi o impazziti, e governavano come tali (Goodwin
2009, pp. 65, 172 s.).
La svolta radicale nella vita di Nerone avvenne in coincidenza con l’esplosione di due fortissimi
sentimenti. L’amore, osteggiato dalla madre, per Poppea Sabina, una donna bella e disinibita, dai
capelli color dell’ambra, e l’odio misto a paura nei confronti della madre Giulia Agrippina.
Agrippina era una donna di altissimo lignaggio, perché discendeva da Augusto, la cui unica figlia,
Giulia, era sua nonna materna. Fin da piccola, Agrippina aveva imparato a nuotare nel mare
insidioso della vita di palazzo. Quando nel 54 l’imperatore Claudio morì, quasi certamente
avvelenato, e Nerone salì al trono, Agrippina visse uno straordinario trionfo personale: aveva
subìto umiliazioni e scansato pericoli mortali, ma ora poteva dirsi pronipote di un imperatore
(Augusto), sorella di un imperatore (Caligola), moglie di un imperatore (Claudio), madre di un
imperatore (Nerone). Soffocato tra la personalità della madre, la quale agiva apertamente da
‘imperatrice’ e quella del maestro Seneca, che agognava far regnare la filosofia stoica, Nerone si
ribellò e cominciò a comandare a modo suo.
Nel 59 ha inizio la carriera criminale del giovane sovrano. È impossibile ripercorrere per intero la
lunga catena dei delitti che, a torto o a ragione, gli sono stati attribuiti. È opportuno rilevare,
tuttavia, che nel caso di Nerone gli studiosi sono stati alquanto inclini a largheggiare: a
incoraggiarli è quella che in un moderno tribunale si chiamerebbe la personalità dell’imputato.
Secondo una fonte antica, il buon imperatore Adriano avrebbe fatto uccidere per invidia il sommo
architetto Apollodoro di Damasco (Cassio Dione, 69, 4; Galimberti 2006, pp. 177-180). Spesso la
notizia non è presa sul serio, ma se un delitto del genere fosse attribuito a Nerone possiamo essere
certi che troverebbe folle di storici disposti a ritenerla veritiera. Lo stesso può dirsi di Costantino:
uccise il figlio e la moglie, ma questo non impedisce che una parte della cristianità lo veneri come
un santo. Gli esempi potrebbero accumularsi.
Tra i misfatti sicuramente compiuti da Nerone possiamo annoverare l’uccisione della madre,
avvenuta nel 59, secondo alcuni motivata da un comprensibile istinto di sopravvivenza, fisica e
mentale. Tre anni dopo fu la volta della prima moglie Ottavia, una fanciulla devota e dai costumi
irreprensibili, che Nerone detestava perché non l’amava e gli era stata imposta come sposa quando
era ancora un ragazzo. Nerone la fece sopprimere per amore di Poppea, ma nel 65, in un momento
di rabbia, ucciderà anche quest’ultima mentre era incinta. Fu un omicidio preterintenzionale,
avvenuto a causa di un calcio al ventre, ma poiché Nerone amava Poppea, la fece divinizzare.
Alcuni cavalieri e senatori furono incriminati ed eliminati con false accuse, spesso per
impadronirsi dei loro patrimoni. Particolarmente sanguinaria fu la repressione scatenata nel 65
quando fu scoperta la cosiddetta congiura pisoniana, dal nome del nobile Gaio Calpurnio Pisone,
che i congiurati avevano prescelto come successore di Nerone. Tra le molte vittime illustri compare
il nome di Seneca, che aveva da qualche tempo abbandonato il suo ruolo di consigliere del
principe illudendosi che fosse possibile, per chi aveva avuto tanto potere, ritirarsi a vita privata.
L’anno dopo l’ordine di suicidarsi raggiunse Gneo Domizio Corbulone, uno dei più grandi generali
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della storia antica, artefice ed esecutore della geniale strategia partica che aveva segnato un
indiscutibile successo della politica esterna di Nerone. L’incendio che nel luglio del 64 distrusse
gran parte di Roma (cfr. cap. 00) fu l’occasione che avviò la prima persecuzione contro i cristiani,
sacrificati con l’intento di allontanare dalla persona del principe la falsa accusa di aver incendiato
la capitale per dare sfogo alle sue manie di urbanista. Traiano eliminò certamente un numero ben
più elevato di cristiani. Ma Nerone fu il primo tra i persecutori ed ebbe la sfortuna che tra le
vittime si trovassero i santi Pietro e Paolo. A differenza di Nerone, Traiano, pur pagano e
persecutore, fu giudicato da Dante, per la sua misericordia, degno del paradiso (Paradiso, 20, vv.
43-48; 100-117; la tradizione risale all’alto Medioevo ed è connessa con la figura di san Gregorio
Magno). In conseguenza di questa persecuzione, l’ostilità politica rappresentata dalla storiografia
pagana, dominata dall’opinione del senato, andò ad aggiungersi alla tradizione cristiana,
costruendo nei secoli il mito del mostro Nerone.
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Seneca aveva pensato che Nerone potesse assumere uno statuto quasi divino per mezzo della
clemenza. Nerone tentò di riuscirci attraverso la poesia e l’arte. Non si trattava soltanto di ideare,
commissionare o acquisire capolavori, ma di plasmare se stesso come un oggetto artistico: un
principe/opera d’arte, potremmo dire.
Sempre dopo il quinquennio, ebbe infatti inizio la carriera radiosa di Nerone musicista, attore e
auriga (i combattimenti dei gladiatori non furono mai la sua vera passione). In precedenza non
pochi senatori e cavalieri si erano esibiti in pubblico, nei ruoli e nei generi più diversi, ma Nerone
era l’imperatore e si dedicava a queste attività con un impegno fuori del comune, da vero
professionista.
Nerone si presentava al popolo come un nuovo Apollo, il dio che suonava la cetra, sceso in terra
per diffondere tra gli uomini belle parole, ritmi perfetti, suoni melodiosi. Il principe, che si ispirava
al mondo greco, dove l’espressione artistica era strettamente legata alla competizione, si
appassionò alle gare: “Si stenta a credere – afferma Svetonio – con quale trepidazione e ansia
gareggiasse, con quale emulazione nei confronti dei rivali e con quale timore dei giudici” (Nerone,
23). Anche senza aver letto Homo ludens di Huizinga, il principe sapeva che non può esserci vero
‘gioco’ se i giocatori sono straniati e ostentano scarso rispetto per le regole. Egli si preparava
dunque per le esibizioni con cura maniacale, addestrando le mani e la voce, sottoponendosi a
diete, rafforzando il plesso toracico. Durante il celebre viaggio in Grecia del 67, che lasciò un
ricordo positivo e indelebile tra le popolazioni locali, il principe partecipò a un numero enorme di
gare, riportando sempre la vittoria.
Questa vocazione di Nerone suscitò reazioni diverse in ambienti sociali e spazi diversi. Gli assicurò
il favore delle masse della Grecia e dell’Oriente greco che ebbero modo di vederlo o alle quali
giunse voce delle esibizioni di quel principe inebriato dalla cultura locale e interprete del suo
spirito agonistico. La buona fama, anche postuma, di cui egli godette in queste regioni fu
accresciuta dalla decisione di concedere la libertà all’Ellade, proclamata a Corinto nel medesimo
luogo dove nel 196 a.C. Tito Quinzio Flaminino, il vincitore di Filippo V di Macedonia, aveva
proclamato la libertà della Grecia: “Uomini dell’Ellade, – recita il testo dell’iscrizione che ci ha
trasmesso il suo discorso – vi faccio un dono impensabile, sempre che ci sia qualcosa che da un
uomo magnanimo come me non ci si possa aspettare, un dono tanto grande che voi stessi siete
incapaci di chiederlo. A tutti i Greci abitanti dell’Acaia e della terra oggi chiamata Peloponneso,
concedo la libertà e l’immunità dalle tasse…” (Smallwood 1967, p. 64). Anche se i benefici si
sarebbero rivelati effimeri a causa della rapida rovina di Nerone, l’eco di questo discorso si
perpetuò a lungo.
La passione per gli spettacoli lo fece amare anche dalla plebe di Roma perché egli era non solo un
sovrano che elargiva dall’alto denaro e giochi, ma soprattutto un appassionato cultore e interprete
delle rappresentazioni messe in scena per il pubblico. Il favore della plebe romana verso Nerone,
relativamente ai ludi si manteneva vivo ancora alcuni secoli dopo, come testimoniano le evocazioni
della sua figura sui cosiddetti “contorniati”, gettoni la cui esatta funzione è discussa, ma la cui
connessione con il mondo dei giochi è sicura (cfr. p. 000).
Più difficile è stabilire quanto la popolarità di Nerone dovesse alla riforma monetaria da lui attuata
nel 64. Da questo provvedimento, attraverso interventi sul peso della moneta d’oro e di quella
d’argento, nonché attraverso la diminuzione del contenuto di metallo fino del denarius, trassero
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giovamento le finanze statali e sarebbe risultato accresciuto il potere d’acquisto dei medi e piccoli
risparmiatori (Mazzarino 1973, pp. 222-224). Mentre il guadagno per le finanze imperiali è sicuro,
l’interpretazione che esalta una motivazione sociale, collegata a un uso diversificato della
monetazione aurea e argentea secondo i differenti gruppi, è tuttavia oggetto di discussione (Lo
Cascio 2008, pp. 169 s.).
I rapporti tra Nerone e la plebe romana – elemento ormai privo di una forza politica formalizzata
ma importante per il potere di un principe – attraversarono un momento critico in occasione
dell’incendio della città, quando per qualche tempo circolò l’accusa che Nerone fosse il mandante,
ma la diceria non attecchì mai, sia per la sua scarsa verosimiglianza sia a causa dei provvedimenti
che il principe prese immediatamente per alleviare le sofferenze della collettività. Un altro
momento critico si ebbe in occasione dell’avvio dei lavori per la costruzione della Domus Aurea
(cfr. p. 000). Le condanne antiche degli interventi neroniani in quella vasta area della città
insistevano sul fatto che egli, approfittando della devastazione provocata dall’incendio, avesse
acquisito, per il proprio godimento personale, spazi che tradizionalmente appartenevano ai
cittadini, sia per l’edilizia abitativa, sia per le funzioni pubbliche.
Non era soltanto una questione di dimensioni e di lusso: la gigantesca villa costruita da Adriano
aveva poco da invidiare, per sfarzo ed estensione, a quella di Nerone. Adriano, tuttavia, ebbe
l’accortezza di occupare una zona rurale nei pressi di Tivoli, mentre Nerone pretese per la sua
dimora dorata il centro di Roma. Ma questa crisi nei rapporti tra Nerone e la plebe non avrebbe
avuto effetti duraturi nella memoria vissuta della capitale: sembra che Otone, uno dei pretendenti
al trono dopo la morte di Nerone, si affrettasse – per manifestare la sua ispirazione neroniana (cfr.
sotto, p. 00) – a stanziare una somma ingente per il completamento della Domus Aurea (Svetonio,
Otone, 7). Anche se dopo il suicidio di Nerone una parte della plebe – quella maggiormente legata
alle casate senatorie – si diede a manifestazioni di gioia, i sentimenti preponderanti, con il passare
del tempo, sarebbero stati di segno opposto.
Diverso era ovviamente l’atteggiamento del senato. Colpiti nella loro autorità e nel loro potere, e
turbati dalla sorte toccata ad alcuni di loro, era inevitabile che i senatori reagissero. Le manie di
Nerone auriga e cantante possono apparire oggi, in astratto, assolutamente innocue: vezzi di un
sovrano eccentrico, debolezze di un temperamento stravagante. Ma tra i ceti alti di allora quei
comportamenti potevano suscitare il panico. A Roma non esisteva una “corte” come quella delle
monarchie moderne, e il palazzo dei Cesari non era Versailles. Non esistevano quei rituali che oggi
possono apparire bizzarri ma che, in Francia come altrove, avevano una precisa funzione politica:
quando il sovrano si circonda di cortigiani e tutti mostrano di condividere il medesimo stile di vita,
allora il mondo appare ordinato e sicuro. L’imperatore romano era invece un sovrano quasi
solitario, e quando i suoi comportamenti si allontanavano troppo dalla norma, molti si sentivano
minacciati (Veyne 2007, cap. 1). Come si è accennato, da alcuni decenni senatori e cavalieri si
divertivano a esibirsi come attori, cantanti, aurighi o addirittura gladiatori. Ma a distinguere la
posizione di Nerone era il fatto che egli era l’imperatore, dedicava agli spettacoli tutto se stesso e si
comportava come un vero professionista. E allora sorgeva spontanea una domanda intrisa
d’inquietudine: se il linguaggio del principe si cronicizzava in modo così anomalo, come trovare le
parole giuste senza smarrire la propria identità? E una simile novità non trasmetteva forse un
segnale di allarme a chi traeva lustro e potere dalla tradizione?
Le spese eccessive necessarie alla politica di splendore perseguita da Nerone – edifici di lusso,
elargizioni alla plebe, spettacoli – e quelle, necessarie, relative alla ricostruzione della capitale
devastata dall’incendio, si tradussero in maggiori imposte e quindi in un malcontento diffuso in
ambito provinciale (sull’Italia non gravava il tributo). Ma non furono le masse dell’impero a
decretare la caduta di Nerone, bensì l’odio del senato e il crescente malcontento dei pretoriani,
sconcertati anch’essi dal principe cantante e sensibili alle promesse di donativi da parte dei suoi
nemici. La situazione esplose quando – dopo il fallimento della congiura pisoniana e di altri
tentativi su cui siamo meno informati – l’ostilità che nella capitale si riversava su Nerone trovò una
sponda nell’ambizione di alcuni governatori di provincia (Griffin 1994, cap. 10). Il primo a
prendere l’iniziativa fu il governatore della Gallia Lugdunense Giulio Vindice, la cui rivolta fu
subito stroncata. Decisiva fu invece la ribellione del governatore della Spagna Tarraconense Servio
Sulpicio Galba, che dichiarò di agire avendo a cuore la salvezza del “genere umano” (salus generis
humani). Abbandonato dai pretoriani e dichiarato dal senato “nemico pubblico”, Nerone si suicidò
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(cfr. cap. 0).
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Per lo storico di oggi, il dato forse più sconcertante sulla figura di Nerone sono le contraddizioni
degli autori antichi, spesso riscontrabili in ogni singola fonte. Gli scrittori pagani, e ancor più
quelli cristiani, concordano nel ritrarre Nerone come un despota folle e sanguinario: matricida,
uxoricida, fratricida, assassino di rispettabili senatori e del maestro Seneca, fornicatore, persecutore
di cristiani, incendiario. Il tutto aggravato da una sfrenata e ridicola passione per il canto e le corse
dei carri.
Tra le pieghe della documentazione emerge tuttavia anche un’altra verità. Ci viene detto che per
molto tempo dopo la morte di Nerone la gente comune depose fiori estivi e primaverili sulla sua
tomba, un sarcofago di porfido sormontato da un altare di marmo bianco. Sappiamo anche che la
gente comune esibiva nel Foro sue statue, e che le vestiva con abiti solenni, “come fosse ancora
vivo”: quest’azione era un’espressione religiosa, poiché la vestizione delle immagini era parte
significativa del cerimoniale del culto imperiale (Champlin 2005, p. 38). Sappiamo anche che a
Roma venivano esposti editti in cui Nerone annunciava il suo imminente ritorno e la sua vendetta
(Svetonio, Nerone, 57; cfr. anche Tacito, Storie, 1, 4, sul dispiacere della “plebe sordida”).
Tutto questo potrebbe essere relegato nell’ambito dell’ingenuità popolare, i cui percorsi, allora
come oggi, sarebbero imprevedibili ed estrosi. Ma a smentire una simile ipotesi interviene una
notizia ancora più straordinaria: gli immediati ed effimeri successori di Nerone, Otone e Vitellio,
proclamarono infatti ufficialmente di voler seguire il suo esempio. Era un’epoca di guerre civili, e
un’affermazione del genere aveva senso solo se mirava a ottenere il consenso delle masse. Svetonio
precisa che il popolino di Roma (infima plebs) invocò Otone come “Nerone”, per adularlo:
un’ennesima conferma della popolarità del principe appena scomparso presso le masse dell’Urbe
(Svetonio, Otone, 7). Quanto a Vitellio, i suoi primi atti dopo l’ingresso nella capitale furono un
pubblico sacrificio ai Mani di Nerone e l’organizzazione di una recita di versi del defunto principe
(Svetonio, Vitellio, 11). Furono tentativi penosi, perché il modello era inimitabile, e infatti
qualcuno appioppò ai due incauti imitatori lo spietato epiteto di “Neronetti”. Ma il fenomeno è
quanto mai indicativo.
Che Nerone fosse davvero morto, era una realtà cui molti non vollero rassegnarsi. In Oriente, tre
Neroni redivivi si presentarono alla ribalta nell’arco di un ventennio, suscitando l’entusiasmo delle
folle e raccogliendo schiere di seguaci. Finirono tutti sul patibolo (fonti e discussione in Tuplin
1989; Champlin 2005 cap. 2). Ma ancora mezzo secolo dopo la morte del sovrano l’oratore e
filosofo Dione Crisostomo poteva testimoniare, con la massima serenità, che il ritorno di Nerone
era un sogno collettivo: “Ancora adesso tutti si augurano che egli sia sempre in vita. E la maggioranza
crede che effettivamente lo sia” (21, 9-10; per queste tradizioni, Champlin 2005, cap. 2).
Il contrasto fra queste notizie e la tradizione sul “mostro” Nerone dovrebbe essere il punto centrale
di qualsiasi dibattito sulla figura di questo principe, ma non sempre è stato così. È evidente che le
notizie favorevoli a Nerone hanno un valore speciale proprio perché esse aprono varchi in mezzo a
una massiccia tradizione ostile. Tuttavia, le periodiche “riabilitazioni” di Nerone avanzate dagli
studiosi moderni, e troppo spesso da dilettanti, regolarmente accomunate dallo strano vanto di
essere una novità assoluta, non hanno, in astratto, una maggiore dignità scientifica della tendenza
opposta.
Nell’un caso e nell’altro, l’accanimento esegetico trova prima o poi il suo muro, ma non è affatto
scontato che la mancanza di una formula equivalga a una delusione e che un ragionamento
incompiuto coincida necessariamente con una frustrazione. Anche l’aporia può avere un suo
fascino e può dissolvere il malessere dell’interprete nell’autenticità di una vicenda essa stessa
aporetica.
Quasi come un’“opera aperta”, Nerone trasmise messaggi e sentimenti diversi ai suoi destinatari.
Ma c’era in lui anche un aspetto universale, che sedusse trasversalmente molti. Costruire edifici
immensi e splendidi, realizzare opere audaci, vincere e addomesticare la natura: anche tutto ciò
rientrava nel modello eroico che Nerone cercò d’incarnare. Come sempre nel suo caso, questo
modello eroico poteva essere interpretato in chiave negativa, come exemplum tirannico.
Cimentarsi in imprese titaniche era infatti considerato da alcuni come la tipica manifestazione di
un’indole dispotica e sacrilega: una medesima inclinazione – si diceva – portò Nerone a
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tiranneggiare gli uomini e la natura. E come gli uomini anche la natura gli si era ribellata.
Tacito formula questo giudizio con riferimento alla costruzione della Domus Aurea, affermando
che il carattere essenziale del progetto consisteva nella sfida con cui l’artificio pretendeva di
realizzare “quanto la natura aveva negato” (Annali, 15, 42). Lo storico ricorda inoltre il progetto,
intrapreso solo in minima parte, di scavare un canale artificiale lungo circa 250 chilometri,
navigabile dal lago d’Averno, nei pressi di Cuma, fino alla foce del Tevere, “attraverso spiagge
desolate e monti impervi” (Annali, 15, 42, 2; Plinio, Storia Naturale, 14, 61; Svetonio, Nerone, 31).
L’opera sarebbe servita a evitare i frequenti naufragi che lungo quel tratto di mare colpivano i
convogli che approvvigionavano la capitale, ma rimase incompiuta.
Un’altra impresa sovrumana tentata da Nerone fu il taglio dell’Istmo di Corinto, già concepito dal
tiranno Periandro, dal re di Macedonia Demetrio Poliorcete, da Giulio Cesare e da Caligola. Era
facile costatare che Demetrio aveva finito i suoi giorni in prigionia e che gli altri tre aspiranti
scavatori dell’Istmo erano morti assassinati. Non meno facile era dedurne una limpida morale,
attribuita da Filostrato (Vite dei sofisti, p. 150 Wright) a un politico ben più cauto, Erode Attico:
“Tagliare l’Istmo di Corinto è un’impresa degna degli immortali, considerata impossibile per le
capacità umane. E io credo che scavare l’Istmo spetti a Poseidone più che agli uomini” (Traina
1987).
Questi luoghi comuni negativi non erano tali da poter dissuadere Nerone. Si raccontava che non
appena il principe diede il segnale di iniziare i lavori, dalla terra uscì sangue, si udirono lamenti e
ululati, apparvero fantasmi. Il principe afferrò allora una pala e obbligò i presenti a scavare
insieme con lui. L’opera avrebbe poi assorbito enormi risorse economiche e umane, ma come tante
altre si sarebbe interrotta con la morte del suo ideatore.
Il titanico rapporto di Nerone nei confronti della natura non si manifestava soltanto nel suo
desiderio di creare boschi e laghi nel cuore della città, di aprire le viscere della terra scavando
canali e spaccando montagne. Esso aveva anche una proiezione ecumenica, uno sguardo proiettato
verso i limiti del mondo, un’ansia di raggiungere spazi ignoti.
Nerone pensò di inviare una spedizione in Etiopia, una terra mitica con la quale gli antichi
intendevano l’immensa area a sud dell’Egitto, grosso modo corrispondente ai moderni stati del
Sudan e dell’Etiopia. In questi progetti neroniani è necessario distinguere la finalità strettamente
militare da altri due aspetti, certo prevalenti e a loro volta correlati: il modello del viaggio eroico e
il desiderio di conoscenza. Una squadra di pretoriani mandata dal principe in ricognizione gli recò
una preziosa mappa dell’Etiopia insieme con informazioni naturalistiche che un autore ostile come
Plinio ritenne giustamente attendibili (Storia Naturale, 6, 181; 12, 19). Non c’è alcun motivo di
non credere a Seneca quando afferma che Nerone concepì la spedizione etiopica per scoprire le
sorgenti del Nilo, mosso dal suo grandissimo amore per la verità (veritas in primis amantissimus:
Questioni naturali, 6,8,3).
Ma ancora più audace fu la sua idea di organizzare una spedizione nel Caucaso. La cultura grecoromana individuò nel Caucaso una sorta di gigantesco cippo di confine, una frontiera che segnava
il passaggio dal mondo selvaggio alla civiltà. La liminarità del Caucaso si associava alla sua
centralità ideologica: infatti, gli spazi terrifici e suggestivi di quella montagna ospitarono sempre,
non solo in antico, un ricchissimo repertorio di miti (Giardina 1996). Qui si consumava l’eterna
tortura di Prometeo, incatenato da Zeus a una roccia altissima ed esposta ai venti gelidi, dilaniato
da un’aquila che gli lacerava il petto e divorava il fegato. Qui era situata una delle regioni dove si
diceva vivessero le Amazzoni, le guerriere dal seno amputato per meglio destreggiarsi con l’arco,
che vivevano in un universo privo di uomini o con uomini asserviti. Nei suoi pressi si trovava la
Colchide, terra d’incantesimi, di Medea, di Giasone e del vello d’oro. Verso la fine del suo regno,
Nerone cominciò a organizzare una campagna che aveva come obiettivo le Porte Caspie – ovvero il
passo di Darial, controllato dagli Iberi caucasici – e gli Albani (Svetonio, Nerone, 19; Tacito, Storie,
1, 6, 2; Plinio, Storia Naturale, 6, 40; Cassio Dione, 63, 8, 1). L’iniziativa può essere intesa come
un prolungamento della politica orientale di Nerone, ma in essa erano fortissime le ragioni di
carattere ideale: il progetto era infatti animato dal richiamo alla figura di Alessandro – il principe
denominò “falange di Alessandro Magno” una nuova legione del corpo di spedizione – e da tutte le
emozioni e le fantasie che poteva suscitare un’avventura ai limiti del mondo. Nerone, tra l’altro,
fece reclutare per l’occasione legionari di grande statura, adatti evidentemente a fronteggiare
nemici che, per le montagne stesse in cui abitavano, erano ritenuti di taglia eccezionale.
