SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA STRUTTURA TERRITORIALE DI FORMAZIONE DECENTRATA del DISTRETTO DI MILANO Renato Amoroso, Giuseppe Buffone, Giuseppe Cernuto, Filippo D’Aquino, Fabrizio D’Arcangelo, Alberto Dones, Francesca Fiecconi, Maria Grazia Fiori, Federico Vincenzo Amedeo Rolfi, Adriano Scudieri LABORATORIO DI APPROFONDIMENTO IN MATERIA DI PATROCINIO A SPESE DELLO STATO NEI PROCEDIMENTI CIVILI AULA MAGNA EMILIO ALESSANDRINI - GUIDO GALLI PALAZZO DI GIUSTIZIA DI MILANO 7 – 8 ottobre 2015 Codice del Corso: T15013 a cura di G. Buffone 1 INDICE Programma dei lavori Corte Costituzionale, 24 settembre 2015 n. 192 Cass. civ., sez. VI, sentenza 7 maggio 2015 n. 9264 Comm. Trib. Reg. Lombardia, Milano, 23 febbraio 2015 Cass. Civ., Sez. Un.,18 febbraio 2014 n. 3774 Cass. Pen., sez. IV, 29 luglio 2014 Corte Costituzionale, 6 febbraio 2013 n. 12 Cass. Civ., sez. VI, 5 settembre 2012 n. 14888 Cass. Civ., Sez. Un., 29 maggio 2012 n. 8516 Corte Cost., 28 novembre 2012 n. 270 Corte Cost., 19 dicembre 2012 n. 306 Trib. Milano, ordinanza 5 maggio 2015 Trib. Milano, ordinanza 2 aprile 2015 003 004 022 024 028 031 033 037 040 046 055 059 063 Corte App. Roma, sez. I civ., decreto 17 aprile 2014 DM 7 maggio 2015 (limite reddito: 11.528,41) 066 067 MASSIMARIO della giurisprudenza più recente 068 2 PROGRAMMA del Corso GIORNATA n. 1 Ore. 14.40 Apertura dei lavori. Presentazione delle Sessioni APERTURA DEI LAVORI Pres. Roberto Bichi Presidente del Tribunale di Milano Ore. 15.00 SESSIONE N. 1 – Il difensore della parte ammessa Cons. Francesco Tallaro – T.A.R. Calabria Ore. 15.45 SESSIONE N. 2 – Le condizioni per l’ammissione al patrocinio Dr.ssa Ilaria Gentile – Tribunale di Milano Ore 16.00 Tavola Rotonda con: Avv. Antonella Ratti, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano Avv. MariaGrazia Monegat, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano Ore 17.00 – CHIUSURA DEI LAVORI EVENTI - Ore 18.00 – Visita ad EXPO GIORNATA n. 2 Ore. 10.00 Apertura dei lavori. INTRODUCE, COORDINA E PRESIEDE I LAVORI Pres. Giovanni Canzio - Presidente della Corte di Appello di Milano Ore. 10.15 SESSIONE N. 3 – Il procedimento di opposizione al decreto di pagamento Dr.ssa Rosaria Giordano - Suprema Corte di Cassazione – Ufficio del Massimario Ore. 11.00 SESSIONE N. 4 – Volontaria giurisdizione, negoziazione assistita Dr. Cesare Trapuzzano - Suprema Corte di Cassazione – Ufficio del Massimario Sospensione dei lavori. 11.45 – 12.00 Ore 12.00 – 12.45. Dibattito. Pranzo: 12.45 – 14.15 Ore. 14.30 SESSIONE N. 5 – Stranieri e patrocinio a spese dello Stato Dr.ssa Martina Flamini - Tribunale di Milano – Sezione I Civile Ore. 15.20 SESSIONE N. 6 – Patrocinio a spese dello Stato e responsabilità contabile Cons. Francesco Cancilla - Corte dei Conti di Palermo Ore 16.00 Dibattito - RASSEGNA DI QUESTIONI Ore. 17.00 - Sintesi dei risultati delle Sessioni: lettura delle soluzioni. Apertura della DISCUSSIONE 3 Giurisprudenza Corte Costituzionale, sentenza 24 settembre 2015 n. 192 (Pres. Criscuolo, est. Zanon) PATROCINIO A SPESE DELLO STATO - SPESE DI GIUSTIZIA - COMPENSI DELL'AUSILIARIO DEL MAGISTRATO (art. 106-bis d.P.R. 115 del 2002) Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 106-bis del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia − Testo A), come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2014), nella parte in cui non esclude che la diminuzione di un terzo degli importi spettanti all’ausiliario del magistrato sia operata in caso di applicazione di previsioni tariffarie non adeguate a norma dell’art. 54 dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002. Risulta manifestamente irragionevole un intervento di riduzione della spesa erariale in materia di giustizia – pur, come tale, sicuramente riferibile alla discrezionalità legislativa nel contesto della congiuntura economicofinanziaria – adottato senza attenzione a che la riduzione operi su tariffe realmente congruenti con le stesse linee di fondo del d.P.R. n. 115 del 2002: dunque su tariffe, da un lato, proporzionate (sia pure per difetto, tenendo conto del connotato pubblicistico) a quelle libero-professionali (che per parte loro, nell’ambito di una riforma complessiva dei criteri di liquidazione, sono state aggiornate) e, dall’altro, preservate nella loro elementare consistenza in rapporto alle variazioni del costo della vita. Corte Costituzionale, sentenza 24 settembre 2015 n. 192 (Pres. Criscuolo, est. Zanon) PATROCINIO A SPESE DELLO STATO – MODIFICA/REVOCA EX OFFICIO DEL DECRETO DI PAGAMENTO – ESCLUSIONE (d.P.R. 115 del 2002) Il procedimento di liquidazione dei compensi, in caso di patrocinio a spese dello Stato, presenta carattere giurisdizionale. Per tale ragione, non è ammessa la revoca in autotutela dei provvedimenti considerati illegittimi o infondati, dovendosi invece procedere all’esperimento dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge, ed altrimenti prendere atto della formazione di una preclusione processuale (salva, naturalmente, la eventualità che sia la stessa legge a prevedere la possibilità di revoca). In altri termini, i provvedimenti di liquidazione non restano nella disponibilità del magistrato che li ha emessi, e sono emendabili solo in sede di (eventuale) impugnazione. SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), dell’art. 106-bis del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia − Testo A), come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2014), e dell’art. 1, comma 607, della legge n. 147 del 2013, promossi dal Tribunale ordinario di Grosseto con ordinanza del 14 marzo 2014 e dal Tribunale ordinario di Lecce con ordinanze del 21 e del 28 maggio e del 17 giugno 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 121, 177 e 216 del registro ordinanze 2014 e al n. 14 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 30, 44 e 50, prima serie speciale, dell’anno 2014 e n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2015. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 4 udito nella camera di consiglio dell’8 luglio 2015 il Giudice relatore Nicolò Zanon. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 14 marzo 2014 (r.o. n. 121 del 2014) il Tribunale ordinario di Grosseto, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 106-bis del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia − Testo A), come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2014), nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato. Il rimettente riferisce che, nell’ambito del giudizio a quo, gli imputati erano stati ammessi al patrocinio a spese dell’Erario. Poiché tuttavia tale ammissione non risultava al momento dagli atti, il provvedimento di liquidazione dei compensi in favore di un perito psichiatra era stato adottato, in data 14 febbraio 2014, secondo le tariffe ordinarie, cioè senza tener conto della diminuzione stabilita dall’art. 106-bis del Testo unico in materia di spese di giustizia. Il giudice a quo ritiene, di conseguenza, che il provvedimento di liquidazione dovrebbe essere modificato, riducendo l’entità del compenso. Prima di procedere in tal senso, tuttavia, il rimettente solleva l’odierna questione, sul presupposto che l’obbligatoria riduzione sarebbe prescritta in violazione dell’art. 3 Cost., ed in particolare dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità. Data la natura officiosa degli incarichi loro affidati, gli ausiliari del magistrato non si troverebbero in una posizione assimilabile a quella dei difensori, dei consulenti di parte o degli investigatori privati, essendo piuttosto in una condizione analoga a quella dei pubblici dipendenti che operano nel processo (magistrati, personale di cancelleria, agenti di polizia giudiziaria), la cui retribuzione non è certo condizionata, né razionalmente potrebbe esserlo, dall’intervento dell’Erario per il pagamento delle spese di patrocinio. Una violazione del principio di uguaglianza si riscontrerebbe anche riguardo al trattamento discriminatorio introdotto tra ausiliari chiamati ad identiche prestazioni, in base al dato del tutto estrinseco dell’intervenuta ammissione di una parte del processo al patrocinio a spese dello Stato. Vi sarebbe anche un più generale connotato di irrazionalità della disciplina, poiché la riduzione de qua interviene su criteri di computo già comunemente ritenuti inadeguati, per difetto, all’impegno richiesto per le prestazioni di perizia o di interpretariato. Sarebbe dunque aggravata la difficoltà, già molto seria, di coinvolgere soggetti professionalmente affidabili, nell’interesse della giustizia, al fine di procurare le necessarie prestazioni di consulenza. Il giudice a quo sostiene che la questione sarebbe rilevante, perché dall’esito del giudizio incidentale discenderebbe la necessità, o non, del prospettato decreto di riduzione della somma liquidata. Dato il tenore univoco della disposizione censurata, d’altra parte, non vi sarebbero margini per una interpretazione adeguatrice che eviti l’effetto lesivo denunciato. 2.– È intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 5 agosto 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. 5 Lo Stato avrebbe valutato nella cifra di circa 10 milioni di euro il risparmio annuo determinato dalla norma censurata, la quale dunque sarebbe posta a tutela dell’equilibrio di bilancio, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 81, primo comma, e 117, terzo comma, Cost. Inoltre, l’indicata riduzione di spese implicherebbe l’ampliamento delle possibilità di accesso al patrocinio, assecondando il principio solidaristico fissato all’art. 2 Cost. La Corte costituzionale avrebbe già ritenuto infondate questioni poste riguardo ad una «fattispecie sostanzialmente analoga per materia», concernente l’art. 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27, con il quale è stata incisa la disciplina dei compensi liquidati ai difensori dall’autorità giudiziaria (ordinanza n. 261 del 2013). D’altra parte – prosegue l’Avvocatura generale dello Stato – sarebbe impropria l’assimilazione, proposta dal rimettente, tra procedimenti nei quali vi sia stata ammissione al patrocinio a spese dello Stato e procedimenti diversi, come la giurisprudenza costituzionale avrebbe stabilito anche con specifico riferimento ai compensi professionali (sono citate le ordinanze n. 270 del 2012, n. 203 del 2010 e n. 195 del 2009). 3.– Con ordinanza del 21 maggio 2014 (r.o. n. 177 del 2014) il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione collegiale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in rapporto a norme che disciplinano la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del giudice. In particolare è dedotta, in riferimento agli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost., l’illegittimità dell’art. 4, comma 2, della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria) – nella parte in cui determina in euro 14,68 l’importo liquidabile per la prima vacazione, e in euro 8,15 l’importo per le vacazioni successive – nonché dell’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 – come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge n. 147 del 2013 – nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato. 3.1.– A titolo di premessa, ed in punto di rilevanza, il rimettente informa che deve procedere alla liquidazione dei compensi concernenti lo svolgimento di due incarichi di traduzione, e afferma che, nella specie, andrebbero riconosciute al traduttore tre vacazioni per ognuno degli incarichi assegnatigli, per un importo complessivo di euro 61,96. La somma indicata andrebbe ridotta di un terzo, e quindi fino ad euro 41,30, in applicazione del nuovo art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002. Assume infatti il Tribunale che tale norma si applichi anche ai traduttori ed interpreti, in quanto ausiliari del giudice, ed a prescindere dall’essere o non riferita la loro prestazione ad un giudizio nel quale sia stata accolta una domanda di patrocinio a spese dello Stato. Nonostante la sua collocazione, infatti, la norma de qua avrebbe portata generale, dovendosi altrimenti attribuire al legislatore la scelta, incongrua, di modulare il compenso per prestazioni identiche sulla base di un elemento del tutto estrinseco, appunto l’intervento dell’Erario per il pagamento delle spese di patrocinio in favore del non abbiente. 3.2.– L’art. 4 della legge n. 319 del 1980 e l’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 contrasterebbero, come accennato, con gli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost. 3.2.1.– Il giudice a quo assume che, pur essendo il traduttore chiamato ad una prestazione obbligatoria di ufficio pubblico (art. 143, comma 4, del codice di procedura penale), riconducibile ai doveri di solidarietà sociale evocati dall’art. 2 Cost. ed alla nozione di prestazione personale che può essere 6 imposta dalla legge (art. 23 Cost.), la disciplina censurata eccederebbe i limiti di ragionevolezza nella individuazione di prestazioni esigibili in nome dell’interesse comune. 3.2.2.– La disciplina censurata, in particolare, creando una «classe di operatori economici» assoggettati ad un sistematico sfruttamento economico (dannoso anche in quanto limita l’attività libero professionale) – per di più posto in essere da quello Stato che dovrebbe assicurare invece una generalizzata tutela dei diritti del lavoro – implicherebbe anzitutto il denunciato contrasto con l’art. 35 Cost. I compensi previsti dalla legge, pur riscontrando la natura pubblicistica dell’incarico, dovrebbero comunque rapportarsi alle tariffe professionali, e sarebbero tanto più inadeguati in forza della prescritta riduzione di un terzo. 3.2.3.– Gli anzidetti fattori di squilibrio tra qualità della prestazione richiesta e relativo compenso sono richiamati dal Tribunale anche per denunciare la violazione dell’art. 36 Cost. Il rimettente afferma di non ignorare come la Corte costituzionale, con ripetute pronunce (sentenze n. 41 del 1996 e n. 88 del 1970), abbia escluso il contrasto tra l’art. 4 della legge n. 319 del 1980 e la norma costituzionale citata, sul presupposto della differenza tra prestazione lavorativa ed adempimento dell’ufficio pubblico, che in genere è solo occasionalmente conferito, con la conseguenza tra l’altro che non è possibile verificare l’incidenza della prestazione singolarmente compensata sul reddito nel complesso realizzato dal professionista. Il Tribunale ritiene però che sussistano le condizioni per un superamento della giurisprudenza richiamata. L’aumentata richiesta di assistenza linguistica avrebbe implicato un forte incremento del ricorso ad interpreti e traduttori, molti dei quali, d’altra parte, avrebbero raggiunto un elevato grado di specializzazione, ed avrebbero finanche effettuato investimenti utili ad un più celere adempimento dell’ufficio. Gli incarichi, dunque, anche in virtù delle norme in tema di incompatibilità, sarebbero sempre meno saltuari, con riduzione del tempo disponibile per altre attività, ed un adeguato compenso per il forte impegno richiesto sarebbe ormai essenziale per assicurare una retribuzione compatibile con i diritti degli interessati. La legge stessa – ripete il Tribunale – farebbe riferimento generale alle tariffe professionali per la determinazione delle somme dovute agli ausiliari, ed oltretutto ne imporrebbe un periodico adeguamento al costo della vita, mai attuato. Dal canto proprio, la Corte costituzionale, con la ordinanza n. 306 del 2012, avrebbe espressamente qualificato i compensi dovuti agli ausiliari come «retribuzione per il lavoro prestato». Insomma, prevedendo un compenso irrisorio per prestazioni altamente qualificate, le norme censurate contrasterebbero con gli artt. 35 e 36 Cost. 3.2.4.– Le norme in considerazione implicherebbero anche disparità di trattamento non giustificate, e quindi illegittime ex art. 3 Cost., non solo tra coloro che prestano opera professionale sul libero mercato e coloro che svolgono l’identica opera in quanto ausiliari del giudice. Anche all’interno di quest’ultima categoria, infatti, sarebbero stati recentemente introdotti trattamenti di maggior favore, con vacazioni commisurate sullo spazio di un’ora, e con compensi variabili tra 100 e 400 euro. Il riferimento concerne le fattispecie regolate dagli artt. 39-quater e seguenti del decreto del Ministro della giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, 7 convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), come introdotti con l’art. 3, comma 1, del decreto del Ministro della giustizia 2 agosto 2013, n. 106. Per quanto voglia riconoscersi alle professionalità interessate dalla nuova normativa un valore particolarmente elevato – osserva il rimettente – anche la disciplina risultante dall’art. 4 della legge n. 319 del 1980 e dal decreto del Ministro della giustizia 30 maggio 2002 (Adeguamento dei compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite su disposizione dell’autorità giudiziaria in materia civile e penale), richiamato dalla legge, è riferita a prestazioni specialistiche (ad esempio, perizie grafologiche e foniche, traduzioni, interpretariato), che sarebbero non legittimamente discriminate rispetto alle altre. Alla disuguaglianza non potrebbe porsi rimedio con la disapplicazione del risalente decreto ministeriale, direttamente richiamato dalla legge. Quand’anche poi si ritenesse possibile il ricorso al criterio generale di liquidazione dei compensi per prestazioni d’opera o servizi, fissato nell’art. 2225 del codice civile, la retribuzione resterebbe incompatibile col principio di uguaglianza, perché necessariamente ridotta di un terzo in applicazione dell’art. 106-bis del citato d.P.R. n. 115 del 2002. Il rimettente sostiene che la disciplina censurata ostacola il buon andamento dell’amministrazione della giustizia, poiché incentiva i migliori professionisti a sottrarsi con ogni possibile espediente all’ufficio loro conferito, e comunque spingerebbe gli ausiliari ad indicare in eccesso il tempo utilizzato per la propria prestazione, così aggravando gli oneri di controllo del giudice e determinando un sistema irrazionale, non compatibile con il principio di ragionevole durata del processo. 3.2.5.– La congenita inadeguatezza della disciplina primaria di computo dei compensi – aggravata, come sostiene il rimettente, per effetto dell’introduzione, nel d.P.R. n. 115 del 2002, del nuovo art. 106-bis, che impone la riduzione di un terzo degli onorari spettanti, tra l’altro, ai consulenti nominati dal giudice – determinerebbe altresì la violazione dell’art. 53 Cost.: verrebbero infatti perseguiti obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una parte soltanto dei contribuenti, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva. 4.– È intervenuto nel giudizio, con atto depositato l’11 novembre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili ovvero manifestamente infondate. Sostiene l’Avvocatura generale – in primo luogo – che la materia della determinazione dei compensi da corrispondere per le prestazioni cui sono chiamati gli ausiliari del giudice sarebbe riservata alla discrezionalità legislativa, e non sarebbe dunque sindacabile, fuori del caso della manifesta irrazionalità. In tal senso si sarebbe più volte già pronunciata la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 88 del 1970 e ordinanza n. 128 del 2002). Queste stesse decisioni (cui si aggiunge la sentenza n. 41 del 1996) smentirebbero l’assunto presupposto alle questioni sollevate ex artt. 3, 35 e 36 Cost., e cioè che l’attività dell’ausiliario consista di una prestazione di lavoro. Sarebbe dunque impropria l’evocazione delle tariffe professionali quale metro di riferimento dei compensi. Resterebbe attuale, d’altra parte, l’impossibilità di valutare l’effettiva incidenza dei singoli contributi sull’intera attività professionale degli interessati, e quindi sui redditi complessivamente ricavati dalla medesima attività. Anche la presunta violazione dell’art. 53 Cost. sarebbe già stata esclusa dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 2 del 1981), trattandosi di prestazioni di facere prive di ogni attinenza alla capacità contributiva, e non giustificandosi l’affermazione del rimettente che la disciplina censurata scaricherebbe solo su alcune categorie di lavoratori i costi delle politiche di bilancio. 8 5.– Con ordinanza del 28 maggio 2014 (r.o. n. 216 del 2014) il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione collegiale, ha sollevato plurime questioni di legittimità costituzionale in rapporto a norme che disciplinano la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del giudice. In particolare, è dedotta l’illegittimità: 1) dell’art. 4, comma 2, della legge n. 319 del 1980, nella parte in cui determina in euro 14,68 l’importo liquidabile per la prima vacazione, e in euro 8,15 l’importo per le vacazioni successive; 2) dell’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato; 3) dell’art. 1, comma 607, della citata legge n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce che la disposizione di cui alla lettera b) del precedente comma 606 si applica alle liquidazioni successive alla entrata in vigore della stessa legge n. 147 del 2013, e dunque anche nei casi in cui la prestazione dell’ausiliario sia stata completamente espletata in epoca anteriore. La terza delle norme censurate contrasterebbe con l’art. 3 Cost., mentre le altre due violerebbero il disposto degli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost. 5.1.– A titolo di premessa, ed in punto di rilevanza, il rimettente informa che deve procedere alla liquidazione dei compensi concernenti lo svolgimento di dieci incarichi peritali ad opera di uno stesso soggetto, tutti consistenti in indagini grafologiche. La richiesta del perito è stata depositata ampiamente oltre il termine decadenziale di cui all’art. 71 del d.P.R. n. 115 del 2002. Il Tribunale, tuttavia, all’esito di una lunga disamina, conclude che il ritardo sarebbe nella specie dovuto a causa di forza maggiore (la malattia e la morte di un familiare dell’interessato), il che, anche per effetto di una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina, dovrebbe escludere l’intervenuta decadenza dal diritto alla liquidazione, con conseguente necessità per lo stesso Tribunale di valutare il merito della relativa domanda, esercitando una funzione propriamente giurisdizionale (idonea dunque alla proposizione dell’incidente di costituzionalità). Sempre a titolo di premessa, dopo aver ricostruito il quadro normativo in materia, il rimettente afferma che nella specie andrebbero riconosciute al perito 110 vacazioni per ognuno dei dieci incarichi assegnatigli, per un importo complessivo che, al lordo della prescritta riduzione di un terzo, assommerebbe a 9.033,00 euro, cui dovrebbe aggiungersi una piccola somma ulteriore per i tempi di trasferimento e permanenza presso gli uffici giudiziari. Il compenso, secondo il rimettente, non sarebbe adeguato all’impegno profuso dal perito per l’espletamento degli incarichi. D’altra parte, pur essendosi gli incarichi anzidetti esauriti (compreso l’esame del perito in sede dibattimentale) prima dell’entrata in vigore della legge n. 147 del 2013, l’importo indicato dovrebbe essere ridotto di un terzo, portando la retribuzione oraria per le vacazioni successive alla prima sotto la soglia dei 3 euro. Assume infatti il Tribunale che il menzionato art. 106bis del d.P.R. n. 115 del 2002 dev’essere applicato «retroattivamente», anche ai periti d’ufficio in quanto ausiliari del giudice, a prescindere dalla circostanza che la loro prestazione si riferisca ad un giudizio nel quale sia stata accolta una domanda di patrocinio a spese dello Stato. Nonostante la sua collocazione, infatti, la norma de qua dovrebbe essere interpretata nel senso della sua applicabilità a qualunque giudizio penale, poiché altrimenti si determinerebbe una ingiusta discriminazione tra gli ausiliari del magistrato, per prestazioni identiche, sulla base di un elemento del tutto estrinseco, appunto l’intervento dell’Erario per il pagamento delle spese di patrocinio in favore del non abbiente. 5.2.– L’art. 4 della legge 319 del 1980 contrasterebbe con gli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost., per ragioni che il rimettente collega, in larga parte, anche agli effetti prodotti dalla riduzione dei compensi prescritta dall’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002. 9 Riprendendo gli argomenti esposti nella propria precedente ordinanza (r.o. n. 177 del 2014), il Tribunale ordinario di Lecce rileva che l’inadeguatezza strutturale delle tariffe previste dalla legge sarebbe aggravata da due fattori concorrenti. Il primo consisterebbe nell’omissione degli adeguamenti periodici al costo della vita, che pur sono imposti dalla legge (e sono stati sollecitati dalla stessa Corte costituzionale). Il secondo, nella previsione del nuovo art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, dal quale discende la necessità di ridurre di un terzo gli importi calcolati secondo la già deficitaria disciplina della legge n. 319 del 1980. L’indicata diminuzione non potrebbe giustificarsi per la natura pubblicistica del rapporto cui accede la prestazione, poiché di tale natura la legge già terrebbe conto, ex art. 50 del Testo unico, dettando i criteri di quantificazione primaria dei compensi dovuti agli ausiliari. Si ribadisce, dunque, dal Tribunale, che la disciplina censurata darebbe vita ad una «classe di operatori economici» assoggettati ad un sistematico sfruttamento, proprio da parte dello Stato, con violazione concorrente degli artt. 35 e 36 Cost. 5.3.– Sempre riprendendo argomenti già svolti nella precedente ordinanza, il rimettente denuncia anche, e nuovamente, violazioni dell’art. 3 Cost., poiché l’art. 4, comma 2, della legge n. 319 del 1980 determinerebbe disparità di trattamento non giustificate tra coloro che prestano opera professionale sul libero mercato e coloro che prestano l’identica opera in quanto ausiliari del giudice. Inoltre, pur essendo applicabile anche a prestazioni di elevato livello specialistico, la stessa norma prevedrebbe compensi assai minori di quelli riconosciuti ad altri ausiliari del giudice, ai quali – secondo il Tribunale – si riferirebbero gli artt. 39-quater e seguenti del d.m. n. 140 del 2012, come introdotti con d.m. n. 106 del 2013. Il rimettente esclude, anche in questo caso, la possibilità di disapplicare le tariffe previste dal d.m. 30 maggio 2002, e di nuovo afferma che, del resto, neppure il ricorso ai criteri di computo dell’art. 2225 cod. civ. garantirebbe agli ausiliari una retribuzione adeguata, data la necessaria riduzione di un terzo in applicazione dell’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002. 5.4.– Il Tribunale insiste nell’assunto per cui la congenita inadeguatezza della disciplina primaria di computo dei compensi sarebbe stata aggravata dall’introduzione, nel d.P.R. n. 115 del 2002, del nuovo art. 106-bis. Tale ultima norma è posta ad oggetto di autonoma censura, anch’essa per il ritenuto contrasto con gli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost., proprio in quanto non farebbe che aggravare i profili di illegittimità costituzionale che già connotano l’art. 4 della legge n. 319 del 1980. Con specifico riguardo al denunciato art. 106-bis, il rimettente sottolinea poi l’asserita violazione dell’art. 53 Cost.: il legislatore avrebbe perseguito risparmi di bilancio scaricandone il costo su una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo alla loro capacità contributiva. 