La rappresentazione cinematografica dell`emigrazione italiana tra

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anno secondo | n. 3 | 2013
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La rappresentazione cinematografica
dell’emigrazione italiana tra memoria storica
ed esame critico del presente
Alcune considerazioni sul cinema italiano contemporaneo
di Francesco Pellegrino
Solo all’umanità redenta tocca interamente il suo
passato. Vale a dire che solo per l’umanità redenta il passato è citabile in ciascuno dei suoi momenti.
Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una “citation
à l’ordre du jour” – e questo giorno è il giorno finale.
W. Benjamin, Angelus Novus
Il cinema italiano ha trascurato non poco il fenomeno dell’emigrazione dei
nostri connazionali, dimostrandosi così, tranne rare eccezioni, disinteressato o, più probabilmente, incapace di cogliere la drammaticità e la complessità
dell’evento storico e delle sue più immediate implicazioni. Questo processo di
marginalizzazione sul piano della rappresentazione cinematografica è stato il
riflesso di una più ampia dinamica d’esclusione della problematica migratoria
dal dibattito pubblico, dalla cultura nazionale e dall’immaginario collettivo.
Nonostante questa rimozione, rilevabile nell’intero arco di storia del nostro cinema, è possibile però constatare che alcuni film dell’ultimo ventennio – come quelli di Amelio e Crialese che saranno al centro di questo contributo –, occupandosi dell’esodo degli italiani, hanno presentato una ricostruzione scrupolosa della vicenda emigratoria rivalutandone la memoria in
rapporto alle problematiche attuali sulla presenza straniera nel nostro paese. È stata così recuperata l’esperienza passata dei nostri connazionali come
fondamentale risorsa storica e sociale per affrontare le incerte sfide future
che attendono la nostra società.
Questi testi cinematografici, insomma, recependo i cambiamenti sociali in atto e rielaborandoli, costituiscono un luogo della memoria collettiva
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da cui attingere le radici profonde della nostra storia per affrontare il presente con maggiore spirito critico. Essi, pertanto, in maniera differenziata
a seconda delle qualità intrinseche e degli obiettivi prefissati, sono riusciti
a sviluppare uno sguardo analitico sul sociale, dando così forma, anche in
prospettiva storica, alle inquietudini che hanno attraversato la società italiana degli ultimi venti anni1.
È in questo senso che il medium cinematografico partecipa, spesso in
maniera inconsapevole, ai processi di costruzione identitaria di un popolo e favorisce la formazione di una memoria sociale, in cui passato e
presente si legano in un continuum spazio-temporale. Con richiami costanti al paesaggio nazionale, ai caratteri culturali di un determinato popolo, al passato (mitico o storico) che di continuo si innesta nel presente,
all’immaginario collettivo e alle problematiche sociali che segnano un dato contesto, l’occhio cinematografico registra i cambiamenti socioculturali di una nazione e della memoria di un popolo, nonché i conflitti profondi insiti nella mentalità collettiva. Il cinema, in sostanza, connettendo
il passato con il presente, ci offre la possibilità di riflettere in modo critico
sulla realtà sociale in cui viviamo2.
1. Film storico e memoria sociale
L’attitudine a collegare passato e presente in un’unica continuità processuale è soprattutto una caratteristica intrinseca del film storico che, attraverso la ricostruzione di una precisa epoca, o di un particolare episodio, indaga le specificità del suo tempo.
In realtà qualsiasi testo filmico è in sé storico, nel senso che testimonia
comportamenti diffusi, saperi condivisi, valori morali, simboli, interpretazioni, ideologie, paure collettive e stili di vita presenti nella società in un
determinato periodo. Il cinema, offrendo uno sguardo profondamente rivelatore delle dinamiche sociali, riesce a svelare aspetti opachi o inesplorati del reale e ci costringe a ridefinire le nostre categorie mentali; in questo
modo, messa a nudo la sottile logica del “congegno” mondo, ci consente di
entrare in contatto con i gangli vitali della società, rilevandone le sue pieghe più nascoste3. Questa capacità testimoniale è raddoppiata nel film storico che si presenta come:
un duplice viaggio nel tempo, rispetto al passato che il film racconta e rispetto
al presente in cui il film viene girato e proiettato. Il cinema, infatti, ma anche la
televisione, la fotografia, la radio e tutti i media […], quando vengono coniugati
con la storia assumono la doppia valenza di testimoni diretti degli eventi del nostro tempo, in grado di restituirli allo storico costituendosi come fonti, e di mezzi per raccontare la storia, strumenti di divulgazione e di narrazione dotati di
propri linguaggi, di formule argomentative e di modelli narrativi assolutamente
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originali. Nel primo caso, lo storico che li utilizza come documenti si confronta
con il presente che li ha prodotti; nel secondo, con il passato che essi intendono
raccontare e riprodurre4.
L’opera filmica, dunque, avanza sul terreno di un tempo storico raddoppiato: il primo è quello della ricostruzione storiografica portata sullo
schermo, il secondo quello delle culture implicate in tale processo e leggibile attraverso la filigrana delle immagini. Il film storico, pertanto, esercita una duplice funzione testimoniale, perchè «apre uno spiraglio su due
settori di ricerca di grande interesse scientifico: lo studio della società
contemporanea attraverso la rilettura del passato, e la trasmissione della
conoscenza storica»5.
In relazione al periodo storico in cui è stato prodotto il film, esso mostra apertamente la sua natura di prodotto socialmente e storicamente determinato che trae ispirazione dalla realtà che lo circonda, ne riflette alcune componenti e talune problematiche e coglie elementi delle diverse
ideologie, mentalità, paure e aspettative che ne caratterizzano il contesto.
La funzione documentale del film storico risiede quindi nella possibilità di
impressionare la pellicola, non solo con “frammenti di realtà”, ma soprattutto con racconti capaci di mostrare il visibile della società in cui prende
vita6 e gli elementi non visibili che ne costituiscono l’immaginario sociale7.
Per quanto concerne invece il passato rappresentato dalla pellicola, è
ovvio non considerare il testo come una fonte diretta del momento storico
raffigurato. Il film storico non è mai una ricostruzione filologica del passato, ma il frutto di una manipolazione basata su una precisa visione storiografica che risente, in maniera inconscia, anche delle caratteristiche e delle
problematiche del presente. Di conseguenza, questo genere di testo diviene
fonte documentale solo del periodo in cui è stato prodotto e non di quello
rappresentato, ma nonostante ciò consente di svelare come la società contemporanea guarda al proprio passato e si struttura rispetto ad esso. Inoltre, una ricostruzione storica puntuale, che non si esaurisca nella semplice
riproduzione “archeologica” di costumi e scenografie, di per sé impossibile
e oltretutto sterile, è utile a rappresentare il “gioco di forze”8 storiche che
hanno caratterizzato l’arco temporale raffigurato9.
La rievocazione del passato operata dal film storico, allora, altro non è
che un modo concreto, ma spesso inconsapevole, di parlare del presente in
cui è stato realizzato attraverso il passato rievocato. Il cinema instaura quindi una corrispondenza tra la memoria storica e le poste in gioco del presente,
nel senso che riesce a far «pensare storicamente il presente e politicamente
il passato», sviluppando così «una memoria selettiva in funzione delle reali
poste in gioco del presente»10. È alla luce dei problemi della contemporaneità che la macchina cinematografica risveglia il ricordo, spesso rattrappito,
degli eventi passati, rendendo così nuovamente operativo il nesso tra le due
dimensioni temporali. In questo modo restituisce anche voce ad una memoPolo Sud | n. 3 | 2013 | <http://www.editpress.it/cms/book/polo-sud-3>
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ria sottaciuta, quella dell’emigrazione dei nostri connazionali, che è stata nel
tempo messa ai margini del discorso pubblico e che viene ora recuperata per
sviluppare una riflessione critica sulla contemporaneità.
La narrazione filmica si fa, insomma, parte della memoria sociale e
dell’immaginario collettivo e, contemporaneamente, al suo interno racchiude tratti di memoria e immaginario preesistenti ad essa11. In un certo senso, l’immagine filmica si nutre e diviene frammento di una memoria
collettiva che può alimentare l’azione presente. Per far ciò, il mezzo cinematografico, proprio come la memoria umana, seleziona aspetti del passato che racchiudono un particolare senso per il presente (funzione conservativa), li sottopone ad un’operazione ermeneutica (funzione interpretativa) e suggerisce inedite elaborazioni e prospettive per il futuro (funzione
innovativa)12. In questo modo si oppone al rischio di una perdita della memoria storica, o almeno di alcuni specifici episodi ritenuti privi di interesse per la gestione della contemporaneità, che può degenerare, a livello sociale, in scarsa consapevolezza dei processi storici e in carenze sul piano
dell’identità e della memoria sociale nazionale. Il cinema italiano, incline
in alcuni suoi filoni a raccontare la società e la storia nazionale, sembra così
opporsi a tali pericoli cercando di fornire ad una moltitudine di persone le
«attrezzature che aiutano a chiarire da dove proveniamo e dove stiamo andando»13, assicurando così un’efficace narrazione storica capace di fornire
le coordinate dell’esistenza collettiva14.
La dissociazione tra passato e presente della nazione rappresenta un
vero pericolo, poiché non consente di «fare i conti con i propri trascorsi perchè è più conveniente non mettere in discussione il presente e accettarlo a testa bassa, come se fosse un’eredità biologica, naturale»15. Il
mezzo cinematografico cerca proprio di replicare a tale minaccia, attraverso una «lettura cinematografica della storia»16 che restituisca alla società nel suo complesso il senso della propria esperienza. Il cinema, allora, rende visibili i passati traumatici della nazione e i processi di rimozione connessi ad essi, favorisce lo sviluppo di una maggiore consapevolezza
delle dinamiche del mutamento storico ed evidenzia il legame inscindibile che connette il passato al presente. Le narrazioni filmiche, insomma,
favoriscono una più attenta lettura della realtà circostante, l’edificazione
sociale delle immagini della realtà e:
la costruzione di un senso comune, se si vuole: ma il senso comune non è solo
una deproblematizzazione dell’esperienza, ma anche l’insieme dei presupposti
che rendono possibile l’intesa reciproca. La vita sociale è impossibile senza che
un certo numero di assunti sulla realtà siano dati per scontati: mettere tutto in
questione renderebbe la vita impraticabile. E ciò è vero anche riguardo al passato: senza la fiducia nel fatto che gli altri attorno a noi condividano la nozione che certi eventi siano andati in un certo modo, che il nostro passato collettivo contenga certi elementi salienti e non altri, che certe conoscenze insomma
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siano di patrimonio comune, non ci sarebbe possibile (o quanto meno sarebbe
molto difficile) qualunque interazione17.
L’analisi dei film sull’emigrazione italiana, pertanto, ci consentirà di
tracciare una sorta di storia dell’immaginario attraverso cui sarà possibile osservare da vicino come la società italiana abbia modificato il racconto dell’esodo dei nostri connazionali in relazione ai mutamenti che si
andavano via via verificando in essa a causa del consolidarsi di sempre
più cospicue comunità immigrate. In questo modo, inoltre, sarà possibile anche rilevare come emigrazione degli italiani e immigrazione straniera in Italia si compenetrano tra di loro, a livello dell’immaginario, e si richiamano a vicenda.
2. Un’identificazione tra emigranti italiani e immigrati stranieri in Italia
Lamerica di Gianni Amelio (1994)18, in cui si trasfigura il sogno americano
dei nostri connazionali nel sogno italiano dei profughi albanesi, è l’esempio più significativo e ben riuscito di completa identificazione tra emigranti
italiani del passato e immigrati stranieri di oggi. Questo film presenta, infatti, una duplice valenza simbolica: da un lato, lega idealisticamente, sul
piano della rappresentazione cinematografica, la grande emigrazione transoceanica degli italiani19 allo sbarco degli esuli albanesi sulle coste della
Puglia all’inizio degli anni Novanta; dall’altro, palesa per la prima volta sul
grande schermo il mutato ruolo della nostra penisola all’interno del sistema delle migrazioni internazionali, da paese di partenza a nuova società di
destinazione, unendo così metaforicamente passato e presente.