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È molto probabile che questo miraggio caucasico di Nerone debba essere messo in rapporto alla
disperata idea con la quale egli pensò, negli ultimi mesi di vita, di fronteggiare la rivolta esplosa in
Gallia. Il principe immaginò una messa in scena durante la quale egli avrebbe unito la recitazione
patetica del sovrano inerme e piangente alle più sontuose scenografie. Per rappresentare la sua
vocazione di principe che spingeva il suo sguardo e i suoi soldati verso terre remote, egli pensò di
farsi accompagnare da una squadra di guerriere dai capelli corti, armate di scuri e di pelte come le
Amazzoni (Svetonio, Nerone, 44; si diceva inoltre che Nerone non si separasse mai da un bronzo
di Corinto rappresentante un’Amazzone: Plinio, Storia Naturale, 34, 48 e 82).
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Può capitare di leggere pregevoli biografie di Nerone in cui questi aspetti non siano menzionati o
lo siano in modo cursorio, quasi si trattasse di bizzarrie marginali in un’esistenza dominata da ben
più rilevanti anomalie. Ancor più sorprendente è la totale rimozione di quello che può essere
considerato, senza timore di esagerare, uno dei documenti più importanti per intendere il rapporto
tra il modello eroico incarnato da Nerone e la sua fama positiva, coeva o di poco successiva alla sua
morte. Nella sua descrizione dell’Argolide, lo scrittore Pausania, che pubblicò la sua Periegesi della
Grecia tra il 160 e il 177 d.C., si sofferma a descrivere il piccolo lago Alcionio, ancora oggi visibile
presso il villaggio di Mili (2, 37, 5-6). Questo specchio d’acqua ha la caratteristica di essere largo
appena sessanta metri, ma di avere una grande profondità: una circostanza ideale per farne il
ricettacolo di racconti terrifici: “Ho sentito raccontare – scrive Pausania – anche questa storia:
l’acqua del lago, per quanto può sembrare a vederla, è calma e tranquilla; tuttavia, pur
presentando questo aspetto, riesce a trascinare giù chiunque osi attraversarla a nuoto, e lo porta
via, risucchiandolo nelle sue profondità”. Si diceva che il suo fondo mettesse in comunicazione il
mondo umano con gli inferi, e infatti di qui Dioniso sarebbe disceso nell’Ade per riportare sulla
terra Semele. Riguardo all’abisso che rendeva orrido l’Alcionio, Pausania afferma: “Non c’è limite
alla profondità del lago Alcionio, né, a mia conoscenza, alcun uomo è potuto arrivare, con
qualunque mezzo, al suo fondo: infatti nemmeno Nerone, pur avendo fatto fabbricare e legare fra
loro funi di diversi stadi di lunghezza, e avendo loro attaccato anche del piombo, e quant’altro era
utile alla prova, riuscì a trovare un limite alla sua profondità” (trad. di D. Musti).
All’interno dell’ecumene Nerone sfidava le costrizioni dei paesaggi per i suoi sogni estetici, per
esaltare l’ingegneria civile o per semplice volontà di sapere (conquistare la montagna più grande,
sondare le acque che conducono all’Ade…). Ma l’ecumene era per lui uno spazio asfittico, che
bisognava aprire al respiro dell’avventura e della conoscenza. Per i contemporanei e per i posteri
Nerone era al tempo stesso la misura del limite umano e l’eroe dell’impossibile.
Dedicato al mio amico Carlo Zaccagnini, senza dimenticare La crudertà de Nerone del nostro Belli: “Nerone era un
Nerone, anzi un Cajostro; / e pe l’appunto se chiamò Nerone / pell’anima più nera der carbone, / der zangue de le
seppie, e de l’inchiostro [...]” (G. Vigolo, I sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, Milano 1952, n. 1595).
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NERONE POSTUMO:
LA LEGGENDA NERA
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M A R I S A R A N I E R I P A N E T TA
FINE DI UNA DINASTIA:
L A M O RT E D I N E RO N E
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Il 9 giugno del 68 d.C., ottocentoventuno anni dopo la fondazione di Roma, l’imperatore Nerone si
tolse la vita con l’aiuto di un liberto. Un epilogo forse inevitabile ma che, immediatamente,
provocò dubbi e disorientamenti; nel corso dell’anno e nei mesi seguenti, tali lotte sanguinose per
la successione da far sprofondare di nuovo Roma nell’incubo delle guerre civili.
La sua morte non segna solo il termine della dinastia giulio-claudia, ma anche l’inizio di una
prassi che renderà le legioni protagoniste di tante elezioni. Dopo quasi un secolo di passaggio del
potere attraverso parenti adottati, eccetto Claudio, saranno gli eserciti ad acclamare i loro generali
prima della ratifica da parte del senato, addirittura fuori Roma: l’arcanum dell’impero indicato da
Tacito nelle Storie (1, 4).
La ricostruzione delle ultime ore di Nerone, e degli avvenimenti che le hanno precedute, sono note
soprattutto da due fonti letterarie: nella Vita dei Dodici Cesari di Svetonio Tranquillo (70-140 ca.;
Nerone è il libro sesto), e la Storia Romana di Cassio Dione (164 ca. - dopo il 229), scritta in greco
e conservata, per il periodo neroniano, in epitomi di età bizantina. Diversi passi nelle opere di
questi autori risultano simili, se non uguali; ma non per questo Svetonio che ha scritto prima è la
fonte principale di Cassio Dione, così come non ci sono molte tracce nelle sue biografie dei
precedenti Annali di Cornelio Tacito. Piuttosto è da ritenere che entrambi abbiano operato scelte
comuni, basandosi sulle documentazioni ritenute più autorevoli o condivisibili, fra quelle a
disposizione, come la perduta Historia a fine Aufidii Bassi di Plinio il Vecchio. Molte notizie
riferite dai due autori rispecchiano infatti i giudizi di Plinio nell’altra sua opera conservata per
intero, la Storia Naturale, dove lo scrittore mostra verso questo imperatore un’ostilità priva di
riflessione critica, cogliendo ogni pretesto per parlarne in modo sprezzante e definendolo, già in
occasione della sua nascita, “nemico del genere umano” (Storia Naturale, 2, 92).
Se nel racconto della vita privata e pubblica di Nerone si colgono episodi frutti di dicerie, tesi
preconcette, giudizi morali consolidati, quasi sempre a lui contrari, la descrizione della morte –
nelle sequenze principali – non sembra allontanarsi molto dalla realtà: contiene troppi particolari
che possono derivare soltanto dal resoconto tramandato di più testimoni oculari. E tuttavia,
l’enfasi data ad alcune azioni, il rilievo attribuito a descrizioni poco credibili, ai prodigi, alle
coincidenze straordinarie, alla fine circoscrivono l’evento tragico quasi nei confini del grottesco,
lasciando peraltro sospesi alcuni interrogativi.
Manca la parte degli Annali di Tacito relativa agli ultimi anni di Nerone; ma probabilmente, nel
merito, non sarebbe stata molto differente. “La morte uguale per tutti”, sosteneva lo storico, ”si
differenzia soltanto per il ricordo della gloria o per l’oblio dei posteri; se la fine è identica per
l’innocente e il colpevole, il morire con dignità distingue gli uomini più fieri” (Storie, 1, 21), e
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l’ultimo discendente di Enea, successore di Augusto, nipote del grande generale Germanico,
secondo le versioni tramandate aveva chiuso i conti della sua dinastia senza vigore né dignità.
Le sollevazioni militari nelle province che provocarono la fine prematura di Nerone ebbero inizio
tre mesi prima, quando l’imperatore si trovava a Napoli e si intratteneva con gare atletiche e
rappresentazioni teatrali. Lì, tra il 19 e il 23 marzo, gli arrivò il primo segnale: era insorto Giulio
Vindice, propretore della Gallia Lugdunense (e forse della Narbonense).
Nerone, uscito indenne da due congiure, rinfrancato dal trionfo per gli allori conseguiti in Grecia
nei Giochi olimpici, istmici, pitici e delfici, preferì non curarsene, limitandosi a inviare una lettera
al senato per indurlo a punire i rivoltosi. Vindice non smetteva però di indirizzargli epiteti
ingiuriosi, chiamandolo anche “Enobarbo”, dal nome della sua gens originaria: un particolare che
le fonti riferiscono come una provocazione, accolta da Nerone con fastidio assieme alla grave offesa
di essere un cattivo citaredo, ma che in realtà indicava uno scopo che non poteva sfuggirgli. Gli
veniva infatti ribadita la sua estraneità alla dinastia, come se detenesse un titolo illegittimo, dal
momento che aveva scisso i legami con le famiglie di Augusto e di Claudio dopo le uccisioni della
madre e della prima moglie Ottavia. Tornava lo spettro delle candidature in pectore dei regni
precedenti che tante morti aveva procurato anche solo per un semplice sospetto.
Il vuoto legislativo di norme per la successione, a cominciare da Augusto, aveva favorito le
aspirazioni di uomini di alto rango imparentati con i principi giulio-claudii e un lungo bagno di
sangue aveva interessato gli aristocratici accusati di mire personali o perché coinvolti in congiure
(cfr. Griffin 1984). Ne sono una riprova le nomine per ruoli di responsabilità, negli ultimi anni di
Nerone, di persone provenienti da famiglie modeste: Licinio Muciano a governatore della Siria;
Tito Flavio Vespasiano al comando delle truppe inviate a debellare la rivolta giudaica; Verginio
Rufo come legato della Germania superiore.
L’imperatore pose sulla testa di Vindice l’esorbitante taglia di dieci milioni di sesterzi e,
ufficialmente, continuò a mostrare indifferenza anche una volta rientrato a Roma. Sicuro di avere
la Fortuna dalla sua parte, tra intenzioni e minacce si dedicava ai passatempi preferiti, convocando
persino alte personalità per illustrare i meccanismi di un nuovo organo idraulico (Svetonio, 6, 41).
D’altronde, poteva contare sulla lealtà dei soldati stanziati a Lugdunum, sede di importante zecca
imperiale e a lui devota per essere stata aiutata dopo un incendio; le legioni germaniche gli erano
fedeli; quella britannica, la XIV Gemina, altrettanto; in Oriente era tutto tranquillo.
Ma durò poco, la situazione precipitava. Arrivò la notizia che la ribellione si era estesa in terra
spagnola, dove il governatore della Tarraconense, Servio Sulpicio Galba, accogliendo l’invito di
Vindice a capeggiare l’insurrezione, pur evitando il titolo di Caesar, si era proclamato “legato del
senato e del popolo romano”. Appoggiato da Salvio Otone, governatore della Lusitania e del
questore della Betica, Alieno Cecina, aveva cominciato ad arruolare uomini e a consultarsi con un
senato locale formato da eminenti cittadini.
Quella che era cominciata come una rivolta contro l’oppressione fiscale subita dalle province
galliche, stava diventando una rivolta contro il potere imperiale. Nel venirne a conoscenza, Nerone
ebbe un collasso e perse la voce; appena si riprese, una vecchia nutrice cercò di consolarlo, forse la
piissima Claudia Egloghe (CIL VI 34916), ma lui ribadì sconsolato che la sua sventura era senza
precedenti (Svetonio, 6, 42).
Non poteva più temporeggiare: l’anziano governatore della Tarraconense, amato dai soldati,
proveniva da una famiglia di alto lignaggio. E finalmente reagì. Fece dichiarare Galba nemico
pubblico, confiscandone i beni; decise una spedizione in Gallia; destituì i due consoli in carica
assumendo da solo la più alta magistratura repubblicana; richiamò i legionari inviati in una
spedizione alle Porte del Caspio, quelli stanziati in Illiria, e arruolò marinai della flotta di Miseno
(i classiarii, in seguito trucidati da Galba) per la formazione di una nuova legione. Il comando
delle truppe, riunite in Italia settentrionale, fu affidato a Petronio Turpiliano, che aveva ricevuto gli
ornamenta triumphalia per aver contribuito alla scoperta della congiura pisoniana.
Svetonio, a differenza di Cassio Dione, si sofferma anche sugli atteggiamenti teatrali
dell’imperatore, sottolineando che si proponeva di indurre con le lacrime i rivoltosi a pentirsi e che
per festeggiare la vittoria avrebbe composto un poema, mentre sceglieva i carri per il trasporto
delle attrezzature sceniche e faceva abbigliare le sue concubine come Amazzoni (Svetonio, 6, 44).
Sicuramente, nella grande chiamata alle armi che coinvolgeva proletari e schiavi, furono imposte
tasse straordinarie, creando così malcontenti diffusi, come nel caso della riscossione forzata degli
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affitti annuali dovuti al fisco imperiale.
Vindice, che aveva fatto coniare monete con legende come: “Restaurazione di Roma” e propugnava
il ritorno alla tradizione augustea, contava sulle tribù di Sequani, Arverni, Edui e sulla colonia di
Vienne; ma le sue armate non erano in grado di contrastare per numero e professionalità le legioni
della Germania superiore, responsabili per la sicurezza in Gallia. Appena queste si mossero contro
di lui insieme con le truppe di stanza nella Germania inferiore, sotto il comando di Verginio Rufo,
non ci fu niente da fare. La vittoria riportata a Vesontio (Besançon) fu così schiacciante da indurre
i soldati a sostenere Verginio come imperator (Plutarco, Galba, 6). Questi rifiutò e, mentre Galba
si nascondeva nella città iberica di Clunia, Vindice scelse il suicidio.
A questo punto, si doveva assestare il colpo definitivo alle legioni spagnole; ma Nerone, che non
aveva mai fatto guerre di conquista, preferendo celebrare trionfi atletici e musicali, mancò la sua
ultima, grande opportunità. Inviò un altro comandante nel nord Italia, Rubrio Gallo, e continuò
ad aspettare il corso degli eventi. Mentre però Galba era già stato acclamato imperatore
dall’esercito, Clodio Macro, legato in Africa, raccoglieva truppe e si proclamava “campione di
libertà”, mirando a provocare una rivolta a Roma col boicottaggio delle spedizioni di frumento. La
notizia delle proteste dei romani all’arrivo della nave arrivata dall’Egitto che trasportava sabbia per
i giochi anziché grano (Svetonio, 6, 45) forse è in relazione alle manovre di Macro.
È un accavallarsi caotico di notizie e di eventi che gli antichi scrittori raccontano in modo
controverso. C’era stato comunque tutto il tempo, tra aprile e maggio, di prendere iniziative, di
scambiare proposte e di prepararsi, nella capitale, al cambio del potere.
Nei primi giorni di giugno, la situazione apparve ingovernabile: non solo Galba era determinato a
salire sul trono, ma aveva disertato quel Verginio Rufo, fino allora un punto di forza della dinastia,
e si dava per certa la defezione di Turpiliano. Queste informazioni arrivarono a Nerone mentre
stava pranzando; per la rabbia, scrive Svetonio, rovesciò a terra la tavola imbandita e ruppe due
coppe (skyphoi) dette “omeriche” perché vi erano rappresentate delle scene tratte dai poemi di
Omero (Svetonio, 6, 47). Plinio, probabile fonte della notizia, aggiunge che era una vendetta per i
contemporanei: nessuno, dopo di lui, ci avrebbe più potuto bere (Storia Naturale, 37, 29).
Aldilà delle circostanze reali, le notizie di sollevamenti e passaggi di campo venivano propagate ad
arte (cfr. Cizek 1972) come leva psicologica e convinsero l’imperatore, erroneamente, che l’esercito
in massa l’aveva abbandonato. A sostenerlo nel profondo sconforto, a parte la nutrice, non vi è
traccia dell’ultima moglie Statilia Messalina. Sposata più volte e vedova del console Vestino Attico,
vittima di Nerone (Svetonio, 6, 35; Tacito, Annali, 14, 48), non è nominata né in occasione del
viaggio in Grecia, dove sicuramente accompagnò l’imperatore (ILS 8475), né accanto a lui in
questi frangenti; evidentemente, la separazione fra i due coniugi era già avvenuta o lei si era
eclissata alle prime avvisaglie delle rivolte militari. Nerone, dal canto suo, mostrava solo un
attaccamento morboso alla memoria di Poppea, se aveva ‘sposato’ l’eunuco Sporo (Svetonio, 6, 28;
Cassio Dione, 42, 13) che tanto le somigliava e se, appena tornato a Roma, il primo pensiero era
stato quello di recarsi al tempio eretto in onore di Sabina Venus, la moglie divinizzata.
Privo di un appoggio familiare, assillato dalle notizie incalzanti, pensò – d’istinto – a una soluzione
estrema. Chiamò Locusta, esperta di sostanze letali e già sperimentata per la morte di Claudio
(Tacito, Annali, 13, 15), si fece preparare un veleno e lo ripose in una pisside d’oro.
Questa parte della giornata sembra svolgersi nella sede abituale sul Palatino, perché Svetonio
specifica che solo in un secondo momento Nerone si trasferì negli Horti Serviliani (Nibby 1833;
Grimal 1984), uno dei tanti praedia urbani di proprietà imperiale. L’amena dimora, ricca di opere
d’arte greca, come l’Apollo dello scultore Calamide e i Pugili di Dercilide (Plinio, Storia Naturale,
36, 36-37), era frequentata dall’imperatore: proprio lì, racconta Tacito, era venuto a conoscenza
della congiura dei Pisoni attraverso la delazione del liberto Milico (Annali, 15, 55).
Stavolta però la scelta del luogo non era casuale: fuori dal caotico centro cittadino e vicino alla via
che conduceva al mare, era strategica per il programma che Nerone elaborò subito dopo aver letto
l’ultimo dispaccio. Seguendo il racconto di Svetonio, l’unico a raccontare questi dettagli, la prima
idea di Nerone fu infatti quella di recarsi in Egitto e inviò liberti fidissimi – presumibilmente
anche guardie del corpo germaniche, sguarnendo così la difesa personale – per preparare a Ostia
una flotta, chiedendo a titubanti tribuni e centurioni di seguirlo nella fuga.
Sotto pressione com’era, l’imperatore prese in considerazione altre possibilità: rifugiarsi dai Parti o
da Galba, oppure recarsi ai Rostri per implorare il perdono dei sudditi in abito da lutto (un
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discorso in tal senso lo aveva già scritto e verrà trovato) e, nel caso di un rifiuto, farsi concedere la
prefettura dell’Egitto. Aggiunge Cassio Dione che avrebbe commentato a proposito: “Se anche
fossimo deposti, ci manterrebbe la nostra piccola arte” (61, 2), dopo aver minacciato di uccidere i
Galli residenti a Roma, bruciare la stessa Urbe e avvelenare i senatori in massa.
Le sfide a parole contro la Curia riflettevano un rapporto compromesso da tempo, almeno a
partire dalla bocciatura della proposta neroniana di introdurre le tasse dirette, volte a colpire
proprio i grandi patrimoni dei patres conscripti. Durante il viaggio Grecia, quando Nerone prese
gli auspici per il taglio dell’istmo di Corinto, non citò il senato nel formulare gli auguri per
l’impresa (Svetonio, 6, 37). Del resto, l’esenzione dai tributi appena concessa all’Acaia, di
pertinenza senatoria, costituiva un danno per la Curia, che non fu menzionata nemmeno nel
discorso che annunciava la libertà della provincia.
Ora, a Roma, Nerone si ritrovava sempre più isolato. Tra le persone autorevoli, il primo a mancare
all’appello fu Ofonio Tigellino, prefetto del pretorio. Il braccio armato delle situazioni più scabrose,
il segugio abilissimo nel fiutare i sentori di tutte le congiure, sicuramente informato sui fatti, non
aveva avvertito l’imperatore di quanto si stava ordendo contro di lui e sparì dalla scena.
Da come si sono svolti gli eventi, si deve infatti presumere che emissari di Galba avessero sondato
da tempo gli umori del senato e trattato con pretoriani tramite i due prefetti o uno solo di essi,
stabilendo ingenti donativi, che poi Galba rifiuterà di pagare. Tigellino sapeva ma non agì di
conseguenza, aspettando nell’ombra che la situazione si definisse; fu il suo collega Ninfidio Sabino
a muoversi e a intervenire prima di tutto con l’imperatore, aumentandone insicurezze e paure
caratteriali e convincendolo che era meglio lasciare il Palatino.
Otto giugno, ultimo giorno di Nerone. Negli Horti egli era in preda a mille timori; ma, tra
esitazioni e progetti, preferì rimandare ogni decisione all’indomani. In piena notte si svegliò, forse
aveva sentito dei rumori o – paradossalmente – ne aveva avvertito l’assenza; ai suoi richiami, arrivò
qualcuno e gli venne riferito che le guardie armate avevano abbandonato la villa. Andò a
controllare personalmente e si trovò in un palazzo sguarnito di vigilanza.
Cassio Dione, a differenza di Svetonio, più che soffermarsi sulle singole azioni, racconta in modo
stringato gli avvenimenti essenziali: i senatori, mentre l’imperatore si perdeva in programmi
contradditori, revocarono le guardie, andarono al Castro pretorio, dichiararono Nerone hostis
publicus e proclamarono imperatore Galba.
Svetonio riferisce le stesse cose ma ci fa seguire le vicende con maggiore pathos, seguendo le azioni
di Nerone durante quella notte interminabile e nel mattino seguente.
Sono ore tremende. L’uomo più potente dell’impero, circondato quotidianamente da centinaia di
servitori, cortigiani, militari, bussa a parecchi amici e trova “chiuse tutte le porte”; ritorna sui suoi
passi, rientra nella camera dove ha dormito, cerca con gli occhi la cassetta del veleno e non la
trova: hanno portato via tutto, finanche le coperte. Angosciato e avvilito chiede allora di essere
ucciso, ma il mirmillone Spiculo e altri non meglio identificati rifiutano di farlo.
Il programma a questo punto cambia. Consigliato opportunamente, Nerone si convince ad
accettare l’offerta del liberto Faone di nascondersi in una sua casupola appena fuori Roma, al
quarto miglio tra la Salaria e la Nomentana. Sembra tutto concertato a puntino, con Ninfidio
Sabino che muove i fili: la risoluzione di trasferire l’imperatore all’altro capo della città, in
contrasto con il progetto egiziano da lui ribadito ufficialmente, appare come uno stratagemma per
scongiurare reazioni incontrollate della plebe e fughe di notizie fra i militari.
L’imperatore monta dunque a cavallo e si avvia con l’eunuco Sporo, l’a libellis (segretario addetto
alle petizioni imperiali) Epafrodito, Neofito (Epitome de Caesaribus V, in Champlin 2003) e lo
stesso a rationibus (segretario alle finanze) Faone, così come si trova: scalzo, vestito di una
semplice tunica, sulle spalle un mantello sbiadito, con il capo e il viso coperti da un fazzoletto.
