PRESENTAZIONE
L’abbazia di Morimondo, sorta nel 1134 grazie all’arrivo dei monaci cistercensi dalla
Francia, ha lasciato un’impronta notevole nella storia e nel vissuto della bassa milanese,
grazie alla spiritualità fondata sulle regole di San Benedetto.
I monaci cistercensi di Morimondo hanno creato, in un paio di secoli, un’opera imponente
di irrigazione sulle rive del Ticino che ancora oggi rimane, trasformando terre paludose in
campi fertili; hanno creato un centro di alta spiritualità di cui è espressione significativa la
stupenda Chiesa abbaziale, dedicata a Maria nascente, meta di devoti pellegrinaggi; hanno
aperto un centro di ospitalità pronto ad accogliere quanti si presentavano bisognosi di
aiuto spirituale e materiale.
Il 15 Ottobre 1561 San Carlo ottenne la bolla dal Papa Pio IV nella quale si esprimeva la
decisione di trasferire quasi tutti i suoi beni all’Ospedale Maggiore di Milano; nel 1564 San
Carlo erigeva nell’abbazia la parrocchia di Morimondo.
La comunità monastica di Morimondo, che continuava a sussistere nonostante il numero
ridotto di monaci, venne di nuovo retta da un abate; essa fu soppressa definitivamente nel
1798 dai rivoluzionari francesi che ne dilapidarono il patrimonio rimasto, ivi compresi gli
edifici del monastero.
Nel 1952 il Cardinale Schuster volle affidare la parrocchia di Morimondo alla
Congregazione degli Oblati di Maria Vergine.
UN’ABBAZIA CISTERCENSE
NELLA BASSA MILANESE
L’abbazia di Morimondo, che sorge sulla riva sinistra del Ticino in quella regione chiamata
comunemente la Bassa, inizia la sua storia il 10 0ttobre 1134. In quel giorno dodici monaci,
più un abate, provenienti dall’abbazia cistercense francese di Morimond, approdarono alle
rive del Ticino e si installarono provvisoriamente a Colonago, oggi Coronate, per fondare e
iniziare un nuovo centro di vita monastica secondo le norme tracciate dal grande
Benedetto da Norcia e, soprattutto, da Bernardo di Clairvaux, gloria e quasi secondo
fondatore dell’Ordine che prese il nome da Citeaux (“Cistercium”) prima sua culla, e
latinamente si chiamò “cistercense”.
L’arrivo dei monaci a Coronate era stato preparato. Infatti a norma delle Costituzioni
dell’Ordine che risalivano a soli pochi mesi prima della venuta dei monaci ogni nuova
fondazione cistercense doveva essere fatta su richiesta di enti ecclesiastici civili o privati
che si impegnassero ad assicurare ai monaci un alloggio e la possibilità di lavorare la terra.
In un decreto capitolare emanato a Citeaux nell’estate del 1134 si diceva espressamente: “
Dodici monaci, tredici con l’abate, sono mandati alla fondazione di nuove comunità
religiose; né vi saranno destinati prima che il luogo non sia provvisto di libri, di abitazione
e di altre cose necessarie; tra i libri non manchi per lo meno il messale, la Regola e il libro
degli usi. Le case poi siano fornite di oratorio di refettorio, di dormitorio, della cella per gli
ospiti e per il portiere perché i monaci vi possano vivere e vi possano osservare la Regola”.
D’altra parte le stesse Costituzioni vietavano di fondare nuovi monasteri se non dietro
richiesta di vescovi o di altre autorità civili o religiose e non sempre le richieste erano
accettate.
Anche la nuova fondazione di Coronate era stata preceduta da una richiesta formale.
Coronate sorgeva nella zona di confine tra le due diocesi di Milano e di Pavia. Le due
autorità interessate alla fondazione potevano quindi essere soltanto i vescovi delle
rispettive diocesi che con la fondazione e la protezione accordata a un monastero si
potevano non soltanto procurare un aiuto spirituale ma anche assicurare un aiuto politico
ed economico. Infatti un monastero di monaci nel medioevo rappresentava un valore non
inferiore a quello di un castello ben fornito di soldati per la difesa del luogo, dato che in
quell’epoca, l’autorità ecclesiastica legata al feudalesimo estendeva largamente i suoi poteri
anche nell’ambito politico.