Il film difatti, proprio nel momento in cui l’immigrazione straniera diviene quantitativamente consistente e si impone all’attenzione dell’opinione pubblica nostrana, riflette istintivamente sul mutato quadro storico andando a ricercare la chiave interpretativa della realtà contemporanea proprio nella memoria storica nazionale. Opera così un collegamento tra le due esperienze migratorie, rintracciando un’analogia nella fuga
dalla povertà del paese d’origine e nell’aspettativa di una vita migliore
nella società di destinazione. Il richiamo al passato serve quindi ad edificare, su un piano simbolico, una giusta prospettiva da cui osservare le dinamiche del mutamento sociale. Solo capendo ciò che siamo stati, infatti,
possiamo intendere ciò che siamo diventati e, di conseguenza, prospettare ciò che potremmo essere.
La pellicola è ambientata in un’Albania ai limiti della sopravvivenza
all’indomani della caduta del regime comunista nel 199120. I bunker disseminati lungo le strade del paese testimoniano proprio l’oppressione del
potere politico sul popolo albanese. Amelio ci ricorda inoltre che all’origine
dei mali del Paese delle Aquile vi fu anche l’occupazione italiana durante il
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periodo fascista. Il racconto inizia proprio con un inserto dell’istituto Luce
relativo all’annessione dell’Albania, il 7 aprile del 1939, al Regno d’Italia21.
Nelle immagini introduttive si vede, infatti, lo sbarco delle truppe italiane
e Vittorio Emanuele II che assume il titolo di Re d’Albania. Fin da queste
primissime scene si sottolinea così lo stretto legame tra le due nazioni.
La storia si apre con l’arrivo di due imprenditori italiani, Fiore (Michele
Placido) e Gino Cutrari (Enrico Lo Verso), al porto di Durazzo dove, al di
là del cancello d’ingresso, li attende una folla desiderosa d’imbarcarsi per
il nostro paese e che grida in albanese «Italia, Italia, tu sei il mondo». In
questo modo la pellicola rende bene l’atmosfera di decadenza e disperazione della società albanese subito dopo la caduta del comunismo22. L’utilizzo
della lingua originale conferisce realismo alla narrazione filmica e le parole
gridate dalla folla manifestano il sogno, o meglio l’illusione, del popolo albanese di poter trovare nel nostro paese la loro “America”. La visione collettiva della televisione italiana in uno sperduto villaggio di campagna, il
camion di profughi diretti a Durazzo che cantano una canzone di Toto Cutugno e la scena di una ragazzina che balla una musica occidentale, con la
madre che chiede a Cutrari di portarla con sé in Italia, ribadiscono proprio
questa percezione della nostra penisola come nuova terra promessa, che in
un certo senso trasfigura quello che gli Stati Uniti, e altre società di destinazione, hanno rappresentato per molti italiani lungo la storia più che centenaria della nostra emigrazione.
La televisione (nell’albergo dove arrivano i due imprenditori italiani o
nel villaggio rurale) e la canzone italiana (la scena della cantante albanese
che intona una canzone di casa nostra o il successo di Albano e Romina nel
Paese delle Aquile) diffondono un’immagine felice dell’Italia e, così facendo, alimentano le attese, le speranze e i sogni di una vita migliore del popolo albanese. Questa funzione dei media, serve al regista per sottolineare
come il viaggio in Italia di questi disperati, più che una speranza, divenga
un’illusione. La nave derelitta carica di un’umanità affranta e attirata dai
messaggi mediatici è il frutto di un inganno collettivo che si alimenta tramite il consumo di prodotti culturali italiani23.
Questi richiami mediatici inconsapevolmente rimandano alle cartoline
di propaganda che promuovevano, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del
Novecento, le possibilità offerte dai paesi del Nuovo mondo. In questo modo si fabbricava negli aspiranti emigranti una definizione della società di
destinazione come vera terra di opportunità future, ricca e prosperosa, al
cui cospetto il paese d’origine appariva un luogo di miseria e privo di speranze. Questi opuscoli, come i moderni media del film, non facevano altro
che alimentare il senso di deprivazione relativa di coloro che decidevano di
emigrare rispetto alle popolazioni delle società di approdo, scelte come base di confronto per l’autovalutazione.
L’identificazione totale tra profughi albanesi ed emigranti italiani si realizza attraverso la figura di Spiro Tozaj (Carmelo Di Mazzarelli)24, l’anziaPolo Sud | n. 3 | 2013 | <http://www.editpress.it/cms/book/polo-sud-3>
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no albanese – che si scoprirà essere un italiano, Michele Talarico, che dai
tempi della seconda guerra mondiale si finge un autoctono per sfuggire alle
rappresaglie dei partigiani comunisti – prelevato dai due loschi speculatori
italiani, Fiore e Cutrari, per fare da prestanome e dirigere una fantomatica
fabbrica di scarpe a capitale misto. Il vecchio è l’emblema di tutti gli umiliati e offesi del mondo, strappato alla sua terra e ai propri affetti, perseguitato e sprofondato nel pozzo di una follia dove sono sopravvissuti solo i pochi ricordi felici di una misera esistenza25. È proprio Spiro ad unire l’esperienza dei nostri emigranti del passato a quella degli immigrati albanesi,
quando, una volta salito sulla nave diretta in Italia, afferma con una certa
convinzione di aver intrapreso il viaggio per gli Stati Uniti.
Questo legame tra i nostri connazionali e i profughi del film viene anche espresso attraverso le parole di un giovane albanese che Cutrari incontra sul camion durante il viaggio con Spiro: «in Italia nessuno muore come
lui (riferendosi ad un profugo venuto a mancare nel corso del viaggio).
In Italia i giovani muoiono solo a causa degli incidenti d’auto. Io morirò
vecchio. Una ragazza italiana può sposare un ragazzo albanese? O la legge
lo proibisce? Ora che arrivo in Italia voglio sposare una ragazza di Bari e
avere molti figli. Con i miei figli non parlerò mai la lingua albanese, parlerò
sempre la lingua italiana e così scordano che sono albanese». È così che il
mezzo cinematografico cattura l’equivalenza tra il “sogno americano” degli italiani e il “sogno italiano” degli albanesi e rinvia alla consuetudine di
molti nostri connazionali di acquisire un nome americano per facilitare il
loro processo d’integrazione26.
Anche attraverso Cutrari si realizza questa identificazione. Egli, infatti,
«scopre la sua vera condizione umana vivendo sulla propria pelle il calvario degli umili, dei disperati che affidano il loro destino a una sgangherata carretta del mare nella speranza di trovare Lamerica sull’altra sponda
dell’Adriatico»27. Gino, arrivato in Albania per creare la fabbrica di scarpe, nel corso del film stringe un rapporto ambivalente, ma in fondo affettuoso, con l’anziano Spiro e, al termine del viaggio, si ritrova a far parte
di quell’umanità che per l’intero corso della pellicola ha disprezzato con
sferzante ostinazione28. Diviene così l’incarnazione moderna dell’emigrante italiano costretto a salire (perchè arrestato) su di un’imbarcazione per
sfuggire al destino avverso.
Lo sguardo del regista si sofferma anche sui volti degli uomini, delle
donne e dei bambini che viaggiano sulla nave verso un illusorio futuro di
felicità e lega così in maniera inscindibile questa speranza a quella dei nostri connazionali della grande emigrazione transoceanica attraverso la ripresa dei volti di Spiro e di Gino. In questo modo il film «ci fa capire quanto
sia profondo il solco tra paesi ricchi (come il nostro) e paesi poveri (come
l’Albania), ma ci avverte anche che questo solco potrebbe scomparire da
un momento all’altro riportandoci alle misere esperienze del passato, perchè il sogno degli albanesi d’oggi è identico a quello degli emigranti italiani
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che cent’anni fa vedevano “Lamerica“ come la terra promessa»29. Ed è qui,
inoltre, che viene offerta una precisa spiegazione del fenomeno migratorio,
causato oggi come ieri dai differenziali di ricchezza tra le nazioni coinvolte.
Se, come è ormai accertato, la povertà non è la sola origine dei movimenti
migratori, di certo vi contribuisce in maniera determinante.
Infine, è possibile rilevare nel rapporto tra Gino e Spiro un confronto tra due Italie (quella del passato e quella del presente) che l’uso dello stile neorealista collega fino al punto da far coincidere anche l’Albania
degli anni Novanta con l’Italia del dopoguerra. In questo duplice legame
storico si riafferma l’identificazione già individuata con la disamina dei
personaggi. L’Italia di Spiro, povera e umile, sembra non riconoscersi in
quella ricca e arrogante di Gino, la quale, prima del viaggio “catartico” del
suo rappresentante, sembra aver dimenticato il proprio passato di indigenza e privazione. Lo scontro tra le due diverse realtà storiche si esplica nel dialogo tra i personaggi durante la colazione in albergo30, in cui si
evidenzia la contrapposizione tra due fasi differenti della nostra storia,
tra due sistemi economici e tra due generazioni con valori di riferimento incompatibili tra loro. Gino intende solo sfruttare la “lucida” follia di
Spiro per il proprio tornaconto e in questo atteggiamento opportunistico
segnala l’incapacità della società e della cultura italiana contemporanea
di tenere in debita considerazione la memoria storica di un passato piuttosto recente. I due personaggi, però, si ritroveranno nuovamente insieme sulla carretta del mare in rotta verso le coste pugliesi, dove finalmente
le due Italie si riconcilieranno nella consapevolezza della loro continuità
storica e del comune senso di appartenenza, in una sorta di pacificazione
culturale e della memoria. È sulla nave, allora, che l’italiano di oggi si riconcilia con l’italiano di ieri e, acquisendo coscienza del passato del suo
popolo, può affrontare la sfida dell’immigrazione straniera con maggiore consapevolezza e senso critico: in altre parole, Gino recupera in un sol
colpo una prospettiva storica e una visione futura.
3. Essere stranieri
L’identificazione tra emigrante italiano e immigrato straniero torna a manifestarsi qualche anno dopo con Once we were strangers di Emanuele
Crialese (1997), in cui si accosta la vicende di Antonio (Vincenzo Amato),
un emigrato italiano di ultimissima generazione, che sembra però più un
superstite della nostra passata emigrazione, a quella di Apu (Aiay Naidu),
un immigrato indiano. I due sono legati, oltre che da sentimenti di amicizia e solidarietà, dalla medesima condizione di straniero che si trovano a
vivere all’interno della società americana. Le differenze culturali ed etniche
sembrano non manifestarsi nel loro rapporto, mentre assumono rilevanza
nel confronto con gli autoctoni.
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I due protagonisti cercano continuamente d’integrarsi nella società statunitense con tentativi spesso grotteschi e irreali (Apu, ad esempio, si presta a far da cavia in un esperimento per testare gli effetti collaterali di un
nuovo antidepressivo). Ambedue provano in ogni modo ad accontentare le
richieste dei locali, qualunque esse siano, anche le più stravaganti (doppiare un film porno, posare nudi per essere ritratti da signore facoltose), pur
di trovare una collocazione all’interno del nuovo contesto societario.
Il film è ambientato nella New York contemporanea, che non viene mai
identificata attraverso i suoi luoghi simbolo più conosciuti, ma ripresa sempre a partire da interni, strade, scale mobili e palazzi anonimi31. Neanche la
statua della libertà è facilmente riconoscibile, visto che ne vediamo solo la
parte inferiore. Così facendo Crialese universalizza la storia narrata che non
diviene più solo il racconto su un emigrante italiano al di là dell’Atlantico,
ma acquisisce una valenza generale sulla condizione dello straniero oltre ogni
precisa caratterizzazione spazio-temporale. La città raffigurata dal film, inoltre, appare rigorosa ed eretta su rapporti di forza economicamente regolati32.