Vicino al Castro si verifica una forte scossa di terremoto mentre un fulmine finisce davanti al
piccolo drappello: circostanze tali, se fossero vere, da far imbizzarrire i cavalli, far scendere i
cavalieri, indurre la gente a uscire per strada; ma non accade niente del genere, anzi, dagli
accampamenti urbani rimbalzano imprecazioni per l’imperatore e auguri per Galba. Si tratta di un
topos ricorrente nella storiografia antica, la corrispondenza cioè di vicende eccezionali a fenomeni
naturali altrettanto prodigiosi, come segnali divini. Nella storia di Nerone sono ricorrenti: fulmini,
statue che si rompono all’improvviso, acque di fiumi che scorrono all’incontrario (Plinio, Storia
Naturale, 2, 32), addirittura – nell’anno dell’incendio – nascita di feti bicipiti (Tacito, Annali, 47,
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2) e, alla fine del regno, l’apertura improvvisa delle porte del Mausoleo di Augusto (Svetonio, 6,
47) e una pioggia di sangue ad Alba (Cassio Dione, 43, 26).
Ninfidio Sabino ha già riferito ai pretoriani che l’imperatore ha lasciato Roma e solo dopo averlo
saputo essi promettono fedeltà a Galba. Un bluff che Tacito, per quanto antineroniano, deve
ammettere (Storie, 1, 5, 89) e che fa intravedere una realtà diversa da quella che le principali fonti
letterarie ci hanno tramandato: eccetto i complici del prefetto, i pretoriani non avrebbero tradito. I
senatori sono intervenuti con la condanna dell’imperatore solo dopo essere stati assicurati del
giuramento militare.
Il drappello continua ad avanzare e s’imbatte in alcuni passanti che chiedono se ci sono novità
sull’imperatore e in altri che commentano: “Stanno inseguendo Nerone”. In mezzo alla strada è
stata abbandonata una carogna che emana un lezzo irrespirabile; il cavallo dell’imperatore si
impenna e lui, nei movimenti per tenerlo a freno, fa cadere la copertura del volto: un pretoriano in
congedo, riconoscendolo, lo saluta. Le domande, i commenti e i saluti suggeriscono che,
evidentemente, in città circola qualche voce, ma ancora la notizia del colpo di stato non è di
dominio pubblico. Nerone, a questo punto, deve morire al più presto.
I fuggitivi arrivano finalmente nei pressi della casa rurale e imboccano una scorciatoia. Lasciano i
cavalli e, facendosi strada con difficoltà tra canneti e cespugli di rovi, raggiungono il muro
posteriore dell’abitazione. In attesa di preparare un passaggio segreto, Faone invita l’imperatore a
nascondersi in una cava di sabbia, ma lui rifiuta – “Non voglio finire sottoterra da vivo!” – e
preferisce acquattarsi nella vegetazione. Per placare la sete, raccoglie nel cavo della mano l’acqua di
una pozzanghera, ed esclama: “Questo è il decotto di Nerone!”, alludendo al sistema da lui
inventato per raffreddare l’acqua nella neve in un recipiente di vetro.
L’inquieta agitazione durante l’attesa, con l’orecchio attento a captare rumori e movimenti sospetti,
sono bene espressi da Cassio Dione: “Chiunque passasse temeva fosse arrivato per lui, tremava di
paura ad ogni suono nella preoccupazione che lo stessero cercando, e se un cane si metteva ad
abbaiare o un uccello a cinguettare, oppure se dei rami secchi o degli sterpi venivano mossi dal
vento, era terribilmente in ansia” (Cassio Dione, 43, 28).
Finalmente il passaggio è pronto. Nerone, carponi, avanza nella sterpaglia lacerandosi il mantello,
riempiendosi presumibilmente di graffi, entra in una squallida stanzetta attraverso un cunicolo
ricavato nel muro e si sdraia su un modesto materasso coperto da un mantello.
Per rinfrancarsi, beve solo un po’ di acqua tiepida; ma i suoi compagni di fuga lo incalzano a
reagire e a darsi una morte onorevole. Altra stranezza: i liberti affezionati si impegnano per molte
ore a nasconderlo, come a volerlo proteggere in attesa di un mutamento di situazione, e, appena
l’imperatore si è sistemato alla meglio, lo incitano a uccidersi; avrebbero dovuto farlo sul Palatino o
negli Horti, scenari più onorevoli. Al corrente di cosa sta avvenendo nei palazzi del potere, sembra
che abbiano favorito una messinscena perché tutto si svolga in modo certo e sotto controllo,
lontano dagli sguardi: la proprietà al quarto miglio non ha guardie che possano intervenire in
alcun modo.
Nerone, pur convinto che per lui non c’è scampo, cerca di prendere tempo. Ordina di scavare una
fossa della sua misura, di cercare dei pezzi di marmo (frusta) da mettere intorno, di portare fuoco
e legna: il suo cadavere non sarà esposto ai sudditi prima della cremazione come vuole il costume
imperiale, tantomeno imbalsamato con resine costose come quello di Poppea, bensì bruciato e
sepolto lo stesso giorno come un poveraccio. È a questo punto che Svetonio gli mette in bocca le
parole: “Qualis artifex pereo”.
A precipitare gli eventi arriva un corriere che consegna a Faone alcune missive. Cassio Dione (43,
29) racconta che “cercarono Nerone in tutte le direzioni finché non lo trovarono”, ma non spiega
perché le lettere erano indirizzate al liberto proprietario del podere, come precisa Svetonio. Si
sapeva dove era nascosto l’imperatore, il proprietario o chi per lui lo aveva reso noto; quel cercare
da parte dei cavalieri indica solo la difficoltà nell’individuare il casolare, immerso in una
vegetazione palustre e poco frequentato.
Nerone strappa di mano le lettere e scopre quanto gli altri sanno: il senato lo ha dichiarato nemico
della patria, i soldati non sono più legati a lui dal sacro giuramento e chiunque può ucciderlo
restando impunito. La condanna, se catturato, è terribile, come gli riferiscono i compagni:
spogliato delle vesti, con una forca al collo, il reo è percosso fino alla morte. Nerone afferra due
pugnali che ha portato con sé, ne prova il filo, ma poi ci ripensa: “Non è ancora arrivata l’ora
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decisa dal destino”.
Vorrebbe farlo ma non trova il coraggio; pur avendo ordinato molte morti, di sua mano non ha
ucciso nessuno, non ha un carattere temprato da guerre o servizi militari.
Spinge i liberti a iniziare i pianti per il lutto imminente, invita qualcuno di loro a uccidersi per
dargli l’esempio, sa di mostrarsi vigliacco e cerca di farsi forza in greco: “Sto vivendo in modo
disonorevole, turpe. Questo modo di fare è indegno di Nerone, proprio indegno. Ci vuole sangue
freddo in tali momenti. Su, svegliati!”.
Non c’è più tempo. Si sente chiaramente il rumore di zoccoli di cavalli, sicuramente sono soldati
che lo devono prendere vivo. A questo punto, recitando in greco il verso dell’Iliade: “Un galoppo di
veloci destrieri colpisce le mie orecchie” (2, 535), si conficca un pugnale in gola con l’aiuto di
Epafrodito.
Non è ancora spirato quando arriva un centurione fedele a Galba, che potrà fornire una relazione
sugli eventi da depositare negli archivi imperiali. “Fingendo di volerlo aiutare” tampona la ferita
col suo mantello, ma l’imperatore ha ancora il fiato per commentare: “È troppo tardi!”, “Questa è
fedeltà!”. Subito dopo, muore.
L’ultima immagine del trentenne Nerone Claudio Druso Germanico Cesare è quella di un uomo
con gli occhi spalancati, fuori dalle orbite, così fissi da provocare orrore in chi è lì intorno.
Considerando come sono state riferite queste vicende, con un imperatore terrorizzato che evitava
in tutti i modi di uccidersi, che tremava nel sentire l’arrivo dei soldati a cavallo, rimane ancora il
dubbio se la sua scomparsa sia stato l’esito di un suicidio ‘guidato’ o piuttosto di un complotto
culminato nell’omicidio (cfr. Roux 1962; Ranieri Panetta 1999).
Il funerale comunque si svolse con modalità inaspettate per un hostis publicus.
Nerone si era fatto promettere di bruciare intero il suo corpo e così fu concesso da Icelo, potente
liberto di Galba che era stato incarcerato alla notizia dell’insurrezione del padrone; non
immaginava certo di poter ricevere un rituale e una sistemazione degni della porpora imperiale.
Avevano organizzato tutto, al costo di duecentomila sesterzi, le nutrici Egloghe e Alessandra
insieme con la liberta Atte, amante dei tempi giovanili e sempre legata a Nerone.
Prima della cremazione il corpo fu avvolto in una coperta bianca intessuta di fili d’oro, poi i resti
vennero deposti in un sarcofago di porfido, sormontato da un altare in pietra lunense e circondato
da una balaustra in pietra di Taso.
Svetonio, dopo aver descritto la cerimonia funebre, nell’incipit della “Vita” di Galba riporta un
prodigio che noi accogliamo come fortuita coincidenza, se non come leggenda, ma che rimase a
lungo nella memoria popolare: quando la progenie dei Cesari si estinse, nella residenza sulla via
Flaminia di Livia Drusilla, ultima moglie di Augusto, il laureto si disseccò fino alle radici e
morirono tutte le galline.
A Roma erano noti sia l’origine dell’appellativo dell’amena dimora, Ad gallinas albas, sia la
consuetudine legata ai trionfi di ogni imperatore. Tutto era iniziato quando, in questa villa,
un’aquila in volo aveva lasciato cadere nel grembo di Livia una gallina bianca, appena catturata,
che stringeva nel becco un ramo di lauro. La novella sposa di Augusto, ritenendolo un presagio
fausto, iniziò ad allevare quei volatili e piantò il ramoscello che presto divenne un bosco fitto: qui
ogni imperatore raccoglieva l’alloro per le corone delle sue vittorie piantando un nuovo albero, che
poi perdeva vigore alla sua scomparsa. La fine progressiva di animali e piante della villa si era
consumata durante l’ultimo anno del regno di Nerone, ma questo, come altri presagi, non fu preso
in considerazione.
Mancò, all’ultimo dei giulio-claudii, la sepoltura nella tomba monumentale dove riposavano
Augusto, Tiberio, Claudio, zii e cugini; ma non il compianto di tanta gente. Alla notizia della
morte, molti, in segno di gioia, indossarono il pileo, il berretto degli schiavi liberati; ma, ammette
Svetonio, la sua tomba nel mausoleo dei Domizi, sul colle dei Giardini in Campo Marzio, per
lungo tempo venne ornata di fiori, mentre alcuni suoi editti e statue vestite di toga furono esposti
nel Foro. Persino il re dei Parti Vologese chiederà al senato con insistenza, attraverso i suoi
ambasciatori, che ne fosse venerata la memoria. Ritornerà il suo nome nei suoi successori, altri
citaredi con gli occhi azzurri e le lentiggini ne vorranno prendere il posto (cfr. supra, il saggio di A.
Giardina): davvero strano per un tiranno alla cui morte i romani sarebbero scesi in piazza a far
festa.
Tutti coloro che erano stati accanto all’imperatore cercarono di tutelarsi da vendette o accuse.
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Ninfidio Sabino fece di più: ‘sposò’ l’eunuco Sporo (evidentemente le scelte anche anomale di
Nerone servivano alla popolarità) e cercò di sostituirsi a Galba, per il quale proditoriamente si era
battuto, affermando che era figlio di Gaio Caligola; ma venne ucciso dagli stessi pretoriani
(Plutarco, Galba, 9; Tacito, Storie, 1, 5). Ofonio Tigellino, l’altro prefetto “immondo da ragazzo,
impudico da vecchio” (Tacito, Storie, 1, 72), che si era nascosto al momento delle decisioni estreme,
riuscì a farla franca con Galba, ma di lì a pochi mesi, durante il regno di Otone, raggiunto da una
condanna richiesta a gran voce dalla plebe, si recise la gola con una rasoio mentre si trovava ai
Bagni di Sinuessa.
Se degli altri liberti non si conosce la fine, paradossale appare quella di Epafrodito, tra i principali
segretari di Nerone. Aveva ricevuto onori militari e Horti in regalo sull’Esquilino dopo aver fatto
arrestare i congiurati del 65: di certo non intendeva rinunciare ai suoi agi dopo la scomparsa di chi
lo aveva reso ricco e potente. Il suo intervento decisivo nella morte dell’imperatore,
opportunamente fatto circolare, sarebbe stato un titolo di merito con i sovrani futuri. E in effetti
ritroveremo Epafrodito, sempre responsabile a libellis presso i Flavi, finché Domiziano non lo
condannerà a morte proprio a causa di Nerone: un monito a tutto il personale del Palazzo,
sostiene Svetonio, perché “In nessun caso si deve provocare la fine del proprio padrone”
(Domiziano, 14).
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Le ultime parole
Le fonti ci hanno lasciato diversi dicta pronunciati da Nerone durante le sue ultime ore.
Sono stati i liberti presenti e il centurione a riferirli, operando scelte che potevano tornare comode
per la carriera o solo per la salvezza. Tra sfoghi, rimpianti, commenti, che presumiamo più
numerosi, la frase più celebre dell’imperatore resta: “Qualis artifex pereo”, interpretata con un
punto esclamativo: “Quale (grande) artista perisce con me!” e riferita all’attore-citaredo.
Secondo Cassio Dione si tratta di un “detto notissimo” che appare, nella sua versione, come
un’estrema imprecazione, dal momento che Nerone avrebbe esclamato anche: “Per Giove!”. Il
biografo latino, invece, non lo colloca negli ultimi istanti: prima di spirare, i pensieri e le parole
dell’imperatore erano stati rivolti altrove. Queste discrepanze, riguardo i dicta, ricorrono più volte:
evidentemente le fonti consultate li avevano raccolti in un elenco e i due autori li hanno inseriti nel
contesto che ritenevano più opportuno.
La ricerca di pubblici riconoscimenti come cantante e interprete di eroi ed eroine tragiche (Niobe,
Canace, Oreste, Edipo, Ercole) accompagnò Nerone per anni, culminando nella partecipazione a
concorsi prestigiosi quando si fermò in Grecia. Un impegno perseguito con tenacia, per il quale
aveva affrontato prove estenuanti e sacrifici, come riferiscono Svetonio: “Arrivò persino a
sopportare sul suo petto lastre di piombo, standosene supino, a liberarsi lo stomaco con purganti e
stimolatori di vomito, a non mangiare frutta e cibi che potessero danneggiarlo” (6, 20); e Plinio il
Vecchio: “Il porro da taglio è diventato importante per l’uso fatto da Nerone che, a giorni fissi, tutti
i mesi, per curare la propria voce mangiava porri all’olio e nient’altro, senza neppure
l’accompagnamento del pane” (Storia Naturale, 19, 108).
Se però Nerone avesse voluto dare icasticità alla frase avrebbe usato la terza persona – perit e non
pereo – come quando cercava di darsi coraggio esprimendosi in greco; e avrebbe precisato:
citharoedus o altro, se avesse voluto alludere alla bravura teatrale.
Inoltre, il sostantivo artifex (ars - facio), letteralmente il maestro di un’arte, nella letteratura latina
è di solito accompagnato da sostantivi, o verbi, che ne specificano l’ambito d’azione: artifex morbi
è il maestro della medicina, dicendi artifex è quello di eloquenza ecc.
Così del resto lo usa lo stesso Svetonio per definire il soldato abilissimo nel tagliare la testa
(Caligola, 32) e i danzatori (Tito, 7); quando non aggiunge una qualifica, specifica il riferimento:
“di quel genere” intendendo i citaredi di cui sta parlando (Nerone, 20), oppure, nel senso di
artigiano specializzato: “come quello che restaurò la Venere di Coo e il Colosso” (Vespasiano, 18).
Se parla poi di attori teatrali usa il termine artifices, aggiungendo: scaenici (Cesare, 84).
E l’avrebbe specificato anche Nerone se, con quel termine avesse voluto sottolineare le sue doti
drammatiche, al pari di Plinio che bolla come scoenicus l’imperatore sul palcoscenico.
Ci si può chiedere allora perché in questa occasione Svetonio usi il sostantivo senza precisarlo e
perché la maggior parte degli studiosi l’abbia inteso alla stregua di “artista teatrale”. Il biografo
latino forse non ha riferito altre parole precedenti o seguenti che avrebbero chiarito il senso della
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frase, cercando l’effetto tout court; gli editori italiani e stranieri, considerando che alla fine Nerone
si dedicava a tutelare la voce e a descrivere organi idraulici anziché mettersi a capo delle sue
legioni, hanno voluto dare risalto alla figura di un monarca che, con le sue esibizioni, aveva svilito
casato e istituzioni.
Gli studiosi moderni hanno in gran parte ribadito il significato trádito: Cantarella (1931), sulla
scorta del corrispondente greco tecnivth~, usato da Cassio Dione, non ha avuto dubbi
nell’interpretare artifex come attore: anche se Nerone aveva grande stima di sé come citaredo e
poeta, considerava degno di ricordo solo quella sua gloria; e anche per Momigliano (1934), Sande
(1968) e Syme (1971) l’imperatore era un artist, un performer, uno showman: la frase è troppo
aderente al personaggio per poter dubitare sulla sua autenticità (Warmington 1969).
Il termine artifex può però riferirsi, in senso lato, all’autore di una o più opere, al creatore, e con
tale significato lo usa Valerio Massimo nel definire la Natura feconda “creatrice di tutte le cose”
(Factorum et Dictorum Memorabilium Libri Novem, 1, 8 ext. 18). Il filosofo Seneca, che trascorse
molti anni accanto a Nerone influenzandone cultura, politica, e verosimilmente anche l’eloquio,
usa spesso artifex: sia per indicare il pittore e lo scultore che il divino “artefice di opere
meravigliose” (Consolazione alla madre Elvia, 8, 1).
Al dire di Svetonio, Nerone pronunciò la locuzione più volte, come un piagnucolio, mentre dava
disposizioni per la cremazione e invitava i presenti a raccogliere legna e a cercare qualche pezzetto
di marmo, giusto per nobilitare la fossa terragna che avrebbe accolto i suoi resti.
Per tale motivo le parole dolenti, secondo più recenti interpretazioni, non dovevano alludere al
creatore (di scenografie) tantomeno all’attore teatrale, bensì ad un artigiano, in riferimento al
basso gradino sociale raggiunto: “Che artigiano sono nella mia morte!” (Champlin 2003), o alle
esequie della gente comune: “Muoio come un (miserabile) artigiano” che si deve dare da fare per
procurarsi un funerale decente (Sommariva 2006).
È accettabile il senso comparativo (Garboli, 2003, ha proposto: “Muoio come un buffone, un
povero guitto”: un sussulto riflessivo sulla tragicommedia della sua vita), ma per definire l’artigiano
si usavano diversi termini e un imperatore appassionato conoscitore di poemi omerici, che aveva
composto poesie e poemi a sua volta, avrebbe specificato meglio un paragone del genere, se questo
fosse stato il suo intento.
Il vocabolo si può prestare a due interpretazioni, lasciando perdere il significato di attore: non era
quello il momento per sottolinearlo. Oltretutto Nerone esordì da attore tragico in Grecia, dove si
cimentò pure in gare per araldi (Champlin 2003); a Roma era noto solo come citaredo, e forte di
questo talento diceva di potersi mantenere in Egitto (citharoedicam artem, precisa Svetonio, 6, 40).
Quando ha pronunciato il “detto notissimo” dando ordini per la sepoltura, Nerone si vedeva
ridotto al ruolo di regista di serie B. Il qualis può alludere a una similitudine in questo senso:
“Muoio (sto morendo) come organizzatore artistico (del proprio funerale)”. Una constatazione
amara di chi faceva uso di battute ironiche anche nelle ultime ore e poco prima di morire:
ricordando l’invenzione della bibita, in contrasto con quello che era costretto a ingoiare, e
prendendo in giro il centurione che faceva finta di soccorrerlo. Ora, prevaleva il sarcasmo.
Considerando però l’alta concezione che Nerone aveva di sé quale artefice di riforme culturali,
promotore di una nova urbs, è più credibile che il termine rimandasse a colui che aveva operato
nelle arti somme, teatro compreso: di fronte al triste epilogo, ribadiva la sua “umana superiorità”
(Levi 1995; Coccia 2003). Le lacrime sgorgavano per il contrasto, ancora una volta, tra passato e
presente: dall’oro con cui aveva coperto Roma all’anonima e squallida realtà.
Le fonti letterarie evidenziano il suo percorso politico teso verso una monarchia assolutistica di
tipo orientale, basata sul consenso popolare conquistato con la munificenza; nello stesso tempo, ci
restituiscono un imperatore che, oltre ad essere poeta, auriga e citaredo, promuoveva piani
urbanistici innovativi, ispirava e inventava lussuose scenografie, unite all’impiego di macchinari e
materiali rari. A parte il piano regolatore non ancora portato a termine, sarebbe rimasto a
ricordarlo la rivoluzionaria Casa d’Oro inondata di luce e pietre preziose, con la sala rotunda
girevole. È strano che, nelle ultime frasi, non ci siano riferimenti a quanto aveva realizzato di
grandioso, mai tentato prima da alcuno. Quelle parole, che suonano come auto-commiserazione,
paiono richiamare l’artista-creatore nel senso più vasto del termine. Il Nerone che invocava la
morte e non sapeva darsela, rimpiangeva i tanti progetti incompiuti e, soprattutto, l’affermazione
come sovrano solare: un neo-Apollo capace di irradiare benessere e felicità.
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G I AC O M O AG O S T I
S AG G I D I I C O N O G R A F I A N E RO N I A N A
N E L L E A C C A D E M I E I TA L I A N E
T R A OT TO E N OV E C E N TO
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Gli studi che sto conducendo mi hanno permesso di raccogliere sei raffigurazioni di Nerone,
dipinte o scolpite da artisti italiani in un arco di tempo corrispondente alla gestazione del Nerone
di Arrigo Boito. Gli estremi cronologici della serie di queste opere sono infatti il 1873 e il 1910.
Prese nel loro insieme, le sei testimonianze figurative vengono a costituire una sorta di spettacolo
su Nerone, scandito in diversi momenti rappresentati dalle varie aberrazioni del tiranno, di cui
ogni artista fornisce una interpretazione più o meno eversiva.
Pur non sapendo se per la seconda metà dell’Ottocento esista un repertorio tematico (nel campo
artistico, letterario e musicale) come quello redatto vent’anni fa per il Romanticismo Storico, non
mi sembra azzardato affermare che i soggetti neroniani sono particolarmente indicati per avere
un’idea del repertorio figurativo frequentato dagli artisti delle Accademie nel momento successivo
all’Unità d’Italia. Quel momento di rinnovamento istituzionale, e di trasformazione del quadro
storico in quadro “di genere”, di cui proprio Camillo Boito fu uno dei protagonisti.
Le sei testimonianze figurative ci riportano infatti a una serie di abitudini istituzionali tipiche
dell’Accademia (molti Neroni, come vedremo, erano saggi inviati all’Accademia madre dagli allievi
“di belle speranze”, che erano stati mandati a studiare a Roma o a Firenze). I sei Neroni si
prestano, dunque, a vedere come potevano coincidere o divergere le aspettative di maestri e allievi
tra Otto e Novecento.
A conferma di quanto Nerone sia stato un elemento iconograficamente provocatorio, sulla via
della rappresentazione del “vero”, basterebbe il fatto che la prima volta che lo incontriamo, in
un’Accademia italiana dopo l’Unità, sia nel 1873 con il Nerone vestito da donna di Emilio Gallori
(fig. 1).