La richiesta non doveva certamente provenire dal vescovo di Pavia che esercitava il suo
dominio su parte dei territori di Casorate e di Besate, presso cui aveva già un valido
appoggio nel monastero benedettino di San Pietro. Chi aveva interesse a una nuova
fondazione nella zona era perciò l’arcivescovo di Milano che in quel tempo era Robaldo
d’Alba (1134 – 45), grande amico di San Bernardo. Pochi mesi dopo la sua elezione
Robaldo dava l’autorizzazione ai tredici monaci venuti dalla Francia di stabilire una nuova
comunità a Coronate.
L’abbazia madre, Morimond in Borgogna
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Fin qui si è detto della provenienza del gruppo dei monaci arrivati a Coronate. Resta a dire
qualche cosa della loro provenienza remota, che ci trasporta molto più lontano, oltre le
Alpi, nella regione nord orientale della Francia che si chiama la Borgogna.
Il piccolo drappello proveniva dall’abbazia cistercense di Morimond presso Langres, che
era sorta una ventina di anni prima, nel 1115, come quarta figliazione dell’abbazia centrale
di Citeaux, divenuta ormai troppo piccola per accogliere tutti coloro che aspiravano a
diventare monaci. Poco prima di Morimond erano state fondate tre grandi abbazie, La
Fertè nel 1113, Pontigny nel 1114, Clairvaux nel 1115, abbazie diventate in seguito molto
celebri e che, insieme con Morimond, costituiranno per tutto il medioevo le quattro “linee”
principali dell’Ordine con propagazioni in tutta l’Europa.
La fondazione di Morimond era stata resa possibile dalla generosità di Adelaide de
Choiseul e di Olderico di Aigremont, signori della valle del Flambart, che avevano regalato
ai monaci un vasto appezzamento di terreno nella Borgogna, entro i limiti della diocesi di
Langres: una triste vallata, chiamata Moiremond, ossia monte della palude.
Nella valle del Flambart in passato si era già installato un eremita e la sua piccola
abitazione fu il primo alloggio dei monaci venuti da Citeaux. Il vescovo di Langres venne a
benedire il luogo dove doveva sorgere il monastero: il quale effettivamente sorse, molto
povero e con edifici ancora in legno,verso il 1130, dopo che i monaci avevano terminato il
formidabile lavoro di sbarramento e di drenaggio delle acque che dovevano servire ai
bisogni della comunità e all’irrigazione dei terreni circostanti.
Il primo abate fu Arnaudo, o Arnaldo; nei dodici anni del suo governo (1113-25) sorsero
altre tre comunità religiose per opera sua.
Alla morte di Arnaudo la situazione interna di Morimond non era facile: San Bernardo
infatti vi dovette mandare come abate il suo priore Gaucher, dal quale inizia quel
meraviglioso sviluppo di Morimond che durò per due secoli e al quale si deve anche l’invio
dei primi monaci a Coronate. Gaucher fu sempre devoto al suo abate S. Bernardo, il quale
anche in seguito dimostrò il suo interessamento per l’abbazia sorella di Morimond;
Gaucher si lasciava guidare da lui ed era sempre pronto a collaborare alle sue iniziative.
Gli successe il celebre Ottone, uno dei personaggi più prestigiosi di tutta la storia
morimondese, cui l’abbazia deve molto. Discendente da una nobilissima famiglia che aveva
numerose aderenze con tutti i principali potentati del tempo, uomo di vasta cultura,
scrittore di storia e di teologia, trascinatore di giovani e, soprattutto, animato da profondo
spirito religioso o monastico. I punti di affinità tra Ottone e Bernardo sono molti. A Ottone
si deve la prodigiosa diffusione che la “linea” di Morimond trovò nell’est Europa in territori
germanici e slavi.