La scena della fotografia di Apu con sua moglie Devi (Anjale Deshpande) dinanzi al basamento su cui poggia la statua della libertà, indica difatti l’esclusione dal sogno americano a cui sono destinati molti immigrati, oggi come ieri. La degradata casa sotterranea dei due coniugi indiani, che è in realtà l’ambiente adibito alle caldaie di uno stabile, evidenzia nuovamente questa condizione di estromissione dalla società: vivendo sottoterra, infatti, i due immigrati sono sottratti allo sguardo dei locali e sono privati di qualsiasi visibilità
sociale. In questo modo Crialese rappresenta quella strategia antropoemica33
(emarginazione dello straniero) che, nel corso della storia americana, si è alternata a quella antropofagica ed assimilatoria (integrazione degli immigrati
in nome di una totale anglo-conformity)34. I continui rimproveri dell’autorità pubblica per sanzionare alcuni comportamenti di Antonio («non può sostare!», «raccolga quella roba!», «deve spostare la macchina!»), ribadiscono
la marginalità e il precario equilibrio tra integrazione ed esclusione35.
Il migrante, allora, diviene il confine della società, il bersaglio delle
sue ossessioni, colui che disturba la normale vita civile perchè incapace di
adattarsi ai suoi canoni cognitivi, morali ed estetici. L’ambivalenza tipica
dello straniero – contemporaneamente vicino e lontano, escluso e incluso, affascinante e temibile – induce la società d’approdo a chiudere i propri confini culturali, ribadendone così l’immutabilità36. Lo straniero viene
quindi stigmatizzato come nemico collettivo che minaccia non solo a livello economico, in quanto concorrente sleale disposto a lavorare a salari più
bassi e in assenza di tutela sindacale ed ulteriore voce sul bilancio statale,
ma soprattutto sul piano della sicurezza sociale, come potenziale criminale o eversivo, e su quello socioculturale, in quanto origine di una possibile
crisi identitaria degli autoctoni.
L’emigrante italiano per molto tempo ha rappresentato proprio il limite
della società a stelle e strisce, poiché ritenuto difficilmente assimilabile e pePolo Sud | n. 3 | 2013 | <http://www.editpress.it/cms/book/polo-sud-3>
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Francesco Pellegrino
ricoloso per l’intelligenza e l’integrità morale della comunità nazionale, ed è
stato relegato, sul piano della rappresentazione sociale, ma non solo, fuori
dagli schemi di un’esistenza ordinata e dotata di senso e ai margini del sistema sociale e lavorativo. Con Antonio, che oltrepassa frontiere stabilite e
disarticola l’ordine sociale, questa condizione non fa altro che riaffermarsi.
La lotta continua dei protagonisti del film con la città e i suoi meccanismi coercitivi dipendono, in ultima analisi, dal possesso di una cultura che contrasta le norme sociali condivise dalla società d’accoglienza (la
scena in cui Antonio si presenta completamente fradicio in un albergo di
lusso per ottenere la suite imperiale grazie ad un buono omaggio) e si oppone all’autorità costituita (i continui battibecchi tra l’emigrante italiano
e i vari tutori dell’ordine).
La contrapposizione tra la cultura d’origine e quella della società d’arrivo viene espressa soprattutto da Devi quando, per accontentare il marito che si sente ormai membro della cultura statunitense («qua le pillole le
prendono tutti, per sentirsi più forti. Ti devi solo abituare»), decide di farsi la permanente e vestire all’occidentale37. Questa scelta, però, renderà
palese a se stessa e ad Apu la tristezza dell’omologazione culturale e della
perdita dell’identità originaria. Crialese apre così uno squarcio sulla condizione di sradicamento dell’immigrato che vive un disagio e un conflitto
perenne: sul piano culturale, tra la propria identità etnica e i modelli di riferimento della società d’approdo; a livello socioeconomico, tra il desiderio
d’affermazione personale e l’abiezione lavorativa; sul piano politico, tra la
presenza fisica e l’assenza nei diritti di cittadinanza.
I due personaggi escono da questa negazione identitaria nel finale della
pellicola quando, vestiti con i loro abiti tradizionali, riemergono dal sottosuolo in cui sono rintanati e si rendono finalmente visibili in tutta la loro
essenza. In questo modo il regista esprime il tentativo di molti migranti di
ricostruire il senso di una nuova esistenza a partire dalla propria eredità
culturale. Apu e Devi, mostrando la loro specificità, decidono di non abbandonare la cultura d’origine e i suoi valori di riferimento, ma al contempo, uscendo allo scoperto, mostrano l’intenzione di aprirsi al nuovo e di accogliere la sfida di un’integrazione futura, senza trincerarsi dietro una tradizione statica e chiusa. In questo tentativo di mescolamento, il migrante
rielabora allora la propria identità tra innovazione e conservazione.
Queste dinamiche trovano un’ulteriore conferma nelle vicende di molti
emigranti italiani trasferitisi negli Stati Uniti agli inizi del XX secolo. Essi
vivevano infatti una sorta di “bifocalità” socioculturale – relativa tanto alla vita quotidiana, quanto ai frames mentali di riferimento – che li portava
a concepire alcuni aspetti della condizione di partenza ed altri della società di destinazione come dimensioni complementari di un unico spazio di
esperienza38. Vivevano così a cavallo tra due società e due sistemi di valori,
cercando di ricostruire il senso della loro esistenza attraverso una forma di
sincretismo tra la cultura d’origine e quella d’approdo. In questo senso va
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anche interpretato il tentativo di difesa dell’identità originaria attraverso
il campanilismo delle Little Italy, in cui si cercava di ricreare la società di
partenza, con tutte le sue valenze sentimentali e culturali, per resistere ai
valori della società nordamericana che spingevano verso una perfetta assimilazione. Si consolidava così anche un senso di solidarietà comunitaria
con cui replicare al disprezzo e all’emarginazione che la società statunitense riservava loro. Antonio, in un certo senso, è l’erede simbolico di questa
condizione quando si rifiuta di cucinare la carbonara con l’aglio.
Il cinema di Crialese, in ultima analisi, attribuisce al potere istituzionalizzato la responsabilità dei processi di espropriazione culturale, di estromissione dal corpo sociale e di segregazione dello straniero, a cui si chiede di essere uguale oppure di non essere. Il potere allora diviene il portavoce degli
istinti, delle paure e degli egoismi della società. A ciò però si contrappone la
capacità del migrante di costruire un nuovo equilibrio tra cultura d’origine e
cultura di destinazione, opponendosi così all’emarginazione sociale39.
4. Così vivevano
Amelio ritorna sulla tematica emigratoria nel 1998 con Così ridevano40, in
cui si narra l’esperienza di due fratelli siciliani41, Giovanni (Enrico Lo Verso) e Pietro (Francesco Giuffrida), emigrati a Torino durante gli anni del
boom economico. Il regista riprende il discorso inaugurato con Lamerica
e lo trasferisce sull’emigrazione interna del dopoguerra, intercettando così un riflesso di quel discorso pubblico nazionale che alla fine degli anni
Novanta – preoccupato dai primi concreti problemi connessi alla presenza straniera in Italia – tornava ad interessarsi degli aspetti più drammatici
del fenomeno migratorio. Il film, difatti, racconta in modo lucido e dettagliato le difficoltà di vita e di lavoro degli emigranti meridionali degli anni
Cinquanta per descrivere implicitamente talune problematiche sociali legate anche all’immigrazione straniera sul nostro territorio, che proprio sul
finire del XX secolo registrava un sostanziale incremento quantitativo. Si
afferma così una certa analogia tra le due esperienze migratorie.
La descrizione delle difficoltà economiche e abitative degli emigrati meridionali è alquanto realistica42, soprattutto nella scena del sottoscala degradato dove vivono per un periodo di tempo i due fratelli o in quella del
piano interrato in cui Giovanni affitta i posti letto agli altri emigranti. Con
altrettanta verosimiglianza vengono anche delineati i sogni e le speranze
di un avvenire migliore («Pietro deve fare il professore, mio fratello c’ha
la testa!»), lo sfruttamento lavorativo (lavori dequalificati e caporalato), lo
sradicamento culturale («non ti scordare la Sicilia») e i rischi di derive criminali (Giovanni diviene il presidente di una cooperativa che sfrutta il lavoro dei migranti e alla fine del film uccide un uomo, del cui delitto si autoaccuserà il fratello Pietro). L’impaccio di Giovanni quando entra in un elePolo Sud | n. 3 | 2013 | <http://www.editpress.it/cms/book/polo-sud-3>
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Francesco Pellegrino
gante ristorante del centro, dove lo attende il fratello, mentre il cameriere
lo invita ad uscire o l’immagine della famiglia meridionale che guarda attonita la magnificenza di un antico palazzo sabaudo esprimono invece con
drammatica precisione la condizione di emarginazione sociale a cui erano
destinati gli emigranti. Giovanni, inoltre, dichiara fin da subito la nostalgia per la terra natia quando, appena sceso dal treno, si rivolge ad alcuni
compaesani dicendo: «voi qua volete lavorare? Qua non c’è lavoro, è tutto
chiuso. Dovete fare come me. Io qua ci rimango solo qualche giorno e poi
a casa!». Questo atteggiamento iniziale di spaesamento del protagonista è
simboleggiato dalla nebbia del capoluogo piemontese che raffigura l’incertezza dell’esperienza migratoria43. Infine, va notato che l’uso sapiente dei
vari dialetti dei migranti e la contrapposizione con l’italiano parlato dai torinesi, nonché la ritrosia di Giovanni nel conversare al telefono con la padrona di casa di Pietro, permettono ad Amelio di manifestare le differenze
culturali attraverso quelle linguistiche.
Grazie alle tematiche trattate, dunque, il film diviene racconto epico
con valenze universali che descrive le condizioni di vita degli emigranti italiani del dopoguerra per rinviare implicitamente alla realtà italiana di fine
Novecento, segnata da simili problematiche in relazione all’immigrazione
straniera. È dunque possibile presumere un’intenzione esplicita del regista
di richiamare la memoria dell’esperienza dei nostri connazionali per segnalare una certa ciclicità della storia.
Il film è ambientato nella Torino del miracolo economico perchè proprio nel secondo dopoguerra, grazie soprattutto alle politiche dei primi governi repubblicani44 e all’intensificazione del sistema dei trasporti, l’emigrazione italiana ritornò a crescere. Tra il 1945 e il 1970 si assistette infatti
ad una ripresa delle migrazioni transoceaniche, che però non raggiunsero
più i livelli del grande esodo d’inizio Novecento, e, soprattutto, all’incremento delle migrazioni interne al paese, sospinte dal miracolo economico
e dirette sulla traiettoria che dal Mezzogiorno portava all’Italia settentrionale, in particolare al triangolo industriale, nonché all’aumento delle migrazioni intraeuropee45, incoraggiate dai processi di ricostruzione delle nazioni coinvolte nel conflitto.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il grosso dell’emigrazione meridionale, composta prevalentemente da lavoratori non qualificati, si diresse in
Svizzera e in Germania, grazie agli alti livelli di crescita economica, e in
maniera considerevole anche verso il Nord Italia:
A partire dal 1958, infatti, la domanda europea di manodopera esplose come
nessuno aveva previsto, e per diversi anni l’immigrazione (tanto italiana che,
sempre più ampiamente, di altri paesi mediterranei, sia europei che africani)
affluì non solo verso gli impieghi temporanei nell’edilizia o nell’agricoltura,
ma in misura ancor più cospicua in quelli disponibili nelle grandi fabbriche
della produzione fordista di automobili, macchinari, elettrodomestici e altri
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La rappresentazione cinematografica dell’emigrazione italiana
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beni di consumo. Per l’emigrazione italiana fu una sorta di rivoluzione. Tra il
1958 e il 1963 oltre un milione e mezzo di persone lasciarono il Meridione. Più
di un terzo di esse andarono verso la Svizzera e verso il nuovo motore dell’economia continentale, la Germania. Ma le altre 900.000 – e questa fu la grande novità – andarono nelle fabbriche e nei cantieri del Nord Italia. Dal Sud si
emigrava cioè con ritmi imponenti verso le aree urbane e industriali sia italiane che europee. Non a caso intorno al 1962-63 la disoccupazione italiana toccò il suo minimo storico, e nel corso del decennio l’emigrazione transoceanica
si esaurì definitivamente46.