Si tratta di una scultura in gesso che fu mandata da Gallori ventisettenne all’Accademia di Firenze,
come saggio del suo pensiero artistico romano, e sollevò un tale scandalo che i professori
dell’Accademia ne impedirono la realizzazione in marmo. Il pubblico e settantuno artisti romani
(tra cui due tedeschi) si schierarono invece dalla parte dell’artista. La statua era destinata
comunque a subire una sorte avversa. Adolfo Venturini, storico dell’arte antica, legato in giovinezza
agli artisti fiorentini, ricordava il Nerone di Gallori in uno stanzino dell’Accademia “tutto
scarabocchiato dai voti di plauso di un popolo di ragazzi e d’artisti, ribelli all’Accademia entro le
pareti dell’Accademia stessa”. In seguito se ne persero le tracce. Si disse che la statua fosse
affondata in un naufragio, mentre altri la vogliono finita in Inghilterra, attribuita ad un artista del
Cinquecento.
Sopravvissuta grazie alla sua popolarità che le assicurò una riproduzione fotografica e repliche in
terracotta, la statua ci sorprende ancora oggi come una rivisitazione grottesca del tema di Ercole
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vestito da donna (secondo i capricci della regina Onfale), che risente contemporaneamente delle
aspirazioni naturalistiche presenti nella scultura di Cecioni. All’epoca, nonostante le difficoltà, fu
mandata all’Esposizione Universale di Vienna, ove fu recensita dalla stampa più prestigiosa. La
ricordò Faldella, parlando di un Nerone “camuffato da donna con la barba mascolina, svenevole, il
seno finto, così ributtante, che lo fustigheresti” e soprattutto la descrisse e la analizzò in una lunga
pagina Camillo Boito:
“Questo Nerone è una donnaccia. Le sue mani sono polpute, le sue braccia e le sue spalle cicciose;
non ride, sghignazza; al collo ha una collana, alle orecchie i pendenti, sul capo un diadema, le dita
piene di anelli, nella mano destra uno specchio. [...]. È una di quelle grasse femmine da bordello,
che abitano nelle umide stanze delle stradette luride, vicino ai porti delle città di mare”.
Dopo aver precisato che si trattava di un Nerone intento a recitare sulla scena in panni femminili,
Boito continuava:
“Comunque sia, l’opera del Gallori è energica: l’atto è bene rappresentato; l’espressione è tremenda,
perché sotto a quell’istrione, che buffoneggia, s’indovina il tiranno che uccide; le pieghe sono
largamente gettate; l’esecuzione è degna del concetto – degna del concetto, cioè buona o pessima
secondo che il tema sembra artistico o no”.
Anzi non esitava a dire che “[...] fra tutte le opere della mostra italiana è forse quella che ci ha
fatto più lungamente e seriamente pensare. Questo ci basta, e n’abbiamo d’avanzo, per dire che
coloro, i quali non l’hanno lasciata tradurre in marmo, erano in quel momento accademici gretti e
pedanti”.
Già in quest’occasione Camillo Boito ricordava, oltre al Nerone di Gallori, quello “dell’idealista
[Luigi] Mussini”, e concludeva che entrambi i Neroni erano “diversamente ideali, ma tutti e due
ideali”.
Nel 1876 un nuovo quadro di soggetto neroniano viene esposto come saggio di pensionato. Si
tratta di La vendetta di Poppea di Giovanni Muzzioli (fig. 2), dipinto a Firenze e inviato
all’Accademia di Modena di cui il Muzzioli era allievo.
La scelta dell’artista modenese era caduta su un episodio della vita dell’imperatore meno
trasgressivo del caso di “travestitismo” rappresentato da Gallori. Muzzioli aveva raffigurato infatti il
momento immediatamente successivo alla decapitazione di Ottavia, rea di aver disapprovato
l’unione di Nerone con Poppea. Agiva probabilmente sullo sfondo, nel clima antiaccademico
fiorentino, il successo della statua di Nerone in panni femminili, tanto che anche il quadro di
Muzzioli fu difeso da Telemaco Signorini e da Basini, traduttore del poema di Hamerling
ambientato nella Roma imperiale (Ahasverus in Rom).
Lo “scandalo” vero e proprio cominciò con l’arrivo del dipinto a Modena alla fine del 1876. Si
accusò Muzzioli infatti di non aver rappresentato Nerone, bensì “un romano del 1877 che si sia
mascherato all’antica per fare la sua brava parte in una rappresentazione di quadri viventi”. Fu
Adolfo Venturi, modenese, amico di Muzzioli e all’epoca poco più che ventenne, a capire invece che
il quadro necessitava di una chiave interpretativa particolare: il punto di vista da cui il pittore
aveva guardato la scena era quello di un autore di commedie e non di tragedie, dal momento che
“in casa di Nerone la tragedia piglia l’aria di usual commedia”. In termini visivi, quindi, Muzzioli
aveva intenzionalmente deluso le aspettative più prevedibili degli spettatori (utilizzando un
impianto di studiatissime illuminazioni che lasciavano in ombra sotto al baldacchino la coppia
imperiale) perché il suo scopo era stato quello di cogliere una giornata nella Domus Aurea “con la
grande semplicità del vero”. Il risultato (che spingeva, ancora una volta, a guardare Nerone come
specchio “naturalista” delle diverse perversioni della natura umana) deluderà “l’archeologo, e chi
cerca un carattere; ma non del tutto lo storico e il pubblico: i quali non cercano un Nerone, ma si
interessano alla vista di quella scena che esprime le sublimi discordanze della natura”. Sempre nel
1876, anzi proprio negli stessi mesi delle dispute attorno al Nerone di Muzzioli (un pittore, tra
l’altro, caro anche a Corrado Ricci, che fu storico dell’arte e della scenografia vicino ad Arrigo
Boito), Domenico Gnoli provò a fare il punto sulla “Nuova Antologia” del dilagare delle
rappresentazioni Neroniane. Nel suo articolo Gnoli elencava i soggetti neroniani trattati in
letteratura (romanzi, poesia, teatro) e nelle arti figurative:
“Piglio in mano un romanzo, l’Acté di Dumas e trovo Nerone: in una recente Esposizione artistica
di Firenze non sentivo parlare che d’una statua bizzarra del Gallori, il Nerone: e il Nerone del Cossa
calca tra gli applausi le nostre scene; e un dramma di A. Soumet e Belmontel, Une fête de Néron; e
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un altro di Legouvé padre s’intitola: Epicharis et Néron, e un più recente d’Emile Duneau, La mort
de Néron: un poema appare, or fa dieci anni, in Germania, l’Ahasvero di Hamerling, e il
protagonista è Nerone: ed ecco Nerone in due quadri tedeschi celebratissimi, l’uno del Piloty,
l’altro del Kaulbach: e perché non manchi nessun’arte, apro un Giornale e vi leggo che Arrigo
Boito sta scrivendo in versi un libretto che poi metterà in musica, il Nerone: e proprio adesso
mentre sto scrivendo, mi portano in camera una Novella, L’artista Claudio Nerone, che Giuseppe
Serafini dice di aver tradotto dal francese. E chi sa quante altre opere che non conosco o non
ricordo!”.
La galleria neroniana si è allargata all’Europa, e oltre ai Neroni dipinti da due artisti della cerchia
di Monaco di Baviera, Piloty e Kaulbach, Gnoli concedeva ampio spazio nel suo articolo al quadro
del giovane polacco Siemiradzki, Le luminarie di Nerone, che era appena stato esposto a Roma.
“I Cristiani accusati dell’incendio di Roma, uomini e donne, stanno ad un lato del quadro legati
sopra un filare di pali un dietro l’altro, ed escono solo con la testa e un poco di spalla dall’involucro
di materie combustibili, onde sono avvolti e fasciati come mummie. Nerone sul ripiano d’una ricca
scala del suo palazzo giace in una splendida lettiga [...]. Già uno della Corte dà il segnale con un
panno rosso, e gli esecutori sono lì presso ad appiccare il fuoco. Sotto alla scala, nel primo piano
del quadro, una moltitudine di gente abbandonata al piacere: vecchi coronati di rose, fanciulle
molli, seminude, coll’auree tazze nelle mani, che giocano a’ dadi, l’avanzo voluttuoso di un
baccanale”.
Di fronte a questa ridda di rappresentazioni di atrocità, Gnoli si chiedeva: “Che vuole da noi
questo Nerone? Perché ne traggono tanta ispirazione gli artisti, e il pubblico li segue [...]?” e
cercava di rispondere affermando che Nerone al giorno d’oggi “ha spogliato quell’aspetto orribile e
deforme, con cui spaventava i sogni della nostra infanzia”. Ed è risorto così, “elegante nelle sue
voluttà, amabile ne’ suoi capricci, quasi attraente nella sua ferocia: e si direbbe che tra lui e il
pubblico corrono delle intelligenze secrete, e ch’egli sia accolto con un senso mal celato di simpatia.
[...] oggi le vittime sono andate esse in fondo, per dar risalto alla figura di Nerone divenuto
protagonista”.
Gnoli coglieva, pur restando in un quadro d’insieme comprendente tutte le arti, il problema del
momento, il dualismo tra “vero” e “idea” (“L’imitazione del vero, che era mezzo a rappresentare
l’idea, mancata questa, diviene essa il fine dell’arte stessa”) e vedeva nella scelta dei soggetti
neroniani (“La storia è per l’arte come un immenso magazzino dov’essa sceglie quel che meglio
convenga allo spirito e alle idee del suo tempo, e lo riveste de’ proprii panni”) una conseguenza di
queste rappresentazioni del “vero” identificato a passioni “egoistiche” e “piaceri dei sensi”.
L’anno seguente all’articolo di Gnoli, l’Esposizione Nazionale di Napoli del 1877 avrebbe
confermato le osservazioni dello studioso sulle predilezioni degli artisti contemporanei,
totalizzando almeno tre Neroni: oltre a quello di Muzzioli, furono esposti infatti due quadri di
pittori napoletani pressoché coetanei (nati verso il 1840), e cioè Agrippina che spia il Senato (con
Nerone bambino che fa le boccacce) di Giuseppe Boschetto e Nerone citaredo di Camillo Miola.
Nel 1880 invece, sulla scia del successo toccato al dramma del Cossa, era un vecchio professore di
pittura all’Accademia Carrara di Bergamo, che visualizzava una delle sue ultime fantasie
appoggiandosi alla storia di Nerone. Il professore è Enrico Scuri, il soggetto dell’opera è l’Ultima
notte di Nerone (Atte invita Nerone ad avvelenarsi con onore, secondo il finale del dramma di
Cossa poi musicato da Mascagni). Scuri realizzò con questo titolo un chiaroscuro a pastello,
inviato all’Esposizione Nazionale di Torino nel 1880 (fig. 3), e un disegno preparatorio conservato
all’Accademia Carrara (fig. 4).
Eppure, proprio il fatto che si tratti di un vecchio pittore d’accademia, cresciuto nel clima del
Romanticismo lombardo (ma emarginatosi dalla via maestra di Francesco Hayez), ci conferma
l’impressione che in questo caso al soggetto neroniano non corrisponda alcun rinnovamento
linguistico. Scuri era stato attore filodrammatico in giovinezza e aveva recitato in allestimenti dei
drammi di Alfieri; in pittura era passato dai soggetti mitologici a quelli ossianici a quelli
medioevali italiani – oltre a continuare a dipingere le pale sacre. Era stato collezionato da Andrea
Maffei per le sue illustrazioni della danza dei morti di Goethe, aveva illustrato il Paradiso perduto
di Milton. Era settuagenario, quando dipinse il Nerone, non un giovane sotto i trent’anni come
Gallori o Muzzioli (che aveva illustrato le Veglie di Neri di Fucini).
La sua ambientazione della reggia è molto più scenografica di quella di Muzzioli, tanto che Scuri
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voleva fare del suo Nerone un sipario teatrale. Non si intravede nell’opera nessuna ricerca
archeologica nell’arredo né alcuna sperimentazione naturalistica nelle pose e nei gesti, così come è
del tutto artificiale l’illuminazione.
A una nuova generazione di artisti e a un clima completamente diverso ci riporta il dipinto
successivo, che risale al 1894 e si intitola L’imperatore Nerone osserva il cadavere della madre
Agrippina per suo comando uccisa (fig. 5). L’autore è un pittore nativo di Cremona, Antonio Rizzi,
che aveva venticinque anni al momento di realizzare il quadro. All’interno della nostra serie, il suo
è il primo Nerone che esce dall’Accademia di Brera (dove insegnavano, tra gli altri, Giuseppe
Bertini e Lodovico Pogliaghi) ed è il primo cui sia stata conferita una menzione d’onore, il premio
Fumagalli assegnatogli su giudizio di Bertini e Mosé Bianchi.
L’opera di Rizzi presenta un’esibita e sontuosa ambientazione “archeologica”, secondo il gusto del
pittore anglo-fiammingo all’epoca conosciutissimo in Italia, Lawrence Alma Tadema. La reggia,
diversamente da quella dipinta da Muzzioli, è immaginata infatti come un ambiente interamente
marmoreo, all’interno del quale il pennello del giovane artista cerca di restituire il senso
“fisico”della materia (soprattutto nella vasca riempita d’acqua). La disposizione dei personaggi
segue invece un’evidente dinamica drammatica, aiutata anche dalle gradazioni cromatiche nelle
vesti (il rosa di Nerone, il rosso di Agrippina): lungi dall’essere ricondotta alla quotidianità della
vita nella Domus Aurea, la scena neroniana è presentata quindi come un vero saggio da concorso,
che dimostri le capacità dell’autore nel campo della pittura storica.
Tuttavia la premiazione accademica ci induce a pensare che ormai la tematica dell’imperatore
degenere abbia perso ogni valore eversivo. Che si tratti di Nerone o di un altro personaggio, ha
poca importanza: è cambiato il rapporto degli artisti e del loro pubblico con la storia, le scene della
vita dell’imperatore sono sentite come un fatto da museo o ancor più da teatro, senza alcuna
implicazione naturalistica.
Due anni dopo viene esposta una continuazione ideale alla scena dipinta da Rizzi. Si tratta di
Nerone dinanzi al cadavere della madre di un artista altrimenti ignoto, Angiolo Lemmi. Del
quadro è rimasta soltanto una riproduzione fotografica eseguita in occasione della prima Festa
dell’Arte e dei Fiori tenutasi a Firenze tra il dicembre 1896 e la primavera 1897.
Le occasioni di confronto internazionali erano diventate sempre più frequenti nell’Italia degli anni
novanta (è del 1895 la prima Biennale di Venezia, di cui la Festa dell’Arte e dei Fiori costituisce
una sorta di equivalente fiorentino). Per comporre un quadro che fosse maggiormente in sintonia
con un gusto da “salon” europeo, il richiamo ad Alma Tadema diventava d’obbligo: Lemmi doveva
smorzare quindi la drammaticità che era rimasta nella scena neroniana di Rizzi, sviluppare la
composizione in orizzontale e addensare gli elementi dell’arredamento (alcuni dei quali derivano
probabilmente dal manuale che era servito anche a Muzzioli, La vita dei Greci e dei Romani
ricavata dagli antichi monumenti, di E. Gulh e W. Koner) con un effetto di ostentata
ricostruzione.
Nel dipinto non mancano accorgimenti ingegnosi nella disposizione delle figure (addensate
quanto gli oggetti): si consideri la presentazione di Nerone di spalle, in modo da far perdere
apparentemente il senso drammatico della scena (come già faceva Muzzioli mettendo il tiranno
all’ombra della tenda), la trovata del fumo che salendo dal braciere copre il cadavere di Agrippina e
soprattutto l’inserimento – sulla parte destra del quadro – delle prefiche, che vengono a costituire
(anche visivamente) una sorta di “anima nera” del palazzo imperiale
Siamo arrivati così all’ultimo quadro della serie, che il caso ha voluto rappresentasse il decesso del
tiranno. Questa raffigurazione de La morte di Nerone (figg. 6-7) è stata dipinta nel 1910 da Achille
Jemoli, un pittore morto solo trent’anni fa. Anche Jemoli, come Rizzi si era formato all’Accademia
di Brera, studiando con Tallone (il successore di Bertini), dopo aver svolto l’attività di operaio
modellatore per la Richard Ginori. Aveva trentadue anni al momento di dipingere il suo quadro,
che volle donare immediatamente alla Galleria d’Arte Moderna di Milano.
Su quest’ultimo Cesare – che risale allo stesso anno del Primo manifesto dei pittori futuristi – spira
un’aria di grande semplificazione illustrativa: scene e costumi ridotti all’essenziale, immissione di
marmi, statue e colonne nella vibrazione atmosferica data dalla luce crepuscolare. Per la prima
volta infatti vediamo Nerone su una terrazza all’aperto, dove l’imperatore giace seduto in una posa
simile a quella del contadino stremato dalla fatica che Achille D’Orsi aveva inventato per il suo
Proximus tuus. L’orizzonte è alto come nei paesaggi divisionisti del primo decennio del Novecento,
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e i riquadri e i tasselli sul pavimento della terrazza guidano l’occhio dello spettatore per uno spazio
in gran parte vuoto, delimitato a sinistra dalle aste delle lance e a destra da un gruppo di soldati in
movimento.
Anche questo quadro deve avere fruttato una promozione all’artista, che due anni dopo divenne
socio onorario di Brera. Ma indipendentemente dalla carriera di Jemoli, la fortuna iconografica di
Nerone (che per alcuni decenni era stato l’imperatore “uomo”) non poteva essere facilitata
dall’interesse per la pittura delle “idee”. Lo spazio visivo per il tiranno restava sul palcoscenico e
sullo schermo: tre anni dopo questo quadro infatti, la riduzione cinematografica del Quo Vadis
firmata da Enrico Guazzoni sembrava già ad Auguste Rodin “un capolavoro”.
Si ripropone, senza note, il saggio apparso in Arrigo Boito. Atti del convegno internazionale di studi dedicato al
centocinquantesimo della nascita, a cura di G. Morelli (Fondazione Giorgio Cini, Linea veneta, XI), Firenze 1994. Si è
in debito di gratitudine con la casa editrice Leo S. Olschki che ne ha gentilmente concesso la pubblicazione.
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J E R Z Y M I Z I O L⁄ E K
LUX IN TENEBRIS
N E RO N E E I P R I M I C R I S T I A N I
NELLE OPERE
DI ENRICO SIEMIRADZKI
E JAN STYKA
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“Il signor Siemiradzki, giovane polacco, ha esposto in Roma un suo gran quadro, Le luminarie di
Nerone, che di recente ha tratto molto concorso d’Italiani e di forestieri a vederlo. [...] gli
spettatori, sieno artisti, sieno profani, osservano ammirando la ricca composizione, il colore vero e
smagliante, la varietà dei volti, la perfezione de’ minimi particolari [...]. Quel che a me importa è
il soggetto, Nerone. Egli è da un pezzo che mi perseguita. [...] spogliato quell’aspetto orribile e
deforme con cui spaventava i sogni della nostra infanzia [...] n’è sorto un altro elegante nelle sue
voluttà, amabile ne’ suoi capricci, quasi attraente nella sua ferocia”.
Così scriveva Domenico Gnoli su “Nuova Antologia” dopo aver visto nel giugno 1876 il dipinto di
Enrico Siemiradzki nella sede dell’Accademia di Belle Arti di via Ripetta. Ma oltre all’autore di Le
luminarie di Nerone, di solito chiamate Le torce di Nerone, ci sono almeno tre altri polacchi i cui
nomi si collegano con quello del più famoso e nello stesso tempo del più odiato imperatore
romano. Si tratta di Francesco Smuglewicz (1745-1808), tra l’altro uno degli autori di Le vestigia
delle Terme di Tito e le loro interne pitture (1776) (fig. 1), di Jan Styka, cui si devono belle
illustrazioni per Quo vadis e il dipinto poco noto Nerone a Baia, e infine di Enrico Sienkiewicz, il
più famoso di tutti e quattro, l’autore di Quo vadis. Questo saggio è dedicato innanzitutto alle
opere di Siemiradzki, che oltre al famosissimo Le torce di Nerone dipinse anche altri due quadri
“neroniani” e cioè Dirce cristiana del 1897 e Le future vittime del Colosseo del 1899. Occorre però
dare prima qualche cenno su Smuglewicz; alla fine si parlerà della visione dei tempi di Nerone
nelle opere di Styka e in particolare del suo ritratto del crudele imperatore.
Smuglewicz, la Domus Aurea, Tito e Nerone
Nel 1774 l’antiquario romano Ludovico Mirri faceva sgombrare dalla terra sedici stanze della
Domus Aurea tirando, dai disegni delle decorazioni, copiati dai pittori Francesco Smuglewicz e
Vicenzo Brenna, un album di sessanta incisioni che venne venduto sul mercato antiquario.
Un’informazione del genere è facilmente reperibile in diverse pubblicazioni dedicate alle pitture del
famoso palazzo di Nerone: tuttavia il nome del pittore polacco viene solitamente appena
menzionato, malgrado Giuseppe Carletti, l’autore del volume che accompagnava l’album di Mirri,
ne lodasse la grande impresa.
Smuglewicz (fig. 2) nacque a Varsavia in una famiglia dei pittori; nella città natale compì i primi
studi e giunse a Roma dopo aver compiuto diciott’anni soggiornandovi tra il 1763 e 1784. Nel 1865
divenne uno dei borsisti del re di Polonia Stanislao Augusto Poniatowski, per il quale progettò la
decorazione della Camera dei Signori del Castello Reale di Varsavia. A Roma studiò prima presso
l’Accademia del Nudo in Campidoglio e poi, dal 1765, all’Accademia di San Luca dove conobbe
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artisti di rilievo quali Pompeo Batoni, Anton von Maron e Anton Raphael Mengs. Nel 1766 vinse il
primo premio con L’incontro di Abramo con Melchisedec: il disegno è conservato presso
l’Accademia di San Luca. Suoi anche il bellissimo disegno per il frontespizio del volume Il Vignola
illustrato del 1770, un ritratto del pontefice Clemente XIV e interessanti dipinti nel Palazzo
Borghese a Roma e in una delle ville a Frascati. Fu probabilmente grazie all’appoggio dei suoi
celebri insegnanti che Smuglewicz diventò collaboratore dell’antiquario scozzese James Byres a
Taquinia e poi di Mirri a Roma, ottenendo commissioni di copie di celebri pitture del Seicento per
gli aristocratici inglesi. L’artista eseguì bei ritratti di Byres e dei suoi familiari, tipici nell’epoca di
Grand Tour (c.d. conversation pieces), e un bel dipinto allegorico, una specie di omaggio alla Città
eterna, in cui l’imperatore Tito offre le leggi alla città di Roma dopo la scomparsa di Nerone. Una
statua del tiranno con la cetra, raffigurato come Apollo, si vede infatti sullo sfondo (fig. 3). Mentre
Tito si presenta come imperatore buono e giusto la statua del tiranno fa cadere morti sulla terra gli
uccelli che le volano intorno. Il dipinto poteva essere stato in parte ispirato, come hanno già
osservato alcuni studiosi, da un brano di Svetonio (Tito, VIII, 1): “Essendo molto benevolo per
natura, mentre gli altri principi, seguendo l’uso inaugurato da Tiberio, non ritenevano validi i
benefici accordati dai loro predecessori se non li confermavano loro stessi di persona agli
interessati nella medesima forma, egli fu il primo a ratificare con un solo edito tutti gli atti
precedenti, senza volere che gliene fosse rinnovata la richiesta [...] si fece una regola di non
rimandare indietro nessuno senza lasciargli qualche speranza; anzi, quando gli amici gli facevano
presente che aveva promesso più di quanto poteva mantenere, rispondeva che nessuno doveva
andarsene malcontento dopo un colloquio con il principe [...]”.