5.5.– Ancora, il Tribunale deduce la violazione dell’art. 3 Cost. con riguardo al comma 607 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, ove sarebbe disposta l’efficacia retroattiva della prescrizione relativa alla diminuzione degli onorari peritali. La norma infatti provocherebbe una discriminazione tra i periti che abbiano ultimato le proprie prestazioni prima della sua entrata in vigore, a seconda che il giudice abbia o non provveduto alla valutazione delle relative domande di liquidazione. Inoltre, si tratterebbe di una disciplina sostanziale che produce effetti retroattivi su rapporti non di durata, e per ciò stesso suscettibile di indurre ingiustificate disparità di trattamento. È vero – osserva il Tribunale – che il principio della produzione di effetti solo per il futuro non assume illimitata 10 valenza sul piano costituzionale, quando si tratti di leggi che incidono su rapporti di natura civile. Occorre tuttavia che l’effetto retroattivo non produca conseguenze irragionevoli, con frustrazione dell’aspettativa dei consociati nella stabilità delle situazioni giuridiche. In particolare, non sarebbe possibile regolare sfavorevolmente per il privato rapporti intrattenuti con la pubblica amministrazione (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 92 del 2013, relativa alla decurtazione con efficacia retroattiva dei compensi previsti per i custodi giudiziari). E ciò varrebbe a maggior ragione per i rapporti non di durata, nel cui ambito il privato abbia già svolto per intero la propria prestazione, e solo la controparte pubblica sia chiamata ad adempiere la propria obbligazione, che non potrebbe essere ridotta senza alcuna razionale giustificazione. L’applicazione della giurisprudenza sulla tutela dell’affidamento, secondo il giudice a quo, non sarebbe preclusa dalla natura non negoziale del rapporto tra l’ausiliario del giudice e l’amministrazione pubblica. Per quanto obbligatoria, la prestazione non sarebbe del tutto priva di una base volontaristica, visto che deve essere normalmente richiesta a soggetti iscritti in appositi albi, nei quali sono stati inseriti su loro domanda: una domanda che sarebbe determinata, a sua volta, da una ragionevole aspettativa circa la convenienza economica dell’effettuazione di consulenze professionali in ambito giurisdizionale. Da questa valutazione, secondo il Tribunale, scaturirebbe comunque un affidamento tutelabile, pur nell’assenza di un negozio volontario quale causa prossima della prestazione in favore dello Stato. La denunciata irragionevolezza sarebbe massima una volta riferita, addirittura, a prestazioni già completamente esaurite, come nella specie, prima della legge retroattiva. 6.– È intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 23 dicembre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili ovvero infondate. 6.1.– In primo luogo. le questioni concernenti i commi 606 e 607 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013 sarebbero prive di rilevanza nel giudizio a quo. Erroneamente si sarebbe sostenuto, dal Tribunale, che la riduzione (retroattiva) di un terzo dei compensi riguardi anche i procedimenti non interessati da provvedimenti di ammissione al patrocinio a spese dell’Erario. La soluzione contraria sarebbe imposta dalla sede nella quale la nuova norma è stata inserita (cioè quella della disciplina del patrocinio per i non abbienti nel processo penale) e dalla stessa ratio dell’intervento di riforma, mirato a ridurre la spesa pubblica, dunque giustificato nei soli casi in cui le spese del procedimento, anziché essere poste a carico del condannato, sarebbero comunque sostenute dall’Erario. 6.2.– La finalità appena indicata renderebbe comunque conto, secondo l’Avvocatura generale, dell’infondatezza delle questioni sollevate. Sarebbe stato infatti perseguito, riducendo i compensi per tutti i soggetti che agiscono nell’ambito del processo penale concernente persone non abbienti, un «valore supremo», cioè la necessità di contenere la spesa pubblica, ed in particolare quella, ormai asseritamente ingentissima, per il patrocinio a spese dell’Erario, da rendere comunque compatibile in un quadro di complessiva riduzione delle risorse disponibili per l’amministrazione della giustizia. In tale quadro, la clausola di retroattività per la nuova riduzione del terzo, relativamente a compensi non ancora liquidati, sarebbe indispensabile per rendere concreto ed immediato il necessario risparmio di spesa. Non si tratterebbe, quindi, di una deroga irragionevole al principio di efficacia solo futura della legge. Quanto alla pretesa sperequazione tra soggetti che avessero già presentato richiesta di liquidazione dei compensi nel momento di entrata in vigore della norma censurata, a seconda della maggiore o 11 minore celerità dei giudici per l’adozione del relativo provvedimento, si tratterebbe di un inconveniente di mero fatto, non direttamente riconducibile alla disciplina censurata. 7.– Con ordinanza del 17 giugno 2014 (r.o. n. 14 del 2015) il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in rapporto a norme che disciplinano la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del giudice. In particolare è dedotta, in riferimento agli artt. 3, 36 e 53 Cost., l’illegittimità dell’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 – come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge n. 147 del 2013 – nella parte in cui non subordina l’applicabilità della prevista riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del giudice «all’effettivo adeguamento periodico delle tabelle relative […], previsto dall’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002». È sollevata, inoltre, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 607, della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui, prevedendo l’applicazione del comma precedente per tutte le liquidazioni da effettuarsi dopo l’entrata in vigore della medesima legge, impone la riduzione di un terzo anche con riferimento a prestazioni professionali in tutto od in parte antecedenti alla legge medesima. 7.1.– A titolo di premessa, ed in punto di rilevanza, il rimettente informa che deve procedere alla liquidazione dei compensi concernenti lo svolgimento di una perizia sull’imputabilità della persona sottoposta a giudizio. Il rimettente osserva che, nella specie, deve applicarsi l’art. 24 del d.m. 30 maggio 2002, e che, valutati i valori minimi e massimi previsti dalla disciplina, ed il pregio concreto dell’opera svolta dal perito, andrebbe liquidata la somma di 240,00 euro, oltre ad altri 205,81 euro di rimborso per spese previamente autorizzate (somministrazione di test psicologici). Sul primo importo dovrebbe applicarsi la riduzione di un terzo prevista dal nuovo art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, sebbene la prestazione sia stata svolta per la gran parte (cioè con la sola eccezione dell’esame dibattimentale) prima dell’entrata in vigore della legge n. 147 del 2013, poiché la richiesta di liquidazione del compenso è intervenuta successivamente alla novella, e trova dunque applicazione il comma 607 dell’art. 1 della stessa legge n. 147 del 2013. Le norme censurate sarebbero senz’altro applicabili nel caso di specie, posto che si procede nei confronti di persona già ammessa al patrocinio a spese dell’Erario. 7.2.– Il Tribunale ritiene che la prevista riduzione del compenso non possa trovare giustificazione nella natura pubblicistica del relativo incarico, posto che di tale natura la legge già tiene conto a livello di disciplina primaria dei criteri di determinazione, secondo il disposto dell’art. 50 del d.P.R. n. 115 del 2002. È motivato dal rimettente, in primo luogo, il giudizio di non manifesta infondatezza del dubbio concernente l’efficacia “retroattiva” della previsione. È vero – si sostiene – che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto ammissibile la retroattività di disposizioni sopravvenute a regolare rapporti di natura civile; tuttavia, nella specie, sarebbe stato superato il limite della ragionevolezza e della necessaria tutela dell’affidamento nella sicurezza delle situazioni giuridiche (è citata, tra l’altro, la sentenza della Corte costituzionale n. 92 del 2013). Non si sarebbe infatti in presenza di un rapporto di durata, ma di una prestazione già eseguita, completamente o per la gran parte, da un determinato soggetto, a fronte della quale interviene una norma che riduce la portata della prestazione dovuta dall’altra parte. Né la riduzione potrebbe essere 12 giustificata nell’ottica di un recupero di proporzionalità, poiché anzi sussisterebbe l’esigenza opposta, visto che lo Stato, pure impegnato dalla legge ad effettuare adeguamenti triennali delle tabelle per i compensi agli ausiliari, sarebbe inadempiente in proposito da oltre 12 anni. Non rileva, secondo il Tribunale, la fonte non negoziale della prestazione, e del resto quest’ultima non sarebbe del tutto priva d’un connotato di volontarietà, visto che gli incarichi peritali devono di norma essere conferiti a soggetti che siano stati iscritti, su loro domanda, in appositi albi. 7.3.– Riprendendo argomenti già svolti nelle precedenti ordinanze (r.o. n. 177 e n. 216 del 2014), il Tribunale ordinario di Lecce assume che la norma con la quale è imposta la riduzione di un terzo dei compensi per gli ausiliari del giudice confligge, in particolare, con gli artt. 3 e 36 Cost., anzitutto perché tali compensi diverrebbero inferiori, in misura non ragionevole, a quelli spettanti per identiche prestazioni, secondo i criteri di mercato. D’altra parte, sempre richiamando argomenti già svolti, il rimettente sostiene che dovrebbe essere superata la risalente giurisprudenza costituzionale sull’irrilevanza della materia nella prospettiva dell’art. 36 Cost., poiché, in ragione di mutamenti normativi e sociali, molti specialisti (anche psichiatri) sarebbero ormai impegnati in misura esclusiva o prevalente quali ausiliari del giudice, da ciò dovendo ricavare una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, e tale comunque da assicurare una esistenza libera e dignitosa. La legge stessa – ripete il Tribunale – farebbe riferimento generale alle tariffe professionali per la determinazione delle somme dovute agli ausiliari, ed oltretutto ne imporrebbe un periodico adeguamento al costo della vita, mai attuato nonostante le sollecitazioni in tal senso della Corte costituzionale. Dal canto proprio quest’ultima, con la ordinanza n. 306 del 2012, avrebbe espressamente qualificato i compensi dovuti agli ausiliari come «retribuzione per il lavoro prestato». 7.4.– Il Tribunale assume infine che, considerate insieme, le due norme censurate violerebbero anche l’art. 53 Cost. perché finalizzate al perseguimento di obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una parte soltanto dei contribuenti, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva. 8.– È intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 17 marzo 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate. La finalità delle norme censurate sarebbe quella di realizzare un risparmio di spesa nell’ambito di procedimenti ove, in linea di tendenza, le stesse spese processuali si pongono a carico dell’Erario, invece che dell’eventuale condannato. Il contenimento della spesa pubblica sarebbe «valore supremo», tale da legittimare l’intervento legislativo, anche data la dilatazione pregressa ed incontrollata degli oneri connessi al patrocinio a spese dello Stato. La retroattività della previsione censurata non sarebbe irragionevole, in quanto diretta a provocare un risparmio immediato. Il trattamento eventualmente differenziato di ausiliari che avessero già richiesto la liquidazione dei compensi alla data di entrata in vigore della novella, a seconda che il giudice avesse o non provveduto sulle istanze, rappresenterebbe un inconveniente di fatto, non direttamente riconducibile alla disciplina denunciata (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 362 del 2008). Considerato in diritto 1.– Con quattro distinte ordinanze, il Tribunale ordinario di Grosseto in composizione monocratica (r.o. n. 121 del 2014) e il Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (r.o. n. 14 del 13 2015) e collegiale (r.o. n. 177 e n. 216 del 2014), hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale in relazione a norme che disciplinano, tra l’altro, la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del magistrato. Sono censurate, in particolare, tre distinte disposizioni. Anzitutto, è in questione l’art. 4, comma 2, della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), nella parte in cui determina in euro 14,68 l’importo liquidabile per la prima vacazione, e in euro 8,15 l’importo per le vacazioni successive. In secondo luogo, è censurato l’art. 106-bis del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia − Testo A), come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2014), nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti, tra gli altri, agli ausiliari del magistrato. Infine, è proposta questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 607, della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce che la disposizione di cui alla lettera b) del precedente comma 606 si applica alle liquidazioni successive all’entrata in vigore della stessa legge n. 147 del 2013, e dunque anche nei casi in cui la prestazione dell’ausiliario sia stata espletata in epoca anteriore. 1.1.– Il Tribunale ordinario di Lecce in composizione collegiale, con entrambe le proprie ordinanze, censura il citato art. 4, comma 2, della legge n. 319 del 1980 unitamente al pure citato art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, prospettando la violazione di diversi parametri costituzionali. Viene richiamato, anzitutto, l’art. 35 della Costituzione, poiché contrasterebbe con l’obbligo della Repubblica di tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni l’imposizione di prestazioni officiose remunerate con compensi modestissimi e comunque insufficienti, anche in quanto non adeguati periodicamente all’aumento del costo della vita, ed anzi, a partire dal 2014, ridotti nella misura di un terzo. È poi richiamato l’art. 36 Cost., poiché la previsione censurata non assicurerebbe agli interessati una retribuzione proporzionata per qualità e quantità al lavoro prestato, e in ogni caso sufficiente a condurre un’esistenza libera e dignitosa. È invocato, inoltre, l’art. 3 Cost., in quanto la previsione degli indicati compensi discriminerebbe irragionevolmente gli ausiliari del giudice rispetto a coloro che rendano prestazioni analoghe in base alle tariffe professionali di mercato, ed anche in quanto, tra gli stessi ausiliari del giudice, discriminerebbe coloro ai quali è applicabile la norma censurata rispetto alle categorie di consulenti cui si applica invece la disciplina dell’art. 39-quater e seguenti del decreto del Ministro della giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), come introdotti con l’art. 3, comma 1, del decreto del Ministro della giustizia 2 agosto 2013, n. 106. Lo stesso art. 3 Cost. sarebbe violato sotto un ulteriore profilo, poiché la previsione di onorari gravemente inadeguati – allontanando le migliori professionalità e rendendo nel complesso difficoltoso il reperimento di soggetti disponibili – intralcerebbe l’acquisizione delle prestazioni 14 professionali degli ausiliari, prolungando i tempi di definizione dei processi e delle stesse procedure di liquidazione dei compensi (stante la possibile dilatazione dei tempi indicati per l’espletamento degli incarichi), così determinando una complessiva «irragionevolezza di sistema». È richiamato, infine, l’art. 53 Cost., poiché attraverso la normativa censurata sarebbero perseguiti obiettivi di bilancio, mediante l’imposizione di oneri ad una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva. 1.2.– Il Tribunale ordinario di Grosseto (r.o. n. 121 del 2014), dal canto suo, censura il citato art. 106bis del d.P.R. n. 115 del 2002, sempre nella parte in cui prescrive la riduzione di un terzo dei compensi per gli ausiliari del magistrato, in relazione all’art. 3 Cost., sotto tre diversi profili: da un primo punto di vista, in quanto irragionevolmente equiparerebbe gli ausiliari del giudice al difensore e alle parti del processo nella prevista riduzione di un terzo dei compensi; inoltre, in quanto irragionevolmente differenzierebbe il trattamento degli ausiliari, a parità di prestazioni, a seconda che prestino o non la propria opera in procedimenti in cui sia stata disposta l’ammissione di una parte al patrocinio a spese dell’Erario; infine, in quanto determinerebbe una complessiva irrazionalità della disciplina delle consulenze tecniche nel processo penale, aggiungendo una riduzione ai livelli già inadeguati dei compensi, e determinando quindi gravi difficoltà nell’acquisizione di prestazioni effettuate con scrupolo da soggetti professionalmente qualificati. 1.3.– Lo stesso art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 è censurato anche dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (r.o. n. 14 del 2015), per l’asserito contrasto con l’art. 53 Cost., in quanto sarebbero perseguiti obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva. Con la medesima ordinanza, la norma in questione è ulteriormente sospettata d’illegittimità costituzionale, nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato senza che la previsione di questa decurtazione sia «subordinata all’effettivo adeguamento periodico delle tabelle relative ai compensi spettanti agli ausiliari del giudice, previsto dall’art. 54» dello stesso Testo unico: ciò avverrebbe in asserito contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto discriminerebbe, senza giustificazione, gli ausiliari del giudice rispetto a coloro che effettuano analoghe prestazioni sul libero mercato professionale, privando gli stessi ausiliari di una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, e comunque idonea ad assicurare loro un’esistenza libera e dignitosa. 1.4.– Infine, con due delle già citate ordinanze del Tribunale ordinario di Lecce (r.o. n. 216 del 2014 e n. 14 del 2015), è censurato l’art. 1, comma 607, della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce che le disposizioni del precedente comma 606, lettera b), si applichino alle liquidazioni successive alla data di entrata in vigore della stessa legge, e dunque con riguardo anche a prestazioni in tutto o in parte eseguite prima della legge medesima. È qui prospettato, in particolare, un contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto l’efficacia retroattiva della disposizione sostanziale che incide sul diritto alla remunerazione dei consulenti sarebbe disposta in assenza di una ragionevole giustificazione. La norma, inoltre, distinguerebbe irragionevolmente tra gli ausiliari che abbiano ultimato la propria prestazione ed avanzato richiesta di liquidazione dei compensi prima dell’entrata in vigore della legge n. 147 del 2013, a seconda che il giudice abbia o non tempestivamente provveduto sulla relativa domanda (r.o. n. 216 del 2014). Infine, vi sarebbe violazione anche dell’art. 53 Cost., poiché sarebbero perseguiti obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva (r.o. n. 14 del 2015). 15 2.– La sostanziale comunanza delle norme censurate, dei parametri costituzionali invocati, nonché dei profili e delle argomentazioni utilizzate, comporta che i giudizi vengano riuniti e decisi con unica pronuncia. 3.– Tutte le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Grosseto (r.o. n. 121 del 2014) vanno dichiarate inammissibili. Come risulta dalla stessa ordinanza di rimessione, il Tribunale aveva già provveduto alla liquidazione dell’onorario per il perito psichiatra, dopo l’entrata in vigore della legge n. 147 del 2013, senza operare la diminuzione prescritta dal nuovo art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, da quella introdotto. Ciò sarebbe avvenuto per un disguido concernente la formazione del fascicolo processuale, per effetto del quale, in sostanza, il Tribunale avrebbe ignorato, al momento della liquidazione, che nel procedimento in corso l’imputato era stato ammesso al patrocinio a spese dell’Erario. Muovendo dal presupposto che proprio e solo tale circostanza implichi l’applicazione necessaria dell’art. 106-bis, il rimettente ritiene di dover procedere ad una revoca o modifica del provvedimento emesso, che definisce in vario senso, ma che comunque dovrebbe dar luogo ad una riduzione della somma liquidata. Dalla ritenuta necessità dell’intervento, il Tribunale desume quella dell’applicazione della norma censurata, che giudica illegittima per contrasto con l’art. 3 Cost. È, tuttavia, manifesto che il provvedimento ipotizzato dal rimettente, quale condizione di rilevanza della questione sollevata, sarebbe illegittimo. La giurisprudenza ha da tempo chiarito che il procedimento di liquidazione dei compensi agli ausiliari presenta carattere giurisdizionale (il che, del resto, condiziona la possibilità stessa di sollevare, in tale sede, questioni di legittimità costituzionale: sentenza n. 88 del 1970). Per tale ragione, non è ammessa la revoca in autotutela dei provvedimenti considerati illegittimi o infondati, dovendosi invece procedere all’esperimento dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge, ed altrimenti prendere atto della formazione di una preclusione processuale (salva, naturalmente, la eventualità che sia la stessa legge a prevedere la possibilità di revoca). In altri termini, i provvedimenti di liquidazione non restano nella disponibilità del magistrato che li ha emessi, e sono emendabili solo in sede di (eventuale) impugnazione. Pur a fronte di una così vistosa preclusione del provvedimento programmato, il Tribunale rimettente ha omesso di proporre una qualsiasi motivazione a sostegno del superamento di quest’ultima, e, in definitiva, delle ragioni che avrebbero dovuto condurlo a fare applicazione della norma sospettata d’illegittimità costituzionale. Ciò determina l’inammissibilità delle questioni sollevate, per mancata illustrazione dei presupposti interpretativi che implicano la necessità di applicare la disposizione censurata (ex multis, sentenze n. 18 del 2015 e n. 249 del 2010, ordinanza n. 95 del 2012). 4.– Tutte le questioni poste dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione collegiale (r.o. n. 177 e n. 216 del 2014) sono a loro volta inammissibili, per difetto di rilevanza. Come infatti risulta per tabulas dalle stesse ordinanze di rimessione, nei giudizi a quibus non vi è stata ammissione di alcuna parte processuale al patrocinio a spese dell’Erario. Per questo, non si deve fare applicazione della disposizione introdotta dall’art. 1, comma 606, lettera b) – cioè dell’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, che prevede che gli importi spettanti, tra gli altri, all’ausiliario del magistrato, siano ridotti di un terzo – né, conseguentemente, del successivo comma 607 dell’art. 1 16 della legge n. 147 del 2013, il quale stabilisce che la decurtazione ricordata si applichi alle liquidazioni successive alla data di entrata in vigore della stessa legge. Sebbene il limite non risulti dal tenore letterale della norma censurata, la circostanza che l’obbligo di riduzione dei compensi operi con riguardo ai soli giudizi con patrocinio a carico erariale, come sostiene anche l’Avvocatura generale dello Stato nell’atto di intervento per il giudizio r.o. n. 216 del 2014, risulta da una serie univoca di argomenti. In primo luogo, la disposizione censurata è stata inserita nel Titolo II della Parte III del d.P.R. n. 115 del 2002, che riguarda le «Disposizioni generali sul patrocinio a spese dello Stato nel processo penale, civile, amministrativo, contabile e tributario», ed in particolare nel capo V, destinato a regolare la designazione, ad opera della parte ammessa, di «Difensori, investigatori e consulenti tecnici di parte», e la relativa remunerazione. In secondo luogo, il carattere peculiare della disposizione assume coerenza solo in rapporto ad una ratio di contenimento della spesa pubblica, che a sua volta si manifesta in termini di massima cogenza con riguardo ai procedimenti nei quali vi sia ammissione al patrocinio a carico erariale. L’ammissione al beneficio comporta infatti che alcune spese processuali siano gratuite (e che dunque i costi relativi siano direttamente sostenuti dall’Erario), e che altre siano anticipate dallo Stato (art. 107 del d.P.R. n. 115 del 2002), per restare definitivamente a carico del medesimo, a meno che il provvedimento di ammissione non venga revocato (art. 111 del Testo unico): ciò che ovviamente differenzia tali procedimenti rispetto a quelli “ordinari”, nei quali, in caso di condanna, le spese processuali sono poste a carico dell’imputato. Si deve aggiungere che la disposizione censurata accomuna nel medesimo trattamento, da un lato, gli ausiliari del magistrato e, dall’altro, gli avvocati difensori, gli investigatori privati autorizzati ed i consulenti tecnici di parte. Per i professionisti del secondo gruppo un problema di liquidazione dei compensi si pone solo in sede di patrocinio a spese erariali, giacché, altrimenti, la retribuzione spetta al privato che richiede le relative prestazioni professionali. L’accostamento non avrebbe perciò senso, una volta trasportato fuori della peculiare dimensione data dall’intervento erariale nel procedimento. Appare, dunque, non plausibile l’assunto dal quale muove il Tribunale rimettente, secondo cui sarebbe necessaria una sorta di interpretazione adeguatrice, ad evitare che si attribuisca al legislatore l’intento, asseritamente assurdo, di retribuire diversamente la stessa prestazione a seconda che sia intervenuta o non l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. L’inapplicabilità nei giudizi a quibus delle norme introdotte con la legge n. 147 del 2013 priva di rilevanza – e, comunque, di adeguato sostegno argomentativo in punto di non manifesta infondatezza – anche le censure che il Tribunale rimettente ha proposto riguardo all’art. 4, comma 2, della legge n. 319 del 1980, direttamente attribuendo alla medesima la regolazione dei compensi attualmente corrisposti per le prestazioni remunerate a tempo. Infatti, l’incompatibilità della disciplina delle vacazioni con i vari parametri costituzionali evocati è stata prospettata unicamente in ragione dell’incidenza del nuovo art. 106-bis sui valori in precedenza fissati. 5.– Restano da esaminare, a questo punto, le sole questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (r.o. n. 14 del 2015). Il più volte citato art. 106-bis è censurato, per asserito contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato, senza che tale previsione sia «subordinata all’effettivo adeguamento periodico delle tabelle relative ai compensi spettanti agli ausiliari del giudice, previsto dall’art. 54» dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002. 17 5.1.