Mentre l’emigrazione verso le zone continentali fu caratterizzata dalla
temporaneità dei soggiorni e da alti tassi di rimpatri, gli spostamenti interni alla penisola, invece, si distinsero per una maggiore stabilità e permanenza degli insediamenti, data la più cospicua presenza di nuclei familiari
(la famiglia pugliese incontrata da Pietro e i parenti dei due protagonisti).
Non mancarono comunque forme di emigrazione temporanea e stagionale.
L’apporto degli emigranti meridionali, inoltre, fu determinante per lo sviluppo dell’industria italiana e per l’integrazione della nostra economia nel
sistema comunitario e in quello internazionale. L’affluenza di manodopera a bassa qualificazione dalle regioni del Mezzogiorno contribuì difatti ad
incrementare la produzione industriale e, di conseguenza, le esportazioni,
partecipando così a riequilibrare la bilancia dei pagamenti.
Il film, inoltre, traccia con precisione il clima sociale in cui si trovarono a vivere gli emigranti meridionali. Le parole di Giovanni, quando affitta i posti letto, descrivono bene le condizioni di emarginazione, razzismo e
sfruttamento e segnano tutta l’ambivalenza del nostro protagonista, che da
persona ingenua e indifesa gradatamente si trasforma in un caporale capace anche di accettare la condanna del fratello:
Entrate, questa è casa vostra. A noi meridionali a Torino non ci vogliono. Ma lo
sapete cosa mettono sopra i portoni delle case? Una carta che dice ”si affitta” e
sotto ci scrivono “ai meridionali no”. E noi cosa dobbiamo fare? Dove dovremmo stare, per strada come i cani? Questa è una città che non ha cuore. La casa…
sotto terra. Meno male che l’ho trovata. Sapete quanto mi fanno pagare? Neanche fosse una reggia. Venite. Non vi spaventate se vedete gente ancora a letto.
Questi si devono svegliare per andare a lavoro. Siamo d’accordo così. Chi lavora
di giorno dorme di notte. Chi lavora di notte, che deve fare? Di giorno deve dormire. Il letto è come il pane. Non va sprecato, è peccato. Qui siamo tutti amici e
ci dobbiamo aiutare l’uno con l’altro […]. E a me cosa dovete dare? Quello che
vi dice la coscienza…il giusto!
In questo modo si sintetizza una precisa condizione di marginalità sociale, messa a nudo, per esempio, da quelle organizzazioni di sostegno
(la cooperativa presieduta da Giovanni) che, a metà strada tra solidarietà
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comunitaria e sfruttamento delinquenziale, hanno contribuito a consolidare la presenza meridionale attraverso forme di primo supporto. Il film,
descrivendo l’esperienza di vita di Giovanni, tratteggia altresì, certo in
maniera schematica, il percorso che ha condotto molti meridionali dalle
iniziali difficoltà economiche alla piena integrazione e all’ascesa sociale:
lo stesso Giovanni, infatti, si sposa con una piemontese e gestisce col suocero un’impresa di trasporti47.
Va rilevato, infine, che Amelio non evidenzia più di tanto il contributo
degli emigranti allo sviluppo economico del paese, ma insiste – in linea con
una certa tradizione cinematografica nazionale che va da Il cammino della
speranza di Pietro Germi (1957) a Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti (1960)48 – sull’analisi delle tragiche condizioni di vita che spesso conducono alla disgregazione familiare. Si tratta di topoi cinematografici, presi
in prestito dalla letteratura, che spesso sono stati poi trasferiti anche nella rappresentazione dell’immigrazione straniera, legando così le due esperienze migratorie entro un’unica cornice drammatica49.
5. In viaggio verso la “Merica”
All’inizio del nuovo secolo si registra una normalizzazione della figura
dell’immigrato straniero, nel senso che questa entra a tutti gli effetti a far
parte dell’immaginario collettivo nazionale come una presenza rilevante
della società italiana contemporanea50. L’attenzione crescente verso questo
personaggio, che ha radicalmente cambiato il volto sociale della penisola,
ha prodotto riverberi sempre più intensi anche su quei testi cinematografici interessati invece a raccontare l’emigrazione italiana51. Un esempio di
tale processo è riscontrabile in Nuovomondo di Emanuele Crialese (2006),
in cui l’emigrazione della famiglia Mancuso verso gli Stati Uniti alla fine del
XIX secolo diviene il mezzo attraverso cui indagare alcune problematiche
tipiche della società italiana di inizio XXI secolo. La pellicola difatti si interroga sulle cause che spingono a migrare e sulla percezione che la società d’accoglienza ha dello straniero: due tematiche che, agli inizi del duemila, sono centrali nel dibattito pubblico nazionale, coinvolgendo larghi strati
della società civile e delle istituzioni statali. Il film, insomma, racconta con
precisione l’esodo meridionale verso gli Stati Uniti in età liberale, recuperandone quindi la memoria, e nel far ciò coglie alcune preoccupazioni che
segnano l’Italia contemporanea, soprattutto in relazione al modello di accoglienza e d’integrazione da realizzare nei confronti dell’immigrazione.
La qualità dell’opera è indubbia52 e si manifesta in uno sguardo attento, capace di cogliere particolari significativi, e in una ricostruzione storicamente accurata dell’esodo meridionale. Nel complesso i tre atti che costituiscono il film – anche dove la ricostruzione storica è più carente (l’analisi monocausale delle condizioni oggettive che spingono a migrare) e la
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La rappresentazione cinematografica dell’emigrazione italiana
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tensione estetica protende verso un’interpretazione stereotipata (l’immagine convenzionale dei nostri emigranti, rappresentati esclusivamente come persone perbene, e la visione statica, priva di sfaccettature, della società americana) – offrono utili spunti di riflessione sulla grande emigrazione
transoceanica in età liberale e, per analogia, sul fenomeno migratorio in
generale. L’avventura della famiglia Mancuso, infatti, trasfigura i desideri,
le vicissitudini e le difficoltà degli immigrati stranieri di oggi.
Il primo atto, ambientato nella Sicilia d’inizio Novecento, si concentra
sulla decisione di Salvatore Mancuso (Vincenzo Amato) di partire per gli
Stati Uniti con i suoi due figli, Angelo (Francesco Casisa) e Pietro (Filippo Pupillo), e l’anziana madre (Aurora Quattrocchi)53. Crialese riesce con
maestria ad alternare immagini realistiche, con cui esprime le condizioni di indigenza dei protagonisti, ad altre fantastiche, attraverso le quali
manifesta le aspettative e la personale percezione che i personaggi hanno
del Nuovo mondo54:
Crialese, dunque, mostra le due componenti essenziali di ogni fenomeno migratorio: 1) la componente strutturale, cioè quel complesso di stimoli esterni
e quelle strutture sociali oggettive che spingono gli individui ad intraprendere
il viaggio (povertà, miseria, mancanza di possibilità future); 2) la componente
soggettiva, o «coefficiente umanistico», composta, invece, dalle definizioni della realtà di origine (povera e senza futuro) e di approdo (ricca e opulenta) formulate dai migranti55.
Interessante risulta anche la contrapposizione tra le cartoline di propaganda, che ritraggono galline giganti o alberi adornati con monete, e il paesaggio arido e l’aspetto dimesso dei nostri protagonisti. Così si evidenzia ancora una volta la distanza tra un’America abbondante e un’Italia miserabile.
Il film allude inoltre al pericolo di “perdersi” nel nulla, di scomparire,
nel corso dell’esperienza emigratoria, attraverso il fratello di Salvatore –
mai realmente ripreso se non da bambino durante un dialogo immaginario
con la madre – di cui non si hanno più notizie da quando è partito. Questo
fantasma che si aggira tra le inquadrature della parte iniziale della pellicola, implicitamente omaggia la memoria di coloro di cui, ieri come oggi, si è
persa ogni traccia nel corso del percorso migratorio.
Il secondo atto, invece, si concentra sul tema del viaggio e del distacco
dalla terra natia56. La traversata transoceanica, infatti, terrorizzava i nostri emigranti per l’allontanamento dai familiari e dalla comunità di appartenenza e per il trasferimento in un altrove spaziale, mentale e sociale
sconosciuto che li avrebbe costretti a modificare schemi comportamentali e riferimenti culturali57.
La ricostruzione del transatlantico, delle condizioni di vita dei migranti nei porti italiani in attesa della partenza e delle varie fasi del viaggio, compresi gli stati emotivi ad esse connesse, è puntuale e riassume
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con efficacia le difficoltà incontrate dai nostri connazionali. La scena della tempesta, ad esempio, esprime la paura di molti emigranti di trovare
una morte sciagurata nelle profondità del mare e la lega metaforicamente
alle inquietudini dei moderni immigrati terzomondiali. In questo modo il
viaggio transoceanico dei Mancuso trasfigura i pericoli che molti stranieri oggi incontrano per raggiungere le coste italiane. Nella nave, inoltre,
i nostri protagonisti conoscono Lucy (Charlotte Gainsbourg), un’inglese
caduta in disgrazia e decisa a far ingresso negli Stati Uniti. Fin dal primo
momento si evidenzia una differenza culturale ed estetica tra lo stile moderno della giovane donna e il mondo arcaico della famiglia siciliana. Si
anticipa così quello scontro destabilizzante con la modernità del Nuovo
mondo che avverrà presso gli uffici di Ellis Island58.
Il terzo atto, difatti, inizia proprio con i test psicologici e sanitari a cui le
autorità americane sottoponevano i nostri emigranti. La ricostruzione filmica di Ellis Island è minuziosa, sia per l’architettura degli edifici, sia per
la successione e la strutturazione delle pratiche di ingresso. La causa della severità dei controlli viene egregiamente spiegata da un agente dell’immigrazione: «Purtroppo, è stato scientificamente provato che la mancanza
di intelligenza è ereditaria e di conseguenza contagiosa, in un certo senso.
Vogliamo che i nostri cittadini non si mescolino con le persone meno intelligenti». La nostra emigrazione, in breve, venne negativamente percepita
dalle autorità americane perchè portatrice di un’eccessiva distanza culturale e di “tare genetiche” pericolose per l’integrità morale della società59.
Al termine dei controlli, comunque, i nostri protagonisti (tranne l’anziana madre che volontariamente rifiuta le visite e si fa rimpatriare) vengono ammessi nel Nuovo mondo attraverso la scena del bagno nel latte, con
cui si manifesta la speranza di una nuova prosperità60.
Il film di Crialese, in conclusione, suggerisce una continuità tra le speranze e le aspettative dei nostri connazionali e quelle dei nuovi migranti e
sottolinea il rifiuto che la società d’approdo spesso riserva agli stranieri. Si
invita così lo spettatore a riflettere sull’inedita situazione sociale dell’Italia
contemporanea, facendo di Ellis Island un pretesto per mostrare quel processo di esclusione dell’immigrato che si sta realizzando entro i nostri confini nazionali attraverso politiche migratorie sempre più restrittive e l’indifferenza di buona parte delle istituzioni pubbliche. In questo senso il film
sembra domandarsi: quale modello di accoglienza e d’integrazione stiamo
oggi realizzando? Cosa cambia nel momento in cui recuperiamo la consapevolezza del nostro passato?