Guardando il grande libro del 1776 sulle pitture della Domus Aurea (all’epoca ancora ritenute delle
Terme di Tito) pensiamo prima di tutto a Mirri e a Marco Carlone, l’autore delle incisioni
riprodotte ne Le vestigia delle Terme di Tito, ma il lavoro più impegnativo fu fatto proprio da
Smuglewicz e Brenna, che in condizioni proibitive copiavano gli affreschi con le loro matite. Ben
trentasette tavole realizzò Smuglewicz da solo firmandone alcune: F. Smuglewicz Polonus fec[it]
oppure delin[eavit]. L’opera di Smuglewicz, Brenna e Carlone, sotto la direzione di Mirri, fu poi
resa anche in una versione a colori, costosissima; copie di tutte e due le edizioni sono oggi
custodite nel Museo Nazionale di Varsavia. Cinque incisioni colorate, finora inedite, si trovano
anche in un album proveniente dalla collezione del re Stanislao Augusto Poniatowski, che dal 1818
appartiene al Gabinetto delle Stampe dell’Università di Varsavia (fig. 4). Dopo il notevole successo
di Le vestigia delle Terme di Tito Mirri coinvolgerà Smuglewicz in un altro prestigioso progetto
dedicato al Museo Pio-Clementino in Vaticano, realizzato insieme con Vincenzo Pacetti, Marco
Carloni e Stefano Tofanelli. L’opera di Smuglewicz, che collaborava anche con Orazio Orlandi, un
antiquario finora poco noto, durante il suo soggiorno romano, meriterebbe dunque ricerche e studi
più approfonditi.
L’incisione su disegno di Smuglewicz qui riprodotta (fig. 1) ha il sapore di un mistero
archeologico; l’artista ha riunito nella sua scena i ruderi della Domus Aurea e delle Terme di
Traiano che in realtà sono sparsi in una zona molto più vasta e assai distanti tra di loro. È stato già
notato che le incisioni in Le vestigia delle Terme di Tito e le loro interne pitture denotano una certa
fantasia e libertà rispetto agli originali: sono gli autori stessi a segnalare modifiche e aggiunte
durante il loro lavoro. Ciò nonostante le loro copie rimangono uno strumento fondamentale per la
comprensione della concezione estetica d’insieme della pittura neroniana.
Qualche cenno su Siemiradzki e le sue ‘gesta’
Henryk Siemiradzki (1843-1902) (fig. 5) nacque in una famiglia polacca a Bielgorod vicino a
Charkow in Ucraina dove terminò il ginnasio e studiò presso la Facoltà di Matematica e Fisica
dell’Università; in seguito entrò nell’Accademia di Belle Arti a San Pietroburgo dove si diplomò nel
1870 meritandosi una medaglia d’oro per il quadro raffigurante “Alessandro il Macedone e il suo
medico Filippo”, nonché una borsa di studio di sei anni all’estero. Nel corso del suo viaggio
artistico il pittore prima passò da Monaco di Baviera, dove dipinse L’orgia romana, per poi
trasferirsi a Firenze e infine a Roma dove arrivò nell’aprile del 1872 e abitò quasi fino alla morte.
Nel 1874 dipinse Cristiani nelle catacombe e negli anni 1874-1876 Le torce di Nerone, ora al Museo
Nazionale di Cracovia. La grande tela, eseguita nello studio di via Margutta al numero 5, esposta
nel maggio-giugno del 1876 all’Accademia di Belle Arti di Roma e successivamente a Monaco di
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Baviera e alla Mostra Internazionale di Vienna, gli procurò subito una fama europea e alti
riconoscimenti. Con “insolito entusiasmo fu ammirato”, scriveva nel 1883 G. Gozzoli, “in quasi
tutte le capitali e in molte altre città d’Europa; richiamò l’attenzione di tutti i critici d’arte e meritò
all’autore tre decorazioni d’Italia, Russia e Francia e la gran medaglia d’onore nell’Esposizione
Internazionale di Parigi del 1878”. Nello stesso anno Siemiradzki ottenne anche l’onorificenza della
Légion d’Honneur. Il pittore divenne membro di varie Accademie europee: romana, berlinese,
stoccolmiana e infine, nel 1898, parigina. Dopo la mostra all’Accademia di San Luca, ottenne
l’onorificenza della Corona d’Italia, e nel 1898 il re d’Italia lo nominò commendatore con
l’onorificenza di San Maurizio e San Lazzaro. Tra le più grandi opere, oltre a quelle già
menzionate, ricordiamo Il vaso o la fanciulla (1878, già al Kestner-Museum di Hannover), Tiberio
in Capri (1881, Mosca, Galleria Tretyakov), Frine alla festa di Poseidone ad Eleusis (1889, San
Pietroburgo, Museo Russo), Il trionfo di Venere (1892, Varsavia, Museo Nazionale), Dirce cristiana
(1897, Varsavia, Museo Nazionale) e Le future vittime del Colosseo (1899, Varsavia, Seminario
Vescovile). Siemiradzki, che all’epoca era un pittore celebre ? la sua casa in via Gaeta a Roma era
indicata nell’elenco dei monumenti della guida Baedeker e veniva visitata dalla Regina Margherita,
da molti aristocratici, scrittori e artisti ? appare oggi quasi dimenticato perfino nella città dove
visse per trent’anni ed eseguì numerosi capolavori. Eppure molti di essi raffigurano la grandezza e
lo splendore di Roma antica ed esprimono la sua passione per l’arte delle città vesuviane. In modo
particolare spicca la sua personale visione dell’età dei primi cristiani e del terrore esercitato da
Nerone.
Nel 1879 Siemiradzki, in uno slancio patriottico, offrì Le torce di Nerone alla città di Cracovia,
contribuendo alla creazione del Museo Nazionale. La Dirce cristiana venne offerta dopo la morte
del pittore al Museo delle Arti di Varsavia, che poi diventerà il Museo Nazionale della capitale
polacca.
Le torce di Nerone
Il dipinto più famoso di Simiradzki (fig. 6), che è anche la sua opera più grande (cm 305 x 704), è
ispirato a un passo di Tacito (Annali, XV, 44). Raffigura il supplizio dei martiri cristiani ordinato
da Nerone nei suoi giardini, di fronte alla Domus Aurea. A quei tempi il tema delle persecuzioni di
Nerone era assai popolare nell’ambiente dei pittori tedeschi come Karl T. von Piloty e Wilhelm von
Kaulbach, la cui produzione artistica Siemiradzki poteva ammirare a Monaco di Baviera; il primo
ha dipinto una grande tela intitolata Nerone dopo l’incendio di Roma (1860), custodita presso il
Museo delle Belle Arti di Budapest, il secondo ha eseguito nel 1872 Nerone e le persecuzioni dei
cristiani (Monaco di Baviera, collezione privata). Però, né l’uno né l’altro quadro ha mai goduto di
una fama paragonabile a quella di Le torce di Nerone. Il pittore polacco aveva scelto un tema
affascinante e fu capace di creare una composizione che anche oggi attira grande attenzione. Negli
Annali Tacito narra di come Nerone, per allontanare da sé il sospetto di essere l’autore del terribile
incendio che aveva devastato Roma il 18 luglio del 64 d.C., accusasse i cristiani. Questi, costretti a
confessare, sottoposti a supplizi crudeli, ormai non più per il reato d’incendio, ma per il loro
supposto “odio del genere umano”, secondo la testimonianza dello storico romano, nonostante la
loro presunta colpevolezza suscitarono pietà, perché appariva a tutti evidente che erano puniti non
per il “bene pubblico”, ma per la “crudeltà di uno solo”. Tacito infatti scrive:
“In un primo momento furono arrestati coloro che confessavano la loro fede, poi, su loro denuncia,
moltissimi altri furono giudicati colpevoli non tanto del delitto di incendio quanto di odio per il
genere umano. E alla loro morte si accompagnò anche il dileggio: furono coperti di pelli ferine e
fatti sbranare dai cani oppure vennero crocifissi o arsi vivi, perché come torce servissero da
illuminazione notturna, dopo il tramonto del sole. Nerone aveva offerto i suoi giardini per un
simile spettacolo, mentre dava giochi nel circo e, vestito da auriga, si mescolava alla plebaglia o
partecipava alle corse ritto su un cocchio. Perciò essi, benché si fossero macchiati di colpe e
meritassero le pene mai viste loro inflitte, suscitavano compassione perché venivano sacrificati non
in vista del bene comune, ma per soddisfare la crudeltà di uno solo” (Annali, XV, 44).
Nel suo dipinto Siemiradzki si concentrò soprattutto sulla rievocazione del tetro e magnifico
splendore della corte neroniana, che tra libagioni e mollezze di ogni genere si appresta a godere del
terribile spettacolo, cui sta per dare avvio un ufficiale sventolando il fazzoletto (mappula) rosso. Il
quadro è chiaramente diviso in due parti: nella parte destra, molto più piccola rispetto alla
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sinistra, vediamo i cristiani condannati a morte (fig. 7); sul lato opposto è inscenata una specie di
pantomima del lusso cui partecipano tutte le categorie e le classi della società romana d’età
imperiale (fig. 8). A destra sono legati ai pali e avvolti negli stracci bituminosi i cristiani destinati a
illuminare il giardino di Nerone, in una lunga fila che crea una prospettiva di sbieco. Sotto le
gambe dei martiri sono appese grandi cartelli con un’immagine e una scritta che contiene le
seguenti parole: CHRISTIANUS INCENDIATOR URBIS GENERISQUE HUMANI HOSTIS
(fig. 9). L’immagine riproduce il famoso graffito trovato nel cosiddetto Pedagogium sul Palatino
che raffigura un uomo crocifisso, con la testa d’asino e una persona in sua adorazione (fig. 10).
Questa rappresentazione, scoperta poco prima dell’arrivo di Siemiradzki a Roma, è interpretata
come una caricatura del culto cristiano, fatta probabilmente da uno schiavo per prendere in giro
un suo simile convertito alla nuova fede. Come è noto, all’epoca circolava la leggenda che il dio
degli ebrei e dei cristiani avesse una testa d’asino: la differenza tra le due religioni non era ancora
ovvia. Oggi il graffito è generalmente datato verso il 200 d.C. ma nel secondo Ottocento lo si
riteneva più antico.
L’anonimo autore della recensione pubblicata su “La Libertà” il 22 maggio 1876 ci ha lasciato non
solo una bellissima descrizione dell’opera del pittore polacco ma anche un elogio: “Dinanzi a quel
quadro, chi abbia il cervello un po’ dato all’arte prova un effetto strano: da principio una
meraviglia che è quasi confusione, poi un sentimento inavvertito di interessamento che prende a
poco a poco la mano sulla curiosità indifferente di chi riguarda; poi un suscitarsi di immagini, un
succedersi di idee, una forza segreta che ti costringe, senza quasi che tu te ne avveda, a pensare, e
che ti fa dire per tutta conclusione: questo quadro è un poema!”. Detto ciò, il nostro ammiratore
così descrive il capolavoro di Siemiradzki: “Il sole è tramontato appena; non hai più il giorno e
non hai ancor la notte [...]. Codesta tranquillità solenne dell’atmosfera mentre si confà tanto
coll’espressione dei martiri, fa uno strano contrasto coll’orgia oscena rappresentata nell’altra parte
del quadro [...] Nerone è su in alto, dominando lo spettacolo da un belvedere, ove se ne sta
sdraiato insieme colla moglie Poppea, in una lettiga portata da otto schiavi mori che sono una
bellezza a mirarsi. La lettiga, condotta a lavoro finissimo, con delle ornature di madreperla che ti
paion vere, è di per sé stessa opera tale da fare onore per la fedele riproduzione dell’epoca a
qualunque pittore. Nerone è là, annoiato, tenendo pel guinzaglio una tigre ammansita, il cui
mantello è dipinto con tanta morbidezza che ti fa venire la voglia di palparlo. La vista di quella
tigre così mansueta in mezzo a tanta depravazione umana, fra i rumori varii di quell’ebbrezza
stupida e feroce, suscita nel cervello mille immagini diverse [...]. Attorno, in basso, su in alto fino
all’estrema cornice del quadro si affolla la gente della corte, una turba stranamente mescolata di
schiavi, di senatori, di citarede, di istrioni, di saltatrici, di mimi, tutti coronati di fiori e diguazzanti
nell’orgia in atteggiamenti e abiti diversi, attendono la strana luminara che l’Imperatore ha loro
preparata. Qui, al basso del belvedere una schiava seminuda, appoggiata al balaustro della scala, ti
volge il dorso bellissimo, mentre se ne sta guardando intenta alla scena di morte che le si spiega
innanzi e porgendo l’orecchio alle parole di un uomo che la intrattiene. Più in basso ancora, in
mezzo al primo piano del quadro, attrae l’attenzione la figura di una citareda seduta in terra, e che
abbracciando una sua compagna, riguarda pietosa i cristiani; una delle poche immagini che
mostrino un po’ di commozione in tanta indifferenza. E, in mezzo, e a sinistra gruppi diversi di
vecchi, di fanciulli, di uomini, di adolescenti, di donne: ti par di udire un clamore assordante, un
tumulto di voci che scherniscono, che imprecano o che esultano; ti par di intendere il canto osceno
della schiava ubriacata, il suono acuto della tibia, l’accordo voluttuoso delle cetre, gli evviva a
Venere e a Lieo. Solo in fondo, nell’ultimo canto a sinistra ti si offre innanzi un gladiatore che
guarda alla scena con occhio melanconico e irrequieto (fig. 11). Poi in alto, su per le scale che
scendono dal palazzo di Cesare si riversano i servi, i mille, la plebaglia della corte, gli analfabeti
dello spirito che sono di tutti i tempi i paesi, gli avidi di spettacolo, la gente che non brama altro
che vedere o farsi vedere. Ecco i personaggi che Siemiradzki ha saputo raggruppare in questa parte
del suo quadro: un centinaio forse, o poco meno, di figure, tutte belle, tutte vere, e che mentre
rispondono nell’insieme al sentimento generale che le anima, han pure il merito di serbare ognuna
l’individualità propria”.
L’autore di questa fine descrizione ha saputo dunque individuare le ragioni del successo del grande
dipinto, che già nello studio del pittore in via Margutta 5 era diventato celebre: “In quelle due
scene sì opposte e sì abilmente riunite in un solo concetto artistico, v’è più che la semplice
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riproduzione di un fatto storico; v’è tutto lo spirito di un’epoca storica”. A questo punto vale la
pena di citare un brano da un’altra recensione pubblicata su “L’Opinione” il 16 maggio 1876, cioè
subito dopo l’apertura della mostra: “La figura di Nerone, notevolmente, è sublime di inumanità:
si sente il despota al quale niente e nessuno resiste [...] Un francese, ammirando questo quadro,
diceva con un raro e giusto spirito di giustizia: ‘È superiore al rinomato quadro del nostro
Couture: Les Romains de la décadence (fig. 12); perché il grande pittore francese benché abbia
intitolato la sua opera con un nome antico, ha dipinto dei francesi del tempo di Luigi Filippo, allo
stesso modo che Racine metteva sulla scena i francesi della corte di Luigi XIV sotto il nome degli
eroi di Grecia e di Roma. Così la donna eroicata del Couture, la quale lascia vedere tanta
stanchezza e che a giusta ragione fu ed è da tutti ammirata, non è una romana dell’impero ma una
francese del demi-monde, la signora dalle Camelie. Nel quadro di Siemiradzki non si sente solo il
disgusto d’una società che s’annoia ma la vanità morale d’un mondo che finisce’. Aggiungeremo
che il signor Siemiradzki, nella sua pittura, come Shakespeare nella tragedia, ha un vero e
profondo sentimento dell’antichità romana [...] Il titolo scelto di Siemiradzki è: Le luminarie di
Nerone, ossia i supplizi dei primi martiri cristiani. Sulla cornice si legge il motto sacro: Et lux in
tenebris lucet et tenebra eam non comprehenderunt”.
La creazione del grande dipinto e la sua fortuna presso gli italiani e stranieri sono note grazie a
numerose lettere inviate dal pittore ai suoi genitori. “Molta gente – scriveva Siemiradzki verso la
fine del 1875 – vuole visitare il mio studio, perciò ho dovuto attaccare sulla porta l’avviso che ricevo
soltanto la domenica dall’una alle cinque del pomeriggio, e da tre domeniche nell’atelier, nelle ore
indicate, c’è una folla di curiosi”. Nel marzo o aprile del 1876 il pittore informava i genitori: “Ho
appena finito il [mio grande] quadro e sto già diventando famoso tra i pittori di Roma; mi hanno
fatto visita nello studio Morelli e Alma Tadema [...]”. Come venne studiata e ammirata la sua
opera da parte degli artisti lo racconta un pittore senese, Antonio Ciseri: “[...] io e [Luigi]
Mussini si saltò la barriera che era davanti al quadro per analizzare da vicino il modo di fare del
pittore perché Mussini diceva che nella lettiga di Nerone vi era sotto l’argento e poi velato”.
L’ ‘ideazione’ del quadro deve essere durata assai a lungo, come dimostrano i molti disegni
preparatori, finora in gran parte inediti, conservati presso i musei di Varsavia e di Cracovia. Tra
questi si trova anche un disegno raffigurante Nerone e Poppea su un cocchio. Esistono poi bozzetti
su tela, come quello esposto nel 2007 a Siena nella mostra dedicata a Mussini, che danno la
possibilità di capire lo sforzo del pittore per creare una visione del tutto originale. Successivo è un
disegno in cui le due parti – cristiana e pagana – sono chiaramente divise; questa idea finale era
già apparsa anche su un bozzetto, ora in una collezione privata (fig. 13). Siemiradzki,
nell’intendimento di offrire una ricostruzione quanto più suggestiva possibile dei tempi di Nerone,
cercò ispirazione tra i monumenti antichi esistenti a Roma, tra gli oggetti rinvenuti negli scavi o
presenti nei noti repertori di Luigi Canina. L’opera del Canina, così come gli altri libri della
biblioteca di Siemiradzki si trovano ora presso l’Accademia Polacca delle Scienze a Roma.
Grazie alla sua profonda conoscenza dell’arte antica il Siemiradzki restituì in Le torce di Nerone
una visione affascinante, anche se un po’ eclettica, dell’epoca dei primi cristiani, composta da vari
motivi risalenti non solo ai tempi di Nerone e dei suoi predecessori, ma anche al tardoantico.
Eugenia Querci aveva notato giustamente che nel dipinto “in una spettacolare ambientazione
architettonica, sorprende il futuro Vittoriano a Roma”. Accanto alle ‘citazioni’ oltremodo
interessanti dai famosi rilievi degli archi di Tito e di Marco Aurelio appare inoltre il richiamo
all’Arco di Costantino (fig. 14) con le statue dei Daci che ne caratterizzano l’attico (fig. 15) e alla
lettiga di Nerone, che affascinava Ciseri e Mussini, ispirata ai resti di una lettiga effettivamente
recuperata in quegli anni negli scavi sull’Esquilino con qualche motivo sul baldacchino tratto
dall’arte delle città vesuviane. La lettiga, dipinta da Siemiradzki anche nel quadro La Dirce
cristiana, è l’unico oggetto antico di questo tipo pervenuto fino ai giorni nostri. Siemiradzki
sicuramente la vide nella ricostruzione di Augusto Castellani; prima venne esposta nel Museo dei
Conservatori e ora, da qualche anno, si trova presso la Centrale Montemartini. Per ricreare
l’atmosfera di lusso tipica dell’età neroniana il pittore si servì di numerosi oggetti rinvenuti durante
gli scavi di Pompei ed Ercolano. Qua e là si vedono splendidi askòi ercolanesi ed oinochoai, armi
gladiatorie, cembali, due skyphoi (fig. 16), qualche bellissima coppa d’argento. Se nel quadro non
fossero raffigurati tutti questi oggetti, noti al pittore grazie alle sue visite al Museo Archeologico di
Napoli e a qualche pubblicazione edita all’ombra del Vesuvio, esso non potrebbe ritenersi – per
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così dire – completo. Anche le sculture raffiguranti Sfinge e Centauro sono state esemplate sulle
opere antiche, che Siemiradzki aveva visto in diversi musei o nei tanti libri che possedeva.
In Le torce di Nerone spicca un particolare ideato sicuramente a ridosso del Colosseo, là dove, di
fronte ai ruderi della Domus Aurea, si ergono famosi archi trionfali. Il particolare del dipinto di
Siemiradzki da mettere in luce è un rilievo con la scena di trionfo, posto sulla sinistra a ornamento
del piedistallo di un’enorme statua, verosimilmente il colosso di Nerone (fig. 18). Anche se il rilievo
è in parte modellato su quello dell’arco di Tito il personaggio è di certo Nerone, in ragione della
cetra tenuta in mano; con questo strumento lo mostrano, tra l’altro, alcune monete coniate ca. 60
d.C. L’imperatore, in piedi sul carro, è incoronato dalla Vittoria e preceduto da un trombettiere e
dalla dea Roma. A guardarlo con più attenzione il rilievo dipinto da Siemiradzki si rivela affine a
quello del trionfo di Marco Aurelio, conservato nel Palazzo dei Conservatori; simili i cavalli, il
trionfatore e il trombettiere sullo sfondo di un arco. La dea Roma di Siemiradzki, con l’elmo in
testa e un bastone nella mano destra, prende molto da quella di un altro rilievo di Marco Aurelio
raffigurante un suo adventus, posto a ornamento dell’attico dell’arco di Costantino (fig. 19),
nonché del rilievo della base della colonna di Antonino Pio, ora nei Musei Vaticani. Anche gli elmi
dei soldati attorno alla lettiga di Nerone sono citazioni di quelli rappresentati sui rilievi provenienti
dell’arco di Marco Aurelio, in particolare quello con la sottomissione di barbari all’imperatore. Va
inoltre osservato che il gladiatore raffigurato accanto al basamento del Colosso di Nerone, “che
guarda alla scena con occhio melanconico e irrequieto” porta gli schinieri e l’elmo di bronzo della
medesima foggia di quelli trovati nel quadriportico dei Teatri di Pompei, ora nel Museo Nazionale
Archeologico di Napoli.
La Dirce cristiana
Le torce di Nerone hanno portato a Siemiradzki una fama internazionale; ma in effetti tutte le
opere eseguite fino alla morte del pittore nel 1902 rimasero, in qualche modo, nel cono d’ombra
proiettato da questo capolavoro. Il cristianesimo ai tempi di Nerone era nondimeno tornato al
centro delle sue tele ancora nel 1899, quando venne eseguito un altro bel quadro, Le future vittime
del Colosseo. Due anni prima il nostro pittore aveva dipinto la celebre Dirce cristiana (cm 263 x 534),
in cui compariva di nuovo il crudelissimo imperatore (fig. 20). Ecco l’opera nella descrizione del
maestro: “La ragazza, legata al toro con corde ricoperte di fiori, mezza morta per timore, vergogna
e dolore. L’animale, ucciso dai gladiatori, gronda di sangue. Lo spettacolo è finito. Nerone si adagia
su una lettiga dorata. Ordina agli schiavi numidici di portarlo sull’arena. In compagnia del prefetto
del pretorio, il terribile e dissoluto Tigellino, e qualche altro cortigiano, l’imperatore si avvicina al
cadavere della martire cristiana, ammirando quel gruppo mitologico, di rara e plastica bellezza, che
aveva fatto riportare in vita”.