– La questione, sollevata in questi peculiari termini, è fondata, con esclusivo riferimento all’art. 3 Cost. In sede di giudizio di legittimità costituzionale, la ragionevolezza di un intervento legislativo ha da essere apprezzata anche alla luce del contesto normativo in cui avviene e delle condizioni che, di fatto, caratterizzano la materia e il settore sui quali è operato l’intervento stesso. Nel caso di specie, è in questione un significativo e drastico intervento di riduzione dei compensi spettanti, tra gli altri, all’ausiliario del magistrato. L’intervento di riduzione è attuato con la legge di stabilità del 2014, ad opera di un legislatore che non poteva ignorare come si trattasse di compensi che, a norma dell’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002, avrebbero dovuto essere periodicamente rivalutati. A fronte di una disposizione legislativa, appunto l’art. 54 ora citato, che impone l’aggiornamento della misura degli onorari dei soggetti in questione, ogni tre anni, in relazione alla variazione, accertata dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, tale adeguamento non risulta essere intervenuto da oltre un decennio (allo stato, l’ultimo risulta operato con il decreto ministeriale 30 maggio 2002). Sicché, dopo un decennio ed oltre di inerzia amministrativa, la base tariffaria sulla quale calcolare i compensi risulta ormai seriamente sproporzionata per difetto, anche a voler considerare, come richiede l’art. 50 del d.P.R. n. 115 del 2002, che la misura degli onorari in esame, rapportata alle vigenti tariffe professionali, dev’essere contemperata (e quindi ridotta) in relazione alla natura pubblicistica della prestazione richiesta (riduzione già attuata nella fissazione dei valori di partenza). La mancata attuazione, in sede amministrativa, del vincolo di adeguamento previsto dalla fonte primaria (analoghe inadempienze, in passato, furono stigmatizzate da questa Corte: sentenze n. 41 del 1996 e n. 88 del 1970; ordinanze n. 234 del 2001 e n. 69 del 1979) ben può trovare idonei rimedi in altra sede (sentenza n. 41 del 1996 e ordinanza n. 234 del 2001). Tuttavia, per il legislatore della legge di stabilità per il 2014, tale mancata attuazione costituiva un dato caratterizzante della materia che si apprestava ad incidere: e il non averne tenuto conto, nel momento in cui veniva deciso un significativo intervento di riduzione, induce a concludere, nella prospettiva segnata dall’art. 3 Cost., che la scelta legislativa abbia superato il limite della manifesta irragionevolezza. Non è, infatti, riconducibile ai pur ampi margini spettanti alla discrezionalità legislativa una scelta attuata senza una preliminare valutazione complessiva della materia, necessaria per compiere un ragionevole bilanciamento tra esigenze di contenimento della spesa e remunerazione, sia pure secondo i ricordati criteri di contemperamento, degli incarichi in questione. In tale prospettiva, va considerato come si tratti, nella specie, di prestazioni tendenzialmente non ricusabili dall’interessato, il quale, in quanto pubblico ufficiale, è obbligato alla fedele e diligente esecuzione delle proprie competenze professionali (ed è, questo, un profilo che differenzia l’ausiliario del magistrato dagli altri soggetti indicati nell’art. 106-bis in esame). Si aggiunga, infine, che vanno adeguatamente apprezzate anche le ricadute “di sistema” di una disciplina che, nelle condizioni descritte, può favorire, per un verso, applicazioni strumentali o addirittura illegittime delle norme, a fini di adeguamento de facto dei compensi (ad esempio mediante un’indebita proliferazione degli incarichi o un pregiudiziale orientamento verso valori tariffari 18 massimi), e, per l’altro, comportare un allontanamento, dal circuito dei consulenti d’ufficio, dei soggetti dotati delle migliori professionalità. Risulta, in definitiva, manifestamente irragionevole un intervento di riduzione della spesa erariale in materia di giustizia – pur, come tale, sicuramente riferibile alla discrezionalità legislativa nel contesto della congiuntura economico-finanziaria – adottato senza attenzione a che la riduzione operi su tariffe realmente congruenti con le stesse linee di fondo del d.P.R. n. 115 del 2002: dunque su tariffe, da un lato, proporzionate (sia pure per difetto, tenendo conto del connotato pubblicistico) a quelle liberoprofessionali (che per parte loro, nell’ambito di una riforma complessiva dei criteri di liquidazione, sono state aggiornate) e, dall’altro, preservate nella loro elementare consistenza in rapporto alle variazioni del costo della vita. Per queste ragioni, l’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge n. 147 del 2013, è costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non esclude che la diminuzione di un terzo degli importi spettanti all’ausiliario del magistrato sia operata in caso di applicazione di previsioni tariffarie non adeguate a norma dell’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002. È salva, naturalmente, l’eventualità che sopravvenga una complessiva ridefinizione della materia ad opera del legislatore, tale da implicare il superamento del meccanismo di adeguamento cui si riferisce la norma citata da ultimo. 6.– Quanto all’art. 1, comma 607, della legge n. 147 del 2013, che stabilisce che la decurtazione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato si applichi alle liquidazioni successive alla data di entrata in vigore della legge stessa, sono infondate, o manifestamente infondate, le censure in proposito sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (le sole che residuano). 6.1.– È infondata la questione proposta in riferimento all’art. 53 Cost. Infatti, questa Corte ha già espressamente escluso che le manovre legislative sulla determinazione degli onorari da liquidare per prestazioni rese in ambito processuale abbiano attinenza con la materia regolata dalla norma costituzionale de qua. In particolare, si è stabilito che «il principio della capacità contributiva contenuto nell’art. 53 non può trovare applicazione riguardo a prestazioni di “facere”, come quelle degli ausiliari del giudice, che non hanno palesemente alcuna attinenza con gli obblighi tributari» (sentenza n. 2 del 1981). Più recentemente, si è ribadito che «nel meccanismo attraverso il quale si procede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore che abbia difeso in giudizi diversi da quelli penali la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, e che comporta l’abbattimento nella misura della metà della somma risultante in base alle tariffe professionali, non è dato riscontrare alcuna forma di prelievo tributario, trattandosi semplicemente di una, parzialmente diversa, modalità di determinazione dei compensi medesimi – giustificata, per come dianzi dimostrato, dalla diversità, rispetto a quelli penali, dei procedimenti giurisdizionali cui si riferisce – tale da condurre ad un risultato economicamente inferiore rispetto a quello cui si sarebbe giunti applicando il criterio ordinario» (ordinanza n. 270 del 2012). 6.2.– È pure infondata la questione sollevata in riferimento all’asserita violazione dell’art. 36 Cost. Va, sul punto, ribadita la giurisprudenza di questa Corte, per la quale tale parametro costituzionale è inconferente rispetto ai compensi per le prestazioni degli ausiliari: l’art. 36 Cost. «è male addotto, innanzitutto perché il lavoro svolto dai consulenti tecnici d’ufficio non si presta a rientrare in uno 19 schema che involga un necessario e logico confronto tra prestazioni e retribuzione e quindi un qualsiasi giudizio sull’adeguatezza e sufficienza di quest’ultima». Inoltre, l’art. 36 Cost. si riferisce alla complessiva percezione di reddito da parte del lavoratore, che, occupando una porzione ragionevole del proprio tempo e della propria capacità, deve trarre dalla sua attività il necessario per sostenere sé e la famiglia. Nel caso degli ausiliari del magistrato, che svolgono prestazioni occasionali, anche se ripetute, «non c’è modo di valutare in che misura quel lavoro giochi nella complessiva attività di coloro che in concreto lo svolgono e come i compensi per le relative operazioni (a parte l’impossibilità o difficoltà di coglierne la totale entità) concorrano alla formazione dell’intero reddito professionale del singolo prestatore» (sentenza n. 88 del 1970, richiamata dalla sentenza n. 41 del 1996). Non persuadono le notazioni in senso contrario del Tribunale ordinario di Lecce (operate, peraltro, nell’ambito di ordinanze concernenti questioni irrilevanti), tese a dimostrare che l’attività officiosa sarebbe ormai, di fatto, la fonte dominante od anche solo prevalente del reddito di tutti gli ausiliari dei magistrati. Ammesso (ma non concesso) che siano ancorate a linee di tendenza effettivamente riscontrabili a livello locale e settoriale, esse non assurgono a dato di comune esperienza, tale da indurre questa Corte a modificare la giurisprudenza ricordata. 6.3.– Infine, non è fondata la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. La ragionevolezza della norma va misurata sulla sua effettiva portata precettiva, come risultante, tra l’altro, dall’odierno intervento di questa Corte. In primo luogo, alla luce di tale intervento, essa sarà dunque destinata ad operare esclusivamente su compensi aggiornati, secondo un’ordinaria verifica del quadro normativo condotta dal giudice procedente, che distinguerà, per ciascun caso concreto, tra compensi liquidabili in base a previsioni tariffarie non adeguate e fattispecie opposte, salva l’eventuale sopravvenienza di complessivi interventi di riforma ad opera del legislatore. Inoltre, il rimettente pone una questione di legittimità costituzionale che, negli esiti auspicati, mira a rendere immuni dalla decurtazione le prestazioni professionali «in tutto od in parte» esaurite prima dell’entrata in vigore della disposizione censurata. La questione potrebbe essere plausibilmente posta per le sole prestazioni del tutto esaurite, e sempreché non si ritenga applicabile il principio, già affermato dalla giurisprudenza comune in casi analoghi, della irrilevanza della norma sopravvenuta per liquidazioni che, pur disposte dopo la norma stessa, riguardino fattispecie completamente esaurite in precedenza (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 12 ottobre 2012, n. 17405). Se invece, come nel caso di specie, si tratta di prestazioni anche solo in parte rese dopo l’entrata in vigore della novella legislativa, risulta non certo irragionevole l’applicazione di un solo regime tariffario, cioè quello vigente al momento della liquidazione, di talché diverrebbe impropria la stessa attribuzione alla norma di effetti retroattivi (ordinanza n. 261 del 2013). La questione dunque, considerati i limiti della sua rilevanza nel giudizio a quo, risulta non fondata in rapporto al parametro evocato. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 20 riuniti i giudizi, 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 106-bis del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia − Testo A), come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2014), nella parte in cui non esclude che la diminuzione di un terzo degli importi spettanti all’ausiliario del magistrato sia operata in caso di applicazione di previsioni tariffarie non adeguate a norma dell’art. 54 dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002; 2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), e 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione collegiale (r.o. n. 117 e n. 216 del 2014) e dal Tribunale ordinario di Grosseto in composizione monocratica (r.o. n. 121 del 2014), in relazione agli artt. 3, 35, 36 e 53 della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe; 3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 607, della legge n. 147 del 2013, sollevata dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione collegiale (r.o. n. 216 del 2014), in relazione all’art. 3 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe; 4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 607 della legge n. 147 del 2013, sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (r.o. n. 14 del 2015), in riferimento agli art. 3, 36 e 53 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 luglio 2015. F.to: Alessandro CRISCUOLO, Presidente Nicolò ZANON, Redattore Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 settembre 2015. Il Direttore della Cancelleria F.to: Gabriella Paola MELATTI 21 Cass. civ., sez. VI, sentenza 7 maggio 2015 n. 9264 (Pres. rel. Petitti) PATROCINIO A SPESE DELLO STATO – RICHIESTA DI COMPENSO – DOCUMENTAZIONE DELLA ISCRIZIONE ALL’ALBO – ONERE - ESCLUSIONE (d.P.R. 115 del 2002) In materia di patrocinio a spese dello Stato, il giudice richiesto del compenso non può rigettare l’istanza sul rilievo della mancata documentazione della iscrizione all'elenco dei difensori, e ciò sia per la natura pubblica dell'elenco, sia per la inesistenza di un obbligo di indicazione della iscrizione del difensore nell'elenco a carico della parte istante, sia, infine, per la previsione espressa del potere del giudice dell'opposizione di acquisire informazioni necessarie ai fini della decisione Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, sentenza 28 gennaio – 7 maggio 2015, n. 9264 Presidente/Relatore Petitti Ritenuto che il Tribunale di Nuoro, con ordinanza depositata in data 26 marzo 2013, ha rigettato l'opposizione ex art. 99 d.P.R. n. 115 del 2002 proposta da A.M., quale difensore di C.G., imputato ammesso al patrocinio a spese dello Stato; che il Tribunale ha rilevato che l'art. 80 del citato d.P.R. n. 115 del 2002 prevede che la persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato possa nominare un difensore iscritto all'elenco dei patrocinatori e che, nella specie, il difensore non risultava iscritto nell'elenco previsto e disciplinato dagli artt. 80 e 81 del medesimo d.P.R., sicché la liquidazione ex art. 82 non poteva essere disposta; che per la cassazione di questo decreto A.M. ha proposto ricorso, sulla base di un motivo, nei confronti del Ministero della giustizia e dell'Agenzia delle entrate; che all'udienza del 16 maggio 2014 la Corte, rilevato che il ricorso era stato notificato all'Avvocatura distrettuale dello Stato, ha disposto la rinnovazione della notificazione; che adempiuto l'incombente, il Ministero della giustizia ha depositato atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all'udienza di discussione; che la trattazione della causa è stata quindi fissata per l'udienza del 28 gennaio 2015. Considerato che con l'unico motivo di ricorso il ricorrente, premesso che: il suo assistito era stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato con provvedimento del GIP di Nuoro del 5 gennaio 2012; egli aveva svolto l'attività difensiva indicata nella parcella depositata; il .. aveva nominato un secondo difensore in data 27 febbraio 2012; il GIP aveva rigettato la richiesta di liquidazione ritenendo che la nomina del secondo difensore avesse determinato la cessazione degli effetti dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato; il ricorso in opposizione ex art. 99 d.P.R. n. 115 del 2002 era stato rigettato dal Presidente del Tribunale sul rilievo che egli non risultava iscritto all'elenco previsto e disciplinato dagli artt. 80 e 81 del d.P.R. n. 115 del 2002, deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto, rilevando che l'art. 78 del citato d.P.R. non pone alcun obbligo a carico della parte di documentare la iscrizione dell'avvocato all'elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato formato ai sensi dell'art. 80; che, del resto, l'elenco di tali difensori è pubblico e disponibile presso il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, anche sul sito web dello stesso Consiglio; che egli era comunque iscritto al detto elenco con il n. 207, e comunque il Presidente del Tribunale, ai sensi dell'art. 15, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011, avrebbe dovuto chiedere i documenti e le informazioni necessarie ai fini della decisione; che il ricorso è fondato; che, invero, ai sensi dell'art. 81, comma 4, «l'elenco (degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato) è rinnovato entro il 31 gennaio di ogni anno, è pubblico, e si trova presso tutti gli uffici giudiziari situati nel territorio di ciascuna provincia»; 22 che la natura pubblica dell'elenco giustifica la mancata previsione di un onere di documentazione della iscrizione del difensore nominato nell'elenco a carico della parte che fa istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato; che, d'altra parte, come esattamente rilevato dal ricorrente, l'art. 15 del d.lgs. n. 150 del 2011, nel disciplinare il procedimento di opposizione a decreto di pagamento di spese di giustizia, regolato dalle norme sul rito sommario di cognizione, dispone, al comma 5, che «il presidente può chiedere a chi ha provveduto alla liquidazione o a chi li detiene, gli atti, i documenti e le informazioni necessari ai fini della decisione»; che, dunque, ha errato il presidente del Tribunale di Nuoro nel rigettare l'opposizione - peraltro proposta dal difensore al fine di contrastare il provvedimento del GIP, di reiezione della richiesta di liquidazione dei compensi anche per l'attività svolta prima della nomina, da parte dell'imputato ammesso al patrocinio, di un secondo difensore - sul rilievo della mancata documentazione della iscrizione all'elenco dei difensori, e ciò sia per la natura pubblica dell'elenco, sia per la inesistenza di un obbligo di indicazione della iscrizione del difensore nell'elenco a carico della parte istante, sia, infine, per la previsione espressa del potere del giudice dell'opposizione di acquisire informazioni necessarie ai fini della decisione; che il provvedimento impugnato va quindi cassato, con rinvio al Presidente del Tribunale di Nuoro, in persona di diverso magistrato, per nuovo esame dell'opposizione; che il giudice di rinvio provvederà altresì alla regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso; cassa il provvedimento impugnato e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, al Presidente del Tribunale di Nuoro, in persona di diverso magistrato. 23 Comm. Trib. Reg. Lombardia, Milano, sentenza 23 febbraio 2015 (Pres. est. D. Chindemi) ART. 13 COMMA I-QUATER, D.P.R. 115/2002 INTRODOTTO DALLA LEGGE N. 228 DEL 2012 – APPLICABILITÀ AL GIUDIZIO TRIBUTARIO - ESCLUSIONE (art. 13 comma I-quater, D.P.R. 115/2002) Il contributo unificato previsto dal comma I-quater all’art. 13 del D.P.R. n. 115/2002 non è applicabile al giudizio tributario di impugnazione davanti alle Commissioni tributarie regionali, in quanto il T.U.S.G. si applica per il giudizio ordinario civile e, in mancanza di una specifica disposizione non trova applicazione al processo tributario di merito, come desumibile dall’art. 261 TUSG che estende esplicitamente l’applicazione della citata normativa nel processo tributario dinanzi alla Corte di cassazione sancendo che “al ricorso per cassazione e al relativo processo si applica la disciplina prevista dal presente testo unico per il processo civile”. Comm. Trib. Reg. Lombardia, Milano, sentenza 23 febbraio 2015 (Pres. est. D. Chindemi) ART. 13 COMMA I-QUATER, D.P.R. 115/2002 INTRODOTTO DALLA LEGGE N. 228 DEL 2012 – APPLICABILITÀ ALLA P.A. – ESCLUSIONE – SOSPETTI DI INCOSTITUZIONALITÀ - SUSSISTE (art. 13 comma I-quater, D.P.R. 115/2002) Il contributo unificato previsto dal comma I-quater all’art. 13 del D.P.R. n. 115/2002 troverebbe applicazione, come previsto dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione 8 maggio 2014 n. 9938 solamente nei confronti delle parti private e non nei confronti della P.A. (parte nei giudizi tributari). Trattandosi di norma sanzionatoria, non finalizzata al recupero delle spese di giustizia, apparirebbe in contrasto con il principio di parità di trattamento, sancito dall’art. 3 della Cost., prevederne l’applicazione solamente a favore della parte privata, punita per avere perso l’appello e non anche per la P.A. che potrebbe proporre impugnazioni manifestamente infondate, anche incidentali, nello stesso giudizio di impugnazione, senza andare incontro ad alcuna sanzione, neanche di natura contabile, nel caso di ravvisata colpa grave. Svolgimento del processo Con sentenza depositata il 24.2.2014 la Commissione Tributaria provinciale di Milano accoglieva parzialmente il ricorso proposto dalla società … s.r.l., .. s.p.a. e .. s.p.a. avverso gli avvisi di accertamento Ires, Irap con cui veniva accertato un maggior reddito d’impresa pari a €. 178.443,81 ai fini IRES, € 187.390,77 ai fini Irap, mentre ai fini Iva venivano ritenute indetraibili operazioni imponibili per €10.000 La Commissione Tributaria provinciale accoglieva il ricorso relativamente a: 1) costi non inerenti per € 15.000 relativi al riaddebito della quota assicurativa stipulata dalla capogruppo per conto delle società mandanti, rilevando come la polizza assicurasse tutte le società del gruppo in qualità di vettore contrattuale o effettivo, indipendentemente dall’utilizzo di mezzi propri; 2) spese pluriennali sui mobili di terzi non deducibili per 21.323,59 ritenendo doversi comprendere nella durata residua del contratto di locazione anche il periodo di rinnovo; 3) sopravvenienza attiva non contabilizzata per €49.439,66, avendo la società stornato il debito ENEL nell’anno 2011, assoggettando la sopravvenienza attiva in tale esercizio; 4) ricavi non contabilizzati per € 79.125,00, in relazione al mancato riaddebito della quota annua di ammortamento di spese ad utilità pluriennale riguardanti migliorie su beni di terzi, rilevando come il riaddebito per gli investimenti anticipati sia stato contabilizzato tra i ricavi. L'Agenzia delle Entrate impugna la sentenza della Commissione Tributaria provinciale deducendo falsa applicazione di legge ed errata valutazione dei fatti Le società intimate si sono costituite con controdeduzioni, formulando anche appello incidentale in relazione al capo della sentenza che ha rigettato il ricorso originario 24 relativamente ai costi non inerenti per € 10.000, trattandosi di costi propri della capogruppo per la redazione del bilancio consolidato, avendo oltre tutto la ricorrente aderito al consolidato fiscale; Il ricorso è stato discusso alla udienza del 23.2.2015. Motivi della decisione L’Ufficio disconosce i costi deducibili dalla società capogruppo riaddebitati alle società controllate, ritenuti non inerenti, in quanto effettuato al solo scopo di controllare gli investimenti delle società controllante. 1. Relativamente ai costi per € 15.000 relativi al riaddebito della quota assicurativa stipulata dalla capogruppo per conto delle società mandanti, va rilevato che la polizza, come rilevato dalla CTP, assicurava tutte le società del gruppo in qualità di vettore contrattuale o effettivo, indipendentemente dall’utilizzo di mezzi propri. Nessuna censura specifica risulta formulata avverso tale capo della sentenza con conseguente inammissibilità del motivo per mancanza di specificità. Solo per completezza si evidenzia che gli artt. 7 e 17 della polizza fanno riferimento alla responsabilità e ai rischi per tutte le rapine in relazione ai trasporti effettuati con vettori terzi. Trattasi, quindi di costi inerenti in quanto la polizza è finalizzata alla copertura del rischio e delle responsabilità delle società con riferimento all’attività di trasporto sia della capogruppo che delle partecipate. 2. Con riferimento alle spese di manutenzione straordinaria sostenute su immobili di terzi (.. s.r.l.), il rilievo dell’Ufficio è infondato in quanto non va compreso nella durata residua del contratto di locazione anche il periodo di rinnovo, solamente ipotetico ed eventuale, non dipendente solamente dal conduttore, condizione prevista dal principio contabile numero 24 per l’ammortamento dei costi sostenuti per migliorie e spese incrementative di beni presi in locazione, esteso anche all’eventuale periodo di rinnovo, essendo prevista in contratto la facoltà di disdetta da ciascuna delle due parti sei mesi prima della scadenza del biennio. Risulta, pertanto provata la correlazione dei costi sostenuti ai ricavi conseguiti dalle società controllate con una effettiva utilità in capo a tali ultime società, nonché la correlazione fornita tra i singoli servizi e quelli necessari alla gestione delle singole società del gruppo con un collegamento tra i servizi e la specifica attività economica delle società. 3. Con riferimento alla mancata contabilizzazione di una sopravvenienza attiva per € 49.439,66 a fronte di una insussistenza di spese dedotte nel bilancio di un precedente esercizio, va rilevato che, ancorché la società non abbia stornato, nel bilancio relativo all’esercizio 2007, il debito nei confronti di Enel, per mancanza di fattura, rilevando come non fosse ancora prescritto il relativo debito, tuttavia ha effettuato tale operazione nel 2011, essendo decorso il termine quinquennale di prescrizione ai sensi dell’articolo 2248 c.c., con contropartita di una sopravvenienza attiva di pari importo assoggettata a tassazione nell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2011, come riconosciuto anche dall’ufficio, senza alcun danno erariale. 4. Sul rilievo inerente alla mancata contabilizzazione di ricavi per € 79.125,00 per il mancato addebito della corrispondente quota annua di ammortamento di spese di utilità pluriennale riguardanti migliorie su beni di terzi (società .. .. s.p.a.), risulta dalla documentazione in atti (doc. n. 16 del ricorso introduttivo) la reale composizione del forfait mensile di € 47.500,00 e la corretta applicazione del principio di competenza in 25 base al quale i costi devono essere correlati ai ricavi d’esercizio, risultando assoggettato a tassazione importo di 186.000,00 e a fronte della contabilizzazione e deduzione della quota di ammortamento di € 79.125,00. Va, conseguentemente, respinto l’appello dell’Ufficio. 