6. Ancora emigranti
Terraferma di Emanuele Crialese (2011), con cui completa la sua personale trilogia sulle migrazioni, è un film che parla d’immigrazione straniePolo Sud | n. 3 | 2013 | <http://www.editpress.it/cms/book/polo-sud-3>
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ra rinviando apertamente alla memoria dell’esperienza passata dei nostri
emigranti. Il testo sembra infatti chiudere idealmente il discorso sviluppato in queste pagine attraverso la segnalazione di una precisa continuità storica tra passato e presente. La consapevolezza, al termine del primo decennio del nuovo secolo, di una presenza straniera stabile sul nostro territorio
ha portato Crialese ad invertire i termini del proprio ragionamento. Egli,
difatti, non parte più dall’esperienza storica dei nostri connazionali per
giungere a comprendere l’attuale realtà sociale, bensì inizia il proprio percorso d’analisi dall’osservazione diretta della questione immigratoria per
recuperare poi la memoria storica dell’emigrazione passata ed affermarla
come risorsa simbolica e culturale fondamentale per affrontare le odierne problematiche. In questo modo lega indissolubilmente il passato con il
presente, riuscendo così anche a mostrare come l’Italia assolva ancora una
funzione di terra di partenza di flussi migratori, nonostante il suo ruolo di
meta di destinazione sia ormai consolidato. La mentalità migratoria sedimentata in molte aree del nostro territorio, almeno fin dal Medioevo, che fa
della mobilità territoriale una risorsa da utilizzare per accrescere le proprie
possibilità di vita, non si è infatti del tutto esaurita e continua a produrre
nuovi emigranti italiani, anche se diversi per composizione sociale e culturale e per destinazione professionale rispetto a quelli del passato61.
Il film è strutturato su diversi contrasti che trovano nel mare il loro
punto di raccordo. Il Mediterraneo è infatti luogo di sopravvivenza per i
pescatori di Linosa, rappresentati da Ernesto (Mimmo Cuticchio), ma anche luogo di turismo per i vacanzieri portati in giro con la barca da Nino
(Beppe Fiorello) e luogo di speranza, ma anche di tragedia, per i clandestini che cercano di raggiungere le nostre coste, impersonati da Sara (Timinit
T.)62. Si strutturano così due tipi di conflitto sociale: quello tra l’opulenza
dei turisti e la miseria dei migranti, visivamente espresso con la scena del
trasferimento dei clandestini dall’isola con la stessa imbarcazione con cui
arrivano i vacanzieri; quello tra la legge del mare, che spinge Ernesto a salvare Sara e i suoi figli da un sicuro annegamento, e le leggi degli uomini,
oggigiorno sempre più restrittive, che impongono ai pescatori di lasciare in
mare gli irregolari63 e portano Nino a minimizzare il problema migratorio
per non disturbare il soggiorno dei turisti.
Il contrasto generazionale tra gli anziani dell’isola, dediti alla legge del
mare, e gli adulti più giovani, preoccupati per le leggi statali, è ben espresso nel colloquio tra i vari compaesani:
Primo anziano: quello che è successo a Ernesto può capitare ad ognuno di noi.
Perciò dobbiamo protestare, dobbiamo alzare la voce, dobbiamo farci sentire
[…]; Pescatore giovane: ma quale farci sentire. Non dobbiamo più prenderli
a bordo. Questo è il fatto, chiaro e tondo. A me mio padre ha insegnato che è
obbligo dare soccorso a mare. Io invece ai miei figli devo insegnare a cambiare rotta, se c’è pelle nera a mare; Secondo anziano: ma perchè parli così? Hai
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mai cambiato rotta tu?; Pescatore giovane: No, ma se mi fermano la barca poi
che faccio? Vengo a mangiare a casa tua? Secondo anziano: perchè a te manca
il mangiare. Ma io dico…è possibile che un pescatore muore di fame, quando ha
il suo mare?; Terzo pescatore anziano: eravamo sessanta pescatori, il mare bolliva di pesci. Ognuno di noi faceva sette, otto figli. Eravamo tutti scalzi, pieni di
pidocchi, però le decisioni più importanti le prendevamo tutti insieme; Secondo pescatore giovane: con tutto il rispetto di voi altri anziani, voglio dire che qui
dentro siamo rimasti in pochi a pescare. Ai vostri tempi c’erano molti pesci a
mare. Adesso noi andiamo a pescare e invece di prendere pesci, prendiamo persone vive e tanti morti; Nino: signori, dovete scusarmi, io vorrei capire che bisogno c’è di prenderli a bordo. Lo sappiamo tutti. C’è una legge precisa che dice
che non possiamo fare niente. C’è una motovedetta che li prende, li mette a bordo e li riporta là, da dove sono partiti, così è; Quarto pescatore anziano: ma qua
ci siamo noi e queste nuove regole sono contrarie a quelle nostre. Viviamo su
uno scoglio in mezzo al mare e dobbiamo rispettare la legge del mare. È così da
sempre e così deve restare; Nino: scusate signori, ma noi qua viviamo anche di
turismo, giusto? E ai turisti gli da fastidio vedere questi mezzi morti di clandestini, mentre sono in vacanza. Questi pagano e vogliono stare in pace. Poi parliamoci chiaro. Qua tutti questi clandestini, questi sbarchi per noi sono brutta
pubblicità; Ernesto: ecco è arrivato pubblicità. Ci fanno brutta pubblicità! Secondo te dovevo far morire la gente a mare per la pubblicità.
Questo dialogo rappresenta il fulcro tematico del film e sottintende le
dinamiche del mutamento storico e sociale vissuto dall’isola, il contrasto
valoriale tra le due generazioni di compaesani, la crisi antropologico-culturale che sembra attraversare l’Italia di oggi (tematica su cui molto cinema nostrano sembra concentrarsi e che fa del mezzo cinematografico uno
strumento capace di percepire e leggere in controluce i caratteri salienti, ma nascosti, di una società) e la drammaticità delle migrazioni attuali,
caratterizzate da regimi politici restrittivi e prodotte da livelli crescenti di
disparità socioeconomica tra le diverse zone del globo. Il recupero di un
sistema di valori del passato, quello degli anziani del paese, si contrappone quindi alle necessità del presente, smascherandone crudeltà e contraddizioni. In questo modo Crialese manifesta l’empasse culturale e morale in cui si trova oggi l’Italia, un paese che sembra aver smarrito il senso
del proprio passato e guarda al futuro con la cecità di un presente monodimensionale, cioè privo di profondità storica. In altre parole, la nostra
memoria sembra limitarsi a richiamare la superficie etnografica del passato, il come si viveva una volta, senza però rappresentare la base concreta di un risveglio reale e di un’inedita azione politica e sociale. Il rischio
diviene quello di fare della nostra cultura un simulacro vuoto di sé stessa,
incapace di cogliere il significato profondo della sua storia, barricandosi così in difesa di un’identità statica, immobile e inadeguata all’incontro
con lo straniero e la sua diversità.
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La rappresentazione cinematografica dell’emigrazione italiana
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Filippo (Filippo Pucillo), nipote di Ernesto e di Nino, rispettivamente padre e figlio, è il personaggio su cui l’intreccio drammaturgico della
pellicola produrrà le conseguenze più profonde. È un giovane diviso tra i
valori del nonno e la necessità di respingere i clandestini per non rischiare un nuovo sequestro. Per il suo futuro, la madre (Donatella Finocchiaro) decide di affittare la casa ai turisti e vendere alla fine dell’estate il peschereccio del padre, morto in un incidente, per poter così raccogliere un
po’ di soldi e lasciare l’isola64. L’inesistenza di una prospettiva futura e il
senso di colpa per essere stato costretto a scacciare i clandestini durante la gita in barca con Maura (Martina Codecasa), condurranno Filippo a
portare Sara e i suoi due figli, l’ultimo dei quali è nato in seguito ad uno
stupro subito dalla donna nel centro d’accoglienza libico, sulla terraferma con il peschereccio sequestrato. La scena finale dell’imbarcazione ripresa dall’alto con un’inquadratura a piombo, mentre solca le onde del
mare, segna la comunanza tra l’italiano e gli stranieri e rinvia inconsciamente ai bastimenti che trasportavano un tempo i nostri connazionali al
di là dell’oceano. Si segna così la continuità storica tra l’Italia di ieri, terra d’emigranti, e quella presente, meta di nuovi flussi migratori, ma ancora società di partenza. Filippo e Sara partendo insieme verso un futuro
ignoto, ma carico di speranze, mostrano inoltre la necessità di una nuova
solidarietà sociale65 capace di risolvere al meglio le spinose questioni con
cui la società italiana dovrà fare i conti nel prossimo futuro.
7. Conclusioni
I film di Amelio e Crialese analizzati in queste pagine risultano quindi capaci di cogliere i mutamenti della società italiana, consentendoci così di
tracciare una sorta di storia dell’immaginario collettivo degli ultimi venti anni per vedere come la memoria della nostra emigrazione passata e le
necessità presenti dell’immigrazione si siano legate tra loro richiamandosi vicendevolmente. È possibile, difatti, constatare che tra il 1994 e il
2011 questi testi hanno inquadrato con crescente precisione il fenomeno
migratorio nella sua complessità, mettendone a fuoco diverse problematiche, e sono riusciti a rielaborare la memoria storica in linea con gli sviluppi della contemporaneità.
L’operato di questi cineasti riesce allora a legare passato e presente in
un unico continuum spazio-temporale, poiché riflettendo sulla storia passata tende a svelarci aspetti, magari ancora inesplorati, del presente. La
memoria dell’emigrazione italiana, pertanto, trova nelle problematiche
migratorie che interessano l’Italia contemporanea una via di fuga per uscire dalla marginalità in cui era stata relegata dal nostro cinema e riproporsi
come vitale risorsa per affrontare al meglio l’odierna situazione sociale ed
edificare una nuova solidarietà.
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Francesco Pellegrino
Naturalmente non tutta la cinematografia nazionale, la cui produzione mainstream continua a non essere tanto interessata alla problematica
migratoria passata o presente che sia, si allinea alla traiettoria tracciata
dal cinema di Amelio o da quello di Crialese. Questi, però, rappresentano un esempio concreto di come il medium cinematografico nel suo complesso riesca a svolgere il ruolo di attento testimone della realtà sociale circostante e di costruttore di memorie collettive attive e dinamiche,
capaci cioè di innestarsi con le problematiche del presente. È in questo
senso che il cinema diviene una fonte attendibile e puntuale per lo studio
della società, in grado di raccontare, anche con una certa proiezione storica, le trasformazioni che progressivamente si verificano all’interno di
un preciso assetto societario.
Va segnalata, infine, la persistenza nel cinema italiano degli ultimi venti
anni – i film qui esaminati, ma anche altre pellicole come Oltremare. Non
è l’America di Nello Correale (1998) o Mineurs di Fulvio Wetzl (2008) – di
uno stereotipo che associa l’emigrante al meridionale, in particolare al siciliano. Si evince così la rimozione dalla nostra memoria collettiva dell’emigrazione dei settentrionali. Il cinema, pertanto, proprio grazie al suo silenzio, coglie un vuoto nel discorso pubblico nazionale. La rappresentazione
degli emigranti del Sud Italia operata dal nostro cinema66, inoltre, si basa
sulla povertà, sull’ignoranza, su una certa bonarietà67 e sulla drammaticità
dell’esperienza emigratoria, ma non riconosce a pieno il contributo dato da
queste genti allo sviluppo delle diverse società d’accoglienza. Si cristallizza
così in relazione all’emigrante meridionale lo stereotipo del “miserabile”,
la cui eco risuona ancora oggi, e che consente la rimozione dell’emigrazione settentrionale dall’immaginario collettivo nazionale.