Per studiare la composizione di La Dirce cristiana, come era accaduto nel caso di Le Torce di
Nerone, Siemiradzki eseguì molti disegni preparatori oggi conservati presso il Museo Nazionale di
Varsavia e un bozzetto custodito in uno dei musei di Silesia: in essi la bella martire è legata alla
schiena del gigantesco animale in corsa furiosa; v’è anche un possente uomo seminudo che segue
la bestia. Forse in questa versione il pittore avrebbe voluto avvicinarsi alla famosa descrizione di
Enrico Sienkiewicz nel suo più celebre romanzo; quindi l’uomo che insegue il toro potrebbe essere
interpretato come Ursus. L’architettura del circo è completamente diversa da quella raffigurata
nella versione finale e Nerone si trova ancora tra gli spettatori del drammatico evento. Siemiradzki
decise poi sapientemente di rappresentare la scena finale: il toro e la martire sono già morti e il
crudele imperatore si è avvicinato per osservarli meglio. Si sa che il pittore per dipingere le sue
grandi tele usava vari accessori, fotografie ecc. e che per l’occasione si recò addirittura da un
macellaio a studiare attentamente i diversi atteggiamenti dei tori ancora vivi e di quelli già uccisi.
Nell’ultimo bozzetto, che è conservato presso il Museo Nazionale di Cracovia, già appare la
soluzione finale con un gruppo di persone sulla destra.
Il dramma raffigurato nel dipinto si svolge nel circo di Caligola e Nerone, dove ora sorge la basilica
di San Pietro. Ispirandosi ai quadri del Tintoretto l’artista dipinge il circo di sbieco. In basso,
nell’angolo destro, i gladiatori che, ucciso il toro, guardano compassionevoli la bella martire; e con
lei sembrano ricollegarsi idealmente al lato destro, “cristiano”, di Le torce di Nerone. Accanto ai
gladiatori una lettiga: l’abbiamo già vista, è quella delle Torce. Nerone, obeso come lo descrive
Svetonio, a prima vista suscita ribrezzo, al pari di Tigellino che gli sta accanto. Il senatore in fondo
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a sinistra potrebbe essere – suggerisce Witold Dobrowolski – Seneca. Non potendosi rifare a
nessun modello, nel dipingere il circo l’artista si avvale di svariati motivi, tra cui il cortile ad arcate
di Palazzo Venezia con la torre della chiesa di San Marco (fig. 21). Non meno affascinanti i rilievi a
ornamento della balaustra e, su di essa, i candelabri con sfingi, forse esemplati su un candelabro
rinascimentale conservato a Firenze nel Bargello, mentre i piccoli rilievi figurati richiamano i
famosi rilievi con le fatiche di Ercole della facciata della basilica di San Marco a Venezia. Una certa
‘venezianità’ del quadro sembrerebbe voluta: infatti, dopo la presentazione a Roma (come diverse
altre mostre di Siemiradzki, presso l’Acquario in piazza Fanti, accanto ai resti delle mura Serviane),
il dipinto sarebbe stato esposto nella città lagunare.
Tutti abbiamo trepidato per Ursus, che nel capitolo LXVI di Quo vadis sfida il gigantesco toro al
cui corpo è legata la bella Licia. Sienkiewicz e Siemiradzki, che erano amici, fecero tesoro della
lettura di Tacito, Svetonio e Cassio Dione, ma anzitutto del celeberrimo L’Antéchrist di Ernest
Renan pubblicato nel 1873. Questi racconta come a Nerone fosse venuto l’uzzolo di comporre al
circo un quadro vivo del famoso gruppo ellenistico raffigurante Dirce, regina di Tebe, punita dai
figliastri Anfione e Zeto che la legano alle corna di un toro (fig. 22). Vittima del capriccio imperiale
è una giovane cristiana. Siemiradzki si concentra sul momento in cui Nerone, annoiato dalla
monotona corsa del toro, ordina ai gladiatori di abbatterlo. Mentre la servitù scioglie i lacci che
legavano alla coda della bestia la povera vergine in fin di vita, Nerone le passeggia accanto e con
fare circospetto valuta il fascino della tragica fine dello spettacolo.
“Sempre più spesso sento dire – scriveva Siemiradzki – di aver attinto il motivo della mia Dirce
cristiana dal romanzo Quo vadis di Sienkiewicz. Nulla di più errato. Ho cominciato a dipingere
questo quadro oltre dieci anni fa, quindi dieci-quindici prima della pubblicazione del celebre
romanzo. […] Distratto da altri, improrogabili impegni, ho spesso abbandonato questa mia tela,
tant’è che soltanto da ultimo ho potuto mettermici di buona lena. Peraltro, pur condividendo
l’unanime e meritato apprezzamento per il romanzo di Sienkiewicz, riterrei malproprio che
un’opera pittorica di vaglia prendesse lo spunto da un romanzo. Quanto all’affinità di contenuto, la
si spiega facilmente: il pittore e lo scrittore ricompongono il passato studiando i medesimi
personaggi e quadri. Quanto a me, l’idea di dipingere la mia Dirce mi è venuta leggendo
L’Antéchrist di Renan. Nel capitolo Massacre des chrétiens. L’esthétique de Néron ho trovato la
descrizione della mia scena, tratta dalle testimonianze di Clemente romano e Igino. Lo stesso fatto
storico, le medesime fonti hanno suggerito a Sienkiewicz la sua Licia, a me Dirce”.
A questo punto vale la pena di ricordare che nella nota e preziosissima, anche se non del tutto
chiara, epistola ai Corinzi di Clemente, vescovo di Roma, datata solitamente verso il 96 d.C.,
vengono menzionati quadri vivi, messi in scena durante una persecuzione dei cristiani, ispirati
dalle opere d’arte o sui miti. Il quinto e il sesto paragrafo della lettera permette di comprendere
perché Dirce fu scelta per il crudele spettacolo. Qui il vescovo, che lancia un monito contro la
gelosia, parla dei martiri della sua generazione, che soffrirono per essa. Vengono menzionati Pietro
e Paolo, condannati a morte al tempo di Nerone, e le donne che subirono la persecuzione a causa
della gelosia, testimoniando la loro fede al modo delle Danaidi e di Dirce. “Qui si apre – scrive
Edward Champlin (2008), seguendo le osservazioni di K.M. Coleman (1990) – un prezioso
squarcio sulle ‘farse fatali’ dello spettacolo; il contesto è sicuramente neroniano perché l’unica
persecuzione dei cristiani organizzata in modo tale da provocare sofferenze infinite su vasta scala,
per non dire in maniera teatrale, fu quella di Nerone dopo il grande incendio. E ciò vuol dire che
qui l’anonimo drammaturgo deve essere Nerone”. Infatti Dirce avrebbe trovato facilmente posto
nello spettacolo di Nerone e la sua tragica storia rispondeva bene alle aspettative degli spettatori.
Nel caso della morte di Dirce si trattava di una pena particolarmente significativa per gli incendiari
nel 64. “Di tutta la devastazione – continua Champlin – causata dal grande incendio, Cassio Dione
nomina soltanto quella del Palatino e la distruzione del primo e – fino ad allora – unico anfiteatro
permanente di Roma, quello costruito nel Campo Marzio nel 26 a.C. dal fortunato generale di
Augusto, Statilio Tauro. Questo importante monumento era noto, come dice Dione, col nome di
amphitheatrum Tauri, l’anfiteatro di Tauro, o, letteralmente, anfiteatro del Toro. Per i romani
appassionati di esecuzioni, la morte per opera di un toro infuriato inflitta a coloro che avevano
distrutto l’anfiteatro del Toro doveva essere il colmo dei giochi di parole.”
Il 13 marzo del 1897, durante una visita nello studio dell’artista la regina Margherita, che si recava
a tutte le mostre delle opere di Siemiradzki, scrisse queste parole nell’Album degli ospiti (ora
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conservato presso il Museo Nazionale di Cracovia): “Margherita in ammirazione davanti alla Dirce
cristiana.” In seguito, nel 1898, il re Umberto II nominò l’artista commendatore con l’onorificenza
di San Maurizio e San Lazzaro. Poco dopo, nella primavera del 1899, fu pubblicata la prima
traduzione italiana di Quo vadis?. “Il romanzo – scrive Maria Bersano Begey – ottenne un successo
che non ha paragone con quello di nessun altro libro, né italiano né straniero, fatta eccezione per I
promessi sposi [...] Dal 1899 al 1939 si contano nei repertori bibliografici non meno di settanta
edizioni del Quo vadis?, ma molte ristampe sono sfuggite al controllo, senza contare quelle fatte
alla macchia, sì che siamo ben lungi dall’esagerare ipotizzando fino a cento edizioni [...] Si
studiarono anche le fonti storiche del romanzo, Orazio Marucchi fece una dotta introduzione
storico-archeologica all’edizione Desclée Lefebvre”. La casa editrice Detken e Rocholl di Napoli
dopo aver venduto trentamila copie di Quo vadis regalò allo scrittore una copia di bronzo del
famoso gruppo ellenistico raffigurante Dirce.
Le future vittime del Colosseo
“Nessuno dipinge così come Siemiradzki il movimento dei raggi del sole, scriveva Sienkiewicz”. Il
grande scrittore aveva in mente un dipinto intitolato La danza tra le spade del 1879, ma lo stesso
vale per Le future vittime del Colosseo (fig. 23). In questo bellissimo dipinto è rappresentato in
primo piano un gruppo di persone che ascoltano attentamente la lezione di un vegliardo barbuto
(probabilmente uno dei seguaci di San Pietro o San Paolo). Sullo sfondo vengono raffigurate
alcune costruzioni romane, tra cui il Colosseo accanto al quale spunta un enorme monumento dai
caratteristici raggi attorno al capo. È senza dubbio il famoso colosso di Nerone in veste di Sole,
eretto da Zenodoros, con una statua di Vittoria nella mano destra, da cui deriva il nome del più
conosciuto anfiteatro del mondo antico. Per dipingere il Colosso, ormai scomparso da secoli,
Siemiradzki – possiamo essere certi – non si era limitato a leggere Svetonio (Nerone, XXXI, 1) e
Plinio il Vecchio (Storia naturale, XXXIII, 45) ma aveva anche studiato le fonti iconografiche, le
monete antiche, come quella di Gordiano III, e le ricostruzioni ottocentesche. Nel dipinto in
esame il Colosso si erge molto vicino all’Anfiteatro Flavio: quindi vediamo la situazione in essere
dopo lo spostamento della statua dal centro dell’atrio della Domus Aurea, avvenuto in età
adrianea, tra il 126 e il 128 d.C., a causa della costruzione del Tempio di Venere e Roma. Ma
esistono disegni preparatori di Siemiradzki che non lasciano alcun dubbio in merito alla sua
conoscenza della collocazione originaria della statua ai tempi di Nerone (fig. 24). In uno schizzo
vediamo il Colosso assai distante dall’anfiteatro con il volto rivolto ad esso, né il pittore ha omesso
la nota fontana con la sua forma conica – la Meta Sudans – ricostruita solo in età domizianea.
La gigantesca statua dorata, il Colosseo e la Domus Aurea fanno grande impressione ma dalla
bocca del pedagogo cristiano, che tiene nella mano sinistra un rotolo con gli scritti in greco, escono
le parole che hanno la forza di cambiare il mondo. Le donne che gli siedono di fronte e il
compagno che gli sta accanto ascoltano con grande attenzione; dal volto di una di loro traspare
una profonda conversione spirituale. Con questo quadro, di formato molto ridotto rispetto a Le
torce di Nerone e alla Dirce cristiana, il pittore polacco, per il quale l’Italia fu la seconda patria,
pose fine alle sue straordinarie visualizzazioni dei tempi di Nerone, temi e soggetti che fin dal 1872
gli erano stati cari e grazie ai quali divenne uno dei più famosi pittori del secondo Ottocento.
Nerone a Baia di Jan Styka
Jan Styka (1858-1825) è un pittore ormai quasi completamente dimenticato, salvo forse a Forest
Lawn nei pressi di Los Angeles, dove si trova la sua gigantesca opera Golgota (m 12 x 50) del 1896.
Il 28 aprile 1935 su “L’Osservatore Romano” era stato tuttavia pubblicato un bel testo su di lui:
“Alla Galleria Angelelli, in via del Babuino 41, si è aperta una mostra postuma di opere del pittore
polacco Jan Styka. La produzione di questo artista, il quale, nato in Polonia nella seconda metà
dell’Ottocento, morì nel 1925 a Capri, dove da vari anni viveva e dove esiste un museo che
raccoglie quadri e disegni suoi, è qui solo ed in piccola parte rappresentata, ché le opere sue più
importanti e significative andarono ad ornare gallerie e musei di Europa e di America, e molte si
trovano in Francia, ove il pittore fece lunga dimora. […] Allievo di Jan Mateiko, prix de Rome,
accademico di San Luca, decorato della Legion d’onore, Jan Styka godette larghissima rinomanza e
stima; lavorò in Polonia, in Italia, in Francia ed in Palestina; della propria patria illustrando nei
suoi quadri le epiche gesta e le battaglie, glorificandone gli eroi; a Roma eseguendo varie tele di
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soggetto cristiano – quella, fra le altre, di imponenti dimensioni, intitolata Martiri cristiani al
circo di Nerone, che, acquistata dal Museo di New York, doveva sventuratamente perire fra le
fiamme; portando a termine, in Francia, la poderosa opera di illustrazione dell’Odissea di Omero,
oltre ad altri quadri, e numerosi ritratti; studiando, in Palestina, i sacri luoghi della Passione di
Nostro Signore, dai quali trasse la famosa tela intitolata Il Golgota che tanta unanime
ammirazione doveva suscitare”.
È stato Styka a dipingere molti quadri ispirati dal Quo vadis?. Il pittore allestì nella sua Villa
Certosella sull’isola di Capri un museo dedicato al capolavoro letterario di Sienkiewicz in cui erano
esposte ventidue grandi tele che furono riprodotte in alcune edizioni italiane di Quo vadis? Tutti
questi quadri furono inoltre illustrati nella pubblicazione intitolata Museo Quo vadis? Opere di Jan
Styka. Capri Villa Certosella (Napoli 1925, ed. D. Trompetti). Tra i più interessanti sono quelli
raffiguranti Nerone e la scena dell’incontro di San Pietro con Cristo sulla Via Appia quando
l’apostolo pone la famosa domanda: Quo vadis Domine? In essi lo sguardo truce dell’imperatore
contrasta con la straordinaria luminosità di Nostro Signore. In questa sede possiamo trattare di un
solo dipinto, Nerone a Baia, che fa parte della mostra.
Nel quadro il giovane Nerone è seduto su un trono di marmo e intento a contemplare il golfo di
Napoli con il Vesuvio, fumante, sullo sfondo. I primi raggi dell’alba colorano di rosa le acque del
mare, distese e calme, le poche nuvole, la tunica bianca del Cesare appesantito (fig. 25). Il viso è
lugubre; alle sue ginocchia si stringe, ad occhi socchiusi, una bella tigre striata (fig. 26). Li
accomuna la medesima violenza, appena celata. Il pittore indugia sul parallelo tra il vulcano
pronto a esplodere in ogni momento, Nerone, il cui carattere è un tetro mistero, e la belva che pur
desiderosa di carezze è sinonimo di forza e crudeltà. I braccioli del trono, in forma di teste di capro
a simboleggiare la tragedia, stanno forse a evocare la passione del despota per il teatro. È noto che
Napoli e i dintorni di questa città gli erano tanto cari da indurre gli architetti Severo e Celere, che
progettavano per lui la Domus Aurea, a richiamarsi ai paesaggi di Baiae nel dar forma al terreno
in cui andavano edificando la sua residenza. Fonti antiche informano che egli si era esibito in
pubblico per la prima volta proprio nel teatro di Napoli, riscuotendo un singolare successo. “Si
esibì per la prima volta a Napoli – scrive Svetonio – e non terminò di cantare prima di aver finito il
suo pezzo, nonostante un’improvvisa scossa di terremoto avesse fatto tremare il teatro. In quel
medesimo teatro cantò numerose volte e per diversi giorni [...] (Nerone, XX, 2). A Baia si compì
inoltre un evento crudele e tragico. Proprio lì Nerone decise di uccidere la madre e forse il dipinto
di Styka illustra il passo di Svetonio in cui si legge: “[...] in modo che ella morisse o per naufragio
o per il crollo di ponte; fingendo quindi una riconciliazione, la fece venire a Baia [...] e quando la
madre volle ritornare a Bauli, le mise a disposizione la nave truccata [...] Passò il rimanente della
notte vegliando, pieno di agitazione, e attendendo l’esito dell’impresa [...] (Nerone, XXXIV, 1-3).
Sienkiewicz e Siemiradzki sulla Via Appia, al Foro Romano e al Colosseo
È stato giustamente notato da numerosi studiosi, tra cui Maria D’Amico, che l’epoca di Nerone,
così attraente per l’arte e la letteratura, aveva richiamato su di sé l’attenzione nel Romanticismo ed
era diventata argomento d’interesse generale verso il 1870. Nel 1866 Józef Ignacy Kraszewski,
amico di Siemiradzki e Sienkiewicz, pubblicava un libro poco noto fuori dalla Polonia intitolato
Roma ai tempi di Nerone; nel 1873 in Francia usciva l’Anticristo di Renan e contemporaneamente
in Italia, a Casal Monferrato, appariva il Mondo antico di Agostino della Sala Spada, mentre
fiorivano gli studi di archeologia cristiana di Orazio Marucchi, Giovanni Battista de Rossi e di
padre Semeria. In Germania Karl T. von Piloty e Wilhelm von Kaulbach dipingevano le grandi
tele, già menzionate: Nerone dopo l’incendio di Roma (1860) e Nerone e le persecuzioni dei
cristiani (1872). Quindi Siemiradzki portò a termine le sue Torce di Nerone in un clima culturale
fra i più propizi, riuscendo a creare magistralmente un dramma che suscitò l’interesse di migliaia
di persone in tutta l’Europa.
La fama del suo grandioso dipinto non era destinata a tramontare nei decenni seguenti. “Il pittore
ha un vero e profondo sentimento dell’antichità romana [...] Supplizio dei martiri cristiani
ordinato da Nerone è senza dubbio uno dei più grandiosi capolavori dell’arte moderna. Giammai il
terrore, la pietà, l’entusiasmo della fede erano stati ritratti con maggior efficacia e potenza”. Così
scriveva il 28 dicembre del 1888 Francesco D’Arcais su “L’Opinione” dopo la visita della regina
Margherita nello studio del nostro pittore. La pittura di Siemiradzki risplendeva di classico
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accademismo ma i suoi modelli erano tratti direttamente dal popolo italiano e infatti l’artista può
essere considerato al contempo il pittore della gente italiana e del paesaggio italiano. Il nostro
pittore fu anche il cicerone di Sienkiewicz durante i suoi soggiorni romani.
Sienkiewicz venne per la prima volta a Roma nel 1879 e vi trascorse quasi tutto l’ottobre. La sua
bellissima Lettera da Roma, pubblicata nello stesso anno, è il principale documento rivelatore delle
sue prime “osservazioni” romane. Questa lettera è – come ha scritto Bronisl⁄ aw Bilinvski – un
elemento importante anche per la comprensione della genesi di Quo vadis?, poiché in essa sono
presenti quasi tutti le componenti fondamentali del romanzo e soprattutto la sua idea centrale: la
relazione dello spirito umano contro l’idea dello Stato rappresentato da Nerone che inghiotte tutto.
“Sulle rovine del Foro – scrive Sienkiewicz – si leva la maestosità indescrivibile di un grande
passato [...] con questo canto tutto intorno a me, io mi inoltravo nel Foro Romano, nel grande
sepolcro dell’antichità; e mi commuovevo al vedere spalancato davanti ai miei occhi il sublime
libro dell’epos romano, scritto a marmi e rovine [...] Là per la via Sacra passavano i carri dei
trionfatori; e, dietro ad essi, venivano incatenati, i re dei barbari, ripensando mestamente alle selve
native [...]”. Dal Foro lo scrittore passa al Colosseo e così scrive: “[...] l’imperatore Vespasiano
eresse un così splendido Colosseo, e Tito fece che vi si sbranassero reciprocamente migliaia di
schiavi e di bestie feroci. Il popolo era soddisfatto [...] Il popolo amava perfino Nerone che gli
serviva insieme da imperatore e da primo commediante [...] Dai cunicoli del Colosseo usciva fuori
ogni notte il ruggito dei leoni. Oggi, questa immensa rovina è deserta e abbandonata; ma a quei
tempi, tra i ruggiti delle belve e il rantolo dei moribondi, novantamila gole urlavano,
centocinquantamila mani applaudivano, le dita s’innalzavano in alto o in basso, i gladiatori
ripetevano il loro Ave Caesar, morituri te salutant”.
Il secondo soggiorno romano dello scrittore avvenne nel 1886, durante il viaggio di ritorno dalla
Grecia, quando, attraverso Brindisi e Napoli, Sienkiewicz raggiunse Roma da sud. Le seguenti
visite ebbero luogo negli anni 1893-1894. Un giorno sulla Via Appia, non molto lontano da Porta
Capena, Siemiradzki aveva mostrato a Sienkiewicz una piccola chiesetta, dove c’era un po’ corrosa
dal tempo, un’iscrizione nella quale lo scrittore aveva finalmente trovato il titolo della sua opera. In
una lettera del 1912 inviata al critico francese Boyer d’Agen, Sienkiewicz scriveva: “L’idea del ‘Quo
vadis?’ è sorta in me durante la lettura degli Annali di Tacito che è uno dei miei autori preferiti, e
durante un più lungo soggiorno a Roma. Il famoso pittore polacco Siemiradzki che, a quei tempi,
abitava a Roma, è stato la mia guida per la Città eterna e durante una delle nostre passeggiate mi
ha fatto vedere la cappella ‘Quo vadis?’. Fu allora che mi venne in mente di scrivere un romanzo su
quest’epoca e ho potuto realizzarlo grazie alla conoscenza delle origini della chiesa”.
In questo “dialogo” tra il pittore e lo scrittore dopo il trionfo di Le torce di Nerone nascevano Quo
vadis? (1893-1895) e La Dirce cristiana (1892-1897). Entrambi contestualizzarono i materiali
attinti da Tacito, Svetonio e Cassio Dione ma prima di tutto dal famoso libro di Renan e
arrivarono a ipotizzare forse anche una discendenza dei Lechiti (che vuol dire polacchi) dai Lici.
Come scrive Luca Bernardini nelle sue osservazioni sull’opera di Sienkiewicz: “La vittoria finale dei
cristiani sul loro persecutore ha una valenza provvidenziale che rende irrilevante il fatto che
Nerone in realtà sia caduto vittima di una congiura di palazzo. Il successo pressoché ininterrotto e
universale del romanzo fin dal suo apparire ha molto a che vedere col funzionamento della
letteratura apocrifa e la sua capacità di illustrazione e integrazione della vicenda evangelica”.
L’auspicio è che la mostra al Colosseo, presso il Foro Romano e sul Palatino rinnovi l’interesse per
il capolavoro di Sienkiewicz e apra finalmente la strada a una migliore conoscenza di Siemiradzki,
proprio a Roma, dove l’artista dipinse tutte le sue tele, che un tempo godevano di una fama
internazionale. Siemiradzki, con Smuglewicz e Styka, potrebbe ripetere infatti le parole di Enrico
Sienkiewicz scritte nella sua novella Sulla costa luminosa: “Ogni uomo ha due patrie: la prima è la
propria, l’altra l’Italia”.
Per concludere non rimane che citare la chiusa del Quo vadis?: “E così passò Nerone, come una
bufera, come un uragano, come una fiamma, come passa la guerra o la morte; mentre la basilica di
Pietro governa ancora, dal colle Vaticano, la città e il mondo. Vicino all’antica Porta Capena c’è
anche oggi una cappellina con l’iscrizione, un po’ logorata dal tempo: ‘Quo vadis, Domine?’”.
Vorrei ringraziare Nunzio Giustozzi e Leszek Kazana per la revisione del testo italiano.
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GIUSEPPE PUCCI
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Il cinema aveva appena emesso i primi vagiti (la creatura dei fratelli Lumière è ufficialmente
venuta al mondo il 28 dicembre 1895), quando, già nel corso del 1896, Georges Hatot,
collaboratore dei Lumière, girò il primo peplum della storia: durava 52 secondi, e si intitolava
Neron essayant des poisons sur des esclaves. Da allora Nerone non ha più abbandonato gli schermi.