5. Anche l’appello incidentale è infondato. Relativamente ai costi ritenuti dalla CTP non inerenti per € 10.000, trattandosi di costi propri della capogruppo per la redazione del bilancio consolidato, non avendo oltre tutto l’appellante aderito al consolidato fiscale. Oltre a ritenere corrette le valutazioni dei primi giudici, va osservato che l’accordo di addebito dei costi relativi alla redazione del bilancio consolidato tra la società .. .. e la … non ha data certa, trattandosi, inoltre, di attività svolte dalla capogruppo al fine della tutela del proprio investimento dovendosi anche escludere la c.d. “inerenza di gruppo”e non essendovi prova che l’appellante abbia aderito al consolidato fiscale, circostanza già esclusa dalla CTP. Vanno, conseguentemente, rigettati sia l’appello principale che incidentale. La reciproca soccombenza costituisce giusto motivo per la compensazione delle spese del giudizio di appello. A seguito del rigetto della impugnazione principale proposta dal ricorrente e incidentale dell’Agenzia, va chiarito se possa trovare applicazione al giudizio davanti alla Commissione tributaria regionale il comma 1 quater dell’art. 13 D.P.R. n. 115/2002 che prevede, al comma 1 bis, che “il contributo di cui al comma 1 è aumentato della metà per i giudizi di impugnazione ed è raddoppiato per i processi dinanzi alla Corte di cassazione”, mentre il cit. comma 1 quater recita che “quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l'obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Va, preliminarmente rilevato che la questione riguarda esclusivamente il giudizio di appello davanti alle Commissione tributarie Regionale e non trova applicazione per il giudizio di primo grado, riferendosi la normativa citata ai “giudizi di impugnazione” e concerne gli appelli notificati dopo il 12.2.2013, data di entrata in vigore della citata normativa. La Nota del Ministero dell’Economia e delle Finanze, direzione della Giustizia Tributaria, prot. n. 19148 del 30/12/2014 sembrerebbe ritenere implicitamente ammissibile l’applicazione del comma 1 quater dell’art. 13 D.P.R. n. 115/2002 anche al giudizio d’appello tributario facendo la norma riferimento ai “giudizi di impugnazione”. Va, al riguardo, rilevata la non applicabilità al giudizio tributario di impugnazione davanti alle Commissioni tributarie regionali delle citata disposizione in quanto il T.U.S.G. si applica per il giudizio ordinario civile e, in mancanza di una specifica disposizione non trova applicazione al processo tributario di merito, come desumibile dall’art. 261 TUSG che estende esplicitamente l’applicazione della citata normativa nel processo tributario dinanzi alla Corte di cassazione sancendo che “al ricorso per cassazione e al relativo processo si applica la disciplina prevista dal presente testo unico per il processo civile”. La precisazione della applicabilità della sanzione “al ricorso per cassazione e al relativo processo” sarebbe ultronea ove il TUSG dovesse trovare applicazione generalizzata anche al giudizio tributario di merito ed essendo, invece, espressamente 26 prevista l’estensione della applicazione al solo giudizio di legittimità se ne deve dedurre la non applicabilità al giudizio davanti alle Commissioni Tributarie. Peraltro tale interpretazione evita di sollevare la questione di costituzionalità della citata normativa, con riferimento alla violazione dell’art. 3 della Cost., in quanto, il raddoppio del contributo unificato, troverebbe applicazione, come previsto dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione 8 maggio 2014 n. 9938 solamente nei confronti delle parti private e non nei confronti della P.A. (parte nei giudizi tributari) e, nel caso di specie, dovrebbe essere aumentato della metà solamente nei confronti della parte privata, rimasta soccombente sull’appello incidentale, e non anche nei confronti dell’Agenzia rimasta soccombente sull’appello principale. Trattandosi di norma sanzionatoria, non finalizzata al recupero delle spese di giustizia, apparirebbe in contrasto con il principio di parità di trattamento, sancito dall’art. 3 della Cost., prevederne l’applicazione solamente a favore della parte privata, punita per avere perso l’appello e non anche per la P.A. che potrebbe proporre impugnazioni manifestamente infondate, anche incidentali, nello stesso giudizio di impugnazione, senza andare incontro ad alcuna sanzione, neanche di natura contabile, nel caso di ravvisata colpa grave. PQM Rigetta l’appello principale e incidentale. Dichiara compensate le spese del giudizio di appello Così deciso in Milano il 23.2.2015 Il Presidente est. 27 Cass. Civ., SS.UU., sentenza 18 febbraio 2014 n. 3774 (Pres. Rovelli, rel. Virgilio) IMPUGNAZIONE - RIGETTO INTEGRALE - RADDOPPIO DEL CONTRIBUTO UNIFICATO EX ART. 13, COMMA 1 QUATER, DEL D.P.R. N. 115 DEL 2002 – DISPOSITIVO DEL PROVVEDIMENTO – DECLARATORIA DI SUSSISTENZA DEI PRESUPPOSTI DI LEGGE - SUSSISTE (Art. 13, comma Iquater, d.P.R. 115/2002) In tema di raddoppio del contributo unificato in caso di rigetto, inammissibilità o improcedibilità, il giudice, a chiusura del provvedimento, dichiara, ai sensi dell’art. 13, comma 1 - quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 - bis dello stesso art. 13. Cass. Civ., SS.UU., sentenza 18 febbraio 2014 n. 3774 (Pres. Rovelli, rel. Virgilio) IMPUGNAZIONE - RIGETTO INTEGRALE - RADDOPPIO DEL CONTRIBUTO UNIFICATO EX ART. 13, COMMA 1 QUATER, DEL D.P.R. N. 115 DEL 2002 - DECORRENZA - NOTIFICA DEL RICORSO - RILEVANZA (Art. 13, comma I-quater, d.P.R. 115/2002) In tema di raddoppio del contributo unificato in caso di rigetto, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, per individuare i procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013 (ai quali soli la previsione trova applicazione) deve aversi riguardo, secondo i principi generali in tema di litispendenza, al momento in cui la notifica del ricorso per Cassazione si è perfezionata, con la ricezione dell’atto da parte del destinatario, e non a quello in cui la notifica è stata chiesta all’ufficiale giudiziario o il plico è stato spedito a mezzo del servizio postale Ritenuto in fatto 1. Il Fallimento della A. s.r.l. propose, nel gennaio 1997, istanza all’Ufficio delle imposte dirette di Eboli di annullamento in autotutela dell’avviso di accertamento, notificato nel 1995, con il quale era stato rettificato il reddito d’impresa dichiarato in relazione all’anno 1987. Con provvedimento del febbraio 1997, l’Ufficio rigettò l’istanza. Contro il diniego il Fallimento propose ricorso al Tribunale amministrativo regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, il quale dichiarò il difetto di giurisdizione in quanto la controversia rientrava nella competenza del giudice tributario, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, come sostituito dall’art. 12 della legge n. 448 del 2001. 28 L’appello proposto dal Fallimento, che faceva rilevare che il giudizio era stato introdotto nel 1997, prima, quindi, della citata novella del 2001, è stato rigettato dal Consiglio di Stato con sentenza n. 3611 del 2012, depositata il 20 giugno 2012. Il giudice d’appello, dopo aver esposto gli opposti orientamenti manifestatisi in materia, ha ritenuto di aderire alla tesi della spettanza della giurisdizione in tema di diniego di autotutela al giudice tributario anche in epoca anteriore alla modifica dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 operata dalla legge n. 448 del 2001, poiché la giurisdizione in materia tributaria va attribuita, anche nel previgente sistema, in via generale ed esclusiva al giudice speciale tributario, e senza che assuma rilevanza la mancata previsione del provvedimento di diniego di autotutela nel novero degli atti impugnabili indicati nell’art. 19 del citato d.lgs. n. 546 del 1992. 2. Avverso tale sentenza il Fallimento A. s.r.l. propone ricorso per cassazione, al quale resiste con controricorso il Ministero dell’economia e delle finanze. Considerato in diritto 1. Con i tre motivi formulati, il ricorrente, denunciando violazione dell’art. 5 cod. proc. civ., dell’art. 12 della legge n. 448 del 2001, dell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 e dell’art. 11 delle preleggi, censura la sentenza impugnata per avere il Consiglio di Stato, in violazione del principio della perpetuatio iurisdictionis, affermato la giurisdizione del giudice tributario, pur essendo stato nella fattispecie l’atto di diniego di autotutela emesso (ed impugnato) nel 1997, sotto il vigore, cioè, degli artt. 2 e 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 nella loro formulazione originaria, che radicava la cognizione del giudice tributario solo per l’impugnativa di atti tassativamente elencati in via speciale, tra i quali non figurava l’esercizio dell’autotutela, e dovendosi escludere che alla normativa sopravvenuta nel 2001, che ha sostituito l’art. 2 cit., possa attribuirsi carattere interpretativo, anziché innovativo. 2. Il ricorso è infondato. Ai fini della delimitazione dell’ambito della giurisdizione tributaria, occorre attribuire esclusivo rilievo alla disciplina dettata dall’art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, norma espressamente dedicata a definire l’oggetto della giurisdizione tributaria, senza che tale disciplina possa essere, ai fini anzidetti, in qualche modo condizionata (in senso limitativo) dal dettato dell’art. 19 del medesimo d.lgs. n. 546 del 1992, il quale, agendo su un piano distinto, elenca gli atti che possono e debbono - essere oggetto di impugnazione dinanzi al giudice tributario. L’art. 2 cit. costituisce, pertanto, la sedes materiae per individuare i confini della giurisdizione tributaria, i quali sono stati sempre delineati, nelle varie formulazioni della norma succedutesi nel tempo (anche a seguito di pronunce della Corte costituzionale), mediante l’indicazione dei singoli tributi oggetto delle controversie, con i relativi accessori (a parte, inoltre, i giudizi attinenti al classamento dei terreni e dei fabbricati e all’attribuzione della rendita catastale); tali confini si sono ampliati fino a comprendere, nel testo attualmente vigente della norma, le controversie aventi ad oggetto, innanzitutto, "i tributi di ogni genere e specie, comunque denominati" (con esclusione di quelle riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria, tra i quali non rientrano le cartelle di pagamento e gli avvisi di mora). 29 E’ fuori luogo, quindi, attribuire rilevanza, ai fini della individuazione della giurisdizione, alla tipologia dell’atto oggetto di impugnazione, questione che attiene al diverso tema della proponibilità della domanda dinanzi al giudice tributario, in ragione della inclusione, o meno, dell’atto stesso nella elencazione contenuta nel citato art. 19 del medesimo d.lgs. n. 546 del 1992 (suscettibile, peraltro, di interpretazione estensiva, come più volte affermato da questa Corte, in ossequio ai principi costituzionali di tutela del contribuente - artt. 24 e 53 Cost. - e di buon andamento della p.a. - art. 97 Cost. -). Ne consegue che, pur dovendo escludersi che all’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, che ha integralmente sostituito - a decorrere dal 1° gennaio 2002 - il testo dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, possa attribuirsi natura interpretativa (e quindi efficacia retroattiva), la controversia in esame, attenendo ad un rapporto tributario relativo alle imposte sul reddito d’impresa, rientra pienamente nella previsione del detto art. 2 nel testo originario, applicabile ratione temporis, il quale prevede(va), appunto, al comma 1, lett. a), l’attribuzione alla giurisdizione del giudice tributario delle controversie concernenti "le imposte sui redditi". 3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. 4. Poiché il presente giudizio è iniziato successivamente al 30 gennaio 2013 (dovendo aversi riguardo, a tal fine, secondo i principi generali in tema di litispendenza, al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell'atto da parte del destinatario, e non a quello in cui la notifica è stata richiesta all'ufficiale giudiziario o il plico - come nella specie - è stato spedito a mezzo del servizio postale secondo la procedura di cui alla legge n. 53 del 1994), ed il ricorso è respinto, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in €. 5200,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 - quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente Fallimento A. s.r.l., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 - bis dello stesso art. 13. 30 Gratuito patrocinio: sul familiare non convivente fiscalmente a carico Cass. Pen., sez. IV, sentenza 29 luglio 2014 (Pres. Zecca, rel. Dovere) PATROCINIO A SPESE DELLO STATO – FAMILIARE CONVIVENTE – NOZIONE – PORTATA – FAMILIARE NON CONVIVENTE FISCALMENTE A CARICO (d.P.R. 115/2002) La disciplina del patrocinio a spese dello Stato, nel prendere in esame il familiare non convivente fiscalmente a carico, mira a dare rilevanza all'incidenza del peso determinato dal familiare, ancorché non convivente, sul contribuente dichiarante. La valutazione di favore nei confronti di quest'ultimo è manifestata dalla possibilità di godere delle detrazioni per i familiari e per le spese sostenute per questi; tali benefici trovano limite nella previsione di una determinata soglia reddituale del familiare non convivente, oltre la quale il medesimo non può essere considerato a carico. L'essere fiscalmente a carico non significa quindi essere soggetti privi di proprio reddito; al contrario, l'esistenza di quel tetto reddituale denuncia che il soggetto fiscalmente a carico non convivente ben può essere titolare di un reddito proprio. Per contro, la disciplina del patrocinio a spese dello Stato individua il reddito compatibile con il beneficio in rapporto allo stato di convivenza, ravvisando in essa una condizione fattuale che determina per ciascun familiare la possibilità di fare affidamento non solo sul proprio personale reddito ma anche su quello degli altri familiari conviventi. Tanto rammentato, risulta ribadito che la nozione rilevante ai fini dell'ammissione e della conservazione del beneficio in argomento non è quella di familiare a carico bensì quella di familiare convivente. Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 7 marzo – 29 luglio 2014, n. 33428 Presidente Zecca – Relatore Dovere Ritenuto in fatto 1. Z.E. propone ricorso per cassazione avverso il decreto indicato in epigrafe, con il quale il Tribunale di Padova, su istanza dell'Agenzia delle entrate, ha revocato il provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato pronunciato a suo favore, essendo stato ritenuto che dalla documentazione prodotta dall'ufficio erariale emerga che l'odierno ricorrente nell'anno 2010 era familiare a carico dei genitori con un reddito complessivo superiore a quello compatibile con il beneficio di cui trattasi. Rileva il ricorrente che egli risulta anagraficamente residente sin dalla 2006 in luogo diverso da quello in cui risiede la famiglia di origine e che è unico componente del proprio nucleo familiare; segnala che solo per un disguido la dichiarazione dei redditi dei genitori anche per gli anni successivi al 2007 lo ha indicato quale familiare non convivente a carico dei propri genitori e ciò nonostante il fatto che egli nell'anno 2010 avesse percepito un reddito personale pari ad Euro 3500, incompatibile con la qualificazione di componente fiscalmente a carico del nucleo familiare di origine. Pertanto, essendo egli unico componente del proprio nucleo familiare nell'anno di riferimento, sia dal punto di vista fiscale che da quello anagrafico, ed avendo provveduto autonomamente al proprio mantenimento grazie al redditi occasionali percepiti e dichiarati nell'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, chiede l'annullamento del provvedimento impugnato. Considerato in diritto 2. Il ricorso è fondato. 2.1. L'articolo 76, comma 2 d.p.r. 115/2002 dispone che il reddito computabile ai fini della ammissione al beneficio in parola è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel periodo da ogni componente della famiglia, compreso l'istante, sul presupposto che l'interessato conviva con il coniuge o con altri familiari. Nel caso di specie il provvedimento impugnato, secondando la prospettiva indicata dall'Agenzia delle entrate con l'istanza di revoca, ha fatto perno sulla natura di familiare fiscalmente a carico non convivente; si tratta tuttavia di uno 31 status non coincidente con quello (familiare convivente) che assume rilievo per l'ammissione e il mantenimento del beneficio in questione. Preme rimarcare che l'assunto qui esposto risulta coerente con le diverse finalità rispettivamente sottese alla disciplina del patrocinio a spese dello Stato e alla regolamentazione tributaria. Questa, nel prendere in esame il familiare non convivente fiscalmente a carico, mira a dare rilevanza all'incidenza del peso determinato dal familiare, ancorché non convivente, sul contribuente dichiarante. La valutazione di favore nei confronti di quest'ultimo è manifestata dalla possibilità di godere delle detrazioni per i familiari e per le spese sostenute per questi; tali benefici trovano limite nella previsione di una determinata soglia reddituale del familiare non convivente, oltre la quale il medesimo non può essere considerato a carico. L'essere fiscalmente a carico non significa quindi essere soggetti privi di proprio reddito; al contrario, l'esistenza di quel tetto reddituale denuncia che il soggetto fiscalmente a carico non convivente ben può essere titolare di un reddito proprio. Per contro, la disciplina del patrocinio a spese dello Stato individua il reddito compatibile con il beneficio in rapporto allo stato di convivenza, ravvisando in essa una condizione fattuale che determina per ciascun familiare la possibilità di fare affidamento non solo sul proprio personale reddito ma anche su quello degli altri familiari conviventi. Tanto rammentato, risulta ribadito che la nozione rilevante ai fini dell'ammissione e della conservazione del beneficio in argomento non è quella di familiare a carico bensì quella di familiare convivente. Né può ritenersi, come ha fatto il provvedimento impugnato, che stante la irrilevanza della coabitazione fisica ai fini dello stato di convivenza, possa affermarsi sic et simpliciter la insussistenza di quest'ultimo, apparendo evidente che, a fronte della dichiarazione resa dall'interessato di essere unico componente del proprio nucleo familiare, l'affermazione di una diversa situazione di fatto richiede l'evidenziazione degli elementi sui quali essa poggia. 3. Ne consegue l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata e la trasmissione degli atti al Tribunale di Padova per l'ulteriore corso. P.Q.M. annulla senza rinvio l'impugnato provvedimento e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di Padova per l'ulteriore corso. 32 Corte Costituzionale, ordinanza 6 febbraio 2013 n. 12 (Pres. Gallo, est. Napolitano) PATROCINIO A SPESE DELLO STATO - EFFETTI DELL'AMMISSIONE - LIQUIDAZIONE DEGLI ONORARI DOVUTI ALL'AUSILIARIO DEL GIUDICE CIVILE - MANCATA PREVISIONE DELL'ANTICIPAZIONE A CARICO DELL'ERARIO, IN LUOGO DELLA PRENOTAZIONE A DEBITO, CONSENTITA SE NON È POSSIBILE LA RIPETIZIONE DALLA PARTE A CARICO DELLA QUALE SONO POSTE LE SPESE PROCESSUALI, O DALLA STESSA PARTE AMMESSA, PER VITTORIA DELLA CAUSA O PER REVOCA DELL'AMMISSIONE – QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE – MANIFESTA INFONDATEZZA I compensi spettanti al consulente tecnico d’ufficio, nominato in un procedimento in cui la parte ricorrente sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, graveranno sui soggetti di cui all’art. 131 del d.lgs. n. 115 del 2002 ovvero, laddove sia impossibile ripeterli da costoro, se ne potrà chiedere la prenotazione a debito, con successiva liquidazione a carico dell’Erario; ACCERTAMENTO TECNICO PREVENTIVO – SPESE PROCESSUALI Le spese giudiziali relative all’accertamento tecnico preventivo sono ordinariamente liquidabili, in base al principio della soccombenza, o al termine del relativo procedimento, ogniqualvolta il ricorso introduttivo non sia stato accolto (Corte di cassazione, sentenza 29 marzo 1996, n. 2937), ovvero al termine del conseguente giudizio di merito (Corte di cassazione, sentenza 23 dicembre 1993, n. 12759) REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 131, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), promosso dal Tribunale ordinario di Caltanissetta nel procedimento vertente tra C.M. e M.C., con ordinanza del 28 febbraio 2012, iscritta al n. 199 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2012. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 16 gennaio 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che il Tribunale ordinario di Caltanissetta – nel corso di un procedimento per accertamento tecnico preventivo introdotto con ricorso presentato da persona che era stata ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato – avendo ricevuto l’istanza di liquidazione dei compensi da parte del consulente tecnico, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 131, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui, per un verso, esclude che, nei giudizi civili in cui vi è 33 ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, i compensi spettanti agli ausiliari del giudice siano anticipati dall’Erario e, per altro verso, consente che i medesimi compensi siano prenotati a debito, a domanda, solo ricorrendo determinate condizioni; che, ad avviso del rimettente, effetto della disposizione censurata – in base alla quale gli onorari dei consulenti tecnici, sia di parte che di ufficio, sono, a domanda, prenotati a debito ove sia impossibile ripeterli dalla parte a carico della quale sono state poste le spese processuali o dalla stessa parte ammessa al beneficio, per vittoria della causa o per revoca dell’ammissione – sarebbe la gratuità della prestazione del consulente nei procedimenti di volontaria giurisdizione, nei quali non è individuabile una parte soccombente, e in quelli in cui la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato risulti soccombente e non si veda revocato il beneficio; che, aggiunge il rimettente, la norma censurata imporrebbe, in ogni caso, al consulente di attendere la fine del giudizio per chiedere la prenotazione a debito, dovendo previamente verificare la impossibilità della ripetizione dalle parti in giudizio; che il giudice a quo afferma di essere a conoscenza delle pronunzie di questa Corte secondo le quali sarebbe errata l’interpretazione della disposizione censurata che conduce ad affermare la gratuità della prestazione del consulente tecnico; che, tuttavia, a suo avviso, in tali pronunzie si sarebbe trascurato di considerare che il rimedio della prenotazione a debito è efficace nelle ipotesi in cui, individuata una parte tenuta al pagamento delle spese, risulta impossibile per il consulente ottenere tale pagamento e non anche nelle ipotesi in cui «manchi del tutto il soggetto nei cui confronti tentare la ripetizione» o perché non è individuabile un soccombente o perché sia soccombente la parte ammessa al beneficio e questo non le sia stato revocato; che, non potendosi in tali ipotesi procedere alla prenotazione a debito, effetto della disposizione in questione sarebbe l’impossibilità del pagamento dei compensi spettanti al consulente tecnico, con violazione dell’art. 36 Cost.; che, continua l’ordinanza di rimessione, non può negarsi che l’art. 131, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002, non consentendo l’anticipazione a carico dell’Erario dei compensi dei consulenti, determini un’irragionevole disparità di trattamento rispetto a quanto previsto, nei giudizi penali, per difensori e per ausiliari del giudice, i quali hanno i compensi anticipati dall’Erario e, conseguentemente, non hanno la necessità di attivare, dopo la conclusione del giudizio, la procedura per la loro prenotazione a debito; che il complesso meccanismo di pagamento regolato dalla norma censurata renderebbe «oltremodo difficoltoso il soddisfacimento del credito degli ausiliari nominati dal giudice nel processo civile», i quali sarebbero tenuti a prestare la loro opera, peraltro sotto il vincolo della obbligatorietà, senza alcuna certezza né sull’an né sul quando del compenso; che il rimettente, non ignorando la giurisprudenza di questa Corte che ha escluso la illegittimità costituzionale di siffatta disparità, tuttavia ritiene che la pretesa eterogeneità delle figure professionali poste a confronto, giustificatrice del diverso trattamento normativo, non sia riscontrabile nel caso dei consulenti, i quali, sia pure nei diversi ambiti penale e civile, svolgono il medesimo compito; che ancora più evidente, infine, sarebbe la disparità di trattamento in relazione alla disciplina del curatore fallimentare (incarico anche questo facoltativo), per il quale, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 174 del 2006, vi è la anticipazione di spese ed onorari a carico dell’Erario; che, sulla rilevanza della questione, il rimettente osserva che, ove fosse accolto l’incidente di costituzionalità egli, liquidati i compensi del consulente tecnico istante, ne potrebbe disporre la anticipazione a carico dell’Erario, cosa che, in caso contrario, non potrebbe avvenire; che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o, comunque, per la infondatezza del ricorso; 34 che la difesa dello Stato, in via preliminare, deduce l’inammissibilità della questione per non avere il rimettente sperimentato soluzioni di carattere interpretativo volte a pervenire ad una lettura conforme a Costituzione della disposizione censurata; che, per altro verso, la Avvocatura osserva – con riferimento alla asserita illegittimità costituzionale derivante dalla impossibilità per il consulente di richiedere la prenotazione a debito nei casi in cui non sia ravvisabile un soccombente ovvero che tale sia la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato – che la questione sarebbe comunque inammissibile, in quanto prematura e come tale irrilevante, posto che la pendenza del giudizio non consente ancora di attribuire ad alcuno la soccombenza nel giudizio; che, in quanto dedotta negli stessi termini già esaminati da questa Corte in precedenti decisioni di infondatezza, la questione relativa all’art. 3 Cost. sarebbe, per consolidata giurisprudenza, manifestamente inammissibile; che la interveniente difesa osserva, altresì, quanto alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost., che la questione sarebbe, comunque non fondata; che, infatti, non può convenirsi col rimettente nel ritenere che dall’applicazione della norma censurata deriverebbe la gratuità dell’opera svolta dall’ausiliario del magistrato; che, peraltro, non vi è alcun principio costituzionale che imponga un modello unitario di liquidazione di spese e compensi per gli ausiliari del magistrato; che, riguardo alla prospettata irragionevolezza della disposizione, osserva la Avvocatura che la pretesa assimilazione della disciplina relativa alla liquidazione dei compensi dell’ausiliario del magistrato civile a quella relativa ai difensori della parte non abbiente ovvero all’ausiliario del magistrato nel processo penale è una delle possibili opzioni volte a colmare la lacuna che deriverebbe dall’accoglimento della presente questione, essendo, tuttavia, possibile individuarne altre rimesse alla discrezionalità del legislatore; che la difesa dello Stato conclude affermando che tale pluralità di opzioni è indice della inammissibilità della questione. CONSIDERATO che il Tribunale ordinario di Caltanissetta dubita, in relazione agli articoli 3 e 36 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 131, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui prevede che, nei giudizi civili nei quali una delle parti è ammessa al patrocinio a spese delle Stato, gli onorari dovuti al consulente tecnico di parte, ovvero all’ausiliario del giudice, siano prenotati a debito e non siano anticipati dall’Erario e nella parte in cui, nei medesimi giudizi, la prenotazione a debito di detti onorari possa avvenire, a domanda, solamente ove non ne sia possibile la ripetizione o dalla parte a carico della quale sono poste le spese processuali ovvero dalla stessa parte ammessa, stante la vittoria di questa nella causa o data la revoca dell’ammissione al predetto beneficio; che, in particolare, il rimettente ritiene che nella mancata anticipazione da parte dell’Erario degli onorari in questione sia ravvisabile un’ingiustificata disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost., fra la disciplina applicabile ai consulenti tecnici, di parte o di ufficio, nei giudizi civili in cui una parte sia ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, e quella applicabile ai difensori di tali parti, ovvero agli ausiliari del magistrato, nei giudizi penali o, infine, al curatore fallimentare, per i quali è, invece, prevista la anticipazione dei rispettivi compensi a carico dell’Erario; che, ad avviso del rimettente, tale diverso meccanismo normativo renderebbe ingiustificatamente deteriore la posizione dei consulenti tecnici nei giudizi civili «beneficiati», essendo costoro, diversamente dai rappresentanti delle altre categorie poste in comparazione, sottoposti, al fine di conseguire i loro onorari, ad una più lunga e difficoltosa procedura, comportante non solo l’onere di formulare la domanda di prenotazione a debito dopo la fine del giudizio nel quale hanno prestato la loro opera, ma anche quello di dover dimostrare in tale occasione che non è stato possibile ottenere dai soggetti indicati dalla norma censurata quanto loro spettante; 35 che, aggiunge il rimettente, siffatto meccanismo procedurale si pone in contrasto con l’art. 36 Cost., rendendo possibile, nelle ipotesi in cui – come nei giudizi, quale è quello a quo, di accertamento tecnico preventivo – non sia ravvisabile una parte soccombente oppure sia soccombente la parte ammessa al beneficio (senza che quest’ultimo sia oggetto di revoca), che il consulente tecnico svolga la sua opera senza ottenere alcun compenso; che la questione, siccome prospettata, risulta essere manifestamente infondata sotto ambedue i profili proposti; che, con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 36 Cost. – anche prescindendo da ogni rilievo in ordine alla correttezza della adombrata attribuzione del procedimento per accertamento tecnico preventivo al genere della volontaria giurisdizione (attribuzione dalla quale il rimettente fa discendere la impossibilità di identificare nel giudizio a quo una parte soccombente) invece che a quello della giurisdizione cautelare – deve rilevarsi che il rimettente non ha tenuto nel dovuto conto l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità in base al quale le spese giudiziali relative all’accertamento tecnico preventivo sono ordinariamente liquidabili, in base al principio della soccombenza, o al termine del relativo procedimento, ogniqualvolta il ricorso introduttivo non sia stato accolto (Corte di cassazione, sentenza 29 marzo 1996, n. 2937), ovvero al termine del conseguente giudizio di merito (Corte di cassazione, sentenza 23 dicembre 1993, n. 12759); che, non risultando giustificati i dubbi espressi dal rimettente in ordine alla individuabilità di una parte soccombente in relazione ad un giudizio del tipo ora sottoposto alla sua attenzione, sono manifestamente infondati i connessi dubbi in ordine alla concreta possibilità per il consulente tecnico di vedersi corrisposti i propri compensi; che, infatti, questi o graveranno sui soggetti di cui al citato art. 131 del d.lgs. n. 115 del 2002 ovvero, laddove sia impossibile ripeterli da costoro, se ne potrà chiedere la prenotazione a debito, con successiva liquidazione a carico dell’Erario; che, riguardo alla dedotta violazione del principio di uguaglianza – conseguente alla mancata previsione, per la fattispecie esaminata dal giudice a quo, dell’anticipazione dei compensi a carico dell’Erario – più volte, anche di recente, questa Corte ha affermato la insussistenza di disparità di trattamento in ragione della diversa normativa applicabile, in materia di spese in giudizi in cui vi è stata ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ai soggetti operanti, con distinti compiti, attribuzioni e funzioni, nell’ambito dei singoli giudizi, ovvero nell’ambito dei giudizi civili o penali; che, in particolare, il contrasto con l’art. 3 Cost. è stato escluso perché la ontologica eterogeneità dei soggetti ovvero dei modelli processuali posti a confronto non consente di istituire fra gli stessi un valido rapporto di comparazione (ex multis: ordinanze n. 270 del 2012, n. 203 del 2010 e n. 195 del 2009); che, pertanto, anche sotto questo profilo la questione è manifestamente infondata. Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 131, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 36 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Caltanissetta con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 2013. 36 Cass. Civ., sez. VI, sentenza 5 settembre 2012 n. 14888 (Pres. Goldoni, est. Proto) AMMISSIONE AL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO - EFFETTI - ONORARI DEL CTU - PRENOTAZIONE A DEBITO - CONSEGUENZE - DIVIETO PER IL GIUDICE DI PORRE A CARICO DI UNA DELLE PARTI IL COMPENSO DELL'AUSILIARE - ESCLUSIONE. Con riferimento alle spese di CTU, la disposizione che ne prevede la prenotazione a debito (art. 131, comma 3 T.U.S.G.) non attiene al (e non inficia il) dispositivo della sentenza che pone a carico della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato le spese di CTU (nella specie, nella misura di due terzi) in quanto la stessa norma stabilisce che la prenotazione a debito avvenga non di ufficio, ma a domanda dell'interessato (nella specie il CTU)e non esclude che il giudice possa (e anzi debba)individuare la parte processuale tenuta al pagamento nei confronti del CTU. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 287 del 2008, ha affermato (chiarendo la funzione della norma) che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 131, comma 3, nel disciplinare il procedimento di liquidazione degli onorari dell'ausiliario, prevede la prenotazione a debito (con conseguente pagamento da parte dell'erano) quale rimedio residuale e proprio al fine di evitare che il diritto alla percezione dell'onorano venga pregiudicato dall'impossibile ripetizione dalle parti processuali. La norma, in sostanza, consente al CTU di richiedere il pagamento direttamente all'erario nel caso in cui "non è possibile la ripetizione dalla parti a carico della quale sono poste le spese processuali o dalla stessa parte ammessa per vittoria della causa o per revoca dell'ammissione"; a seguito della richiesta, pertanto, l'erario annoterà la spesa a futura memoria ai fini dell'eventuale successivo recupero (v. art. 3 lett. s TUSG). REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA SOTTOSEZIONE 2 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GOLDONI Umberto - Presidente Dott. BUCCIANTE Ettore - Consigliere Dott. BIANCHINI Bruno - Consigliere Dott. PROTO Cesare Antonio - rel. Consigliere Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere ha pronunciato la seguente: OSSERVA IN FATTO Con sentenza del 9/9/2010 la Corte di Appello di Palermo, riformava parzialmente la sentenza di primo grado che aveva deciso su una controversia civile relativa all'accertamento delle opere necessario per le parti comuni di un edificio e al riparto delle relative spese; compensava per metà le spese del grado e condannava gli appellati Guagenti Antonio e Amato Anna al pagamento della restante metà in favore degli appellanti Amato Carmela Florence Ines e Diotisalvi Gaetano; poneva le spese di CTU per due terzi a carico degli appellati e per un terzo a carico degli appellanti. Guagenti Antonio e Amato Anna, affermando di essere stati ammessi al patrocinio a spese dello Stato nel giudizio di appello propongono ricorso per Cassazione, affidato a due motivi, avverso la suddetta sentenza limitatamente alle statuizioni con le quali sono poste a loro carico le spese di CTU e le spese del giudizio di appello. 37 OSSERVA IN DIRITTO Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 131 (T.U. delle spese di giustizia) e con il secondo motivo la violazione dell'art. 133 dello stesso D.P.R.. I ricorrenti sostengono che per la disposizione dell'art. 131 cit. non avrebbero dovuto subire condanna al pagamento delle spese del giudizio in quanto tali spese dovrebbero essere poste a carico dell'erano anche in caso (come quello di specie) di soccombenza dalla parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato; sostengono che per la disposizione dell'art. 133 cit. la sentenza "avrebbe dovuto porre a carico degli appellati, odierni resistenti, la metà delle spese legali nonché la quota pari ad un terzo delle spese di CTU, disponendone il pagamento a favore dello Stato". 2. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza di entrambi i motivi. 2.1 La censura concernente l'applicazione dell'art. 131 T.U.S.G. è manifestamente infondata in quanto l'art. 131, nel disporre che gli onorari e le spese dovute al difensore sono anticipate dall'erario, si riferisce agli onorari e alle spese dovute al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato (che vengono liquidate al difensore a prescindere dalla dall'eventuale compensazione disposta in sentenza) e non agli onorari e spese dovuti al difensore della parte non ammessa. 2.2 Con riferimento alle spese di CTU, la disposizione che ne prevede la prenotazione a debito (art. 131, comma 3 T.U.S.G.) non attiene al (e non inficia il) dispositivo della sentenza che pone a carico della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato le spese di CTU (nella specie, nella misura di due terzi) in quanto la stessa norma stabilisce che la prenotazione a debito avvenga non di ufficio, ma a domanda dell'interessato (nella specie il CTU)e non esclude che il giudice possa (e anzi debba)individuare la parte processuale tenuta al pagamento nei confronti del CTU. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 287 del 2008, ha affermato (chiarendo la funzione della norma) che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 131, comma 3, nel disciplinare il procedimento di liquidazione degli onorari dell'ausiliario, prevede la prenotazione a debito (con conseguente pagamento da parte dell'erano) quale rimedio residuale e proprio al fine di evitare che il diritto alla percezione dell'onorano venga pregiudicato dall'impossibile ripetizione dalle parti processuali. La norma, in sostanza, consente al CTU di richiedere il pagamento direttamente all'erario nel caso in cui "non è possibile la ripetizione dalla parti a carico della quale sono poste le spese processuali o dalla stessa parte ammessa per vittoria della causa o per revoca dell'ammissione"; a seguito della richiesta, pertanto, l'erario annoterà la spesa a futura memoria ai fini dell'eventuale successivo recupero (v. art. 3 lett. s TUSG). La censura concernente l'applicazione dell'art. 133 T.U.S.G è incomprensibile nella parte in cui si afferma che la sentenza avrebbe dovuto porre a carico degli appellati, odierni resistenti, la metà delle spese legali nonché la quota pari ad un terzo delle spese di CTU, in quanto gli appellati non sono gli "odierni resistenti" e neppure sono individuabili i "resistenti", posto che gli intimati non si sono costituiti. In ogni caso, la censura è inammissibile in quanto apoditticamente, senza la benché minima motivazione, vi si afferma che l'art. 133 TUSG sarebbe stato erroneamente applicato e che la Corte di Appello avrebbe dovuto condannare Amato Carmela e Diotisalvi Gaetano "al pagamento delle spese del grado di appello e del presente giudizio in favore dello Stato"; inoltre, non essendo stata posta a carico dei predetti Amato e Diotisalvi la rifusione di spese processuali a favore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, non era neppure applicabile l'art. 133 T.U.S.G. che, quindi, il giudice di appello correttamente non ha applicato. 3. In conclusione, il ricorso può essere trattato in Camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 c.p.c., per essere dichiarato inammissibile in considerazione della manifesta infondatezza. Considerato che il ricorso è stato fissato per l'esame in camera di consiglio, che sono state effettuate le comunicazioni alle parti costituite e la comunicazione al P.G.. 38 Considerato che il collegio ha condiviso e fatto proprie le argomentazioni e la proposta del relatore quanto alla manifesta infondatezza dei motivi di ricorso che per tale ragione deve essere rigettato; Che nulla va statuito in tema di spese in mancanza di costituzione degli intimati. P.Q.M. La Corte di cassazione rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile, il 8 giugno 2012. Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2012 39 Giudizio di opposizione avverso il provvedimento con cui il giudice liquida gli onorari per l’opera professionale prestata dal difensore a favore di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato – Legittimazione passiva – Agenzia delle Entrate – Esclusione – Ministero della Giustizia - Sussiste Cass. Civ., Sez. Un., sentenza 29 maggio 2012 n. 8516(Pres. Vittoria, rel. Cappabianca) Posto che il procedimento di opposizione ex art. 170 d.p.r. 115/2002 (al decreto di liquidazione dei compensi a custodi ed ausiliari del giudice ed al decreto di liquidazione degli onorari dovuti ai difensori di patrocinati a spese dello Stato) presenta, anche se riferito a liquidazioni inerenti ad attività espletate ai fini di giudizio penale, carattere di autonomo giudizio contenzioso avente ad oggetto controversia di natura civile incidente su situazione soggettiva dotata della consistenza di diritto soggettivo patrimoniale, parte necessaria dei procedimenti suddetti deve considerarsi ogni titolare passivo del rapporto di debito oggetto del procedimento; con la conseguenza che in tale prospettiva finalistica va letta la previsione di cui all’art. 170 d.p.r. 115/2002 e che, nei procedimenti di opposizione a liquidazioni inerenti a giudizi civili e penali suscettibili di restare a carico dell'"erario", anche quest'ultimo, identificato nel Ministero della Giustizia, è parte necessaria". Rappresentanza in giudizio dello Stato – Art. 4 legge 260/1958 – Applicabilità anche quando l'errore riguardi distinte ed autonome soggettività di diritto pubblico ammesse al patrocinio dell'Avvocatura dello Stato Cass. Civ., Sez. Un., sentenza 29 maggio 2012 n. 8516(Pres. Vittoria, rel. Cappabianca) L'art. 4 l. 260/1958 è applicabile anche quando l'errore d'identificazione riguardi distinte ed autonome soggettività di diritto pubblico ammesse al patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, nella specie: Agenzia delle Entrate (L'art. 4 della legge 260/1958 – sulla rappresentanza dello Stato in giudizio – prevede che “L'errore di identificazione della persona alla quale l'atto introduttivo del giudizio ed ogni altro atto doveva essere notificato, deve essere eccepito dall'Avvocatura dello Stato nella prima udienza, con la contemporanea indicazione della persona alla quale l'atto doveva essere notificato. Tale indicazione non è più eccepibile. Il giudice prescrive un termine entro il quale l'atto deve essere rinnovato. L'eccezione rimette in termini la parte). Svolgimento del processo L'Avv. R.S. propone ricorso per cassazione avverso provvedimento, del Presidente delegato del Tribunale di Brescia, di rigetto del ricorso da lui promosso, ai sensi degli artt. 84 e 170 d.p.r. 115/2002, contro decreto, con il quale giudice del Tribunale gli aveva liquidato, riducendone la pretesa esposta nella nota spese, l'onorario per l'opera professionale prestata nell'ambito di giudizio penale a favore di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato. Ha instaurato contraddittorio nei confronti dell'Agenzia delle Entrate e del Procuratore della Repubblica presso quel Tribunale. Deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 82 d.p.r. 115/2002 e del d.m. 127/2004 nonché omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione - il ricorrente lamenta che il provvedimento non specifica in maniera analitica le voci della tariffa professionale ridotte in sede di liquidazione né svolge motivazione adeguata in merito alla semplicità del processo penale assunta a giustificazione dell'operata decurtazione della pretesa. 40 L'Agenzia delle Entrate resiste con controricorso eccependo, preliminarmente, il proprio difetto di legittimazione passiva. Emergendo contrasto giurisprudenziale sulla questione della legittimazione passiva, con ordinanza interlocutoria (n. 12621/11, depositata l'1.4.2011), la Prima sezione civile della Corte, originariamente investita del giudizio, ha rimesso la causa al Primo Presidente, che l'ha, quindi, assegnata a queste Sezioni Unite. Motivi della decisione I.1 - Il provvedimento di liquidazione degli onorari al difensore di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato è impugnabile, ai sensi del combinato disposto dagli artt. 84 e 170 d.p.r. 115/2002 ("Testo unico in materia di spese di giustizia"), con opposizione dinanzi al Presidente dell'Ufficio competente. L'art. 84 d.p.r. 115/2002 (contemplato nella parte del testo normativo che specificamente regola il patrocinio a spese dello Stato) stabilisce che "avverso il decreto di pagamento del compenso al difensore, all’ausiliario del magistrato e al consulente tecnico di parte, è ammessa opposizione ai sensi dell'art. 170". L'art. 170 (contemplato nella parte del testo normativo che regola i titoli di pagamento in genere), stabilisce a sua volta, al comma 1, che “avverso il decreto di pagamento emesso a favore dell'ausiliario del magistrato, del custode e delle imprese private cui è affidato l'incarico di demolizione e riduzione in pristino, il beneficiario e le parti processuali, compreso il pubblico ministero, possono proporre opposizione, entro venti giorni dall'avvenuta comunicazione, al presidente dell'ufficio giudiziario competente". Quale provvedimento dotato di carattere decisorio, (incidendo direttamente sulle situazioni giuridiche delle parti) e definitivo (tale essendo espressamente qualificato dalla previsione dell'art. 29 l. 794/1942 e da quella dell'art. 15, comma 6, d.lgs. 150/2011, richiamate, rispettivamente, dall'originaria formulazione dell'art. 170 d.p.r. 115/2002, applicabile alla fattispecie concreta, e da quella attualmente in vigore), il provvedimento presidenziale è suscettibile di ricorso per Cassazione (cfr. Cass. 5881/07, ss.uu. 28266/05, 2592/05). 2 - La compenetrazione normativa realizzata dal rinvio dell'art. 84 d.p.r. 115/2002 alla previsione del successivo art. 170, impone che l'indagine sulla legittimazione passiva nel procedimento di opposizione alla liquidazione degli onorari del difensore di soggetto patrocinato a spese dello Stato, demandata a queste Sezioni Unite, muova dal dato, di evidenza testuale, costituito dalla parte della disposizione richiamata, che (nel riproporre sostanzialmente la previsione del previgente art. 11, comma 5, l. 319/1980) attribuisce il potere di agire, nelle contemplate opposizioni, al "beneficiario" ed alle "parti processuali" compreso il "pubblico ministero"; laddove il riferimento alle "parti processuali" non sembra poter riguardare che le parti del giudizio presupposto. L'indicato dato letterale non risulta, tuttavia, appagante ai fini della soluzione della questione in esame, giacché, non in relazione ad ogni opposizione devoluta alla disciplina della norma, esso appare in grado di investire il titolare passivo del rapporto sostanziale oggetto della controversia introdotta con l’opposizione. Già in sede di prima approssimazione al problema, può, invero, notarsi che - se, in relazione all'originario ambito di applicazione dell'art. 170 d.p.r. 115/2002 (costituito dalle opposizioni alla liquidazione dei compensi spettanti all'ausiliario di giustizia), il riconoscimento della legittimazione passiva alle parti processuali del giudizio (civile o penale) presupposto non rivela stridenti incoerenze, essendo tendenzialmente ciascuna di esse, almeno in potenza, titolare del rapporto di debito oggetto della liquidazione opposta - altrettanto non può dirsi in merito alle opposizioni alle liquidazioni dei compensi dei difensori dei soggetti patrocinati a spese dello Stato (che l'art. 170 d.p.r. 215/2002 è chiamato a regolare per rinvio dall'art. 84), atteso che tali compensi non gravano necessariamente sulle parti del giudizio presupposto, ma tendono, per definizione, ad incidere sullo Stato, genericamente qualificato "erario" dagli artt. 131 e 132 d.p.r. 115/2002, che può non essere (e, in larga misura, non è) parte del giudizio presupposto. 41 3 - Alla luce delle esposte premesse, occorre, dunque, indagare se (a prescindere dalla formula letterale dell'art. 170 d.p.r. 215/2002) lo Stato, ancorché estraneo al giudizio presupposto, rivesta, comunque, ruolo di parte necessaria nel procedimento di opposizione alla liquidazione degli onorari spettanti ai difensori dei soggetti gratuitamente patrocinati, in quanto titolare del rapporto di debito oggetto del procedimento medesimo. Attesa la genericità dell'accezione "erario" utilizzata dalla legge per identificare lo Stato quale soggetto passivo del rapporto sostanziale oggetto del procedimento, sarà quindi, eventualmente, necessario chiarire come tale generico concetto venga, in concreto, ad identificarsi con riferimento alla legittimazione passiva nei procedimenti in rassegna. Come evidenziato dall'ordinanza di rimessione al Primo Presidente, in proposito si riscontrano nella giurisprudenza di questa Corte orientamenti disparati. Alcune pronunzie (seppur in relazione a fattispecie caratterizzate dalla mancata instaurazione di ogni contraddittorio, e, pertanto, al limitato fine di rilevare la radicale inammissibilità del ricorso, in quanto solo depositato e non notificato ad alcuno) dimostrano d'intendere che l'ambito della legittimazione passiva dei procedimenti di opposizione alla liquidazione degli onorari dei difensori dei soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato è conclusivamente tratto, in via speculare, dalla previsione di cui all'art. 170 d.p.r. 115/2002 (cfr. Cass. 5881/07, 2542/05). Ciò, del resto, in sintonia con quanto già affermato, in relazione alla previgente (e sostanzialmente analoga) previsione dell'art. 11, comma 5, l. 319/1980 in tema di opposizione a liquidazione di compenso di ausiliare del giudice (cfr. Cass. 4175/98, 4819/97). Sempre con riguardo alla previgente disciplina sulle opposizioni alle liquidazioni dei compensi spettanti agli ausiliari del giudice, altre pronunzie, in base ad una valutazione eminentemente letterale del dato normativo, attribuiscono ruolo centrale, ai fini della rappresentanza dell'interesse pubblico nei procedimenti in oggetto, al Pubblico Ministero (cfr. Cass. 5132/96; 7227/98). Ulteriore indirizzo (per il quale, v. Cass. 24349/07 non massimata, in tema di opposizione alla liquidazione di onorario per attività di difensore d'ufficio ricondotta alla disciplina di cui all'art. 84 d.p.r. 115/2002, dal successivo art. 116) reputa parte necessaria del procedimento l'Agenzia delle Entrate. Ciò, essenzialmente, in funzione dell'applicazione analogica, al procedimento di opposizione alla liquidazione degli onorari spettanti ai difensori dei patrocinati a spese dello Stato, delle disposizioni in tema di legittimazione passiva previste, in relazione al procedimento di ammissione al gratuito patrocinio, dall'art. 99 d.p.r. 115/2002, che espressamente attribuisce, all'ufficio finanziario, ruolo di parte nel relativo processo. Altra impostazione (v. Cass. 3342/1992, in tema di liquidazione di compensi a c.t.u. in procedimento penale, regolata dalla previgente l. 319/1980), reputa, infine, parte necessaria, nel giudizio di opposizione alla liquidazione, il Ministero della Giustizia, quale soggetto in concreto chiamato a far fronte ai correlativi esborsi. II.1 - Ad avviso di queste Sezioni unite, fondamentale, ai fini della risoluzione del delineato contrasto, risulta il rilievo che, con la precedente sentenza 19161/09, si è definitivamente riconosciuto che il procedimento di opposizione ex art. 170 d.p.r. 115/2002 (al decreto di liquidazione dei compensi ad ausiliari del giudice e custodi ed al decreto di liquidazione degli onorari dovuti ai difensori di patrocinati a spese dello Stato) presenta, anche se riferito a liquidazioni inerenti ad attività espletate ai fini di giudizio penale, carattere di autonomo giudizio contenzioso avente ad oggetto controversia di natura civile incidente su situazione soggettiva dotata della consistenza di diritto soggettivo patrimoniale. In base ai principi generali, l'affermato criterio rende, infatti, ineludibile considerare parte necessaria dei procedimenti di opposizione a liquidazione regolati dall'art. 170 d.p.r. 115/2002 ogni titolare passivo del rapporto di debito oggetto del procedimento medesimo (ogni soggetto, cioè, esposto all'obbligo di sopportare l'onere economico del compenso); con la conseguenza che in tale prospettiva finalistica va letta la previsione di cui all'art. 170 d.p.r. 115/2002 e che dunque - nei procedimenti, di opposizione a liquidazioni di compensi e onorari inerenti a giudizi civili e penali, suscettibili di restare a carico dell'"erario" - anche quest'ultimo è parte necessaria, ancorché estraneo al giudizio presupposto. 42 2.1 - In tale prospettiva ed approfondendo il tema dell'identificazione del soggetto destinato ad assumere, per l’"erario", il ruolo di legittimato passivo nei procedimenti in oggetto, deve, in primo luogo, disattendersi la tesi di chi assegna tale ruolo all'Agenzia delle Entrate. L'impostazione è, come si visto, essenzialmente fondata sull'applicazione analogica, al procedimento di opposizione alla liquidazione degli onorari spettanti ai difensori dei soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, delle disposizioni in tema di legittimazione passiva previste, in relazione al procedimento di ammissione al gratuito patrocinio, dall'art. 99 d.p.r. 115/2002. L'ambito applicativo dell'art. 99 d.p.r. 115/2002, è, tuttavia, troppo specificamente ancorato al tema dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato ed al procedimento di opposizione al correlativo diniego, per essere suscettibile di applicazione analogica, alle opposizioni alle liquidazioni regolate dall'art. 170 d.p.r. 115/2002 (e ciò non solo, come è intuitivo, con riguardo alle opposizioni avverso i decreti di liquidazione dei compensi agli ausiliari del giudice, ma, anche, con riferimento a quelle avverso le liquidazioni degli onorari del gratuito patrocinio). In proposito, appare decisivo il rilievo che, nel caso dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l'art. 98 d.p.r. 115/2002 rende l'ufficio finanziario parte attiva del procedimento di ammissione al beneficio, demandandogli il riscontro del requisito di reddito per la concessione del beneficio medesimo ed attribuendogli anche il potere di richiederne la revoca ai sensi dell'art. 112, sicché è solo in ragione di tali peculiari attribuzioni (non replicate in tema di liquidazione dei compensi e, del resto, non conferenti rispetto ad esso), che il successivo art. 99, conferisce espressamente all'ufficio tributario ruolo di parte nel procedimento di opposizione al diniego del beneficio (cfr. Cass. pen. 3 9501/06, Infranca; 31369/05, Alicata). Esclusa l'applicazione analogica dell'art. 99 d.p.r 115/2002 al procedimento di opposizione alla liquidazione dei compensi e degli onorari di cui all'art. 170 d.p.r. 115/2002 - e riscontrato, peraltro, che, significativamente, gli artt. 82 e 168 d.p.r. 115/2002 omettono di annoverare l'ufficio finanziario tra i destinatari della comunicazione dei decreti di pagamento dei compensi e degli onorari - deve, poi, considerarsi che gli artt. 57 e 62 d.lgs. (istitutivo) 300/1999 - nel circoscrivere l'ambito di azione dell'Agenzia delle Entrate allo svolgimento dei servizi relativi all'amministrazione, alla riscossione ed al conten2ioso dei tributi diretti e dell'iva nonché di tutte le imposte, diritti o entrate erariali o locali, anche di natura extra-tributaria, già di competenza del Dipartimento delle Entrate del Ministero delle Finanze o affidati alla sua gestione in base alla legge o ad apposite convenzioni - non consente di riconoscere all'Agenzia alcuna funzione in tema di erogazione dei compensi dovuti ad ausiliari del giudice o ai difensori incaricati di esercitare la difesa in regime di patrocinio a spese dello Stato. 