Il periodo del suo abbaziato a Morimond non deve essere stato molto lungo: meno di due
anni, cioè dalla morte di Gaucher fino a quando fu nominato vescovo di Frisinga per
interessamento dello stesso Bernardo che in quel tempo si trovava a Roma. Morì a
Morimond, la sua vecchia abbazia, nel 1159.
L’abbazia francese conobbe il suo massimo splendore nei secoli XII-XIV. Affidata in
seguito ai commandatari, poco scrupolosi, decadde anch’essa fino al Maggio 1790, quando
i commissari della municipalità di Bourbonne, a nome dell’Assemblea Nazionale,
scacciarono tutti i religiosi con l’ultimo abate, il nobile dom Chautan de Vercly, che morirà
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esule nel castello di Borny il 6 Maggio 1806, e i beni dell’abbazia in parte venduti ai privati
e in parte dati preda al vandalismo e alla spogliazione anonima.
Della splendida abbazia ora non restano neppure le rovine, solo il nome di una località
semideserta, Morimond, e che a molti chilometri di distanza, rivive nell’abbazia sulla riva
del Ticino, unico ormai di tutte quelle più celebri e più grandi che costituivano l’ex impero
monastico di Morimond.
LA CHIESA ABBAZIALE DI MORIMONDO
Spazio e luce come mezzi di elevazione e di preghiera
La Chiesa è stata definita il “capolavoro” di Morimondo. Fra tutte le opere che ci
rimangono dei monaci di Morimondo è questa la più notevole e la più ammirata da quanti
vogliono ancora vedere ciò che di bello e di artistico ha saputo creare il genio e la fede
dell’uomo. Il merito dei monaci cistercensi nella Bassa milanese consiste nell’aver creato
sulle rive del Ticino un’opera di bonifica, di dissodamento, di coltura e di irrigazione che
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ancora oggi rimane e che fa di quelle terre le più fertili d’Europa. Mancava a tutto questo il
segno dell’arte e della bellezza artistica. Quei rudi monaci con le mani callose per l’uso
dell’aratro e della vanga pensarono anche a questo. Ed ecco sorgere la Chiesa abbaziale.
Chi oggi vi entra è subito dominato da una visione di grandezza insolita e di pacata
imponenza che la circonda. Una sapiente armonia degli spazi caratterizza tutto l’edificio,
una grandiosità che non opprime, una solennità che non stanca, una uniformità che eleva.
La Chiesa appare immensa ma non disgiunta da eleganza per la misurata proporzione di
tutte le parti. I bianchi capitelli di pietra che spuntano in cima alle colonne rotonde di cotto
o gli spazi di intonaco bianco intercalati sul rosso del cotto le danno un senso di leggerezza
e di slancio che a prima vista non parrebbe.
L’architettura gotica, “architettura dello slancio”
Lo stile “gotico”,caratterizzato dall’ “ogiva” (o arco spezzato al centro e reso acuto dai due
fianchi che si ricongiungono elevandolo), è caratteristico di quasi tutte le costruzioni sacre
o profane dell’Europa dal secolo XII al secolo XV, più diffuso nel nord, dove era nato,
meno diffuso e di durata breve in Italia, terra classica dello stile romanico e culla dello stile
classico rinascimentale. Gli architetti del Rinascimento chiamarono “gotico” quello stile
straniero che cercava di imporsi alla linea tradizionale dei monumenti romani di cui era
ricca l’Italia. Oggi il gotico è giudicato senza queste prevenzioni e si è più propensi a
scoprirne l’interna bellezza.
Lo stile gotico è uno stile che eleva, nessuno può sottrarsi a quelle emozioni spirituali, alla
suggestione potente dello slancio verticale delle linee e alla luminosità.
Il romanico è lo stile della meditazione, il gotico è lo stile dello slancio. L’architettura gotica
ha un’origine monastica cistercense anche in Francia, la patria dello stile ogivale.