Nel corso di un secolo e passa, al primato cronologico su qualunque altro personaggio storico si è
aggiunto il primato quantitativo. Con più di 50 film in cui è protagonista o comprimario (vedi la
Filmografia in appendice*), Nerone sbaraglia ogni altro concorrente (lo supera solo Gesù Cristo,
ma quello gareggia, diciamo così, in un’altra categoria).
Le ragioni di tanto successo sono facilmente comprensibili: rappresentare Nerone dà la possibilità
di mettere in scena un tiranno depravato e istrione, col suo seguito di cortigiani dissoluti e
imperatrici libidinose, il tutto sullo sfondo del conflitto epocale tra paganesimo e cristianesimo,
con annesso incendio di Roma e martiri dati in pasto ai leoni. Di elementi per far presa sul
pubblico ce ne sono perfino troppi, e il cinema li ha saputi sfruttare tutti.
Prima ancora del cinema, però, altri generi di spettacolo avevano saputo vendere Nerone alle
masse. In Italia dal 1872 veniva rappresentato con successo l’omonimo drammone popolare di
Pietro Cossa, dal quale ancora nel 1935 Pietro Mascagni trasse il suo Nerone. Per restare al teatro
musicale – dove Nerone aveva fatto peraltro un altro ingresso precoce, nel 1642, con
L’incoronazione di Poppea di Monteverdi – sono almeno 28 le opere che tra Otto e Novecento
hanno portato Nerone sulla scena (anche se nessuna – a dire la verità – è diventata mai popolare:
neanche il Nerone di Arrigo Boito, che pure costò a quest’ultimo oltre mezzo secolo di fatiche).
Oltre che con il teatro, il cinema ebbe a fare i conti, ai suoi esordi, con un altro potente
concorrente: il circo (Verdone 1963). Oggi non ne è rimasta molta memoria, ma all’epoca fu un
fenomeno di grande rilevanza. Verso il 1889, per esempio, il famoso circo Barnum fece una
tournée in America e in Europa con uno show intitolato Nero, or the Destruction of Rome (Verdone
1970). Lo spettacolo consisteva in una serie di quadri, che si susseguivano secondo una vera e
propria sceneggiatura: orge imperiali, combattimenti di gladiatori, l’incendio di Roma, e i cristiani
trasformati in torce umane. Il realismo delle fiamme costituiva l’attrattiva maggiore di questo
genere di spettacoli (un altro blockbuster fu, ovviamente, gli Ultimi giorni di Pompei), tanto che
per essi fu coniato un neologismo: pyrodrama. Difficilmente un film come Nero and The Burning
of Rome, del 1908, benché realizzato dalla tecnologicamente agguerrita Edison Film, avrà potuto
reggere il confronto. Né lo poteva il Nerone che Luigi Maggi girò nel 1909, anche se la sequenza
virata in rosso dell’incendio di Roma impressionò la critica per il suo effetto drammatico. Per il
resto il film, che in 14 minuti riesce a comprimere gli eventi che vanno dal 62 al 68, è una
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giustapposizione di scene maldestramente collegate fra loro, con i personaggi che si limitano a
gesticolare enfaticamente. La sceneggiatura, poi, è alquanto disinvolta nei confronti della verità
storica. Nerone che suona la cetra contemplando le fiamme è ancora perdonabile, dato che questa
leggenda era già ben radicata nell’immaginario collettivo (Gwyn 1991, p. 155, n. 28), ma c’è di più:
vediamo il popolo che, sdegnato per l’assassinio di Ottavia, si solleva contro Nerone, il quale, non
sapendo che pesci pigliare, decide come diversivo di incendiare Roma. E poco importa se nella
realtà l’incendio avvenne due anni dopo la morte di Ottavia.
L’impulso decisivo alla fortune cinematografiche di Nerone venne dalla pubblicazione del Quo
vadis? di H. Sienkiewicz. Il romanzo uscì originariamente come feuilleton nel 1895 su una rivista
polacca, e poi come volume l’anno successivo, diventando immediatamente un best seller
internazionale (tradotto in oltre 50 lingue) e assicurando nel 1905 all’autore il premio Nobel.
L’opera fornì finalmente al cineasti un plot ben strutturato entro il quale far muovere Nerone. La
prima trasposizione cinematografica del Quo vadis?, realizzata in Francia, si data al 1901. Ma
durava solo un minuto. Ben altra cosa fu la pellicola girata nel 1912 da Enrico Guazzoni. Si tratta
di un vero e proprio kolossal, il primo del genere peplum, che comportò due anni di riprese per
2.250 metri di film, con l’impiego di 5.000 comparse e set tridimensionali (non più, cioè, solo teli
dipinti) che ricreavano l’antica Roma: due ore di proiezione che davano ampio spazio alle scene
spettacolari senza sacrificare la complessa trama della vicenda. Le scenografie sono veramente
fastose, e le scene circensi hanno un referente colto: i quadri di Gerôme Pollice verso (1872)
e I martiri cristiani (1883). È una riprova – se ce ne fosse bisogno – che la visualizzazione
cinematografica del mondo antico dipese agli inizi largamente dalla pittura storica del secondo
Ottocento (Gerôme, appunto, ma anche Leighton, Alma Tadema, Moore, Long, Moreau e altri).
Il successo del film fu enorme dovunque. A Londra la prima si tenne alla Royal Albert Hall alla
presenza di re Giorgio V. A Broadway restò in cartellone per parecchi mesi. Oltre agli indubbi
pregi spettacolari, c’è un elemento da evidenziare: è questo il primo di molti film a venire in cui la
figura e l’epoca di Nerone sono lette guardando non solo alla storia antica ma anche alle vicende
contemporanee. Del resto anche il romanzo di Sienkiewicz – acceso patriota – allude, e neanche
troppo velatamente, alla Polonia del suo tempo. L’eroina della storia, che nelle versioni
cinematografiche italiane ha il nome di Licia, si chiama in realtà Lygia, ed è detta appartenere al
popolo dei Lygii, che in età romana viveva tra l’Oder e la Vistola, cioè nel territorio dell’odierna
Polonia. La celeberrima impresa di Ursus, l’erculeo servo/protettore che salva Lygia dal toro,
adombra l’epica vittoria del popolo polacco sul suo storico oppressore, la Germania, assimilata ad
una bestia di cieca brutalità, così come nelle persecuzioni dei primi cristiani si rispecchiano le
sofferenze della chiesa cattolica polacca.
Guazzoni mette in scena il trionfo della Chiesa martire in un momento in cui in Italia rapporti tra
Stato e Chiesa erano materia scottante. C’è una scena particolarmente significativa da questo
punto di vista. Quando Vinicio, ormai convertito, si inginocchia davanti a Pietro, sulla tenda che fa
da sfondo si vede un simbolo: una falce e un’ascia disposti come nel moderno simbolo della falce e
martello, quasi a suggerire un’equiparazione tra i cristiani perseguitati da Nerone e i cattolici e i
socialisti perseguitati dalla Destra.
Proprio questa possibilità di leggere in filigrana riferimenti alla storia contemporanea fu fatale al
secondo significativo Quo vadis? cinematografico: la coproduzione italo-tedesca del 1924 firmata
da Georg Jacoby e Gabriellino D’Annunzio, il figlio del Vate. Jacoby era un valido esponente
dell’espressionismo tedesco, e l’attore che interpreta Nerone, Emil Jannings, caratterizza con
grande professionalità un despota allucinato e protervo, lascivo e codardo (che addirittura tenta di
stuprare Licia, episodio di cui non c’è traccia nel romanzo) ma, disgraziatamente per loro, la prima
ebbe luogo a Roma nel marzo del 1925, quando ormai il governo di Mussolini si era trasformato in
dittatura e il regime, ben consapevole dell’impatto del mezzo cinematografico, non poteva certo
permettere che si stabilisse un parallelo tra il Duce e il depravato imperatore romano.
Nerone scompare da questo momento dal cinema italiano, per ricomparirvi solo nel dopoguerra.
Dagli anni trenta in poi – con un’unica eccezione di cui diremo più avanti – il Nerone
cinematografico è sostanzialmente americano. In The Sign of the Cross, il film che Cecil Blount
DeMille girò nel 1932 ispirandosi all’omonimo lavoro teatrale (1896) di Wilson Barrett, un autore
specializzato nei cosiddetti Toga Plays (su cui vedi Mayer 1994), Nerone è il prototipo del dittatore
crudele e amorale; e perciò, sempre a scanso di equivoci, la pellicola non fu mai distribuita in Italia
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(ancora oggi non ne esiste una versione nella nostra lingua). Nerone è il grande Charles Laughton,
qui curiosamente dotato di un grifagno naso aquilino (“Roman nose”, si dice in inglese) posticcio.
La scelta dell’interprete è confome alla tradizione dei film storici americani (non solo di quelli
ambientati nell’antichità romana) che vuole l’aristocratico ‘cattivo’ interpretato da un attore inglese
o al massimo da un americano che imita l’accento dell’upper class britannica – et pour cause, dato
il passato coloniale degli Stati Uniti – mentre il ‘buono’ ha sempre tendenzialmente l’accento
americano. In The Sign of the Cross al Nerone sussiegoso e arrogante, ma anche sessualmente
ambiguo, tratteggiato da Charles Laughton si contrappone il Marco di Frederich March, schietto e
macho, e dalla accentuata cadenza yankee. Allo stesso modo, nel successivo Quo vadis? di LeRoy,
del 1951 Nerone sarà l’inglese Peter Ustinov, Vinicio l’americano Robert Taylor .
The Sign of the Cross ebbe una riedizione nel 1944, in piena seconda guerra mondiale. Per
l’occasione fu girato un prologo (purtroppo non mantenuto nella versione oggi in commercio), nel
quale due cappellani militari, uno cattolico e uno protestante, sono su aereo americano in volo su
Roma per lanciare manifestini di propaganda e conversando col pilota trovano il modo di fargli
una rapida sintesi di storia romana. Arrivati a Nerone dicono: “Nerone si credeva il padrone del
mondo. Non si curava delle vite degli altri più di quanto se ne curi Hitler”. E pian piano il fumo
dell’antiaerea si trasforma nel fumo dell’incendio del 64, davanti al quale vediamo esaltarsi
l’accidioso Nerone.
Dopo che Roma fu liberata dagli Alleati, la propaganda si fece ancora più esplicita. La Paramount
ideò un manifesto in cui si vedevano degli aerei americani che volando in formazione formavano
in cielo una croce, sotto cui era scritto: “Voi ragazzi avete aggiunto un capitolo glorioso alla più
grande storia mai raccontata! Roma eterna… premio di conquista attraverso i secoli… ora liberata
dalla forza degli eserciti alleati… nelle notti infuocate in cui il tiranno omicida Nerone l’aveva
distrutta con le fiamme fra le orge più sfrenate che il mondo abbia mai conosciuto!”.
Per l’uomo della strada l’età di Nerone è un’epoca di lussuria, e DeMille, famoso a Hollywwod per
la sua sensualità, è ben contento di soddisfarne le aspettative. Famosa è la scena del bagno nel latte
d’asina di Poppea, interpretata da una conturbante Claudette Colbert, che a un certo punto ordina
ad un’amica di spogliarsi e di raggiungerla nella vasca. La scena è audace, ma è ancora poca cosa a
confronto di quella in cui Marco, visti vani i suoi tentativi di sedurre la giovane cristiana Mercia,
cerca di farla cedere alle avances saffiche della cortigiana Ancharia. Alla fine la purezza e la fede
trionferanno, ma nel frattempo DeMille ha titillato a dovere il suo spettatore (un’altra scena, dove
una vergine cristiana era buttata tra le braccia di un enorme gorilla, fu però giudicata veramente
eccessiva, e DeMille dovette tagliarla). A ogni buon conto, le direttive impartite dalla produzione
agli agenti commerciali cinicamente suggerivano di vendere l’elemento religioso del film a quelli
che andavano in chiesa, l’elemento storico alle scuole, la depravazione alle masse.
In Italia, come già si è già detto, la crudeltà e l’immoralità di Nerone non potevano piacere al
fascismo. Nel 1937 la Mostra augustea della Romanità avrebbe indicato appunto nel principato di
Augusto – vale a dire in un regime autoritario sì, ma benevolmente paternalistico, e soprattutto
difensore della morale – il modello da perseguire. Eppure un’eccezione c’è: il famoso Nerone di
Ettore Petrolini. Nel film, realizzato nel 1930, apparentemente si sbeffeggia il Duce, parodiandone
la mimica e la fraseologia. Tuttavia Petrolini recitava la macchietta di Nerone a teatro già dal 1917,
e d’altra parte personalmente era un fascista convinto, al punto che nel 1934 fece perfino domanda
per essere nominato centurione della milizia (Petrocchi 1984). Nonostante ciò, il suo Nerone
qualche imbarazza lo creava. Come fece notare un gerarca, “che proprio da Roma oggi si debba
mandare per il mondo un Nerone di questo genere, un Nerone in stracci, tra l’abbietto e lo scemo,
non è cosa francamente tollerabile”. Mussolini però era un grande ammiratore di Petrolini, e gli
conferì perfino delle onorificenze (forse anche perché gli conveniva far vedere che stava allo
scherzo).
Tornando all’America, già negli anni trenta la MGM aveva progettato un remake di Quo vadis?
Il film si fece però solo nel 1951, fu diretto da Mervyn LeRoy, e fu un successo mondiale. Ancora
una volta la vicenda era letta con precisi riferimenti alla situazione contemporanea, nel trasparente
intento di esaltare il ruolo avuto dagli Americani nel rovesciare le dittature europee (Winkler
1997). Nella famosa scena in cui Nerone canta davanti a Roma in fiamme il colore nero della sua
tunica e le aquile che la contrappuntano non sembrano un riferimento puramente casuale: pare
chiara invece l’intenzione di ridicolizzare il dittatore fascista da poco eliminato dalla scena.
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La pubblicità esaltò lo sforzo organizzativo richiesto per la realizzazione del film in termini paramilitari, parlando di problemi logistici quali mai un generale aveva affrontato sul campo e
sottolineando che le scene spettacolari avevano richiesto la stessa cura per i dettagli che un esercito
moderno avrebbe potuto impiegare per attuare un’invasione di terra o di mare. Fu enfatizzato il
fatto che il film era stato girato in quella Cinecittà che Mussolini aveva costruito come contraltare
allo strapotere plutocratico di Hollywood, e la MGM si vantò di avere in pratica dato vita ad un
proprio piano Marshall per il risanamento dell’Italia post-bellica. La manifattura di tanti costumi,
l’impiego di tante comparse, tutto divenne testimonianza della generosità di Hollywood verso la
vinta Italia. Perfino il cibo avanzato dai banchetti neroniani fu poi distribuito a enti italiani di
assistenza ai bambini poveri.
Ma c’è di più. Nel clima di guerra fredda di quegli anni, Nerone diventa addirittura il simbolo del
regime totalitario d’oltre cortina. All’inizio del film una voce fuori campo definisce l’anno 64 “un
periodo in cui l’individuo è alla mercè dello stato, il crimine si è sostituito alla giustizia e i
governanti rendono schiavi i loro sudditi”; e la pubblicità del lancio avvertì che il messaggio del
film sarebbe stato utile “nei giorni oscuri che sembrano minacciarci”. Nel 1950, l’anno i cui il film
fu messo in cantiere, la crociata anticomunista in America era al suo culmine e il tema della libertà
religiosa aveva acquistato un significato ideologico preciso. Conseguentemente, la campagna
pubblicitaria insisté sul fatto che il film esaltava la pacifica resistenza alla persecuzione di un
dittatore senza dio. Oggi la cosa può sembrare incredibile, ma oltrecortina il film fu davvero
sentito come propaganda nemica e pertanto proibito per molti anni.
Tuttavia per l’America Nerone non è in quegli anni una figura sempre e soltanto negativa.
L’immagine di Nerone che davanti al plastico del Museo della Civiltà Romana (e poco importa se
si tratta della Roma dell’età di Costantino), illustra i suoi progetti per ricostruire la città fu usata
per pubblicizzare un’agenzia immobiliare e un’altra pubblicità garantiva che con le mutande Quo
vadis? chiunque poteva sentirsi Nerone.
In ogni caso, a prescindere dai risvolti propagandistico-ideologici, quello di LeRoy è un gran bel
film. Merito soprattutto di un cast di attori formidabili, tra cui spicca Peter Ustinov, forse il più
grande Nerone cinematografico di tutti i tempi (ma anche il Petronio di Leo Genn è assolutamente
perfetto). Il carattere dell’imperatore è delineato in tutta la sua complessità psicologica, anche più
efficacemente che in Sienckiewicz. Gli stereotipi sono rispettati, ma senza le banalizzazioni a cui ci
avevano abituato le versioni precedenti.
Lo stesso anno in cui usciva il Quo vadis? di LeRoy, nel 1951, Cinecittà sfornava un altro film
ispirato a Nerone: O.K. Nerone, di Mario Soldati. È triste che un intellettuale della statura di
Soldati si sia reso responsabile di un tale obbrobrio. L’unica spiegazione possibile è che avesse un
disperato bisogno di soldi. La storia, improbabile, è quella di due giovanotti dei giorni nostri che
fanno una specie di viaggio nel tempo e si ritrovano nella Roma di Nerone. Nell’insipida farsa è
purtroppo coinvolto un attore del calibro di Gino Cervi, che qui fa appello a tutte le risorse del
mestiere per dare dignità al suo Nerone. Due anni dopo Cervi tornò a vestire i panni di Nerone in
un film ‘serio’: Nerone e Messalina di Primo Zeglio. La co-protagonista, interpretata da una
Yvonne Sanson in quel momento all’apice della sua popolarità, non è la più famosa Valeria
Messalina, la lussuriosa moglie di Claudio, bensì Statilia Messalina, terza moglie di Nerone. La
spericolata sceneggiatura ne fa qui inizialmente l’amante di Britannico. Nerone se ne invaghisce, la
strappa al fratellastro e la sposa, facendo poi uccidere Britannico che aveva tentato di ribellarsi. In
realtà Nerone fece uccidere Britannico nel 55 – ben undici anni prima di sposare Messalina –
quando questi aveva solo quattordici anni. Sommando assurdità ad assurdità, il film fa arrivare
nelle mani dell’imperatore una lettera di san Paolo (ma nel IV secolo fu effettivamente messo in
circolazione un carteggio apocrifo tra san Paolo e Seneca), ed è proprio nel bruciare quest’ultima
che egli dà accidentalmente origine al disastroso incendio del 64.
Tuttavia nel dopoguerra il cinema italiano preferisce decisamente proporre il personaggio di
Nerone in chiave comica. Nel 1956 un artigiano di indubbio mestiere, Steno (Stefano Vanzina),
firma un Mio figlio Nerone, che nel suo genere è un capolavoro. I punti di forza sono la
sceneggiatura accurata e brillante (vi mise mano, tra gli altri, anche un autore teatrale della
levatura di Diego Fabbri) e il cast, davvero straordinario. Nerone è Alberto Sordi, che sguazza nel
ruolo con magistrale gigioneria. Gli fa da spalla (ma mai come qui la definizione è riduttiva) un
altro grandissimo attore, Vittorio de Sica, che tratteggia un Seneca godibilissimo. Assolutamente
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irresistibile è la scena in cui il filosofo, messo da Nerone di fronte a una propria lettera (indirizzata,
ça va sans dire, a Lucilio), nella quale afferma a chiare lettere che Nerone “canta come un cane”,
riesce con pirotecnica dialettica a cambiare le carte in tavola, riguadagnando il favore del sovrano.
Poppea è una freschissima Brigitte Bardot, non ancora scoperta, in tutti i sensi, da Vadim.
Agrippina invece è una vecchia gloria di Hollywood, niente meno che Gloria Swanson, che benché
ormai inoltrata sul Viale del Tramonto, disegna una ‘dama di ferro’ di grande carattere. La trama
ruota attorno a un Nerone che, appassionato solo alla musica e al teatro, se ne sta ozioso nella villa
di Bacoli, lontano dagli affari di stato e dalla madre invadente. Quest’ultima piomba però nel suo
buen retiro, con la ferma intenzione di spingerlo alla guerra contro i Britanni. A Nerone,
terrorizzato all’idea di affrontare il rigido clima della Britannia, non resta che provare a eliminare
l’ingombrante genitrice. Agrippina dal canto suo vorrebbe sopprimere Seneca e Poppea, colpevoli
di fomentare per convenienza le velleità artistiche del figlio. Con il ritmo frenetico di una pochade
si susseguono i tragicomici attentati dall’una parte e dall’altra (compresi il crollo del soffitto e il
naufragio di tacitiana memoria), tutti naturalmente senza esito. Sconsolata, Agrippina dichiara che
rinuncerà a fare di Nerone un condottiero se almeno Seneca e Poppea lo convinceranno a smettere
di cantare! Ma Nerone, non visto, ha ascoltato tutto, e l’epilogo ce lo mostra ghignante davanti ai
tre busti funerari di Agrippina, Seneca e Poppea, finalmente ridotti al silenzio.
Assai più scipito è al confronto l’episodio ‘neroniano’ del film Bianco, Rosso, Giallo, Rosa che
Massimo Mida gira nel 1964, con povertà di mezzi e di idee. Esso apre però la strada al filone
comico-erotico in costume che furoreggerà in Italia negli anni settanta.
Si tratta di commediole per palati poco esigenti, dove gags da avanspettacolo offrono il pretesto per
esibire le grazie della protagonista di turno. È questo il caso del Satiricosissimo che Mauro
Laurenti confeziona nel 1970, sulla scia del Satyricon felliniano dell’anno precedente, mettendo
Edwige Fenech e Karin Schubert a fianco di Franco e Ciccio, che un viaggio nel tempo catapulta
nell’epoca di Nerone, con abbondanza di abusati stereotipi.
In Poppea, una prostituta al servizio dell’impero, girato nel 1972 da Alfonso Brescia, si fa leva sulle
nudità di Femi Benussi, allora reginetta del porno soft. Nerone è il compianto Vittorio Caprioli,
attore di grande talento, che qui dispiega tutta la sua ironia per riscattare il proprio
coinvolgimento in una pellicola tanto al di sotto di lui. Altri film degli anni anni settanta sono
ancora meno presentabili. Inutile spendere parole, per esempio, per un Nerone del 1976, con Pippo
Franco che riduce Nerone a un personaggio da cabaret ed Enrico Montesano che fa di Petronio un
gagà da macchietta napoletana, con paglietta, monocolo ed erre moscia.
Né va meglio fuori d’Italia. Gli episodi The Romans della serie televisiva inglese Doctor Who
(1965), imperniata sui viaggi dei protagonisti in differenti epoche della storia, inscenano anch’essi
un Nerone di maniera, in un contesto che vorrebbe mescolare la comicità plautina con l’humour
britannico, senza riuscirci. Da un’altra serie televisiva inglese nasce Up Pompeii (1971), che
infischiandosene allegramente della cronologia fa assistere Nerone all’eruzione del 79 e dove la
migliore battuta che gli viene messa in bocca è: “Aspetta di vedere cosa ho in mente per Roma!”.
Non si può a rigore includere nella filmografia neroniana, come invece qualcuno ha fatto,
l’episodio romano di La pazza storia del mondo – Parte I di Mel Brooks (1981), dal momento che
il grottesco imperatore interpretato da Dom DeLuise non è mai chiamato col nome di Nerone,
anche se quello è chiaramente il modello di riferimento. In ogni caso il risultato è molto modesto.