2.2 - Da disattendere è, altresì, l'orientamento che ravvisa nel Pubblico Ministero il soggetto destinato ad assumere ruolo di legittimato passivo nei procedimenti di liquidazione di compensi ed onorari destinati a restare a carico dell'"erario". In disparte il rilievo che l'accezione "erario" evoca piuttosto riferimento ad esponente dello StatoAmministrazione, l'inadeguatezza dell'impostazione risulta palese ove si consideri che il Pubblico Ministero è sempre parte solo nei processi penali ovvero in quei processi civili in cui è prevista la sua partecipazione obbligatoria, mentre (disciplinando l'art. 170 d.p.r. 115/2002, unitariamente, l'opposizione alla liquidazione di compensi ed onorari nel processo penale e in quello civile) resta imperscrutabile il titolo che ne imponga il ruolo di parte necessaria in relazione a tutti i procedimenti di opposizione alle liquidazioni che concernono i giudizi civili cui non partecipa. Deve, peraltro, considerarsi (nella prospettiva di cui al precedente punto II.1), che il Pubblico Ministero non è, certamente, titolare passivo del rapporto di debito oggetto del procedimento di opposizione alla liquidazione (non essendo nemmeno dotato, al pari di tutti gli altri uffici giudiziari, di autonomo bilancio) e, d'altro canto, che il potere di proporre opposizione alla liquidazione, riconosciutogli dall'art. 170 d.p.r. 115/2002, appare idoneamente giustificabile in funzione al suo tradizionale ruolo di tutore dell'interesse della legge. 43 3. L'inadeguatezza delle altre soluzioni e la riscontrata esigenza di osservare il principio, secondo cui parte necessaria dei procedimenti di opposizione a liquidazione regolati dall'art. 170 d.p.r. 115/2002 deve inevitabilmente reputarsi ogni titolare passivo del rapporto di debito oggetto del procedimento medesimo (principio, che, del resto, solo in tal modo viene ad acquisire piena attuazione) impongono di propendere per la tesi che individua il Ministero della Giustizia quale parte necessaria nei procedimenti suddetti, se concernenti compensi e onorari, relativi a giudizi civili o penali, suscettibili di restare a carico dell'"erario". Come emerge anche dalla previsione di cui all'art. 185, comma 1, d.p.r. 115/2002, è, infatti, sul bilancio del Ministero della Giustizia (attualmente sul relativo capitolo 1360) che viene a gravare l'onere degli esborsi correlativi, in concreto gestito attraverso aperture di credito a favore dei funzionari delegati (mentre, altrimenti, incidono le corrispondenti spese in tema di giudizi tributario, penale militare e amministrativo). Può, dunque, pervenirsi all'affermazione del seguente principio di diritto: "posto che il procedimento di opposizione ex art. 170 d.p.r. 115/2002 (al decreto di liquidazione dei compensi a custodi ed ausiliari del giudice ed al decreto di liquidazione degli onorari dovuti ai difensori di patrocinati a spese dello Stato) presenta, anche se riferito a liquidazioni inerenti ad attività espletate ai fini di giudizio penale, carattere di autonomo giudizio contenzioso avente ad oggetto controversia di natura civile incidente su situazione soggettiva dotata della consistenza di diritto soggettivo patrimoniale, parte necessaria dei procedimenti suddetti deve considerarsi ogni titolare passivo del rapporto di debito oggetto del procedimento; con la conseguenza che in tale prospettiva finalistica va letta la previsione di cui all’art. 170 d.p.r. 115/2002 e che, nei procedimenti di opposizione a liquidazioni inerenti a giudizi civili e penali suscettibili di restare a carico dell'"erario", anche quest'ultimo, identificato nel Ministero della Giustizia, è parte necessaria". III.1 - Le conclusioni raggiunte in precedenza, portano, nel caso concreto, a rilevare - in accoglimento della corrispondente eccezione preliminare dell'interessata - la carenza di legittimazione passiva dell'Agenzia delle Entrate, intimata e costituitasi (con l'Avvocatura dello Stato), ed a cassare il provvedimento impugnato, in quanto emesso in assenza di contraddittorio con la parte necessaria, Ministero della Giustizia. La causa va, peraltro, rinviata al Presidente del Tribunale di Brescia, che disporrà la notificazione dell'atto, alla sopra identificata parte necessaria, ai sensi dell'art. 4 l. 260/1958. 2.1 - A tale ultimo riguardo, va osservato che la norma citata deve ritenersi applicabile anche quando l'errore d'identificazione riguardi distinte ed autonome soggettività di diritto pubblico ammesse al patrocinio dell'Avvocatura dello Stato; nella specie: Agenzia delle Entrate (che, facoltativamente difesa dall'Avvocatura dello Stato ai sensi degli artt. 72 d.lgs. 300/1999 e 43 r.d.l. 1611/1933, si è in concreto costituita a mezzo del relativo patrocinio, eccependo la propria carenza di legittimazione passiva) e Ministero della Giustizia, (difeso ex lege dall'Avvocatura dello Stato). Ciò tuttavia, in forza dell'inviolabile principio del contraddittorio, limitatamente alla prevista rimessione in termine e con esclusione di ogni possibilità di automatica "stabilizzazione" (cfr. Cass. 6177/10), nei confronti dell'effettivo destinatario, degli effetti dell'atto giudiziario notificato ad altro soggetto. Ad avviso di queste Sezioni unite, è infatti, in tali termini, che va ricondotto a sintesi sistematicamente coerente il contrasto riscontrabile, anche all'interno della giurisprudenza di questa Corte, tra l'orientamento (per cui, v. Cass. 10.010/11, 6917/05) che reputa l'operatività dell'art. 4 l. 260/1958 circoscritta agli errori di identificazione, per così dire, "interni" alle singole soggettività (che incidano, cioè, sull'organo in concreto munito di legittimazione processuale nell'ambito del medesimo soggetto di diritto pubblico), e quello che ritiene la norma applicabile anche agli errori di identificazione incidenti su soggettività distinte (diverse Amministrazioni dello Stato: cfr. Cass. 1405/03, 8697/01, 10806/00, 10890/96; e addirittura enti diversi, quali Stato e Regione: v. Cass. 3709/11, 11473/03, che aderisce al principio pur ritenendolo non applicabile alla fattispecie concreta, e 4755/03). 44 L'adesione al secondo indirizzo appare, invero, imprescindibilmente imposto dal rilievo che esso pienamente compatibile con il complessivo dato letterale, in funzione della relativa elasticità ("L'errore di identificazione della persona, alla quale l’atto introduttivo del giudizio ed ogni altro atto doveva essere notificato...") - si rivela il solo idoneo a soddisfare compiutamente la ratio legis. Ciò, essendo questa identificabile - secondo non smentita indicazione di questa Corte e del Giudice amministrativo (cfr. Cass. 11473/03, 4755/03), confortata, del resto, dagli obiettivi imposti dal principio del c.d. "giusto processo" - nell'intento di agevolare l'effettività del diritto alla tutela giurisdizionale delle pretese vantate nei confronti della pubblica amministrazione (cfr. artt. 24, comma 1, Cost.), in rapporto alla circostanza che l'esercizio di tale diritto, condizionato dal rispetto di rigorosi termini di decadenza, rischia di essere vanificato nelle non infrequenti ipotesi (delle quali quella oggetto della presente vicenda processuale costituisce esempio emblematico), in cui la concreta individuazione dell'organo investito della rappresentanza dell'amministrazione convenuta ovvero quella del soggetto pubblico passivamente legittimato al giudizio risulti particolarmente ardua, se non aleatoria. D'altro canto (considerato anche che l'unitarietà ed inscindibilità dello Stato nell'esercizio della sue funzioni sovrane non elide l'autonomia soggettiva delle persone giuridiche di diritto pubblico: v. Cass. 6917/05), l'ineludibile principio dell'effettività del contraddittorio (che l'art. 111, comma 2, Cost., in tema di "giusto processo" non sottordina ad alcuna altra sua espressione e la rilevabilità della cui violazione non incorre in preclusione di sorta, se non quella della formazione di giudicato esplicito, v: Cass. ss.uu. 26019/08 e 24883/08), impone, altrettanto imprescindibilmente, che, in relazione agli errori di identificazione incidenti su soggettività diverse (e quindi, in definitiva, sulla stessa legitimatio ad causam), l'operatività dell'art. 4 l. 260/1958 sia circoscritta al profilo della rimessione in termine; con esclusione, dunque, di ogni possibilità di automatica stabilizzazione nei confronti del reale destinatario, in funzione della comune difesa, degli effetti di atto giudiziario notificato ad altro soggetto e del conseguente giudizio. 3. Il giudice del rinvio provvedere anche in ordine alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. la Corte, a sezioni unite, decidendo sul ricorso, dichiara la carenza di legittimazione passiva dell'Agenzia delle Entrate; cassa il provvedimento impugnato e rinvia la causa, anche per le spese di questo giudizio, al Presidente del Tribunale di Brescia. 45 Spese di giustizia - Patrocinio a spese dello Stato - Compenso spettante al difensore della persona ammessa – Corrispondenza con la somma rifusa in favore dello Stato Corte Cost., sentenza 28 novembre 2012 n. 270 (Pres. Quaranta, est. Morelli) Deve essere escluso che, ove sia pronunziata condanna alle spese di giudizio a carico della controparte del soggetto ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, vi sia una iniusta locupletatio dell’Erario, atteso che, anche recentemente, la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che la somma che, ai sensi dell’art. 133 d.lgs. n. 115 del 2002, va rifusa in favore dello Stato deve coincidere con quella che lo Stato liquida al difensore del soggetto non abbiente (Corte di cassazione, Sez. VI penale, 8 novembre 2011, n. 46537) Ordinanza 270/2012 Presidente QUARANTA - Redattore NAPOLITANO Udienza Pubblica del 23/10/2012 Decisione del 19/11/2012 Deposito del 28/11/2012 Norme impugnate: Art. 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30/05/2002, n. 115. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo dell’articolo 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), promossi dal Tribunale ordinario di Roma con quattro ordinanze del 21 settembre 2011, rispettivamente iscritte ai nn. 6, 7, 8 e 9 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2012. Visti gli atti di costituzione di A. G. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 46 udito nell’udienza pubblica del 23 ottobre 2012 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano; uditi gli avvocati Giampiero Amorelli e Marco Annecchino per A. G. e l’avvocato dello Stato Maurizio Di Carlo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che, con quattro ordinanze di identico contenuto, tutte depositate in data 21 settembre 2011, il Tribunale ordinario di Roma ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, secondo e terzo comma, 53, primo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui prevede che, in caso di ammissione al beneficio della difesa a spese dello Stato del non abbiente in controversie in materia civile, il giudice, allorché provvede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore, deve tenere conto che questi «sono ridotti della metà»; che il rimettente precisa di essere chiamato a giudicare sulla opposizione proposta da un avvocato – il quale ha difeso dei cittadini stranieri, ammessi al patrocinio a spese dello Stato, in procedimenti civili aventi ad oggetto il riconoscimento dello status di rifugiato politico – avverso i decreti con i quali, in relazione ai predetti giudizi, sono state liquidate le sue competenze; che fra le lagnanze dell’opponente vi è quella legata all’avvenuta riduzione delle competenze nella misura della metà, operata ai sensi dell’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002; che il rimettente, ricostruite la modalità applicative della disposizione in questione – nel senso che il giudice, effettuata la liquidazione entro il limite degli importi medi previsti in funzione del valore della controversia, deve dimezzare l’importo così determinato ed attribuirlo al professionista solo nella misura così risultante –, ha, preliminarmente, escluso la tacita abrogazione della disposizione censurata per effetto della entrata in vigore dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248, il quale prevede che «il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di (…) gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale»; che, in particolare, ad avviso del rimettente la previsione normativa sopravvenuta – resasi necessaria onde chiarire che il meccanismo di liberalizzazione delle tariffe, introdotto dallo stesso decreto-legge n. 223 del 2006, opera limitatamente ai rapporti di natura contrattuale fra professionista e cliente e non laddove la liquidazione intervenga ex officio – non esclude la operatività di altri meccanismi modificativi, fissati dalla legge, atti ad incidere sulla liquidazione tramite tariffa; che – quanto alla rilevanza della questione nei giudizi a quibus – il rimettente precisa di essere chiamato a sindacare il provvedimento di liquidazione emesso sulla base della normativa censurata che egli, pertanto, è tenuto ad applicare in sede di gravame; che, per ciò che concerne la non manifesta infondatezza della questione, il rimettente ritiene che la disposizione violerebbe diversi parametri costituzionali: vale a dire gli artt. 3, 24, 53, 111 e 117, comma primo, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo comma, della Convenzione europea dei diritti umani, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; 47 che, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, espressivo del principio di eguaglianza, ritiene il Tribunale di Roma che molteplici siano i profili di illegittimità costituzionale riscontrabili nella disposizione censurata; che, essa, infatti, determinerebbe una disparità di trattamento in funzione della natura, civile o penale, del processo in relazione al quale sono stati liquidati i compensi al professionista il cui cliente sia stato ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, posto che l’abbattimento dei compensi liquidati dal giudice non opera in materia penale; che – non ignaro che analoga questione di legittimità costituzionale già è stata in passato decisa da questa Corte, nel senso della sua manifesta infondatezza, sulla base della incomparabilità fra i due modelli processuali cui fa sfondo la diversità degli interessi coinvolti dai medesimi – il rimettente auspica un superamento di tali decisioni, argomentando che la diversità degli interessi coinvolti non comporta che quelli implicati nei giudizi civili siano di minore dignità ed importanza, potendo, come nei giudizi a quibus, concernere diritti fondamentali della persona; che, aggiunge, la diversità fra i due modelli processuali, frutto della diversità degli interessi implicati, non giustificherebbe comunque la diversità fra i criteri di remunerazione degli avvocati interessati, in quanto la distinzione fra le situazioni soggettive tutelate riguarderebbe solo le parti dei giudizi non anche i loro difensori che hanno uguale diritto a vedere compensato il proprio impegno; che, per il rimettente, un’ingiustificata disparità di trattamento sarebbe ravvisabile, nell’ambito dello stesso sistema del processo civile, fra la posizione dell’avvocato che abbia difeso una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato e quella di chi abbia difeso una parte ordinaria, posto che i criteri di determinazione dei compensi professionali degli avvocati sono ancorati a fattori – quali il valore della controversia, la sua complessità, la quantità dell’opera prestata, la sua qualità nonché il risultato conseguito – per i quali è indifferente se a pagare il compenso sia direttamente il cliente ovvero un terzo, che in questo caso è lo Stato a ciò tenuto dall’esigenza di adempiere ad un dovere di solidarietà sociale; che sarebbe perciò privo di ragionevole giustificazione lo “svilimento” dell’opera professionale resa dal difensore di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato e la “devalorizzazione” delle identiche prestazioni in funzione del fatto che siano prestate o meno in favore di persona ammessa al detto beneficio; che, prosegue il rimettente, ciò avrebbe altresì l’effetto, stante la minore remuneratività della prestazione professionale offerta in favore di chi sia stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, di restringere il numero degli avvocati cui il non abbiente potrà rivolgersi rispetto a quello da cui potrà attingere il cliente che paghi direttamente il professionista; che pertanto, chiarisce il rimettente, la minore appetibilità degli incarichi di patrocinio a spese dello Stato per il professionista che esercita in materia civile fa sì che il cliente non abbiente si trovi a poter scegliere il proprio avvocato fra un numero inferiore di professionisti rispetto a quelli da cui può attingere il cliente ordinario; che tale discriminazione, fondata su ragioni economiche, è, come tale, “sospetta” di illegittimità costituzionale; che essa, aggiunge il rimettente, non è, peraltro, frutto immediato della disparità economica esistente fra diversi cittadini, ma è la conseguenza del dettato legislativo che, anziché rimuovere gli ostacoli di 48 ordine economico che limitano l’eguaglianza dei cittadini, ne erige uno dove non esisteva, né aveva ragione di esistere; che il rimettente osserva ancora come la descritta disparità di trattamento può manifestarsi anche all’interno del singolo processo, ove una delle parti sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, risultando violato, in tali casi il principio della “parità delle armi” nel processo, garantito dall’art. 111 della Costituzione; che, ritiene il giudice a quo, le predette violazioni contrastino anche con il dettato dell’art. 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, nonché dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, stante il contrasto della disposizione censurata con l’art. 6, primo comma, della CEDU, il quale assicura “l’effettività dell’accesso al tribunale” e la “parità delle armi”; che l’unica finalità rinvenuta dal rimettente nel censurato art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 è quella di realizzare un risparmio di spesa in favore dell’Erario, finalità che, più volte, la Corte di Strasburgo ha ritenuto insufficiente a giustificare il sacrificio di un diritto garantito dalla Convenzione ; che, segnala il giudice a quo, la riduzione dei compensi determinata dall’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 opererebbe, in maniera del tutto eterogenea rispetto al predetto scopo, anche nel caso di condanna della controparte del non abbiente alla rifusione delle spese giudiziali in favore di questo, in una ipotesi, cioè, in cui non sarebbero, comunque, interessate le finanze dello Stato; che, per il rimettente, la disposizione censurata violerebbe altresì l’art. 53 della Costituzione; che, osserva il rimettente, l’utilità economica della attività prestata dall’avvocato, liquidata in base a tariffe legalmente approvate, corrisponde alla somma determinata, in applicazione di quelle, dal giudice; che da ciò conseguirebbe il credito, da parte dell’avvocato che abbia prestato la propria opera a difesa di un non abbiente in un giudizio civile, della integrale somma liquidata dal giudice; che di essa, però, egli ne riceve solo una quota pari alla metà, la quale, aggiungendosi alle altre entrate del professionista, va a costituire il suo reddito imponibile, sul quale calcolare la relativa imposta; che il restante 50% rimane nella disponibilità dell’Erario il quale, pertanto, consegue un beneficio economico equivalente a quello che realizzerebbe ove il professionista, ricevuta integralmente la somma a lui dovuta, ne dovesse riversare allo Stato, in aggiunta a quanto deve versare a titolo di imposta, la metà; che siffatta attribuzione patrimoniale a favore dello Stato è, per il rimettente, assimilabile ad un’entrata tributaria; che gli effetti favorevoli per l’Erario di tale meccanismo, secondo la ricostruzione operata dal rimettente, sarebbero ancora più evidenti nel caso in cui la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato sia risultata vittoriosa in giudizio, poiché in tale ipotesi il giudice, nel condannare il soccombente a corrispondere alle casse dello Stato le spese di lite, non potrebbe che determinarne l’ammontare applicando, senza abbattimenti, le tariffe forensi, con la conseguenza che l’Erario incasserà dal soccombente l’intera somma liquidata dal giudice, ma ne riverserà al difensore della parte ammessa al beneficio solo la metà, trattenendo il resto, fatto che costituisce una vera e propria entrata tributaria; 49 che, non essendo quest’ultima calcolata in base ad aliquote previste per legge né rapportata al reddito imponibile del professionista e prescindendo il suo ammontare da ogni considerazione in ordine alla capacità contributiva di quest’ultimo o, eventualmente, della parte abbiente soccombente, la norma che la dispone è in contrasto con l’art. 53 della Costituzione; che in ciascuno degli incidenti di costituzionalità si è costituito, con comparse di identico contenuto, il ricorrente nei giudizi a quibus, contestando in linea di principio la ammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 in quanto tale norma deve intendersi abrogata per effetto della entrata in vigore dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, nella legge n. 248 del 2006; che, se tale tesi non fosse condivisa dalla Corte, la parte privata si associa alla richiesta di dichiarazione di illegittimità costituzionale; che è intervenuto nel giudizio, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri concludendo per la infondatezza della questione; che la difesa pubblica ricorda, infatti, come la giurisprudenza della Corte abbia già escluso la illegittimità costituzionale della disposizione censurata, osservando che: a) la garanzia del diritto di difesa non esclude che il legislatore lo moduli sulla base di scelte discrezionali non irragionevoli; b) la differente disciplina del processo penale e di quello civile è giustificata dalla incomparabilità dei due modelli processuali; c) la diversità degli interessi in giuoco nel processo penale ed in quello civile giustifica la diversa disciplina della liquidazione degli onorari spettanti agli avvocati che si siano impegnati in essi; d) la circostanza che il difensore del non abbiente nel processo civile sia tenuto a prestare la propria opera per un compenso inferiore ai minimi tariffari, a prescindere dall’avvenuta abrogazione della inderogabilità di questi, non è fonte di illegittimità trovando fondamento in una norma di legge; che l’affermata menomazione del diritto di difesa della parte non abbiente e la paventata frustrazione del diritto di accesso alla giustizia in condizione di parità delle armi, presuppongono che il difensore di questa, in ragione della minore prospettiva di guadagno, offra una prestazione professionale non adeguata; che tale dato non può essere sostenuto in via di principio come effetto della norma censurata, rilevando, qualora si verificasse nel singolo caso, sul piano della deontologia forense; che, in assenza di valide ragioni per discostarsene, l’Avvocatura chiede che siano confermate le precedenti decisioni della Corte; che la difesa privata ha depositato, peraltro tardivamente, ampie memorie illustrative a conferma delle già rassegnate conclusioni. Considerato che, con quattro ordinanze di identico contenuto, il Tribunale ordinario di Roma ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell’articolo 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui prevede che, in caso di ammissione al beneficio della difesa a spese dello Stato del non abbiente in controversie in materia civile, il giudice, allorché provvede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore, deve tenere conto che questi «sono ridotti della metà»; 50 che, secondo l’avviso del rimettente, detta disposizione si porrebbe in contrasto con gli artt. artt. 3, 24, secondo e terzo comma, 53, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione; che, in particolare, il principio di eguaglianza sarebbe violato in ragione del deteriore criterio di determinazione dei compensi spettanti ai professionisti che difendono i soggetti non abbienti, e pertanto ammessi al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, nei giudizi civili (recte: in considerazione di quanto dispone l’intitolazione del Titolo IV del d.P.R. n. 115 del 2002 al cui interno è inserito il censurato art. 130: nonché in quelli amministrativi, tributari e contabili), rispetto a quello, più vantaggioso, applicabile ai professionisti che difendono i soggetti non abbienti nei giudizi penali; che, secondo il rimettente, la disparità di trattamento, sarebbe, altresì, ravvisabile, anche fra difensori operanti nel comune ambito del processo civile (recte: nonché in quelli amministrativi, tributari e contabili), nel diverso criterio di determinazione ope iudicis dei compensi in ragione della circostanza che la difesa sia resa in favore di soggetto abbiente ovvero di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato; che, ancora, sarebbe violato il principio di eguaglianza, poiché, data la minore rimuneratività delle difese svolte nei giudizi civili (recte: nonché in quelli amministrativi, tributari e contabili) in favore di soggetti ammessi al patrocinio a spese delle Stato, questi ultimi si troverebbero a poter scegliere il proprio patrono attingendo da un bacino di professionisti più ristretto di quello da cui possono attingere gli altri litiganti; che, secondo il rimettente, sarebbero, in tal modo, violati anche: a) l’art. 