Morimondo è di origine monastica ed è uno dei primi esempi di architettura gotica in
Italia, importato dalla Francia. Le Chiese abbaziali precedettero le cattedrali. L’arte
monastica durò quanto il medioevo, anzi gli sopravvisse. Tra il 1100 e il 1200 in Francia c’è
un fervore insolito nelle costruzioni delle Chiese.
L’architettura gotica cistercense è chiamata ancora “borgognona” dalla Borgogna dove
sorsero le prime abbazie dell’Ordine. Fra gli elementi di sicura origine borgognona che i
cistercensi fecero propri sono da ricordare le mensole di diverse fogge che ricevevano di
solito le ogive delle volte che terminavano un elemento aggiunto del pilastro a differente
livello dal suolo. Anche l’impiego di questo modulo deve aver avuto presso i monaci una
ragione di ordine economico, di risparmio di materiale e di maggior utilizzazione dello
spazio per permettere, ad esempio, l’appoggio del coro dei monaci nelle navata centrale.
L’architettura monastica in generale si basa sempre su ragioni pratiche, non soltanto
estetiche o ideali; così anche l’architettura cistercense. Ragioni pratiche che erano
suggerite e dovevano corrispondere al modo di vita stabilito dalla propria osservanza
religiosa. La riforma cistercense era sorta come reazione all’agiatezza e a certe delicate
consuetudini che si erano introdotte a Cluny e persino alla magnificenza e allo splendore
delle Chiese. S. Bernardo volle escludere dalle sue Chiese pitture, sculture e tanto più i
ricchi pavimenti istoriati e multicolori. A Citeaux, come madre dell’Ordine, si conduceva
una vita così povera che si capisce bene quale parte potevano avere l’arte e l’estetica.
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La costruzione della Chiesa presto ostacolata
Non si conosce con esattezza l’anno preciso in cui ebbero inizio i lavori della chiesa
abbaziale di Morimondo. Un’iscrizione a caratteri gotici posta sull’architrave interno della
porta centrale della Chiesa, che oggi non esiste più, ci fa sapere che la Chiesa fu iniziata nel
1182 e finita nel 1296.
I monaci di Morimondo avevano sempre segnato una Chiesa bella, grande, luminosa, che
fosse un invito alla preghiera. Per fare cose belle e grandi ci vuole tempo. I monaci
volevano che l’opera delle loro mani restasse e sopravvivesse alle situazioni effimere di un
uomo e di una generazione.
La Chiesa di Morimondo sorgeva dopo altre Chiese cistercensi della Lombardia e del
Piemonte e il loro modello, condotto sempre sulla linea tradizionale cistercense, è servito
alla realizzazione di questa Chiesa.
Il posto fu scelto nel “Campo di Fulcherio”, una specie di collina morenica, dalla quale si
domina tutta la valle fino alle sponde del Ticino. L’architetto è rimasto anonimo, secondo
la tradizione di tutti i costruttori delle grandi Chiese abbaziali e cattedrali del medioevo,
ma è facile pensare che sia stato un monaco cistercense della stessa abbazia o proveniente
da qualche abbazia francese. Sappiamo infatti che nei monasteri medioevali, accanto alle
altre arti, era coltivata in modo speciale l’architettura e molti dei capolavori architettonici
di quel tempo si devono a “maestri d’arte” monaci.
Nell’Ordine cistercense la tradizione architettonica fu sempre coltivata con fervore sia nei
monasteri francesi che italiani. Lelia Fraccaro, nel suo studio sull’architettura cistercense,
ha voluto vedere nella sua struttura della Chiesa di Morimond francese il primo modello
della Chiesa di Morimond italiana, ricopiato nelle tre navate con transetto e vasto coro
rettangolare munito di cappelle rettangolari introdotte da un deambulatorio a squadra.
L’architetto deve aver cercato l’aiuto e il contributo degli artisti locali, specialmente dei
“maestri comacini”, detti anche “Antelami” dal maestro Benedetto Antelami (sec. XII e
XIII), rinnovatore della scultura lombarda e valente architetto. Nessun documento scritto
comprova la presenza a Morimondo di questi maestri comacini anche se, in un testo del
1308, si faceva presente la presenza di due maestri per la realizzazione di un chiostrino.