Notevole invece, pur nella sua brevità, il ruolo che Nerone ha nella serie I, Claudius che la BBC
trasse verso la metà degli anni settanta dall’omonimo romanzo di Robert Graves e dal suo seguito,
Claudius the God. Nerone è ancora un ragazzo quando Agrippina riesce a farlo adottare da
Claudio, con una facilità di cui essa stessa pare stupirsi. Ma l’anziano imperatore ha una sua
ragione segreta per favorire il disegno dell’intrigante consorte. Nel neghittoso, grassoccio
adolescente che Agrippina si illude di manipolare per regnare di fatto dopo la sua morte egli ha già
visto il despota depravato e sanguinario che diventerà da adulto; e paradossalmente proprio per
questo gli spiana la via, confidando nel fatto che una volta asceso al trono si abbandonerà a tali
eccessi da provocare la fine dell’impero e la restaurazione della repubblica, cosa che egli in cuor suo
auspica.
Inoltrandosi negli anni ottanta, è ancora la televisione a offrirci qualche Nerone degno di
considerazione. Il primo è quello che compare nella serie americana A.D. Anno Domini, del
1984/85, creato da due sceneggiatori di grande esperienza e cultura come Anthony Burgess e
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Vincenzo Labella. Particolarmente ben reso dal punto di vista psicologico è il rapporto tra Nerone
e Agrippina. Questa gli ha insegnato tutto, ma l’allievo ha superato il maestro. E quando la madre
(una splendida, matura Ava Gardner qui alla sua ultima interpretazione) lo va a trovare per
biasimarne gli eccessi, il figlio ribatte colpo su colpo, rinfacciandole crudelmente tutte le sue colpe,
dagli amori infamanti fino agli assassinii compiuti per lui. Agrippina è ferita da tanta bassezza e
ingratitudine, si intuisce che per un momento essa pensa di riattirarlo a sé usando l’arma del sesso,
ma prima che le labbra si sfiorino, capisce che neanche questo ormai serve più, e si dà per vinta,
allontanandosi.
Il secondo interessante Nerone è quello della riedizione di Quo vadis? diretta, nel 1985, da Franco
Rossi. È una coproduzione europea di grande impegno, affidata ad un regista con una già notevole
esperienza nel genere peplum (aveva realizzato, sempre per la televisione, una pregevole Odissea
nel 1968 e un’innovativa Eneide nel 1971). È evidente in questo lavoro la volontà di dare di Nerone
– che è interpretato da Klaus Maria Brandauer, fin troppo bravo nel rendere tutte le nevrosi del
personaggio – una lettura non banale. Egli è visto come un uomo profondamente insicuro,
psicologicamente segnato dalla mancanza del padre e da una madre castrante, che agisce con
crudeltà perché non ha amici e non può contare sull’amore di nessuno. In questa interpretazione
di stampo psicanalitico, Nerone è un carnefice che in realtà vorrebbe essere amato dalle sue
vittime, un tiranno che fa compassione perché non riesce ad essere grande neanche nel crimine e
nella follia: nel momento topico dell’incendio, quando finalmente potrebbe cantare il suo poema,
non osa farlo in pubblico, e quello che avrebbe dovuto essere il suo trionfo di artista si riduce a una
sorta di impacciato saggio scolastico. Anche sul piano storico-politico lo sceneggiato propone una
chiave di lettura non conformista. Lo fa con le parole di Tigellino, che in una delle ultime scene,
davanti al supplizio dei cristiani nel circo mormora: “nessuno riuscirà mai a capire che abbiamo
soltanto cercato di difenderci...”.
Assai più conformista torna a essere al contrario il Nerone dell’ultima (per ora) versione
cinematografica di Quo vadis?, quella realizzata dal regista polacco Jerzy Kawalerowicz nel 2001.
In questa costosissima e patinatissima trasposizione del romanzo di culto dei polacchi, tutto è
come il lettore di Sienkiewicz si aspetta: la trama è rispettata, i buoni sono buoni, i cattivi cattivi
(cattivissimi, poi, i leoni: mai si era visto prima sullo schermo uno sbranamento di cristiani così
granguignolesco). Mical Bajor si sforza di non copiare Peter Ustinov, ma non riesce a dare al
personaggio altra cifra che quella della pura pazzia.
Maggiore profondità psicologica ha il Nerone di Boudica (Warrior Queen), un film inglese del
2003 ambientato all’epoca della conquista romana della Britannia. Qui il rapporto edipico con
Agrippina, sicuramente importante per capire la personalità dell’imperatore, diventa la chiave di
lettura privilegiata, ed è esplicitato nella maniera più cruda, con selvaggi amplessi incestuosi che
nulla lasciano all’immaginazione. La libido si trasforma però presto in odio distruttivo, e dopo aver
ucciso la madre (ma col veleno e a Palazzo: una infedeltà storica che nel contesto narrativo ha
tuttavia una sua efficacia drammatica) passa sul suo cadavere ed esclama: “Pace, finalmente!”.
Lo sceneggiato televisivo Imperium: Nerone, del 2004, punta anch’esso su una problematizzazione
del personaggio Nerone, con lo scopo dichiarato di darne una interpretazione più moderna. Si
potrebbe intitolare, sulla scorta di Sartre, L’infanzia di un capo. Si parte infatti da Lucio bambino
che, strappato alla madre e affidato alle cure della zia Domizia, cresce in campagna condividendo
con gli schiavi la fatica del lavoro rurale e i semplici svaghi. Animo delicato e sensibile, si affeziona
soprattutto ad Apollonio, che gli insegna ad amare la poesia e il teatro, e a sua figlia, la dolce Atte,
che promette di fare sua sposa superando l’incolmabile differenza di status. Diventato l’imperatore
Nerone, intraprende – con i buoni consigli di Seneca – una serie di riforme a favore del popolo, ma
presto si scontra con i pregiudizi della sua stessa classe e con i poteri forti che condizionano anche
il princeps. Si rende conto che i suoi generosi ideali sono inattuabili, e si converte pian piano alla
Realpolitik. Quando capisce che i senatori pensano di sostituirlo con Britannico, si lascia
convincere dalla madre ad eliminarlo. È l’inizio del suo progressivo corrompersi. Da quel
momento non saprà più impedirsi di cedere al male. Dopo che Atte, la sola donna da lui realmente
amata, si allontana disgustata, la solitudine indurisce il suo cuore e prosciuga la sua residua
umanità. S’innesca così quell’inarrestabile spirale di violenza e sensi di colpa che porterà al tragico
epilogo. Atte sarà l’unica a preoccuparsi di dare sepoltura al suo cadavere. L’antico amore e la
nuova fede (cristiana) le consentiranno di riconoscere, dietro la maschera del mostro, l’uomo
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buono diventato malvagio suo malgrado.
È, come si vede, un bel passo avanti sulla via della riabilitazione. Del resto, il revisionismo non
data da oggi. Nel 1562 Gerolamo Cardano pubblicò un Encomium Neronis in cui si argomentava
che i grandi accusatori di Nerone, Tacito e Svetonio, erano persone moralmente discutibili, e
perciò inattendibili. Di questo testo è disponibile una moderna traduzione italiana (Cardano
1998), preceduta da un saggio del senatore Marcello Dell’Utri, significativamente intitolato
Cardano e le mani pulite della storia, che sottoscrive pienamente la tesi innocentista ribadendo:
“da questi giudici, da questi testimoni, è stato condannato Nerone!”.
In attesa della assoluzione definitiva (magari per prescrizione) Nerone è intanto guardato con
simpatia dai creativi della pubblicità che, giocando sulla sua dimestichezza col fuoco, non hanno
esitato a scritturarlo come testimonial in uno spot che reclamizza… Quattro salti in padella!
* Il presente saggio riprende, aggiornandolo e ampliandolo, un mio precedente lavoro sullo stesso tema (Pucci 2002).
Cfr. anche PUCCI 2007. Mi sono molto giovato delle originali ricerche dell’amica Maria Wyke, confluite in Wike 1997.
Per un’agile sintesi su Roma antica nel cinema vedi Cotta Ramosino-Dognini 2004.
(per Flavia, questo blocchetto da progetto va su due colonne spazio 5 mm)
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La presente filmografia si basa su
quelle precedenti di Eloy 1983,
Attolini 1991, Dumont 1998. Per gli
aggiornamenti si è tenuto conto della
filmografia disponibile sul sito
Peplum, Images de l’antiquité.
Cinéma et Bd alla pagina
http://www.peplums.info/pep13a.htm
e di quella fornita dall’Internet Movie
Database (IMDb) alla pagina
http://www.imdb.com/character/ch00
28368/. Si sono tralasciati i film in
cui la presenza di Nerone è
decisamente marginale e quelli in cui
il personaggio con questo nome non
ha in realtà alcun rapporto col
Nerone storico. Per le opere più
antiche – che spesso non si sono
materialmente conservate – si
riportano solo i dati conosciuti con
certezza.
NERON ESSAYANT DES POISONS
SUR UN ESCLAVE (Francia 1896)
Regia: Georges Hatot
Produzione: Lumière
Durata: 57’’
FILMOGRAFIA
QUO VADIS? (Francia 1901)
Regia: Lucien Noguet, Ferdinand
Zecca
Cast: Albert Lambert fils (Nerone)
Produzione: Pathé
Durata: 1’
THE SIGN OF THE CROSS
(Gran Bretagna 1904)
Regia: William Haggar.
Cast: William Haggar jr (Marcus
Superbus) - Jenny Linden Haggar
(Mercia) - James Haggar (Nerone).
Produzione: William Haggar and
Sons
KEJSER NERO PAA KRIGSSTIEN /
EMPEROR NERO ON THE
WARPATH (Danimarca 1907)
Regia: Viggo Larsen.
Produzione: Nordisk Film
LA CIVILISATION A TRAVERS LES
AGES III : NERON ET LOCUSTE
ESSAYANT LEURS POISONS SUR
LES ESCLAVES - AN 65 DE NOTRE
ERE (Francia 1907)
Regia: Georges Méliès
Produzione: Star Film
NERO AND THE BURNING
OF ROME (USA 1908)
Regia: Edwin Porter
Produzione: Edison
NERONE (Italia 1909).
Regia: Luigi Maggi. Scenaggiatura:
Arrigo Frusta
Cast: Alberto A. Capozzi (Nerone),
Mirra Principi (Ottavia), Lydia De
Roberti (Poppea), Luigi Maggi
(Epafrodito)
Produzione: Ambrosio Film
Durata: 14’
LE FILS DE LOCUSTE (Francia 1911)
Regia: Louis Feuillade
Cast: Renée Carl (Locusta), LuitzMorat (Il figlio), Paul Manson (Nerone)
Produzione: Gaumont
Durata: 18’
POPPEA ED OTTAVIA (Italia 1911)
Produzione: Latium Film
Durata: 20’
ANDROCLES ET LE LION
(Francia 1912)
Regia: Louis Feuillade
Cast: René Sablon (Androcle),
Raymond Lyon (Nerone).
Produzione: Gaumont
Durata: 10’
BRITANNICUS (Francia 1912)
Regia: Camille de Morlhon
Cast: Jean Hervé (Nerone), Romuald
Joubé (Britannico), Jeanne
Grumbach (Agrippina)
Produzione: Pathé
QUO VADIS? (Italia 1912)
Regia: Enrico Guazzoni.
Cast: Amleto Novelli (Marco
Vinicio), Lea Giunchi (Licia), Carlo
Cattaneo (Nerone), Bruno Castellani
(Ursus), Gustavo Serena (Petronio),
Olga Brandini (Poppea), Cesare
Montoni (Tigellino), Giovanni Gizzi
(San Pietro)
Produzione: Cines
Durata: 120’
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A DAUGHTER OF THE HILLS
(USA 1913)
Regia: J. Searle Dawley
Cast: Wellington A. Playter (Sergio),
Laura Sawyer (Floria), P.W. Nares
(Nerone), Frank Van Buren (San Paolo)
NERONE E AGRIPPINA (Italia 1914)
Regia: Mario Caserini.
Sceneggiatura: Luigi Marchese
(parzialmente basata su Nerone
di Arrigo Boito)
Cast: Vittorio Rossi Pianelli (Nerone),
Maria Caserini Gasparini
(Agrippina), Lydia De Roberti
(Poppea), Letizia Quaranta (Ottavia),
Gian Paolo Rosmino (Britannico),
Emilio Petacci (Claudio), Mario
Bonnard (Petronio), Fernanda
Sinimberghi (Atte).
Produzione: Gloria
Durata: 84’
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RESTITUTION (USA 1918)
Regia: Howard Gaye.
Cast: John Steppling (Néron),
Mary Wise (Poppea).
Produzione: Mena Film
QUO VADIS? (Italia 1925)
Regia: Gabriellino D’Annunzio,
Georg Jacoby. Sceneggiatura:
Gabriellino D’Annunzio, Georg Jacoby
Cast: Alfons Fryland (Vinicio),
Lillian Hall-Davis (Licia), Emil
Jannings (Nerone), Elena Sangro
(Poppea), Bruto Castellani (Ursus),
Andrea Habay (Petronio).
Produzione: Unione Cinematografica
Italiana
Durata: 90’
IL SEGNO DELLA CROCE / (THE
SIGN OF THE CROSS (USA 1932)
Regia: Cecil B. De Mille.
Sceneggiatura: Waldemar Young
e Sidney Buchman (da un lavoro
teatrale di Wilson Barrett, del 1895).
Cast: Fredric March (Marcus
Superbus), Elissa Landi (Mercia),
Charles Laughton (Nerone),
Claudette Colbert (Poppea),
Ian Keith (Tigellino).
Produzione: Paramount Pictures
Durata: 118’
NERONE (Italia 1930)
Regia: Alessandro Blasetti.
Sceneggiatura: Ettore Petrolini
Cast: Ettore Petrolini (Nerone), Elma
Krimer (Poppea), Mercedes Brignone
(Atte), Alfredo Martinelli (Petronio).
Produzione: Cines
Durata: 86’ (Non ne esiste più una
copia completa)
QUO VADIS? (USA 1951)
Regia: Mervyn LeRoy
Cast: Robert Taylor, Peter Ustinov,
Deborah Kerr, Leo Genn, Patricia
Laffan, Buddy Baer, Finlay Currie,
Marina Berti
Durata: 171’
O.K. NERONE (Italia 1951)
Regia: Mario Soldati. Sceneggiatura:
Steno, Sandro Continenza, Furio
Scarpelli, Franco Monicelli.
Cast: Walter Chiari (Fiorello), Carlo
Campanini (Jimmy), Gino Cervi
(Nerone), Silvana Pampanini
(Poppea), Giulio Donnini (Tigellino).
Produzione: Industrie
Cinematografiche Sociali (ICS)
Durata: 105’.
NERONE E MESSALINA
(Italia 1953)
Regia: Primo Zeglio. Sceneggiatura:
Primo Zeglio, Riccardo Testa, Paolo
Levi, David Bluhmen (Dialoghi
dell’edizione americana: Lewis
E. Ciannelli, Hal Fimberg, Alden
Schwimmer).
Cast: Gino Cervi (Nerone), Yvonne
Sanson (Statilia Messalina),
Ludmilla Dudarova (Valeria
Messalina), Jole Fierro (Poppea),
Milly Vitale (Atte), Paola Barbara
(Agrippina), Lamberto Picasso
(Seneca), Renzo Ricci (Petronio)
Carlo Tamberlani (Tigellino)
Produzione: Spettacolo Film - Tiber
Durata: 106’
MIO FIGLIO NERONE
(Italia-Francia 1956)
Regia: Steno (Stefano Vanzina).
Sceneggiatura: Sandro Continenza,
Diego Fabbri, Ugo Guerra, Rodolfo
Sonego, Steno
Cast: Alberto Sordi (Nerone), Gloria
Swanson (Agrippina), Brigitte
Bardot (Poppea), Vittorio De Sica
(Seneca), Ciccio Barbi (Aniceto),
Enzo Furlai (Segimero).
Produzione: Titanus, Marceau
Durata: 90’
L’INFERNO CI ACCUSA / THE
STORY OF MANKIND (USA 1957)
Regia: Irwin Allen.
Sceneggiatura: Irwin Allen e Charles
Bennett.
Cast: Ronald Colman (Lo Spirito
dell’Uomo), Vincent Price (Belzebù),
Peter Lorre (Nerone).
Produzione: Cambridge Productions
Inc.
Durata: 100’
BIANCO, ROSSO, GIALLO, ROSA
(Italia 1964)
Regia: Massimo Mida.
Sceneggiatura: Bruno Baratti
Cast dell’episodio Rosa: Veni vidi
vici: Carlo Giuffrè (Elio
Brighenti/Apollodoro), Maria Grazia
Buccella (Poppea) - Giancarlo Cobelli
(Nerone), Marcella Ruffini (Sulpicia)
Produzione: Alma Film
Durata: 29’
L’INCENDIO DI ROMA
(Italia - Jugoslavia 1965)
Regia: Guido Malatesta.
Sceneggiatura: Guido Malatesta.
Cast: Lang Jeffries (Marco Velerio),
Cristina Gaioni (Giulia), Vladimir
Medar (Nerone), Moira Orfei
(Poppea), Mario Feliciani (Seneca)
Produzione: GMC, Jadran Film
Durata: 90 minuti
THE ROMANS [serie televisiva
“Doctor Who”, n. 12] (Gran Bretagna
1965)
Regia: Christopher Barry.
Sceneggiatura: Dennis Spooner
Cast: William Hartnell (Dr Who),
Derek Francis (Nerone), Kay Patrick
(Poppea)
Produzione: BBC
Durata: Quattro episodi di 25’
ciascuno
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SATIRICOSISSIMO (Italia 1970)
Regia: Mariano Laurenti.
Sceneggiatura: Roberto Gianviti,
Dino Verde
Cast: Franco Franchi
(Franco/Cratino), Ciccio Ingrassia
(Ciccio/Cratone), Edwige Fenech
(Poppea), Karin Schubert (Atte),
Giancarlo Badessi
(Brambilla/Nerone), Pino Ferrara
(Petronio)
Produzione: Flord Film
Durata: 92’
UP POMPEII (Gran Bretagna 1971)
Regia: Bob Kellett. Scenaggiatura:
Sid Colin
Cast: Frankie Howerd (Lurcio),
Michael Hordern (Ludicrus Sextus),
Patrick Cargill (Nerone)
Produzione: Anglo-EMI
Durata: 90’
POPPEA, UNA PROSTITUTA
AL SERVIZIO DELL’IMPERO
(Italia 1972)
Regia: Alfonso Brescia.
Sceneggiatura: Mario Amendola,
Alfonso Brescia, Vittorio Vighi
Cast: Femi Benussi (Poppea),
Vittorio Caprioli (Nerone), Otone
(Don Backy), Linda Sini
(Agrippina).
Produzione: Luis Film
Durata: 93’
NERONE (Italia 1976)
Regia e sceneggiatura: Mario
Castellacci, Pier Francesco Pingitore.
Cast: Enrico Montesano (Petronio),
Pippo Franco (Nerone), Maria Grazia
Buccella (Poppea), Oreste Lionello
(Seneca), Paola Borboni (Agrippina),
Gianfranco D’Angelo (Tigellino),
Aldo Fabrizi (Galba), Paolo Stoppa
(Pietro).
Produzione: Mario Cecchi Gori
Durata: 105’
I, CLAUDIUS (Gran Bretagna 1976):
episodio 13 (OLD KING LOG).
Regia: Herbert Wise. Sceneggiatura:
Jack Pulman (dai romanzi di Robert
Graves)
Cast: Derek Jacobi (Claudio),
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Bernard Hepton (Pallante), John
Cater (Narcisso), Barbara Young
(Agrippinilla), Christopher Biggings
(Nerone), Graham Seed (Britannico),
Cheryl Johnson (Ottavia)
Produzione: BBC
Durata dell’episodio: 50’
NERONE E POPPEA
(Italia - Francia 1982)
Regia: Bruno Mattei. Sceneggiatura
Bruno Mattei, Antonio Passalia
Cast: Piotr Stanislas (Nerone),
Patricia Derek (Poppea)
Produzione: Beatrice Film
Durata: 89’
A.D. ANNO DOMINI
(USA-Italia 1984): episodio 5
Regia: Stuart Cooper. Sceneggiatura:
Anthony Burgess, Vincenzo Labella
Cast: Richard Kiley (Claudio), Ava
Gardner (Agrippina), Jennifer
O’Neill (Messalina), Anthony
Andrews (Nerone), Fernando Rey
(Seneca), Jane How (Poppea), Cecil
Humphreys (Caleb), Amanda Pays
(Sarah), Philip Sayer (Saulo/Paolo),
Diane Venora (Corinna), Mike
Gwilym (Pallante)
Produzione: Procter & Gamble
Productions, Inc.; International Film
production; Reteitalia Canale 5
Durata: 101’
QUO VADIS? (Italia-FranciaGermania Occidentale-Gran
Bretagna-Spagna-Svizzera 1984)
Regia: Franco Rossi. Sceneggiatura:
Ennio De Concini, Francesco
Scardamaglia, Franco Rossi.
Cast: Francesco Quinn (Marco
Vinicio), Maria-Therese Relin
(Licia), Klaus Maria Brandauer
(Nerone), Cristina Raines (Poppea),
Frederic Forrest (Petronio), Barbara
De Rossi (Eunice)
Philippe Leroy (Paolo di Tarso),
Angela Molina (Atte), Radomir
Kovacevic (Ursus), Leopoldo Trieste
(Chilone), Marko Nikolic (Tigellino),
Max von Sydow (Pietro l’Apostolo).
Produzione: Radiotelevisione
Italiana (RAIUNO), Leone Film,
Antenne 2, Polyphon Film-und
Fernsehgesellschaft , Channel 4
Television Corporation, Televisión
Española (TVE), Televisione Svizzera
Italiana (TSI)
Durata: 360’
QUO VADIS? (Polonia 2001)
Regia: Jerzy Kawalerowicz.
Sceneggiatura: Jerzy Kawalerowicz
Cast: Pawe∏ Delàg (Marco Vinicio),
Magdalena Mielcarz (Licia), Micha∏
Bajor (Nerone), Bogus∏aw Linda
(Petronio), Franciszek Pieczka
(Pietro), Krzysztof Majchrzak
(Tigellino), Rafa∏ Kubacki (Ursus),
Ma∏gorzata Pieczyƒska (Atte),
Agnieszka Wagner (Poppea).
Produzione: Zespó∏ Filmowy Kadr
Durata: 170’
BOUDICA (WARRIOR QUEEN)
(UK-Romania 2003)
Regia: Bill Anderson. Sceneggiatura:
Andrew Davies
Cast: Alex Kingston (Boudica),
Steven W\faddington (Prasutagus),
Emily Blunt (Isolda), Leanne Rowe
(Siora), Angus Wright (Severus),
Steve John Shepherd (Catus), Jack
Shepherd (Claudius), Frances Barber
(Agrippina), Andrew Lee Potts
(Nerone)
Produzione: Box Film, WGBH,
Carlton International
Durata: 83’
IMPERIUM: NERONE (Italia - UK
- Germania - Tunisia 2004)
Regia: Paul Marcus. Sceggiatura:
Francesco Contaldo, Paul Billing
Cast: Hans Matheson (Nerone), Rike
Schmid (Atte), Laura Morante
(Agrippina), Angela Molina
(Domizia), Massimo Dapporto
(Claudio), Sonia Aquino
(Messalina), Matthias Habich
(Seneca), Vittoria Puccini (Ottavia),
Elisa Tovati (Poppea), Mario Opinato
(Tigellino), Klaus Händl (Pallante),
Pierre Vaneck (Paolo di Tarso)
Produzione: Rai Fiction, Lux Vide,
Eos Entertainment, GmbH,
Carthago Films
Durata: 181’
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