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, stante la derivante violazione del diritto di difesa; b) l’art. 111, primo comma, della Costituzione, data la violazione del principio di “parità delle armi” fra le parti nel processo; c) l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, primo comma, della Convenzione europea dei diritti umani, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto, in assenza di uno scopo legittimo, sarebbe limitata, per il soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato, l’effettività del “diritto di accesso al tribunale”; che, prosegue il rimettente, la disposizione in esame – realizzando un prelievo tributario, nella misura della metà dei compensi liquidabili al professionista che abbia difeso il non abbiente nel giudizio civile (recte: nonché in quelli amministrativi, tributari e contabili), a carico o del professionista medesimo ovvero, in caso di condanna del contraddittore di chi sia stato ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato alla rifusione delle spese di lite, di quest’ultimo soggetto – violerebbe l’art. 53 della Costituzione prescindendo il predetto prelievo sia da aliquote predeterminate che dalla “capacità contributiva” dei soggetti incisi; che i giudizi scaturiti dalla quattro ordinanze di rimessione, data la identità della questione da essi sollevata, debbono essere riuniti per essere definiti con un’unica decisione; che, preliminarmente, deve essere valutata, sotto il profilo della perdurante rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale, la incidenza sul presente giudizio della entrata in vigore del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2012, n. 27, che, all’art. 9, prevede, rispettivamente al comma 1, la abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico (fra le quali vi è la professione forense), e, al comma 5, che «sono abrogate le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe di cui al comma 1»; 51 che, tuttavia, precisa il comma 3 del medesimo art. 9 (significativamente inserito in sede di conversione in legge dell’originario decreto), «le tariffe vigenti (…) continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2» (vale a dire dei provvedimenti con cui sono fissati i parametri di riferimento sulla base dei quali deve essere liquidato il compenso del professionista nel caso di determinazione da parte di un organo giurisdizionale); che, per ciò che concerne le professioni vigilate dal Ministero della giustizia (fra le quali vi è quella forense), è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 195 del 22 agosto 2012, per il fine sopra indicato, il decreto ministeriale 20 luglio 2012, n. 140 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della Giustizia ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2012, n. 27), il quale, per quanto qui interessa, prevede, all’art. 41, che le disposizioni in esso contenute si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore, fissata, dal successivo art. 42, nel giorno successivo a quello di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale; che, pertanto, siffatto ius novum non interferisce sui giudizi a quibus, concernenti liquidazioni di compensi già da tempo operate sulla base della scrutinanda previgente normativa, sicché, quanto al profilo ora esaminato, la questione prospettata dal rimettente è tuttora rilevante; che, sempre in limine litis, va esaminata la eccezione di inammissibilità della questione – dedotta dalla costituita parte privata nei giudizi a quibus e ribadita di fronte a questa Corte anche in sede di discussione orale – argomentata sulla base della asserita implicita abrogazione della disposizione censurata a seguito della entrata in vigore dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spese pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248, secondo il quale «il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di (…) gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale»; che siffatta eccezione va disattesa in quanto è del tutto plausibile l’interpretazione fornita dal Tribunale di Roma nelle ordinanze di rimessione, secondo cui l’indicazione della “tariffa professionale” quale base di calcolo per la liquidazione giudiziale dei compensi spettanti al difensore di chi sia ammesso al patrocinio a spese dello Stato – tale è, infatti, chiaramente l’istituto che il legislatore intende richiamare allorché si riferisce al “gratuito patrocinio”– non impedisce che tale indicazione sia integrata da altre equiordinate disposizioni normative che, senza contraddirlo, modulino, in funzione di specifiche esigenze, il predetto criterio generale; che la questione è manifestamente infondata, sotto tutti i profili dedotti dal rimettente; che, con riferimento alla asserita disparità di trattamento esistente fra avvocati i quali, in difesa di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, esercitino il loro ministero di fronte agli organi della giustizia penale, ed avvocati che, invece, operino, in difesa di soggetti aventi la medesima caratteristica, di fronte agli organi della giurisdizione civile, amministrativa, contabile o tributaria, questa Corte osserva che la relativa questione già è stata esaminata e definita nel senso della manifesta infondatezza, sulla base del rilievo che, per un verso, «la intrinseca diversità dei modelli del processo civile e di quello penale non consente alcuna comparazione» fra le discipline ad essi applicabili (ordinanza. n. 350 del 2005) e che, per altro verso, la «diversità di disciplina fra la liquidazione degli onorari e dei compensi nel processo civile e nel processo penale trova fondamento nella diversità delle situazioni comparate» (ordinanza n. 201 del 2006 che, a sua volta, riprende l’ordinanza n. 350 52 del 2005), laddove è di tutta evidenza che nel rimarcarsi la diversità fra «gli interessi civili» e le «situazioni tutelate che sorgono per effetto dell’esercizio della azione penale» non si vuole affatto alludere ad una gerarchia di valori fra gli uni e le altre, ma esclusivamente alla indubbia distinzione fenomenica esistente fra di loro, tale da escludere una valida comparazione fra istituti che concernano ora gli uni ora le altre; che, riguardo alla disparità di trattamento fra avvocati che, parimenti operando di fronte agli organi della giurisdizione civile, amministrativa, tributaria o contabile, vedono i loro compensi ridotti della metà nell’ipotesi in cui la liquidazione giudiziale concerna difese apprestate nei confronti di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, questa Corte ritiene di doverla escludere; che, neppure in questo caso, la diversa disciplina applicabile alle distinte fattispecie, una delle quali, quella relativa ai non abbienti, è connotata da «peculiari connotati pubblicistici» (ordinanza n. 387 del 2004) – che hanno indotto questa Corte a ritenere (sentenza n. 114 del 1964), in vigenza di una precedente formulazione dell’art. 128, secondo comma, del codice di procedura penale, che prevedeva, in materia penale, l’obbligo della difesa gratuita dei non abbienti, non fondata la questione di costituzionalità allora posta con riferimento agli artt. 24 e 35 Cost. in quanto si trattava di una prestazione obbligatoria, radicata nell’art. 23 Cost., che aveva «la sua ragione nell’interesse pubblico» – non riscontrabili nell’altra, esula rispetto al margine di ampia discrezionalità di cui il legislatore gode nel dettare le norme processuali (da ultimo ordinanza n. 26 del 2012), nel cui novero sono comprese anche quelle in materia di spese di giustizia (ordinanza n. 446 del 2007); che, sempre con riferimento alla violazione dell’art. 3 della Costituzione – questa volta sospettata nella esistenza di una più ridotta platea di professionisti disposta a difendere in sede civile, amministrativa, tributaria o contabile, data la minore rimuneratività di tale attività, i soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, rispetto a quella cui può attingere il soggetto ordinario – questa Corte ritiene, per un verso, che la censura sollevata dal rimettente si risolva palesemente nella doglianza avverso un – peraltro solo postulato – inconveniente di fatto non direttamente riconducibile alla applicazione della disposizione censurata ma, semmai, cagionato da scelte professionali del ceto forense; che, per altro verso, più volte, questa Corte ha escluso la illegittimità costituzionale di disposizioni normative che impongono dei limiti nella scelta del difensore – ora attraverso la individuazione di speciali elenchi da cui attingere (ordinanza n. 387 del 2004; ordinanza n. 374 del 2003) ora determinando al medesimo scopo, ambiti territoriali di riferimento (sentenza n. 394 del 2000) – ogniqualvolta ne sia comunque assicurata una ampia possibilità di scelta, circostanza quest’ultima senza dubbio riscontrabile nel caso di specie, tenuto conto che lo stesso rimettente indica, per il circondario di sua competenza, in alcune migliaia il numero di professionisti abilitati al patrocinio a spese dello Stato; che l’insussistenza dei predetti vizi di costituzionalità esclude anche la fondatezza delle censure aventi ad oggetto la violazione degli artt. 24, secondo e terzo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, data la loro derivazione dalla affermata violazione del principio di uguaglianza; che, infine, anche per quanto concerne l’asserito contrasto fra la richiamata disposizione legislativa e l’art. 53 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata; che, per un verso, deve essere escluso – diversamente da quanto, invece, sostenuto dal rimettente – che, ove sia pronunziata condanna alle spese di giudizio a carico della controparte del soggetto ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, vi sia una iniusta locupletatio dell’Erario, 53 atteso che, anche recentemente, la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che la somma che, ai sensi dell’art. 133 d.lgs. n. 115 del 2002, va rifusa in favore dello Stato deve coincidere con quella che lo Stato liquida al difensore del soggetto non abbiente (Corte di cassazione, Sez. VI penale, 8 novembre 2011, n. 46537); che, per altro verso, nel meccanismo attraverso il quale si procede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore che abbia difeso in giudizi diversi da quelli penali la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, e che comporta l’abbattimento nella misura della metà della somma risultante in base alle tariffe professionali, non è dato riscontrare alcuna forma di prelievo tributario, trattandosi semplicemente di una, parzialmente diversa, modalità di determinazione dei compensi medesimi – giustificata, per come dianzi dimostrato, dalla diversità, rispetto a quelli penali, dei procedimenti giurisdizionali cui si riferisce – tale da condurre ad un risultato economicamente inferiore rispetto a quello cui si sarebbe giunti applicando il criterio ordinario. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, secondo e terzo comma, 53, primo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma con le ordinanze in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2012. F.to: Alfonso QUARANTA, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 28 novembre 2012. Il Direttore della Cancelleria F.to: Gabriella MELATTI 54 Spese di giustizia - Ausiliari del magistrato - Domanda di liquidazione per gli onorari e le spese per l'espletamento dell'incarico - Termine di decadenza di cento giorni dal compimento delle operazioni - Eccessiva brevità del termine. Corte Cost., ordinanza 19 dicembre 2012 n. 306 (Pres. Quaranta, est. Napolitano) In materia di compenso spettante all'ausiliario del magistrato, il termine, di cui all’art. 71, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2005 – avente la durata di cento giorni, a partire dal compimento di un atto (la conclusione delle operazioni peritali) svolto dal medesimo soggetto in danno del quale il termine stesso decorre – non risulta essere talmente breve da costituire un serio impedimento all’esercizio del diritto sottostante. Tale disposizione, peraltro, disciplina non un’ipotesi di prescrizione breve ma, piuttosto, una di prescrizione presuntiva, caratterizzata dal fatto che in essa il decorso del tempo non spiega effetti giuridici di tipo sostanziale, comportando l’estinzione della relativa posizione soggettiva, ma di tipo processuale, comportando l’inversione, e l’aggravamento, dell’onere probatorio: vi è, per l'effetto, un consolidato indirizzo giurisprudenziale che reputa l'art. 2956, numero 2), cod. civ. non applicabile alla fattispecie de qua, in quanto la disciplina della prescrizione presuntiva è estranea alle ipotesi in cui, come indubitabilmente nel caso di cui al giudizio a quo, il diritto al quale il termine prescrizionale si riferisce tragga origine da atti caratterizzati dall’uso della forma scritta (così da ultimo: Corte di cassazione 4 luglio 2012, n. 11145). ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 71, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), promosso dal Tribunale ordinario di Sondrio, sul reclamo proposto da A. D. P., con ordinanza del 23 marzo 2012, iscritta al n. 162 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2012. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 5 dicembre 2012 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che il Tribunale ordinario di Sondrio, con ordinanza depositata in data 23 marzo 2012, ha sollevato, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, questione incidentale di legittimità costituzionale dell’articolo 71, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui prevede che la domanda per la corresponsione delle indennità in favore degli ausiliari del magistrato debba essere presentata, a pena di decadenza, nel termine di cento giorni dall’espletamento dell’incarico; che il rimettente riferisce di essere chiamato a giudicare sul reclamo proposto avverso il provvedimento col quale era stata rigettata, perché tardivamente presentata, la domanda della dott.ssa A. D. P. – incaricata, unitamente ad altri consulenti tecnici, dal pubblico ministero presso il Tribunale di Sondrio di svolgere attività di consulenza medico-legale nel corso di una indagine penale – volta ad ottenere la liquidazione dei compensi a lei spettanti; che, come precisato dal giudice a quo, il rigetto della domanda presentata dalla reclamante era dovuto alla circostanza che essa era pervenuta alla locale Procura della Repubblica in data 18 agosto 2010, là dove l’elaborato, collettivamente redatto dal collegio dei consulenti, era stato depositato in data 12 marzo 2010; che, pertanto, sebbene l’istante avesse avuto notizia dell’avvenuto deposito solo il 7 luglio 2010, la sua domanda era stata rigettata «essendo decorso il termine di cento giorni dalla presentazione prescritto a pena di decadenza»; 55 che, osserva il rimettente, sulla base dei ricordati dati di fatto ed applicata la normativa vigente, costituita dall’art. 71, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002, siffatta decisione era corretta, tuttavia, egli aveva avvertito «il senso dell’ingiustizia» nel confermare la decadenza dal diritto al compenso della ausiliaria del pubblico ministero, a causa del mancato rispetto del «brevissimo termine» previsto; che, conseguentemente, onde ovviare alla ingiustizia della legge, ha ritenuto di dover sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 71, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002, nella parte in cui introduce, per l’esercizio del diritto alla liquidazione dei compensi degli ausiliari del magistrato, un termine di decadenza irragionevolmente breve; che, quanto alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che, essendo il diniego della liquidazione espressamente fondato sulla decadenza prevista dalla disposizione censurata, l’esito del giudizio a quo è condizionato dalla definizione del dubbio di costituzionalità; che, sulla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente, rilevato che, in sede di redazione del testo unico sulla spese di giustizia, il legislatore delegato si era limitato a sostituire con l’espressione «decadenza» l’espressione «prescrizione», contenuta nella disposizione che sino a quel momento aveva disciplinato, per il resto negli stessi termini cronologici, la fattispecie – vale a dire nell’art. 24 del regio decreto 3 maggio 1923, n. 1043 (Determinazione delle competenze dovute ai testimoni, periti, giurati e ufficiali giudiziari e delle indennità spettanti ai magistrati e cancellieri per le trasferte) – dubita della logicità della disposizione censurata, poiché questa, in assenza di un’apprezzabile ratio prevede termini temporali «assolutamente irrisori» per la presentazione della richiesta di corresponsione dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato; che il rimettente prosegue ricordando come, con sentenza n. 268 del 1991, questa Corte già ha esaminato, ma sotto altro profilo, la compatibilità costituzionale dell’art. 24 del r.d. n. 1043 del 1923, rilevando che in quell’occasione era rimasto impregiudicato il tema della ragionevolezza del predetto termine di cento giorni; che, a suo avviso, le esigenze di celerità del processo, che in linea di principio giustificano la apposizione del termine in questione, non appaiono, però, tali da giustificarne la brevità – definita «eccessivamente penalizzante» – neppure ove essa venga posto in relazione al compimento delle attività volte alla liquidazione dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato; che, pertanto, si tratterebbe di una disposizione intrinsecamente irragionevole, cioè incoerente, contraddittoria od illogica rispetto alla finalità perseguita dal legislatore (ravvisata dal rimettente nell’esigenza di non «dover riesumare procedimenti oramai definiti ed archiviati per provvedere a tardive istanze di liquidazione»), la quale sarebbe adeguatamente tutelata anche applicando le ordinarie disposizioni civilistiche in materia di prescrizione dei compensi professionali; che, ad avviso del rimettente, la irragionevolezza della disposizione denunziata emergerebbe anche in relazione agli altri interessi costituzionali da essa coinvolti: da un lato l’esigenza di un ordinato esercizio della amministrazione della giustizia, presidiato dall’art. 97 della Costituzione, dall’altro il diritto, costituzionalmente rilevante, al «rispetto del lavoro prestato» tutelato dagli artt. 1 e 35 della Costituzione; che, infatti, per il giudice a quo, un ulteriore profilo di illegittimità della norma censurata risiederebbe nell’irragionevole subvalenza di tali interessi, in favore di un criterio temporale (non funzionale alla celerità del processo) ed a scapito della possibilità di richiedere entro termini adeguati il compenso per il lavoro prestato; 56 che l’eventuale espunzione dall’ordinamento della disposizione censurata non determinerebbe l’esistenza di incolmabili lacune normative data l’immediata applicazione dell’art. 2956, numero 2), del codice civile il quale fissa i termini prescrizionali per i compensi professionali; che è intervenuto nel giudizio, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri, che ha concluso per l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale; che, per un verso, la difesa erariale osserva che la disposizione non è affatto irragionevole in quanto, premesso che le spese di giustizia nel corso delle indagini preliminari sono provvisoriamente poste a carico dello Stato, essa si giustifica con l’esigenza di poter conoscere celermente e con certezza l’ammontare delle somme da anticipare, e che, per altro verso, il termine previsto dalla norma censurata per la richiesta di liquidazione dei compensi non è incongruamente breve ma adeguato alla bisogna. Considerato che il Tribunale ordinario di Sondrio dubita, in relazione all’articolo 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 71, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui prevede che la domanda di liquidazione degli onorari e delle spese per l’espletamento dell’incarico svolto dagli ausiliari del magistrato debba essere presentata, a pena di decadenza, entro cento giorni dal compimento delle operazioni commissionate; che, ad avviso del rimettente, il predetto termine decadenziale imporrebbe, in assenza di alcuna valida ragione, la presentazione della ricordata domanda entro un lasso temporale «assolutamente irrisorio», così sacrificando, in un irragionevole bilanciamento di interessi costituzionalmente tutelati, la prevalente esigenza di garantire il compenso per il lavoro prestato – di cui agli artt. 1 e 35 della Costituzione – alla esigenza di assicurare l’ordinato esercizio della amministrazione della giustizia – di cui all’art. 97 della Costituzione; che la questione di legittimità costituzionale sollevata è manifestamente infondata; che questa Corte ha più volte ribadito la ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nel fissare termini temporali per l’esercizio dei diritti, anche laddove essi siano, come nel caso del diritto alla retribuzione per il lavoro prestato, sorretti da garanzia costituzionale (sentenza n. 192 del 2005), col solo limite che siffatto termine venga determinato in modo tale da non rendere effettivo (ordinanza n. 166 del 2006) o comunque oltremodo difficoltoso (ordinanza n. 382 del 2005) l’esercizio del diritto cui esso si riferisce; che nel caso di specie il termine, di cui all’art. 71, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2005 – avente la durata di cento giorni, a partire dal compimento di un atto (la conclusione delle operazioni peritali) svolto dal medesimo soggetto in danno del quale il termine stesso decorre – non risulta essere talmente breve da costituire un serio impedimento all’esercizio del diritto sottostante; che neppure è dato riscontrare nella disposizione censurata l’ulteriore profilo di illegittimità dedotto dal rimettente, consistente nell’irragionevole bilanciamento di interessi costituzionalmente tutelati, rispondendo, invece, ad un canone di razionale scansione dei tempi procedimentali l’esigenza di conoscere tempestivamente i costi necessari per lo svolgimento del giudizio; che, peraltro, non contestando il rimettente la apposizione del termine in quanto tale ma, semmai, la sua, ritenuta, brevità si porrebbe la esigenza di individuarne un altro di congrua ampiezza; 57 che, come già rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte, là dove non sia contestata la legittimità della apposizione di un termine per l’esercizio di un diritto ma soltanto la adeguatezza della sua durata, esula dai poteri della Corte, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, individuarne un altro che abbia le caratteristiche richieste dal rimettente (ordinanza n. 233 del 2007); che, d’altra parte, neppure può convenirsi col rimettente, il quale ritiene incontroverso che, ove fosse dichiarata la illegittimità costituzionale della disposizione censurata, in luogo dell’ordinario termine decennale di cui all’art. 2946 del codice civile – certamente smisurato rispetto alle ricordate esigenze sottese alla fattispecie –, sarebbe applicabile il termine triennale relativo al diritto ai compensi ed ai rimborsi spettanti ai professionisti per l’opera da loro prestata, di cui all’art. 2956, numero 2), cod. civ.; che, infatti, poiché si ritiene che tale disposizione disciplina non un’ipotesi di prescrizione breve ma, piuttosto, una di prescrizione presuntiva, caratterizzata dal fatto che in essa il decorso del tempo non spiega effetti giuridici di tipo sostanziale, comportando l’estinzione della relativa posizione soggettiva, ma di tipo processuale, comportando l’inversione, e l’aggravamento, dell’onere probatorio, vi è un consolidato indirizzo giurisprudenziale che reputa il citato art. 2956, numero 2), cod. civ. non applicabile alla fattispecie de qua, in quanto la disciplina della prescrizione presuntiva è estranea alle ipotesi in cui, come indubitabilmente nel caso di cui al giudizio a quo, il diritto al quale il termine prescrizionale si riferisce tragga origine da atti caratterizzati dall’uso della forma scritta (così da ultimo: Corte di cassazione 4 luglio 2012, n. 11145). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 71, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), sollevata, in relazione all’articolo 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Sondrio con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 dicembre 2012. 58 Trib. Milano, ordinanza 5 maggio 2015 PATROCINIO A SPESE DELLO STATO – PARTE AMMESSA AL BENEFICIO – NOMINA DI PIÙ DIFENSORI – CONSEGUENZE – REVOCA DELL’AMMISSIONE – SUSSISTE – INCOSTITUZIONALITÀ – MANIFESTA INFONDATEZZA (d.P.R. 115/2002) Se, nel procedimento civile, la parte ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato designa, per la sua rappresentanza in giudizio, più di un Avvocato (nel caso di specie, due) l’ammissione stessa deve essere revocata dovendosi presumere che la persona beneficiaria non goda dei presupposti per la fruizione del gratuito patrocinio IN FATTO X nato a … il .. 