La Chiesa fu costruita in quattro fasi successive, interrotte tra loro da vicende incresciose e
da episodi di sangue, subendo così anche leggeri mutamenti di stile a mano a mano che la
costruzione procedeva portando con sé nuovi gusti e nuovi indirizzi nell’arte. La prima fase
comprende il periodo che va dal 1182 al 1197. I lavori cominciarono con l’abside, la
sacrestia, il transetto e le prime quattro campate della navata nelle quali si trovava il coro
dei monaci. In poco più di un decennio i monaci erano riusciti a raggiungere più della metà
dell’attuale Chiesa e sarebbero certamente riusciti a finire in un altro decennio anche il
resto (le quattro campate e la facciata) se un fatto nuovo, la controversia con il prevosto di
Casorate e la proibizione di costruire dell’arcivescovo di Milano, non avesse sospeso i lavori
nel 1197. Il decennio previsto durò così 99 anni, comportando un periodo di complessivi
111 anni. E’ vanto di quei monaci di non aver mai modificato il primo grandioso progetto e
di non aver mai permesso che la sopraggiunta miseria li piegasse a riadattare
affrettatamente la costruzione.
La “funzionalità” della Chiesa morimondese
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Entrando nella Chiesa di Morimondo quello che prima di tutto ci stupisce è la sua vastità.
La meraviglia cresce quando si pensa che il vasto edificio doveva servire soltanto ai monaci
e non alla popolazione rurale che faceva capo all’abbazia. Anche se la comunità fosse stata
molto numerosa, anche se i monaci fossero stati qualche centinaio, non avrebbero mai
avuto bisogno di tanto spazio per lo svolgimento della liturgia monastica. No è stata quindi
una necessità particolare quella che ha suggerito la grandiosità del disegno ma qualche
altro motivo, forse due.
Il primo era di dare gloria a Dio e alla Vergine, a cui l’edificio era dedicato. L’edificio stesso
doveva essere in sé stesso preghiera, richiamo alla preghiera ed espressione della fede di
coloro che l’avevano progettato e realizzato. Una Chiesa è un luogo sacro e non può essere
innalzato con criteri comuni applicati a qualunque altro edificio destinato alle necessità
dell’uomo. Questo concetto profondamente religioso guiderà l’arte umana e cristiana anche
nei secoli successivi e solo quando la fede verrà meno e al posto della grandezza di Dio
subentrerà la ricerca e la considerazione dell’uomo negli edifici si cercherà la
“funzionalità”, talvolta, ma raramente, accompagnata con l’arte, ma il più delle volte in
contrasto con la bellezza artistica e con l’ordine che ha fatto sorgere e ha reso belli gli
edifici profani. Vedendo la Chiesa di Morimondo non potremo dire che i nostri padri non
avevano il senso della funzionalità e che sprecavano i loro danari e il loro tempo in edifici
inutili. Tutto quello che l’uomo costruisce è, nella sua intenzione, funzionale. Può darsi che
la funzionalità dei primi costruttori non corrisponda più alle esigenze e ai gusti dei posteri:
ma i monaci di Morimondo costruivano la Chiesa prima di tutto per sé senza curarsi dei
posteri, seguendo un loro criterio, non il nostro, di funzionalità.
Un secondo motivo della vastità della Chiesa di Morimondo lo si trova nelle abitudini
devozionali di quel tempo, caratterizzato da lunghi e frequenti pellegrinaggi ai principali
santuari della cristianità.