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La rappresentazione cinematografica dell’emigrazione italiana
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Note
1
Il cinema è uno dei maggiori produttori di materiale documentario sulla società e testimonia i conflitti profondi della mentalità collettiva di una specifica epoca, consentendo così di
intravedere le differenti istanze sociali che convivono all’interno della sensibilità collettiva. La
bibliografia sul cinema come fonte storica è sconfinata. Tra i contributi più importanti vanno
senz’altro ricordati: S. Kracauer, Cinema tedesco. Dal gabinetto del dottor Caligari a Hitler.
Mondadori, Milano, 1954; P. Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti, Milano, 1979; M. Wood,
L’America e il cinema, Garzanti, Milano, 1979; M. Ferro, Cinema e Storia, Feltrinelli, Milano,
1980; E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica, Feltrinelli, Milano, 1982; R. Sklar, Cineamerica: una storia sociale del cinema americano, Feltrinelli, Milano, 1982; P. Sorlin, La storia nei film, La Nuova Italia, Firenze, 1984; P. Ortoleva,
Cinema e storia. Scene dal passato, Loescher, Torino, 1991; G. Miro Gori, La storia al cinema.
Ricostruzione del passato, interpretazione del presente, Bulzoni Editore, Roma, 1994; P. Cavallo, P. Iaccio, L’immagine riflessa. Fare storia con i media, Liguori Editore, Napoli, 1998; P.
Sorlin, Cinema e identità europea. Percorsi nel secondo Novecento, La Nuova Italia, Firenze,
2001; P. Cavallo, La storia attraverso i media. Immagini, propaganda e cultura in Italia dal
Fascismo alla Repubblica, Liguori Editore, Napoli 2002; P. Iaccio, I quaderni del giornale di
storia. La storia sullo schermo. Il Novecento, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2004; P. Iaccio, Cinema e storia. Percorsi e immagini, Liguori Editore, Napoli, 2008; Antologia di cinema
e storia. Riflessioni, testimonianze, interpretazioni, a cura di P. Iaccio, Liguori Editore, Napoli, 2011; R. A. Rosenstone, History on film, film on history, Pearson, London, 2013.
2 Sul rapporto tra cinema, storia e identità nazionale si vedano: G. E. Bussi, P. Leech, Schermi
della dispersione. Cinema, storia e identità nazionale, Lindau, Torino, 2003; R. Guerrini, G.
Tagliani, F. Zucconi, Lo spazio del reale nel cinema italiano contemporaneo, Le Mani, Genova, 2009; P. Cavallo, Viva l’Italia. Storia, cinema e identità nazionale (1932-1962), Liguori
Editore, 2010.
3 F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza e modernità., Bompiani, Milano,
2005. La macchina da presa esplora il mondo per identificarne i nessi essenziali e mettere a
nudo il funzionamento delle cose, divenendo così un formidabile testimone dell’epoca storica
e assicurando allo spettatore un contatto più intimo con la realtà sociale. Pur nella parzialità del suo sguardo, legato al particolare punto di vista da cui l’operatore gli fa osservare il
mondo, il cinema favorisce la ricostruzione della totalità e ci fornisce gli strumenti necessari
a sviluppare una visione ampia e completa sul reale. Il guardare cinematografico, insomma,
bilancia tra due esigenze contrapposte, la panoramica generale e l’osservazione del particolare, e diviene uno sguardo all’insegna dell’ossimoro, adatto ad operare su fronti contrapposti
riuscendo nel contempo anche a compenetrarli tra loro.
4 G. De Luna, La passione e la ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo, Bruno
Mondadori, Milano, 2004, p. 195.
5 G. Rondolino, Il Cinema, in G. De Luna, P. Ortoleva, M. Revelli, N. Tranfaglia, Gli strumenti
della ricerca – 2 Questioni di metodo, La Nuova Italia, Firenze, 1983, pp. 1155-1168.
6 P. Sorlin, Sociologia del cinema, “cit.”
7 Per cogliere appieno la capacità documentale del cinema bisogna necessariamente considerare la sua implicita ambiguità. Il cinematografo, infatti, è al contempo fabbrica di sogni e testimone attento della realtà sociale. In esso convivono reale ed immaginario, arte e industria,
importanza sociale e valenza estetica. Questa ambivalenza esclude la possibilità di ridurre la
comunicazione cinematografica ad una sola delle sue sfere ed impone di considerarle nella
loro continuità dialettica. Solo così possiamo valutare adeguatamente la natura profonda del
mezzo e coglierne il legame con la società.
8 F. Regnault, «Les Camisards» e il film storico, in G. Miro Gori, La storia al cinema. Ricostruzione del passato, interpretazione del presente,”cit.”, pp. 335-340.
9 In questo senso il testo filmico acquisisce anche un carattere didattico e di supporto all’insegnamento della storia, riuscendo così a collegare la vita individuale quotidiana alla più ampia
evoluzione storica.
10 Il film storico e i suoi problemi. Conversazione con Michel de Certeau e Jean Chesneaux, in G. Miro Gori, La storia al cinema. Ricostruzione del passato, interpretazione del
presente,”cit.”, pp. 381-395.
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Francesco Pellegrino
11 La memoria sociale è qualcosa di vivo che mescola passato e presente per creare nuove
categorie e inedite relazioni, reali o immaginarie che siano, e si compone di un insieme di
immagini e narrazioni, comprese quelle filmiche, nate dall’assemblaggio e dalla costruzione
creativa degli elementi a disposizione. Il cinema, dunque, partecipa attivamente a questi processi utilizzando anche il silenzio su certi accadimenti o le distorsioni che nel corso del tempo
sono intervenute sulla loro percezione sociale, come strumenti per ri-attualizzare gli eventi
significativi e le loro interpretazioni in vista dell’esistenza presente.
12 P. Montesperelli, Sociologia della memoria, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 129.
13 M. Argentieri, Prefazione, p. 9 a P. Iaccio, Cinema e storia. Percorsi e immagini, “cit.”
14 G. De Luna, La passione e la ragione, “cit.”, in cui a p. 117 si legge: «Da sempre, quindi, gli strumenti della comunicazione, pur nelle loro espressioni più antiche e meno segnate
dall’esperienza della simultaneità, sono stati in grado di assicurare un’efficace narrazione storica, di restituire una conoscenza profonda delle coordinate della nostra esistenza collettiva;
oggi, lo abbiamo già sottolineato, essi associano a queste potenzialità la sterminata grandezza
del loro pubblico. Nessuno degli altri agenti di storia che hanno operato in età contemporanea (lo Stato, la Chiesa, i Partiti unici dei regimi totalitari) è stato in grado di costituire una
comunità così tendenzialmente illimitata».
15 M. Argentieri, Prefazione, “cit.”, p. 12.
16 M. Ferro, Cinema e storia, “cit.”
17 P. Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Bollati Boringhieri,
Torino, 2009, p. 60. Sul rapporto tra media e memoria storica si vedano anche: P. Jedlowski,
Memoria, esperienza e modernità. Memorie e società nel XX secolo, FrancoAngeli, Milano,
2007; R. Rampazi, A. L. Tota, La memoria pubblica. Trauma culturale, nuovi confini e identità nazionali, Utet, Torino, 2007; P. Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie,
Il Saggiatore, Milano, 2009.
18 Miglior film agli European Film Awards 1994, Nastro d’Argento 1995 per la migliore regia
e fotografia, David di Donatello 1995 per migliore direttore della fotografia (Luca Bigazzi),
per la musica (Franco Piersanti) e per il miglior fonico di presa diretta (Alessandro Zanon).
19 La Grande emigrazione transoceanica si realizzò tra il 1870 e il 1915, quando le varie società
di destinazione chiusero i propri confini. Essa fu caratterizzata da un’ideologia liberista che
permise agli Stati nazionali di sostenere gli spostamenti di popolazione, sia in entrata che
in uscita, inaugurando così un regime di libera circolazione delle merci e delle persone che
intensificò il processo d’internazionalizzazione dell’economia. Per quanto concerne l’Italia,
i settentrionali si diressero prevalentemente verso l’America Latina, in particolare Argentina e Brasile, perchè attratti dalle agevolazioni elargite dai governi sudamericani e dalle alte
possibilità di guadagno nei latifondi, i meridionali, invece, si spostarono in maniera massiccia verso gli Stati Uniti. Solo quando iniziarono a circolare le prime notizie sulle deprecabili
condizioni di vita dei nostri connazionali in terra sudamericana, i settentrionali cominciarono
a dirigersi verso il Nord America. Particolarmente significativi a tal proposito risultano i volumi: E. Franzina, La grande emigrazione, Marsilio, Venezia, 1976; A. De Clementi, Di qua
e di là dall’oceano. Emigrazione e mercati nel Meridione (1860-1930), Carocci, Roma, 1999;
P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione italiana, 2 voll., Donzelli,
Roma, 2009;. Per una panoramica generale sulle migrazioni internazionali si consiglia S. Castles, M. J. Miller, The age of migration. International population movements in the modern
world, Palgrave Macmillan, New York, 2003 e P. Corti, Storia delle migrazioni internazionali, Laterza, Roma-Bari, 2010.
20 Enver Hoxha fu il capo indiscusso dello stato albanese dal 1946 al 1985. Alla sua morte vi
successe Ramiz Alia che, a seguito delle forti proteste della società civile, concesse nel 1991 le
prime elezioni democratiche, ponendo di fatto fine al regime comunista.
21 Il regime fascista aveva tentato da sempre di conquistare l’Albania, che era strategicamente
importante come testa di ponte per i Balcani, con trattati politici, per via militare e con sovvenzioni finanziarie nel 1926 e nel 1927. Una volta annessa nel 1940, l’Albania divenne la base
di appoggio dell’aggressione italiana alla Grecia e della Germania alla Jugoslavia nel 1941.
Successivamente Enver Hoxha, capo della resistenza albanese, tra il 1944 e il 1945 riuscì a
instaurare un regime comunista legato a quello jugoslavo.
22 La povertà estrema – simbolicamente rappresentata dalle strade sporche e polverose, dagli
edifici fatiscenti, dallo sciamare dei bambini per strada e dall’immagine di un fanciullo sotto
la pioggia accanto ad una delle statue del regime, simbolo del disfacimento di un paese segna-
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La rappresentazione cinematografica dell’emigrazione italiana
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to dall’indigenza del popolo e dalla corruzione della classe politica (il funzionario corrotto da
Fiore e Cutrari) – e il desiderio di trovare una vita migliore in Italia, nonché la nuova retorica
politica che si sostituisce a quella del precedente regime comunista (il ministro definisce Spiro
Tozaj un «eroe democratico») e la mancanza di capitali per riattivare l’economia locale, ben
descrivono la condizione della società albanese all’indomani della caduta di Hoxha. Molto
significativo risulta il discorso del mediatore albanese che aiuta i due imprenditori italiani ad
aprire una finta ditta di scarpe: «sempre gli stessi comandano. Hanno cambiato il nome, hanno mandato via i più vecchi e corrotti, ma il popolo ha fame, è disperato. Sai qual è il reddito
mensile di un albanese? 15.000 lire. Un medico guadagna 20.000 lire. Mancano i capitali».
23 Questa condizione di abbaglio generale si ricava dalle domande “insensate” che i profughi
rivolgono a Cutrari, dalle quali si evince una visione “televisiva” e stereotipata del nostro paese come oasi di felicità priva di contraddizioni. Lo stesso mediatore albanese che aiuta i due
imprenditori italiani esprime la percezione negativa che il popolo ha della propria terra natia
affermando: «Albania comunista era come una prigione. Nessuno è entrato ed uscito per
cinquanta anni. Adesso gli stranieri possono entrare, ma gli albanesi non possono uscire».
