Le Leggi, Platone, dal Libro III

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Le Leggi, Platone, dal Libro III
ATENIESE: Prima di tutto alle leggi che riguardavano la musica di
allora, se vogliamo esaminare dal principio lo sviluppo di una vita
eccessivamente libera. Allora la musica era stata da noi divisa
secondo certe specie e figure, e una specie di canto era costituita
dalle preghiere agli dèi, e la chiamavano con il nome di "inni": e vi
era un'altra specie di canto opposta a questa - e si potevano
chiamare "treni", e un'altra "peana", e un'altra ancora, che, io credo,
riguardava la nascita di Dionisio, era detta "ditirambo".
Un'altra forma di canto aveva lo stesso nome delle leggi, e tali leggi
venivano chiamate "canti citaredici". Stabiliti questi princìpi ed alcuni altri, non era possibile ricorrere ad una specie di melodia in
cambio di un'altra: e l'autorità di riconoscere queste cose, e, una
volta riconosciute, di giudicarle e di punire chi non aveva obbedito,
non consisteva nei fischi, né nelle grida scomposte della folla, come
oggi, né in applausi che assegnavano lodi, ma si era stabilito che
coloro che erano provvisti di buona educazione ascoltassero in
silenzio fino alla fine, mentre per i bambini, i pedagoghi,e in genere
per la folla vociante, vi era una verga per ammonirli e riportarli
all'ordine. Fissate in tal modo queste cose, la massa di cittadini era
desiderosa di obbedire e non aveva il coraggio di giudicare nel
tumulto: dopo di che, con il passare del tempo, i poeti diventarono i
signori incontrastati delle trasgressioni compiute a danno della
musica, poeti per indole naturale, ma ignoranti del giusto e del lecito
in poesia, e colti da furore bacchico e invasi dal piacere più del necessario, mescolavano insieme i treni con gli inni, e i peana con i
ditirambi, e imitando con la musica della cetra quella del flauto, e
confondendo tutto con tutto, pur senza volerlo, dicevano delle
menzogne contro la musica a causa della loro ignoranza, e cioè che la
musica non ha alcuna norma, e che qualunque persona - buona o
cattiva che sia – può giudicarne il valore dal piacere che gli procura.
Facendo tali opere e aggiungendo ad esse tali discorsi, inculcarono
nella maggior parte delle persone questa licenza nella musica e
l'ardire di sentirsi in grado di erigersi a giudici: e quindi i teatri da
muti diventarono vocianti, come se chiunque avesse orecchio per
capire ciò che nella musica è bello e ciò che non lo è, e in luogo di
un'aristocrazia competente in tale campo si sostituì una cattiva
"teatrocrazia". Se una democrazia formata da uomini liberi si fosse
limitata al solo ambito musicale, non sarebbe accaduto nulla di
terribile: ma ora, presso di noi, ha preso origine dalla musica
l'opinione per cui tutti sanno tutto e un'illegalità che si è
accompagnata alla licenza.
Tutti infatti non avevano più paure perché si credevano sapienti, e
questa sicurezza ha generato l'impudenza: perché nel non avere
timore, a causa della propria insolenza, dell'opinione di chi è
migliore consiste la malvagia impudenza che nasce da una libertà
eccessiva.
MEGILLO: Quello che dici è verissimo.
ATENIESE: A questa libertà segue quella di non volersi
sottomettere ai magistrati, e, connessa con questa, quella di
sfuggire alla sottomissione e agli ammonimenti del padre e
della madre e dei più anziani; e proseguendo e avvicinandoci alla
fine, si cerca di non obbedire alle leggi, e giunti ormai al termine,
non ci si cura dei giuramenti e delle promesse, e neppure degli dèi,
ma indicando ed imitando quella che si diceva fosse l'antica natura
dei Titani, si ritorna di nuovo a quello stadio, e si vive una penosa
esistenza, senza che i mali possano cessare. ….
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