Visita sommaria alla nuova Chiesa
La Chiesa di Morimondo ha l’abside rivolta verso oriente e la facciata verso occidente
secondo un’antica regola che risale ai primi tempi del cristianesimo e che fu seguita quasi
costantemente fino ai tempi moderni tutte le volte che esigenze di spazio non obbligarono
a fare diversamente. Il motivo simbolico di questa prescrizione è che Cristo è la luce, e la
luce viene dall’oriente, oppure –secondo S. Atanasio – che gli apostoli insegnarono ai
primi fedeli a pregare rivolti verso l’oriente. E quanto i monaci morimondesi abbiano
saputo realizzare in piena armonia questo concetto simbolico della luce di Cristo che si
irradia nella sua Chiesa lo si può vedere durante la mattina, quando il sole penetrando
attraverso le finestre dell’abside si sparge innondando tutta la navata e dando al rosso dei
mattoni un colore vivo fuoco, o al tramonto, quando il sole penetra dalle finestre e dal
rosone della facciata.
Le stesse regole artistiche imponevano che le Chiese pubbliche sorgessero un pò appartate
dall’abitato, possibilmente in alto, e che i fedeli per accedervi dovessero salire tre o cinque
scalini, sempre che le esigenze del luogo non imponessero di fare diversamente. Anche a
Morimondo, per quanto la Chiesa non avesse scopo di servizio pubblico, queste regole
furono osservate in pieno.
Lo stile fondamentale di questa Chiesa è il gotico-borgognone, con elementi locali
romanico-lombardi, specialmente nelle finestre a tutto sesto e nelle poche parti
ornamentali, specialmente all’esterno.
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Abbiamo già detto dell’influsso esercitato dall’architettura cistercense sul gotico italiano. Si
trattò all’inizio di un trapianto integrale di forme e di architettura straniera in suolo
italiano: in seguito gli artisti locali ritoccarono l’ogiva primitiva differenziandola da quella
d’oltralpe. Morimondo appartiene ancora alla prima forma e ne è uno dei monumenti più
notevoli.
La Chiesa di tipo basilicale ha la forma di croce latina a tre navate con transetto
sormontato da un tiburio ottagonale che serviva, e serve tuttora, da campanile. Un
campanile vero e proprio Morimondo non lo ha mai avuto.
Le tre navate sono divise da colonne o pilastri in cotto che si accoppiano tra loro da
ambedue i lati ma presentano forme diverse: le prime due, entrando dal piazzale, sono a
pilastro composito secondo lo stile lombardo; seguono quattro coppie di pilastri cilindrici
con base attica su largo zoccolo quadrangolare non sempre di uguale altezza. Segue una
coppia di pilastri ottagonali con la stessa base dei precedenti ma con zoccolo più alto: la
forma particolare di questi due pilastri sta probabilmente ad indicare il limite dell’antico
coro prima che fosse trasportato dietro l’altare maggiore all’inizio del Cinquecento. Dopo
un’altra coppia di pilastri rotondi troviamo l’ultima coppia di pilastri polistili, che stanno
sull’incrocio con il transetto, molto robusti e sostenuti da un’alta base rettangolare perché
destinati a sostenere il tiburio.
Nel transetto di sinistra si trova una finestra rotonda con vetri del Quattrocento, la vetrata
più antica della Chiesa, e addossata al transetto la torre dell’orologio.
Il tutto è costruito con mattoni a vista, di misura leggermente superiore alla normale (cm.
30x9x12) che non si trova in altri edifici contemporanei; il che fa pensare che i monaci
avessero preparato per lo scopo delle fornaci speciali nei loro terreni e che essi stessi
abbiano provveduto la fornitura del materiale necessario pur servendosi di maestranze e di
manovalanza estranea. Non sappiamo dove esattamente si trovasse la fornace dei monaci
che fornì i mattoni per la costruzione della Chiesa e del monastero. Riguardo alla forma e
al formato dei mattoni ricordiamo che l’arte muraria antica era meno tecnicizzata di oggi e
quindi si aveva una maggiore varietà di lavorazione secondo l’uso che se ne voleva fare. I
mattoni delle colonne e degli architravi erano cotti con sagoma particolare, secondo la
tradizione che durò per tutto il medioevo. La copertura delle navate è a botte, in muratura
e non a travi o a capriate, perché il pericolo frequente di incendi costrinse a cercare una
copertura muraria più solida e più consistente. La volta a crociera, cioè la penetrazione di
due volte a botte tra loro, che poggiava generalmente sui pilastri che partivano dal suolo
era la caratteristica dello stile ogivale. Il coro dei monaci e l’altare maggiore formavano
inizialmente un tutt’unico perché il canto dell’ufficio terminava e trovava il suo punto
culminante nella celebrazione della messa abbaziale.
