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Giocare, uno stile di vita
«Gamification»: oggi molte aziende, ma anche alcuni musei, utilizzano le dinamiche
e le tecniche dei videogiochi. L’intento è quello di appassionare e coinvolgere il
cliente o l’utente
/ 24.10.2016
di Natascha Fioretti
Immaginate di andare dal fruttivendolo sotto casa e di ricevere cinque punti ogni volta che comprate
verdure di stagione o a km 0 e di essere incoronato cliente dell’anno per il vostro comportamento
sostenibile una volta raggiunti 500 punti. Oppure immaginate di giocare con un videogioco dove vi
viene chiesto di gestire una compagnia aerea, che sulla carta esiste davvero, e più livelli conquistate
più bonus avete di cui usufruire quando volerete con quella compagnia. Se vi sembra impossibile,
sappiate che per molte aziende la pratica di utilizzare le dinamiche e le tecniche proprie del gioco,
anzi dei videogiochi, è già una realtà di cui si può toccare con mano il successo non solo nel contesto
del marketing ma anche all’interno del team aziendale. La parola chiave è coinvolgere, appassionare
le persone a quello che fanno o a quello che comprano.
Gamification è un termine recente e a tracciarne il suo destino fu Jesse Schell, professore alla
Carnegie Mellon University, autore del libro The Art of Game Design. Game designer e fondatore di
Schell games, nel 2010 disse che il gaming si sarebbe spinto oltre i tradizionali confini di una
consolle per entrare in ogni sfera della vita umana: «Ciascuno di noi diventerà parte di un grande
gioco in cui le azioni vengono tracciate e premiate con bonus speciali».
La gamification si può applicare a tutti i campi, da quello giornalistico e museale a quello agricolo,
ad esempio per Expo 2015 il padiglione svizzero ha sviluppato il videogioco Plant Doctor Game, nel
quale il visitatore poteva trasformarsi in un piccolo agricoltore che cerca di preservare i suoi
raccolti. L’applicazione si basa sul reale funzionamento delle cliniche per le piante che aiutano i
contadini di tutto il mondo nella cura e nella gestione dei vegetali. Il gioco inizia fornendo una
panoramica generale del contesto, con informazioni sulla situazione dei piccoli agricoltori a livello
mondiale e una spiegazione a grandi linee del ruolo e del funzionamento delle cliniche per le piante
sviluppate in tutto il mondo, dopodiché, si parte e il giocatore riceve la foto di un alimento e deve
indovinarne l’ingrediente principale (caffè, cacao, mais ecc.). Una volta indovinato l’ingrediente,
scopre chi è l’agricoltore che lo coltiva e viene invitato a immedesimarsi in quest’ultimo, nonché a
scegliere il momento migliore per effettuare la semina.
Si spinge oltre la game designer e ricercatrice americana Jane Mc Gonigal quando tra le pagine del
suo libro SuperBetter (Penguin) ci dice che «il gioco può rendere il mondo un posto migliore» e
spiega come superare in sette passi il divario che separa la cultura del gioco dalla ricerca della
felicità, due elementi che a suo dire sono strettamente connessi tra di loro. Infatti, secondo i suoi
studi, una mente giocosa aiuta ad essere più forti, realizzarsi nel lavoro, costruire relazioni solide,
essere più sani e ad amare la vita.
Sarà per questo che la cultura del gaming ha valicato i suoi spazi originari andando alla conquista
delle più diverse logiche commerciali, sociali e istituzionali. Ma anche perché i giocatori sono tanti e
spendono bene in un mercato che si aggira su un valore complessivo di 65 miliardi di dollari. I gamer
svizzeri spendono ad esempio circa 49 dollari a testa in videogame e non pensate che siano solo i
giovanissimi perché quello dei videogiochi è un ambito che appassiona un pubblico
transgenerazionale con una percentuale di gamer femminili in crescita. Inoltre, grazie alla
portabilità e dunque alla democratizzazione di smartphone e tablet, le opportunità commerciali si
sono moltiplicate in tutto il mondo.