24 Carmelo Di Mazzarelli è un attore non professionista, nella vita reale faceva il pescatore,
scelto dal regista in linea con la tendenza neorealista di utilizzare persone “prese dalla strada”
per aumentare il senso di realismo e ottenere una recitazione quanto più possibile coincidente
con la vita reale. Franco Colombo, su “L’Eco di Bergamo” del 12 settembre 1994, ha notato
anche una certa somiglianza fisica tra il vecchio di Umberto D di Vittorio De Sica (1951) e
l’anziano un po’ folle interpretato da Di Mazzarelli. Il film, pertanto, può essere considerato
una nuova voce del Neorealismo sia per lo stile di regia, sia per l’uso di un cast di attori composto nella quasi totalità da non professionisti, esclusi Michele Placido ed Enrico Lo Verso. La
scena in cui dei ragazzini di strada rubano le scarpe al povero vecchio, inoltre, è un esplicito
omaggio a Paisà di Roberto Rossellini (1946).
25 Egli stesso, una volta arrivato all’albergo con Cutrari, afferma questa condizione di sfruttamento e povertà: «ci hanno mandato in guerra promettendo pane e lavoro per tutti e
invece moriamo di fame peggio di prima». In questo modo Amelio comunica la sua critica
al regime fascista.
26 Va rilevato, però, che spesso i nomi anglosassoni venivano attribuiti ai nostri connazionali, quando erano sprovvisti di documenti, direttamente dalle autorità americane. Questo
processo di cancellazione dell’identità pre-esistente, sia nel caso di una scelta volontaria del
migrante, sia in quello dell’imposizione da parte dell’autorità pubblica, favoriva l’assimilazione alla società d’accoglienza.
27 E. Natta, “Famiglia Cristiana”, 19 ottobre 1994.
28 È da rilevare che il tentativo di Fiore di installare una finta fabbrica di scarpe solo per acquisire i finanziamenti pubblici dei due paesi, cosa tra l’altro già realizzata in passato col padre
di Gino in Nigeria, rappresenta una critica esplicita ad una mentalità imprenditoriale senza
scrupoli e ad un capitalismo selvaggio. Gino, infatti, quando viene arrestato cerca di spiegare
al poliziotto, in relazione alla corruzione del funzionario albanese, che: «corruzione, fucilazione, che cosa significa? Che cosa significa? Ancora non siete pratici dei metodi occidentali. In
Italia si fa sempre così. Per rendere più veloce la burocrazia. Si aiutano le pratiche ad andare
avanti. Così c’è più efficienza. È meglio. Noi siamo imprenditori. L’economia albanese è in
crisi. La gente sta morendo di fame. Allora noi rischiamo i nostri capitali, investiamo i nostri
soldi». In questo modo il film rinvia esplicitamente a tangentopoli, che agli inizi degli anni
Novanta ha determinato la caduta di un’intera classe politica e imprenditoriale e il passaggio
dalla Prima alla Seconda Repubblica. L’atteggiamento insolente e per certi versi razzista dei
due imprenditori, inoltre, rimanda anche a quella sindrome d’invasione che caratterizzò buona parte dell’opinione pubblica nostrana e dei media italiani per l’arrivo dei profughi albanesi.
Le frasi di Fiore («ma dove volete andare? Ma che pensate che in Italia, in Germania stanno
aspettando a voi. Troppa libertà fa male […]. Siete stati viziati, lo Stato ha sempre pensato a
tutto. Adesso è il momento di rimboccarvi le maniche e darvi da fare. Noi vi aiuteremo».) e di
Cutrari («si, i calciatori!. Se vi va bene in Italia vi fanno fare i lavapiatti!») e il comportamento
prepotente dei due esprimono proprio la diffidenza della società italiana e preannunciano un
futuro di sfruttamento lavorativo a cui saranno sottoposti gli immigrati albanesi.
29 E. Natta, “Famiglia Cristiana”, “cit.”
30 «Spiro: qui il cibo costa molto. Chi ci dà i soldi?; Gino: non preoccuparti. Tu ai soldi non
ci devi pensare più. Come te lo devo mettere in testa? Adesso hai i soldi. Sei presidente. Hai
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Francesco Pellegrino
capito, presidente!; S: che lavoro è presidente?; G: che fai un lavoro buono, comodo. Ogni
tanto ti portiamo un foglio e tu firmi; S: come l’altra volta? Nome e cognome; G: tu firmi e
non devi più andare a lavorare; S: perchè avete scelto me per questo lavoro? G: perchè fare il
presidente è un lavoro delicato. E di questi tempi non possiamo fidarci di nessuno. Cercavamo
una persona onesta come te. S: vi ringrazio, come posso ricambiare; G: niente. Basta che stai
quieto e zitto e non dici in giro che lavori con noi, che la gente è invidiosa; S: per fortuna vi ho
incontrato». E ancora più avanti, dopo la telefonata con Fiore in cui Gino viene a conoscenza
del fallimento del progetto della fabbrica di scarpe: «S: avete ricevuto cattive notizie? È successo qualcosa alla vostra famiglia?; G: stai zitto.; S: parlate. Forse vi posso aiutare; G: non
sei più presidente. Hai perso il lavoro. Ecco cosa è successo; S: lo sapevo. Ci avevo riflettuto.
Non si può guadagnare il pane mettendo solo una firma. Grazie lo stesso, anche se non mi
potete più dare il lavoro; G: neanche io ho più un lavoro. Finito. Siamo a “spasso” tutti e due;
S: compare, siamo giovani, abbiamo le braccia. Quando arriviamo al mio paese, mangiamo, ci
laviamo, riposiamo e poi andiamo a lavorare a giornata per la raccolta delle olive».
31 L’unico posto immediatamente riconoscibile rimane uno scorcio del ponte di Brooklyn,
inquadrato da un’angolazione già utilizzata da Sergio Leone in C’era una volta in America
(1984). Non va pertanto dimenticato che qualsiasi prodotto cinematografico è indissolubilmente legato alla realtà sociale in cui prende forma, ma rinvia sempre anche alla storia del
cinema e a quella delle altre arti.
32 D. Chimenti, Estraneità, differenza e rinascita. Il cinema di Emanuele Crialese, in R. Guerrini, G. Tagliani e F. Zucconi, Lo spazio del reale nel cinema italiano contemporaneo, “cit.”,
in cui si legge alle pp. 123-124: «New York è rappresentata come una giungla il cui ultimo
anello della catena alimentare è il più indifeso, lo straniero […]. Per chi è un corpo estraneo, la
vita è una transazione economica, persino l’alterità può essere acquistata e declinata secondo
i bisogni del momento. Lo vediamo quando ad Apu, che ha ormai un accento americano, viene
chiesto di doppiare un film porno fingendone uno indiano, oppure quando Antonio interpreta
la parte dell’italiano per ricche signore che amano dipingere con un sottofondo di Vivaldi. È
grazie al continuo accumulo di soprusi minimi ed economicamente regolati che tutto l’ambiente si mette a vibrare di una carica violenta e animalesca».
33 Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999.
34 Le strategie messe in atto dal governo statunitense furono due: la prima, tipica dell’età
liberale precedente al 1921, fu quella dell’assimilazione, diretta a rendere simile il dissimile
soffocando le distinzioni culturali o linguistiche e favorendo il conformismo verso l’ordine; la
seconda, applicata a partire dal 1921 con il Quota Act, fu finalizzata ad impedire l’ingresso agli
stranieri indesiderati, tra cui i nostri emigranti in prevalenza provenienti dal Mezzogiorno.
35 D. Chimenti, Estraneità, differenza e rinascita, “cit.”, in cui si legge a p. 124: «Lo straniero
è colui per il quale il mondo, nuovo o vecchio che sia, è un luogo inabitabile, perchè ne può
essere sempre allontanato. È quanto accade ad Antonio in Once we were strangers, quando
viene espulso dagli Stati Uniti. Ma è durante tutto il film che Antonio sente ripetersi che non
può stare là dove si trova. L’ordine, o la “parola d’ordine”, è che bisogna circolare, non importa dove si vada, ma che si vada, come nella scena in cui cerca di convincere Ellen (Jessica
Whitney Gould) a non partire e una poliziotta minaccia di multarlo se non sposta immediatamente la macchina. Ma l’ordine non è gestito soltanto dai suoi tutori istituzionali. Antonio
riceve ordini da chiunque. Ogni volta che le sue azioni esorbitano, escono cioè dall’orbita di
un’architettura simbolica stabilita c’è un richiamo».
36 G. Simmel, Excursus sullo straniero, in Sociologia, Edizioni Comunità, Milano, 1989, pp.
580-599. Va rilevato che all’irrigidimento dei confini culturali della società d’accoglienza si
contrappongono anche spinte verso l’apertura, l’accoglienza e l’innovazione determinate proprio dalla presenza straniera.
37 In questa scena Once we were strangers ricorda Pane e cioccolata di Franco Brusati (1974),
dove un giovane Nino Manfredi emigrato in una Svizzera dura e razzista decide di farsi biondo
e tifare Germania pur di non sembrare un italiano ed essere finalmente rispettato.
38 S. Vertovec, Migrant transnationalism and modes of transformation, in «International
Migration Review», vol. 38, n. 3, autunno, 2004.
39 In questo modo il migrante diviene anche un innovatore per la società d’approdo, poiché vi
apporta nuovi elementi tratti dalla propria cultura d’origine.
40 Il film ha vinto il Leone d’Oro alla cinquantacinquesima Mostra Internazionale del Cinema
di Venezia e tre Grolle d’Oro, ma ha registrato un clamoroso insuccesso di pubblico.
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La rappresentazione cinematografica dell’emigrazione italiana
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È possibile interpretare il rapporto tra Giovanni e Pietro come una trasfigurazione di un
amore omosessuale che Amelio però non riesce a raccontare in modo diretto e nelle sue più
implicite e drammatiche conseguenze. Il film, pertanto, perde l’occasione di analizzare da
quest’altra prospettiva la realtà sociale e culturale dell’Italia degli anni Cinquanta. Così facendo, anzi, contribuisce ad escludere l’omosessualità dal discorso pubblico nazionale, offrendoci la possibilità di annotare come la società italiana di fine XX secolo non fosse ancora pronta
ad affrontare in maniera matura tale questione.
42 Grazie anche alla fotografia di Luca Bigazzi, già collaboratore di Amelio in Lamerica.
43 Lo spaesamento del migrante appena giunto nella società d’approdo è ben delineato anche
dalla scena in cui un conterraneo di Giovanni trova chiuso, perchè fallito, il panificio dove
avrebbe dovuto incontrare il cugino e rimane inerte e disorientato.
44 I governi italiani che si succedettero al potere nel dopoguerra considerarono l’emigrazione una “necessità vitale”, secondo una famosa formula di Alcide De Gasperi, per sbloccare i
nodi della nostra economia. Il flusso di rimesse contribuì infatti a riequilibrare la bilancia dei
pagamenti e gli spostamenti di popolazione ridussero la disoccupazione e, di conseguenza, la
conflittualità sociale.
45 Nel dopoguerra le migrazioni verso l’Europa continentale superarono di gran lunga quelle
dirette al di là dell’oceano e si caratterizzarono, rispetto all’età liberale, per un maggiore dirigismo statalista incentrato su accordi bilaterali tra i paesi coinvolti. L’Inghilterra e la Francia
iniziarono subito a importare forza lavoro dalle altre nazioni del continente per sopperire
all’insufficienza dell’offerta locale. Successivamente, Belgio, Germania e Svizzera divennero
le mete prevalenti. Lo scopo principale dei paesi d’origine dei flussi fu quello di alleggerire
la disoccupazione interna e i livelli di conflittualità sociale, mentre gli stati importatori di
manodopera si preoccuparono di accelerare la ricostruzione postbellica e dare nuovo impulso
alla crescita industriale. Il modello d’integrazione prevalente fu quello del “lavoratore ospite”
(Gastarbeiter), secondo cui gli immigrati venivano reclutati per un periodo di tempo finalizzato al lavoro, ma non godevano di diritti civili e sociali. I governi dei paesi di destinazione
cercarono così di far fronte alle esigenze della produzione interna, senza però sobbarcarsi
i costi di un’eventuale integrazione delle compagini straniere. A differenza di queste entusiastiche previsioni, però, parte degli immigrati finirono per stabilirsi definitivamente nelle
società d’approdo. Con la crisi petrolifera del 1973-74, infine, il fabbisogno di manodopera
calò bruscamente e si inaugurò una nuova fase di contrazione dei flussi migratori grazie alle
politiche di stop. Da questo momento in poi, infatti, nelle società d’accoglienza si diede vita ad
una sorta di politica del doppio binario diretta: da un lato, ad incentivare il ritorno in patria
dei lavoratori stranieri e a limitare l’ingresso di nuovi; dall’altro, a facilitare l’integrazione degli immigrati decisi a rimanere. Sull’emigrazione italiana nel dopoguerra si veda: F. Romero,
Emigrazione e integrazione europea 1945- 1973, Edizioni Lavoro, Roma, 1991; E. Pugliese,
L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Il Mulino, Bologna, 2006; M.