Gli altari erano cinque, il maggiore al centro e quattro ai lati, rispettivamente nelle due
cappelle a destra e a sinistra del transetto. L’altare maggiore era dedicato a Maria
Nascente, gli altari laterali a S. Pietro, S. Bartolomeo, Santa Croce e S. Maria Maddalena. Il
numero degli altari era condizionato dalla liturgia e potevano essere più di cinque o di sette
a seconda del numero dei sacerdoti monaci che dovevano celebrare. A Morimondo non
furono mai più di cinque.
Secondo la regola cistercense l’altare era semplice, appena ornato talvolta, sul davanti, da
qualche delicata scultura; ma dietro la tavola sacrificale quasi nuda si tendevano le tendine
di stoffa accordate ai colori liturgici delle feste. Dopo il secolo XIII questo ornamento,
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invece di restare di stoffa e movibile, si trasformò in fregio scolpito o dipinto, o a mosaico
dagli ori vibranti –detto “postergale”- che nel 1300 conoscerà un’immensa fortuna.
In fondo alla Chiesa, a destra della porta centrale, vediamo un’antica acquasantiera in
pietra lavorata, posata su quattro colonnine e sormontata da una statua della Vergine,
cinta di corona e col bimbo tra le braccia. La bella statuina trecentesca fu rubata da ladri
nel 1975 e mai ritrovata.
Questo gioiello d’arte, dato dall’acquasantiera e dalla statua, che nella sua linea indica una
data di costruzione successiva a quella della Chiesa –probabilmente la prima metà del
1300- merita tutta la nostra attenzione. L’acquasantiera, ampia vasca circolare di pietra,
porta sui bordi esterni dodici bocche di uscita per l’acqua, rosoni alternati con teste
fantastiche che indicano chiaramente la sua origine: o fontana ornamentale che sorgeva da
qualche parte del monastero, forse in prossimità del refettorio dove i monaci potevano
lavarsi le mani dopo i pasti, o forse accanto alla “lectio”(o “lettura”). Un altro discorso
merita la piccola statua di marmo della Madonna che si eleva nella tazza
dell’acquasantiera. E’ un’opera piuttosto malconcia ma indica un’altra mano e un’altra arte
tanto che oggi si propende a attribuirla al celebre maestro toscano Balduccio da Pisa, che
lavorò molto nel milanese dove si ammirano ancora i suoi capolavori di scultura gotica, o
almeno alla sua scuola. La Madonna dell’acquasantiera di Morimondo ha tutte le movenze
e l’atteggiamento delle Madonne pisane.
Chi volgendo le spalle all’altare maggiore osserva la navata centrale in direzione della porta
si accorge subito di una notevole deviazione dell’asse della parete sinistra e delle finestre
della facciata disposte in simmetria irregolare, in contrasto evidente con la perfezione di
linea che si riscontra in tutta la parte superiore della basilica. Il fatto ha interessato gli
studiosi che ne hanno cercato una spiegazione. Alcuni lo hanno attribuito alla diversità di
epoca in cui fu eretta questa parte della Chiesa che ha comportato anche una piccola
variante nel disegno. Questa spiegazione può sembrare troppo semplice e poco accettabile.
Questo errore si riscontra anche in altri edifici sacri del tempo. Questa ripetizione fa
pensare a un “metodo”, più che a una svista, ossia a un “errore” intenzionale e voluto.