In Svizzera, ad esempio, le imprese dal 2010 beneficiano del sostegno della Confederazione
attraverso la fondazione Pro Helvetia ed il progetto Game Culture (www.gameculture.ch) dotato di
un budget di 1,5 milioni di franchi. Anche il mondo accademico svizzero sta prendendo coscienza del
potenziale dei videogiochi come filiera professionale. Alla SUPSI, nel 2015 Andrea Chiarini,
ingegnere informatico e Matteo Boca, ingegnere delle telecomunicazioni, hanno tenuto il seminario
Gamification. Come le dinamiche del gioco possono rivoluzionare il business. «Frequentato da
professionisti di vari settori tra cui dirigenti, professori, studenti, product manager di medio livello
che seguono progetti interni o per conto dell’azienda in team», dice Andrea Chiarini, «il seminario
ha dimostrato che anche in canton Ticino inizia ad esserci interesse e curiosità per la gamification.
L’idea è quella di smontare pezzo per pezzo la realtà dei giochi e applicarne le componenti al mondo
del lavoro. Non tutto il business deve diventare un gioco, ma la gamification è adatta ad agganciarsi
a qualsiasi punto del proprio business».
Come i videogiochi siano usciti dalle loro consolle per approdare nel mondo reale diventando di fatto
un fenomeno sociale, ce lo racconta invece Fabio Viola, miglior gamification designer italiano. Per
lui tutto ha avuto inizio con la consolle di un amico: «è raro trovare persone che lavorano in questo
mondo senza essere dei grandi appassionati. È stato proprio questo uno degli elementi che ha fatto
sì che un mercato nato solo 40 anni fa, parlo dei videogiochi, sia diventato l’industria principale
dell’intrattenimento e al tempo stesso per budget speso ha superato il cinema, la musica, l’editoria,
ma soprattutto è diventato un mondo all’interno del quale regna l’engagement, cioè la capacità di
coinvolgere chi gioca. I videogiochi ti portano a restare ore e ore in una sessione di gioco, ti portano
a creare delle squadre, a competere, provare paura, gioia, emozioni, a seconda di quello che sta
accadendo nel gioco ed è questo che il mondo esterno ora sta provando ad imitare per portarlo nel
proprio bagaglio culturale».
Ma come è avvenuto il passaggio dal mondo virtuale e fittizio dei videogiochi a quello della vita
reale? «Il gaming si è così diffuso da diventare un fenomeno sociale. In Italia 30 milioni di persone
utilizzano i videogiochi, quasi una persona su due, e il 49 percento dei gamer è donna. A questo
punto, le aziende che in una primissima fase già guardavano ai videogiochi come strumento di
marketing pubblicitario, il così detto advergames, per colpire il bacino dei ragazzi tra gli 8 e i 25
anni, si sono resi conto di come i videogiochi siano diventati molto trasversali, così come già da
decenni il cinema, la musica, e hanno compreso che sul tema del coinvolgimento i videogiochi hanno
molto da insegnare».
Non solo le aziende commerciali creano un mix vincente tra virtuale e reale che sembra valere di più
in termini di ritorno di qualsiasi campagna pubblicitaria, ma anche i musei: «a mio parere il migliore
esempio che si possa citare è Race against time, una app gratuita creata dal Tate Museum di
Londra. Se vuoi avanzare nel gioco e sbloccare i vari livelli ti viene chiesto di recarti almeno una
volta dentro il museo e fare un check in. È un modo per attrarre nuovi visitatori. Credo che questo
sarà uno dei trend più interessanti dei prossimi anni».
Coinvolgere a tutti i costi non vale però soltanto per i potenziali clienti e utenti ma anche per i propri
dipendenti interni, ad esempio per migliorare i processi di selezione e di assunzione del nuovo
personale «i macrofiloni del gaming interessano i consumatori, la vita interna dell’azienda, e il bene
pubblico, dunque gli Stati, gli enti regionali, tutte le entità pubbliche possono utilizzare questi
strumenti per convincerci a compiere delle azioni positive per la cittadinanza».
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