Colucci, L’emigrazione italiana in Europa 1945-57, Donzelli, Roma, 2008.
46 F. Romero, L’emigrazione operaia in Europa (1948-1973), in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione italiana, “cit.”, pp. 407-408.
47 Nonostante oramai ci sia la piena incorporazione di Giovanni nella società piemontese, va
rilevata ancora, durante il banchetto per il battesimo del figlio, un certa diffidenza tra meridionali e settentrionali.
48 I riferimenti al film di Visconti sono frequenti nel corso della pellicola: la struttura narrativa divisa in capitoli; la scena dell’arrivo alla stazione; il disagio abitativo e lavorativo iniziale;
il razzismo velato; la progressiva integrazione nel tessuto sociale di approdo; le conseguenze
tragiche dell’esperienza emigratoria, che porta alla disgregazione familiare.
49 Si pensi, ad esempio, a La ballata dei lavavetri di Peter Del Monte del 1998, in cui si racconta il processo di disgregazione di una famiglia polacca una volta giunta a Roma.
50 Ecco perchè sul piano cinematografico si assiste ad una crescita quantitativa del numero di
film che trovano nell’immigrato straniero in Italia il loro protagonista. Si è passati, ad esempio, da meno di cinque pellicole nel biennio 1994-1995 a oltre una quindicina nel solo 2008.
Tra i film che meglio hanno descritto i cambiamenti sociali introdotti dall’immigrazione straniera, nonché le problematiche ad essa connesse vanno ricordati: Terra di mezzo di Matteo
Garrone (1997); Ospiti di Matteo Garrone (1998); Saimir di Francesco Munzi (2004); Lettere
dal Sahara di Vittorio De Seta (2006); Come l’ombra di Marina Spada (2007); Le Ferie di
Licu di Vittorio Moroni (2007); Riparo di Marco Simon Puccioni (2007); Cover boy. L’ultima
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Francesco Pellegrino
rivoluzione di Carmine Amoroso (2008); Il resto della notte di Francesco Munzi (2008);
Good morning Aman di Claudio Noce (2009); Mar Nero di Federico Bondi (2009); La Straniera di Marco Turco (2009); Io sono Li di Andrea Segre (2011); Alì ha gli occhi azzurri di
Claudio Giovannesi (2012).
51 Dagli anni Novanta in poi, infatti, la ricostruzione cinematografica dell’esperienza storica
degli emigranti italiani risulta più puntuale, meno fiabesca, ma soprattutto più analitica in
relazione alle dinamiche socioculturali. Questa accresciuta precisione indica una maggiore
attenzione del discorso pubblico nazionale sulla tematica migratoria e sulle sue implicazioni
antropologiche, sociali, culturali e politiche.
52 Il film ha ricevuto la nomination agli Academy Award del 2007, come Miglior Film Straniero, e il Leone d’Argento Rivelazione al Festival di Venezia del 2006.
53 La stragrande maggioranza degli emigranti italiani era costituita da giovani maschi, analfabeti, poveri e di origine contadina, anche se era presente una minoranza di artigiani, di mercanti e di lavoratori proto-industriali. I nostri connazionali attraversavano l’oceano per lo più
in gruppi di paesani e parenti. Fu proprio questo complesso di legami sociali, strutturato sia
a livello familiare che a livello comunitario, a svolgere una funzione determinante nell’organizzazione delle partenze. Le donne emigrarono prevalentemente per ricongiungersi ai mariti
partiti in precedenza, ma dagli anni novanta dell’Ottocento anche l’emigrazione femminile
crebbe in maniera considerevole. Dal 1880 al 1915 gli Stati Uniti esercitarono una fortissima
attrazione sul Mezzogiorno. Le cause di questo esodo furono diverse: la povertà; la diffusione
di una cultura della mobilità, che vedeva nel trasferimento geografico una risorsa necessaria
per migliorare le condizioni di vita; l’eccessiva frammentazione della proprietà terriera; la
crescente pressione demografica; l’unificazione del mercato nazionale; il ritardo nei processi di meccanizzazione e modernizzazione dell’economia; ma soprattutto l’incremento della
pressione fiscale che fece dilagare gli espropri e spinse quote consistenti di popolazione ad
abbandonare il paese natio. Per un quadro d’insieme sull’emigrazione meridionale in terra
statunitense si vedano: P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione
italiana, “cit”; M. D. R. Gabaccia, Emigranti. La diaspora degli italiani dal Medioevo a oggi,
Einaudi, Torino, 2003; S. Luconi, M.Pretelli, L’immigrazione negli Stati Uniti, Il Mulino,
Bologna, 2008.
54 Particolarmente significativa è le scene in cui Salvatore si auto-seppellisce per convincere
l’anziana madre a partire e vede cadere dall’albero delle monete che simbolicamente manifestano l’opulenza del Nuovo mondo.
55 F. Pellegrino, Nuovomondo: Un sogno ad occhi aperti. Storie di emigrazione nel film di
Emanuele Crialese, in «Annali della Facoltà di Scienze della Formazione», n. 7, Catania,
2008, p. 170.
56 Il legame ancestrale con la terra d’origine e con l’universo affettivo, culturale e sociale che
essa rappresenta è ben simboleggiato dalla scena in cui Pietro, un attimo prima di partire, si
mette in tasca un piccolo pezzo del muro di casa: l’equivalente filmico del fazzoletto di terra
portato dai nostri connazionali nelle società d’approdo.
57 Su questo punto si rinvia nuovamente a F. Pellegrino, Nuovomondo: un sogno ad occhi
aperti, “cit.”, in cui si legge a p. 177 e seguenti: «[…] è pacifico ritenere che ogni fenomeno
migratorio implica, oltre ad una mobilità spaziale, anche, una mobilità sociale e culturale, un
mutamento del sistema dei valori e degli atteggiamenti sociali, nonché l’inserimento entro un
nuovo ed eterogeneo reticolo sociale. Questi cambiamenti inducono il migrante a rimodellare la propria identità individuale e collettiva e lo spingono a modificare stile di vita, schemi
comportamentali e modelli di riferimento simbolico […]. Il distacco spaziale e culturale è ben
rappresentato nel film con la scena della partenza in cui da un insieme indistinto di persone,
grazie al lento movimento della nave, si mostra la netta divisione tra chi resta e chi va, tra la
cultura d’origine e l’ignoto che attende ogni migrante. Il suono assordante che fuoriesce dalla
nave in partenza, cattura l’attenzione e lo stupore della massa di emigranti e sancisce simbolicamente la solennità del momento».
58 L’isola di Ellis Island rappresentò la maggiore frontiera d’ingresso per gli immigrati provenienti dall’Europa meridionale, compresa l’Italia, e orientale tra il 1880 e il 1920.
59 La diversità culturale degli emigranti italiani, nonché i problemi di ordine pubblico legati
alla criminalità organizzata e al sovversivismo politico, condussero il Senato degli Stati Uniti
ad approvare nel 1917 il Literacy Test, che limitò l’ingresso ai soli alfabetizzati e allargò il
divieto di entrata a tutti i sovversivi genericamente intesi, e nel 1921 il Quota Act, poi modifi-
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cato in direzione ancora più restrittiva nel 1924, per ridurre quantitativamente l’afflusso dei
nostri connazionali.
60 Molti emigranti italiani di età liberale, infatti, considerarono gli Stati uniti il posto giusto in
cui edificare un futuro benessere. Per gran parte di loro, però, l’America si rivelò soltanto un
luogo di sfruttamento, razzismo ed emarginazione. Si segna così tutta l’ambiguità del “sogno
americano”: da un lato, speranza di una vita migliore; dall’altro, causa di sopraffazione, duro
lavoro e avversità.
61 Ancora oggi, infatti, sono presenti movimenti migratori interni al nostro territorio o diretti
verso l’estero, la cui consistenza numerica, se paragonata ai flussi passati, appare però esigua.
È comunque da rilevare un certo trend di crescita, tanto che in alcuni settori dell’opinione
pubblica nazionale si sta iniziando a generare un certo allarmismo sociale. Si pensi, ad esempio, al fenomeno della “fuga di cervelli” (brain drain) dal nostro paese verso università e
imprese straniere. Va inoltre segnalata una rinnovata vitalità della mentalità migratoria e una
diffusa percezione sociale, soprattutto tra i più giovani che si affacciano per la prima volta al
mondo del lavoro dopo un periodo di formazione universitaria, di alcuni paesi stranieri come
mercati più adeguati, rispetto a quello interno, dove investire la propria professionalità.
62 Il regista caratterizza i differenti ruoli che assume il Mediterraneo con immagini di rara
bellezza: le reti che si espandono nel blu cristallino dell’acqua, per descrivere la pesca; la bella
scena del tuffo dei turisti dalla barca di Nino, con successiva ripresa dal basso dei corpi dei
turisti mentre nuotano, per sottolineare la funzione ludica; il fondale pieno di oggetti personali dei migranti o la scena dell’arrivo nell’oscurità dei clandestini, per segnare la tragedia e i
pericoli di molti viaggi della speranza.
63 «Lei ha l’obbligo di denunciarli!» dice infatti il finanziere interpretato da Claudio Santamaria. Lo stesso Filippo quando ritorna a casa, dopo il sequestro del peschereccio, furioso e
incredulo chiede alla madre: «ma è vero che salvare le persone in mezzo al mare è proibito?».
Si manifesta così la critica per quei provvedimenti legislativi restrittivi in materia d’immigrazione che in questi anni, a partire dalla legge Bossi-Fini del 2002, hanno caratterizzato la
politica italiana.
64 Giulietta, la madre di Filippo, afferma infatti: «voglio ridipingere le pareti e affittare la casa
ai turisti questa estate. Con la pesca non si vive più. La barca è diventata un legno vecchio,
che vale di più se si distrugge, anziché tenerla a mare. Intanto la possiamo usare per fare i
giri dell’isola coi turisti. E poi finita l’estate la dobbiamo demolire. Ma coi soldi che ci danno,
cominciamo un’altra vita! […] Filippo deve imparare a fare altre cose adesso […]. Ce ne dobbiamo andare dall’isola! Hai capito? Io voglio che tu veda altre cose. Cose nuove, cose diverse.
Voglio che parli con gente diversa. Non ti piacerebbe? […] Neanche l’italiano sai parlare!».
65 Questa nuova solidarietà è simbolicamente sancita anche dal rapporto tra Giulietta a Sara.
66 Il cinema americano, ad esempio, nel corso della sua storia ha contribuito a cristallizzare
un complesso di stereotipi negativi sui nostri emigranti, favorendo così la diffusione a livello
internazionale di un immagine non certo invidiabile dei meridionali.
67 Anche quando l’emigrante meridionale assume comportamenti devianti e delittuosi, la causa di questi viene imputata alle particolari condizioni socioeconomiche e culturali in cui è
costretto a vivere.
Polo Sud | n. 3 | 2013 | <http://www.editpress.it/cms/book/polo-sud-3>
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