Perché? Una risposta plausibile, che tra l’altro si adatta alla mentalità monastica del
medioevo, potrebbe essere quella secondo la quale la Chiesa, il “capolavoro” innalzato alla
gloria di Dio, doveva essere il più bello possibile ma restare opera dell’uomo, essere
imperfetto, e l’opera doveva in qualche modo riflettere tutta l’incapacità e la lacunosità del
suo artefice. La parete storta delle ultime campate della navata era come la firma, l’umile
firma, dell’anonimo artista di quella che ancora oggi è la più bella Chiesa della bassa
milanese.
La facciata è cronologicamente l’ultima parte della costruzione. Ha un taglio a capanna a
scarso slancio verticale. Originariamente doveva essere congiunta a un nartece di notevoli
proporzioni le cui tracce sono ancora visibili nel muro. Il protiro attuale, che sorge sulla
piattaforma della scalinata formato da quattro agili colonne in pietra a zoccolo molto
elevato, risale al principio del XVIII secolo, in corrispondenza delle regole liturgiche
ambrosiane che imponevano questo portico davanti alle Chiese parrocchiali.
Gli annessi alla Chiesa
Accanto alla Chiesa, facente corpo unico con essa, troviamo la sacrestia e la parte
confinante al chiostro che prendeva il nome di “lectio” o di “lettura”, e che si poteva
considerare come un’appendice o un prolungamento del coro dei monaci.
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La sacrestia attuale, con volta a botte e grande finestra centrale, ha subito pochi
cambiamenti nel tempo e anche oggi si presenta come un ambiente severo, raccolto e
devoto, non eccessivamente vasta in proporzione della Chiesa.
La lectio, a cui si accedeva dalla Chiesa con una scala di pietra trovandosi essa in un piano
più basso al livello del chiostro e della sala capitolare, conserva le tracce di una cura ed
eleganza particolare: antichi affreschi nell’arco della porta, in parte consunti e in parte
cancellati per dar luogo a un grande e bell’affresco attribuito al Luini o alla sua scuola che
rappresenta la Vergine in trono col Bambino in braccio, circondata a destra da S.
Benedetto e a sinistra da S. Bernardo. L’affresco è stato recentemente staccato dalla parete
originale e collocato all’interno della Chiesa, nella navata destra, per meglio preservarlo
dall’umidità che ne avrebbe potuto col tempo deteriorare i colori. Altre pitture che
adornavano le formelle furono aggiunte in seguito ma oggi si presentano molto deteriorate
e quasi irriconoscibili. Delle tre bifore con mattoni a spina di pesce, originariamente
fornite da vetrate a colori, rimangono solo le tracce nel muro in attesa di restauro.
Tra la sala capitolare e la lectio troviamo l’armarium, o “custodia” dei manoscritti in
originale o in copia più preziosi del monastero, pergamene con trascrizioni di libri sacri di
opere teologiche, liturgiche, storiche, documenti notarili di contratti, ecc.... una specie di
biblioteca o di archivio, il centro culturale o il cervello di tutto il monastero che non
mancava mai in nessuna comunità religiosa del medioevo.
L’armarium in seguito servì anche come luogo di sepoltura di qualche abate e, più tardi
ancora, servì da penitentiarium , ossia da reclusione, o cella di separazione, o addirittura
di “prigione” per i monaci colpevoli di qualche irregolarità grave. L’esistenza di tali
“prigioni” è accertata e se ne trovano tracce in tutti i monasteri.
Nelle adiacenze della Chiesa sorgeva il cimitero, vicini l’una all’altro per indicare la
comunione dei santi nell’unica comunità di coloro che credevano in Cristo e nella
“corrispondenza di amorosi sensi” che doveva unire i defunti ai vivi in attesa di
ricongiungersi insieme. A Morimondo il cimitero dei monaci, e più tardi anche dei fedeli,
sorgeva nella parte nord della Chiesa e si prolungava dietro all’abside e alla sacrestia. Là
furono sepolti i morti di Morimondo fino al XIX sec. , quando fu costruito l’attuale
cimitero.
Non si hanno tracce di tombe nell’interno della Chiesa, dove il pavimento in pietra, che
rimane ancora, non porta segni o iscrizioni funebri di nessuna sorta.
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