1954, veniva ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, giusta delibera del Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Milano del … 2013, n. 2013/... Il beneficio veniva concesso con l’assistenza dell’Avv. A e utilizzato dal X nel giudizio civile iscritto al n. .. del 2012, definito dal Tribunale di Milano con sentenza n. .. dell’11 maggio 2013. Nell’ambito di questo procedimento, X e sua moglie Y presentavano – a seguito di trasformazione del rito - ricorso congiunto perché fosse pronunciato giudizialmente lo scioglimento del matrimonio (pronuncia poi emessa dall’ufficio adito in conformità alle conclusioni rassegnate dalle parti). Nel giudizio civile n. …/2012, il X si faceva rappresentare da due Avvocati: l’Avv. A e l’Avv. B. In data 29 gennaio 2014, l’Avv. A, difensore del X, presentava istanza per la liquidazione del proprio compenso. Il Tribunale di Milano, con provvedimento del 30 gennaio 2014, rilevato che il X, nel corso del giudizio divorzile, era stato rappresentato da due Avvocati, revocava la sua ammissione al patrocinio a spese dello Stato e, per l’effetto, respingeva l’istanza presentata dall’Avv. A. Con ricorso depositato in data 19 febbraio 2014, il X impugnava il sopra indicato provvedimento. Con ordinanza del 24 aprile 2014, il Tribunale adito rilevava che: 1) il procedimento era stato introdotto con rito processuale erroneo, non applicandosi il rito camerale ma il procedimento sommario di cognizione; 2) la domanda era stata proposta contro un soggetto non legittimato dal lato passivo (l’Agenzia delle Entrate in luogo del Ministero della Giustizia). Disponeva, quindi, il mutamento del rito e ordinava la integrazione degli atti. Il ricorrente vi provvedeva con ricorso depositato in data 30 settembre 2014, dopo avere ottenuto proroga, giusta domanda del 30 giugno 2014 (seguita dall’ordinanza del 7 luglio 2014). Con decreto dell’1 ottobre 2014, il Tribunale fissava udienza in data 13 gennaio 2015. Il Ministero convenuto si costituiva in data 23 dicembre 2014. All’udienza del 13 gennaio 2015, veniva concesso termine sino al 9 aprile 2015 per una memoria conclusiva. Alla scadenza di detto termine, il Tribunale riservava la decisione. Il processo viene definito in 1 anno e 2 mesi, nel rispetto dell’art. 2, comma II-bis, legge 24 marzo 2001 n. 89, aggiunto dall'art. 55, co. 1, lett. a), n. 2), D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134. IN DIRITTO [1]. In via preliminare va osservato che, ai fini dell’odierno giudizio, sono irrilevanti le questioni dedotte dalla parte ricorrente in merito alla prassi in uso nello Studio Legale AB di raccogliere il mandato alle liti dal cliente in favore dei diversi difensori dell’Ufficio professionale (nel caso di specie, Avv. A e Avv. B), pur considerando, ai fini del pagamento 59 e della rappresentanza effettiva, la sola nomina del fiduciario (nel caso di specie, l’Avv. A). E, infatti, ai fini dello scrutinio di merito e legittimità, tipizzato in seno al d.P.R. 115 del 2002, nell’evadere la richiesta di compenso, fa fede la procura formalmente rilasciata dal beneficiario che si traduce – sempre formalmente – nella sottoscrizione di un contratto di patrocinio avente come partner negoziale ciascuno dei difensori che sia munito di rappresentanza processuale ex art. 83 c.p.c. In quest’ottica, i rapporti contrattuali interni (tra difensori e cliente) sono irrilevanti assumendo valore esclusivamente il dato formale (e ufficiale) della presenza di due distinte procure alle liti, nell’ambito del medesimo mandato; peraltro, i citati rapporti interni, proprio perché caratterizzati da intenzioni soggettive delle parti e usi o consuetudini non generali, dovevano essere quantomeno offerti in prova e ciò non è avvenuto nell’odierno processo. Valga, infine, considerare che, nella delibera di ammissione del C.O.A. di Catanzaro, il X è espressamente ammesso a designare il solo Avv. A come suo difensore; la nomina dell’Avv. B è successiva. [2]. Nel merito, la parte ricorrente sottopone a questo Tribunale la seguente questione giuridica: se, nel procedimento civile, la parte ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato possa designare, per la sua rappresentanza in giudizio, più di un Avvocato (nel caso di specie, due). Secondo la tesi della parte ricorrente, un siffatto limite sussisterebbe per il procedimento penale ma non sarebbe presente per il procedimento civile. La tesi non può essere condivisa. Il d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, interpretato sistematicamente, è univoco nel limitare il diritto del beneficiario del patrocinio a spese dello Stato nel senso di consentirgli la designazione di un solo Avvocato. L’art. 80 d.P.R. cit., regola, in generale (anche per i giudizi civili), la «nomina del difensore» e, con questa rubrica, già lasciando intendere che la designazione del legale deve essere unica. In ogni caso, la citata norma, al comma 1, espressamente precisa che hi è ammesso al patrocinio «può nominare un difensore scelto tra gli iscritti negli elenchi degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato», con ciò evidentemente limitando la facoltà difensiva del beneficiario nel senso di consentirgli di poter usufruire di un solo difensore. Anche al terzo comma, è ribadito che è possibile nominare «un difensore» così dovendosi ritenere che l’espressione letterale utilizzata costituisca una consapevole scelta del legislatore nel senso di quantificare, in modo numerico esatto (1), il limite massimo di difensori nominabili (ciò assume rilevanza anche per gli artt. 128, 130, 131 comma IV lett. a, In questo percorso di ricostruzione del dato ermeneutico, sussistono ulteriori tasselli normativi senz’altro rilevanti: in primis, l’art. 82 d.P.R. cit. che espressamente regola i criteri di liquidazione dell’onorario «del difensore», anche qui utilizzando il singolare senza alcuna apertura alla possibilità che vi sia una nomina plurima. Le norme sin qui considerate lumeggiano l’esatta portata interpretativa dell’art. 91 d.P.R. 115/2002. Questo addentellato chiarisce che, nel procedimento penale, l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato è esclusa se il richiedente è assistito da più di un difensore. Ebbene, la rete di disposizioni sin qui illustrate considera, invero, due distinti momenti fisiologici del procedimento di ammissione al beneficio erariale: la fase di «ammissione» e la fase di «nomina del difensore». Nel processo civile, il soggetto titolare del diritto d’azione o evocato in giudizio come convenuto non assume la qualità di parte processuale se non dopo l’introduzione del giudizio (ove sia attore) o la costituzione nel processo (ove sia convenuto): pertanto (da un punto di vista logico) la nomina del difensore sarà successiva alla ammissione. Ciò può non accadere, invece, nel processo penale dove, ad esempio, il soggetto interessato al beneficio erariale potrebbe assumere la qualità di indagato o imputato allorché ha già designato più difensori per sé stesso. Inoltre, nel processo penale, sussiste una specifica norma (art. 96 c.p.p.) che riconosce all’imputato il «diritto di nominare» anche «due difensori», rendendosi allora necessaria una disposizione come l’art. 91 d.P.R. cit. per limitare, in caso di patrocinio a spese dello Stato, questa facoltà normativamente prevista (salvo ammetterla, eccezionalmente, nel caso di cui all’art. 100 d.P.R. 115/2002). Questa 60 conclusione si ricava anche da una interpretazione “evolutiva” delle norme vigenti: il divieto di designazione di più di un difensore, come noto, trovava già regime nella legge 217 del 1990 (per il processo penale); con l’incremento dei casi in cui ammesso il patrocinio a spese dello Stato (ad opera della legge 134 del 2001), il citato divieto era stato, di fatto, riprodotto anche per il civile, all’art. 15-duodecies. Il complessivo sistema, come risultante dalle manipolazioni normative, ammetteva, nel rito civile, la nomina di un solo Avvocato da parte del cittadino ammesso al patrocinio a spese dello Stato. Questo essendo lo sfondo storiconormativo in cui si colloca il decreto 115 del 2002, appare chiaro che, ancora oggi, è precluso al beneficiario di designare, se ammesso al patrocinio a spese dello Stato, più di un difensore. E, infatti, il Dpr 115/02 non innova la disciplina preesistente in materia di spese di giustizia, ma la organizza in Tu (cfr. Cass. pen., Sez. Un. n. 4 del 2004). [3]. L’art. 91 d.P.R. cit. chiarisce, per il procedimento penale, che la parte che abbia già designato due difensori non può essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato; da questa regola è logico inferire che, se la nomina è successiva, l’ammissione va revocata. E ciò per qualunque tipologia di procedimento, alla luce di quanto già osservato. La revoca della delibera di ammissione, in questo caso, discende da una presunzione: può presumersi che la parte che abbia nominato più di un difensore goda di un reddito superiore a quello che legittima il beneficio erariale (in merito al potere di “presumere”, v. ad es., art. 96 comma II d.P.R. 115 del 2002). Infatti, in ogni caso, il beneficio statale coprirebbe i soli costi e il solo compenso del primo difensore mentre ogni altra spesa sarebbe sostenuta dal beneficiario; ciò, però, fa iato con una persona «non abbiente» e, sulla scorta di un ragionamento presuntivo, induce a ritenere che, ab origine, non godesse delle condizioni per meritare il patrocinio erariale. Ciò vuol dire che, come correttamente ha fatto nel caso in esame il giudice del provvedimento impugnato, al cospetto della nomina plurima di difensori, il magistrato deve revocare la delibera di ammissione «non sussistendone i presupposti» e, cioè, secondo un giudizio “di merito” (e non, invece, ritenendo esistente una “decadenza” dal beneficio come da taluni sostenuto). Nel senso del provvedimento qui impugnato è, peraltro, la giurisprudenza prevalente allorché afferma che «la nomina di due difensori deve essere valutata come una sorta di presunzione ex lege di abbienza» (Trib. Trapani, 9 giugno 2005; Corte App. Venezia, 20 marzo 2006). Secondo questi pronunciamenti, la presenza di un secondo avvocato impone il rigetto della richiesta di liquidazione del compenso al difensore a carico dell’Erario; il suindicato principio è desumibile in via generale dall’art. 80 del T.U. n. 115/2002 ed è ribadito per il processo penale dall’art. 91 T.U. Alla luce della trama di argomenti sin qui illustrata deve ritenersi corretto il provvedimento impugnato e deve quindi essere respinta la critica agitata dal ricorrente nel libello introduttivo del giudizio. [4]. Per effetto delle conclusioni appena rassegnate, deve essere esaminata l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dalla parte ricorrente. Sul punto, è opportuno ricordare che, in presenza di una censura (sollevata da una parte del processo) di compatibilità della norma primaria con la Costituzione, il giudice gode di una precipua discrezionalità di giudizio. Secondo la nota e celebre espressione utilizzata autorevolmente in Dottrina, il giudice a quo è il «portiere» del giudizio di costituzionalità a cui compete di valutare non solo la rilevanza della questione ma anche la eventuale manifesta infondatezza. La giurisprudenza della Corte delle Leggi è, infatti, consolidata allorché afferma che il giudice a quo è tenuto motivare sulla "non manifesta infondatezza di ogni dubbio proposto in riferimento a ciascuno dei parametri evocati" (Corte Cost, ordinanza 17 marzo 2006 n. 109). Ciò detto, nel caso di specie, la questione è manifestamente infondata. Il patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti trova la sua premessa negli articoli 3 e 24 della Costituzione. Le norme che “regolano” l’accesso al beneficio (riduzione del compenso, 61 scelta dell’Avvocato, nomina dei difensori) si traducono in vincoli posti dalla disciplina del patrocinio gratuito che, tuttavia, non costituiscono limiti per l’esercizio del diritto di difesa in qualsiasi stato e del grado del procedimento ma solo impediscono che il beneficio trasmodi in abuso delle prerogative riconosciute alla persona che vi sia ammessa, con tradimento della funzione economica dell’istituto (Cass. pen., Sez. Un., sentenza 13 luglio 2004 n. 30433). Per tutti i motivi esposti, il ricorso non merita accoglimento. [5]. Le spese debbono essere integralmente compensate tra le parti. In primis, la difesa erariale, nei suoi scritti, ha sostenuto la tesi della decadenza qui non accolta; in secundis, la questione viene per la prima volta sottoposta a quest’Ufficio in sede di impugnazione e, dunque, ha carattere di novità. Peraltro, il dato normativo non è affatto caratterizzato da univocità e chiarezza e ciò depone nel senso di dover ritenere giusta la compensazione: essa compensazione, infatti, può trovare giustificazione ove sussista la presenza di oggettive difficoltà di accertamenti in fatto sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti (v. Cass. civ., Sez. Un., 3 settembre 2008, n. 20598). Non si applica, peraltro, nel caso di specie, il nuovo testo dell’art. 92 c.p.c. come modificato dalla legge 10 novembre 2014 n. 162 (il giudizio è stato introdotto il 19 febbraio 2014). [6]. L’art. 1 comma XVII della Legge 24 dicembre 2012 n. 228 (cd. legge di stabilità) ha introdotto, all’interno dell’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, il nuovo comma Iquater, in cui è previsto che: “quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis”. In queste ipotesi, “il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. L’articolo in esame, riferendosi alle «impugnazioni» si applica anche allo strumento impugnatorio ex art. 170 d.P.R. 115/2002 (Trib. Milano, sez. IX civ., ordinanza 2 aprile 2015). Ne consegue che nell’odierno giudizio deve darsi atto dei presupposti per il recupero del doppio contributo unificato (Cass. Civ., SS.UU., sentenza 18 febbraio 2014 n. 3774, Pres. Rovelli, rel. Virgilio) trattandosi di “atto dovuto” (Cass. Civ., sez. VI-3, ordinanza 15 aprile 2014 n. 12936, Pres. Finocchiaro, rel. Ambrosio; Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 18 novembre 2014, Pres., est. E. Manfredini) PER QUESTI MOTIVI Definendo la controversia RESPINGE il ricorso COMPENSA le spese di lite tra le parti. MANDA alla cancelleria per quanto di competenza Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1. 62 Trib. Milano, ordinanza 2 aprile 2015 PATROCINIO A SPESE DELLO STATO – COMPENSO SPETTANTE AL DIFENSORE DELLA PARTE AMMESSA – PRESCRIZIONE PRESUNTIVA EX ART. 2956 C.C. – APPLICABILITÀ – SUSSISTE – RILEVABILITÀ D’UFFICIO - SUSSISTE (d.P.R. 115/2002) Il diritto al compenso spettante all’Avvocato della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato è sottoposto al regime di prescrizione presuntiva di cui all’art. 2956, comma II, c.c. Il giudice richiesto della liquidazione può, inoltre, rilevare d’ufficio l’intervenuta prescrizione trattandosi di procedimento avente ad oggetto un credito erariale che ricade nell’ambito delle obbligazioni cd. pubbliche, e, dunque, di una procedura in cui non sono rilevanti solo gli interessi delle parti, ma finanche quelli della collettività tutta, venendo in rilievo denaro pubblico alimentato direttamente e indirettamente dai contribuenti. Peraltro, occorre prendere atto della speciale conformazione che assume il procedimento liquidatorio: non è predicabile una “eccezione” di prescrizione poiché il Ministero non è parte della procedura di liquidazione e, conseguentemente, non potrebbe sollevare una exceptio. Trattandosi di obbligazioni pubbliche si giustifica quindi una attività officiosa del giudice che interviene per farsi carico della protezione degli interessi pubblici coinvolti IN FATTO F proponeva ricorso ex art. 148 c.c. (oggi art. 316-bis c.c.) contro V, con l’assistenza dell’Avv. X. La parte ricorrente veniva ammessa al patrocinio a spese dello Stato con provvedimento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano dell’11 novembre 2008. Il giudice definiva il procedimento con provvedimento conclusivo del 23 giugno 2010, corretto ex art. 287 c.p.c. con ordinanza del 31 maggio 2011. Con istanza depositata in data 28 febbraio 2014, l’Avv. X richiedeva la liquidazione del proprio compenso, per avere assistito la F nel procedimento ex art. 148 c.c. (oggi 316-bis c.c.). Il giudice respingeva l’istanza per intervenuta prescrizione del credito, giusta decreto del 18 luglio 2014. Con ricorso depositato in data 8 settembre 2014, l’Avv. X impugnava il citato provvedimento chiedendo al giudice dell’opposizione di liquidare il compenso dovutogli, a rettifica dell’errore in cui incorso il magistrato autore della reiezione di prime cure. Si costituiva il Ministero della Giustizia (parte necessaria: Cass. Civ., Sez. Un., sentenza 29 maggio 2012 n. 8516, Pres. Vittoria, rel. Cappabianca) che resisteva alla domanda e, comunque, nel merito, sollevava l’eccezione di intervenuta prescrizione. IN DIRITTO [1]. In via preliminare va dichiarata la inammissibilità del giuramento decisorio deferito dalla parte attrice. Giova ricordare, infatti, come lo strumento di cui agli artt. 233 c.p.c., 2736 c.c., sia ammissibile solo a fronte di un diritto di cui le parti possano disporre (v. art. 2737 c.c. che richiama l’art. 2731 c.c.) non potendo dunque deferirsi giuramento a fronte di situazioni giuridiche soggettive indisponibili (cfr. ad es., Cass. Civ., sez. I 26 febbraio 1993 n. 2465), nel cui ambito va collocato il rapporto obbligatorio erariale (v. ad es., Cass. Civ., 17 settembre 2008 n. 25653). Il ricorrente, a sostegno dell’ammissibilità del giuramento, richiama la sentenza Cass. Civ. 15 aprile 2014 n. 8735: questa pronuncia, tuttavia, riguarda il diverso caso di un credito maturato da un Avvocato verso una società e sottoposto a prescrizione presuntiva. Si tratta, quindi, si un diritto di credito disponibile. Ne consegue che, nel caso di specie, avendo il procedimento ad oggetto una obbligazione pubblica erariale, non trova applicazione l’art. 2960 cod. civ. [2]. Sempre in via preliminare, si deve ritenere che il dies a quo per il computo del tempo utile per la prescrizione del diritto di credito del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato sia da individuare nel provvedimento conclusivo del procedimento (nel caso di specie: 28 giugno 2010). Ai sensi dell’art. 83 d.P.R. 115/2002, infatti, le spettanze del difensore sono liquidate con decreto di pagamento «al termine di ciascuna fase o grado del processo» e il giudice competente può provvedere anche alla 63 liquidazione dei compensi dovuti per le fasi o i gradi anteriori del processo, solo «se il provvedimento di ammissione al patrocinio è intervenuto dopo la loro definizione». Pertanto, il credito già al termine del processo ex art. 148 c.c. era esigibile. Questa interpretazione si concilia, peraltro, con la norma di cui all’art. 2957, comma II, c.c. (dettata in tema di prescrizioni brevi) ove è espressamente previsto che per le competenze dovute agli Avvocati «il termine decorre dalla decisione della lite». Ne consegue che, correttamente, il giudice estensore del provvedimento impugnato, ha retrodatato il computo del tempo prescrittivo alla data di deposito del provvedimento conclusivo del primo grado del giudizio, non tenendo in considerazione la successiva fase instaurata ex art. 287 c.p.c. Va precisato, peraltro, che anche la fase in esame era da stimarsi coperta dal beneficio del patrocinio erariale (v. art. 75 comma I d.P.R. 115/2002) e, conseguentemente, per la stessa il difensore poteva invocare una autonoma spettanza, con decorrenza dalla data del provvedimento definitivo (31 maggio 2011). Non può in questa sede, tuttavia, procedersi a giudicare anche questa parte di compenso: il difensore, infatti, ha omesso di allegare l’istanza di liquidazione presentata al giudice, in data 28 febbraio 2014 avendo prodotto, come documenti probatori, solo il decreto impugnato e una decisione della Corte di Cassazione (3647/2008). Ebbene, dal citato decreto – che costituisce prova privilegiata (atto pubblico) – emerge che l’istanza che fu presentata dall’Avv. Saccomanno (e delibata dal decreto 18 luglio 2014) riguardava «il procedimento ex art. 148 c.c.» e non anche il procedimento di correzione ex art. 287 c.p.c. [3]. Nel merito, l’impugnazione è infondata. Il procedimento conclusivo del processo (invero, nemmeno esso allegato) è del 28 giugno 2010. L’istanza di liquidazione è del 28 febbraio 2014. Essa istanza, pertanto, è presentata decorsi tre anni e otto mesi dalla conclusione della fase (e dal grado) giurisdizionale di riferimento. Sotto un primo profilo, deve stimarsi correttamente applicabile la prescrizione presuntiva di cui all’art. 2956, comma II, c.c. nei rapporti tra Erario e Avvocato della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato. In virtù di tale norma, si prescrive in tre anni il diritto dei «professionisti per il compenso dell’opera prestata» e in tale categoria concettuale dottrina e giurisprudenza pacificamente collocano anche il credito dell’Avvocato. L’istituto è applicabile al caso di specie giacché l'ammissione al gratuito patrocinio determina l'insorgenza di un rapporto che si instaura direttamente tra il difensore e lo Stato (Cass. Civ., sez. VI-2, ordinanza 27 gennaio 2015 n. 1539). Sotto un secondo aspetto, deve ritenersi che, nel caso di compenso spettante al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, il giudice richiesto della liquidazione possa rilevare d’Ufficio la prescrizione. Giova premettere che il rapporto obbligatorio che lega Amministrazione erariale e difensore del non abbiente può essere collocato nel genus delle obbligazioni pubbliche (o obbligazioni di diritto pubblico), in particolare nell’ambito delle obbligazioni pecuniarie dei privati verso lo Stato. Ne consegue che diversi (e maggiori) sono gli ambiti del giudizio rimessi all’Autorità Giudiziaria chiamata a disporre delle citate obbligazioni, se non altro per la rilevanza che siffatto giudizio assume non solo tra le parti, ma nei confronti della collettività tutta, venendo in rilievo denaro pubblico alimentato direttamente e indirettamente dai contribuenti. Nel tessuto normativo di cui al d.P.R. 115/2002 si rintraccia in modo evidente questa specialità di giudizio, soprattutto nel regime giuridico dedicato alla liquidazione. Ad esempio, il giudice titolare del procedimento in cui è speso il beneficio di Stato può sempre e comunque revocare (anche ex tunc) l’ammissione della parte al patrocinio e ciò a prescindere da un sollecito (v. art. 136 d.P.R. 115/2002). In materia di prescrizione, la questione merita una lettura sotto altra visuale: il momento liquidatorio è affidato al magistrato poiché allo stesso il Legislatore demanda di verificare la «sussistenza dei presupposti» per il compenso; uno dei citati presupposti è che il credito sia stato richiesto, diligentemente, senza far decorrere quel lasso di tempo che legittima la presunzione 64 prescrittiva. Letto in questa ottica, il giudice rigetta la richiesta di compenso se presentata oltre il triennio non solo per la presunzione ex art. 2956 c.c. quanto per il fatto di esser venuti meno i “presupposti” che legittimano il provvedimento di favore. In ogni caso, è corretto anche prendere atto della speciale conformazione che assume il procedimento liquidatorio: non è predicabile una “eccezione” di prescrizione poiché il Ministero non è parte della procedura di liquidazione e, conseguentemente, non potrebbe sollevare una exceptio. Trattandosi di obbligazioni pubbliche si giustifica quindi una attività officiosa del giudice che interviene per farsi carico della protezione degli interessi pubblici coinvolti. Questa lettura non ha incontrato il favore della giurisprudenza di legittimità (penale) che si è espressa in senso contrario (Cass. Pen., sez. IV, 27 gennaio 2009 n. 3647). Ciò nondimeno, si stima preferibile l’orientamento qui espresso se non altro per coerenza con la disciplina prevista, in altre sedi, in materia di obbligazioni pubbliche. Ad esempio, la decadenza dal diritto al rimborso è giudicata rilevabile d’Ufficio in ogni stato e grado (Cass. Civ., 17 settembre 2008 n. 25653) investendo diritti indisponibili dell’Erario [4]. Sempre nel merito, comunque, deve rilevarsi come, con la sua costituzione, la parte resistente, da un lato non ha ammesso l’estinzione dell’obbligazione (in linea con l’intenzione di beneficiare del regime di prescrizione presuntiva secondo il regime ordinario), dall’altro ha esplicitamente fatto propria l’eccezione: ne consegue, dunque, che comunque la fattispecie estintiva si è verificata per la sopravvenuta eccezione della parta. La sussistenza di un contrasto di giurisprudenza in merito alla res litigiosa qui esaminata giustifica la compensazione delle spese di lite tra le parti. [5]. L’art. 1 comma XVII della Legge 24 dicembre 2012 n. 228 (cd. legge di stabilità) ha introdotto, all’interno dell’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, il nuovo comma Iquater, in cui è previsto che: “quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis”. In queste ipotesi, “il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. L’articolo in esame, riferendosi alle «impugnazioni» si applica anche allo strumento impugnatorio ex art. 170 d.P.R. 115/2002. Ne consegue che nell’odierno giudizio deve darsi atto dei presupposti per il recupero del doppio contributo unificato (Cass. Civ., SS.UU., sentenza 18 febbraio 2014 n. 3774, Pres. Rovelli, rel. Virgilio) trattandosi di “atto dovuto” (Cass. Civ., sez. VI-3, ordinanza 15 aprile 2014 n. 12936, Pres. Finocchiaro, rel. Ambrosio). Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 18 novembre 2014 (Pres., est. E. Manfredini) PER QUESTI MOTIVI Definendo la controversia DICHIARA la inammissibilità del giuramento decisorio; RESPINGE l’impugnazione COMPENSA le spese di lite tra le parti. MANDA alla cancelleria affinché dell’odierno provvedimento sia comunicato alle parti costituite Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1. 65 Corte App. Roma, sez. I civ., decreto 17 aprile 2014 (Pres. Reali, rel. Fanti) vista l’istanza di ammissione al gratuito patrocinio proposta da …, in seguito al provvedimento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma del 5/7/2012, che ha dichiarato l’inammissibilita’ dell’istanza per “carenza di documentazione ai sensi dell’art. 79 D.P.R. 115/2002”; visti gli artt. 3 e 126 del DPR 115/2002, che dispongono che “se il Consiglio dell’Ordine respinge o dichiara inammissibile l’istanza, questa puo’ essere proposta al magistrato competente per il giudizio, che decide con decreto”; ritenuta quindi la competenza di questa Corte quale giudice del reclamo presentato ai sensi dell’art. 35 D.L.vo 25/2008; rilevato che l’istanza e’ stata respinta “per carenza di documentazione” e che l’istante ha riprodotto in questa sede la autocertificazione reddituale – mediante dichiarazione sostitutiva di atto di notorieta’, con sottoscrizione autenticata, in data 20/6/2012, dal funzionario incaricato dell’Ambasciata nigeriana a Roma - da cui risultano le generalita’ del richiedente, che dichiara ai fini e per gli effetti dell’art. 125 D.P.R. 115/2002 di non avere alcuna rendita, reddito, ne’ proprieta’ immobiliare di alcun genere in Nigeria, paese di cui ha la cittadinanza; CONSIDERATO che la documentazione prodotta risulta sufficiente ad ottenere l’ammissione al gratuito patrocinio a carico dello Stato; che l’art. 94, co. II, D.P.R. 115/2002 precisa che in caso di impossibilita’ di produrre la documentazione richiesta ai sensi dell’art. 79, co. II (ovvero certificazione redatta dall’autorita’ consolare competente attestante la veridicita’ di quanto in essa indicato) il cittadino di Stati non appartenenti all’Unione Europea la sostituisce, a pena di inammissibilita’, con una dichiarazione sostitutiva di certificazione; che tale dichiarazione risulta prodotta e la sottoscrizione dell’istante e’ stata debitamente autenticata; che oltretutto la certificazione consolare richiesta dal Consiglio dell’Ordine attiene a ben vedere alla veridicita’ dei redditi “prodotti all’estero”, essendo quindi inesigibile in tutti i casi in cui (come nella specie) nessun reddito all’estero sia stato dichiarato; P.Q.M. ammette … al gratuito patrocinio a spese dello Stato Italiano. Si comunichi. Cosi’ deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17 aprile 2014. MIN ISTERO DELLA GIUSTIZIA 66 DECRETO 7 maggio 2015 Adeguamento dei limiti di reddito per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato. (15A06065) (GU n.186 del 12-8-2015) IL CAPO DEL DIPARTIMENTO per gli affari di giustizia del Ministero della giustizia di concerto con IL RAGIONIERE GENERALE DELLO STATO del Ministero dell'economia e delle finanze Visto l'art 76 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con d.P.R 30 maggio 2002, n. 115, che fissa le condizioni reddituali per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato; Visto l'art. 77 del citato testo unico che prevede l'adeguamento ogni due anni dei limiti di reddito per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione alla variazione, accertata dall'Istituto nazionale di statistica, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, verificatesi nel biennio precedente; Visto il decreto dirigenziale emanato in data 1° aprile 2014 dal Ministero della giustizia di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, con il quale, con riferimento al periodo 1° luglio 2010-30 giugno 2012, e' stato aggiornato in euro 11.369,24 l'importo fissato dall'art. 76, comma 1, del d.P.R. n. 115/02, per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato; Ritenuto di dover adeguare, per il periodo relativo al biennio 1° luglio 2012-30 giugno 2014, il predetto limite di reddito fissato in euro 11.369,24; Rilevato che nel periodo relativo al biennio considerato, dai dati accertati dall'Istituto nazionale di statistica, risulta una variazione in aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati pari al 1,4%; Decreta: L'importo di euro 11.369,24, indicato nell'art. 76, comma 1, del d.P.R. n. 115/02, cosi' come adeguato con decreto del 1 aprile 2014, e' aggiornato in euro 11.528,41; Il presente decreto verra' inviato agli organi di controllo e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Roma, 7 maggio 2015 67 MASSIMARIO Giurisprudenza più recente in tema di patrocinio a spese dello Stato L'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, nel processo tributario in cui sia parte un fallimento, segue la procedura di cui all'art. 144 - e non quella di cui agli artt. 138 e 139 - del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, prevalendo le funzioni di vigilanza del giudice delegato rispetto a quelle delle Commissioni del patrocinio a spese dello Stato. Cass. 17 aprile 2015 n. 7842 In tema di patrocinio a spese dello Stato, legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di rigetto o di accoglimento solo parziale dell'istanza di liquidazione delle spese è esclusivamente il difensore, quale unico titolare del diritto al compenso nei confronti dello Stato, e non anche il patrocinato, su cui non grava alcun obbligo in ordine al pagamento del corrispettivo, giacché l'ammissione al gratuito patrocinio, escludendo la configurazione di un incarico professionale tra i due, determina l'insorgenza di un rapporto che si instaura direttamente tra il difensore e lo Stato. Cass. 27 gennaio 2015 n. 1539 Il ricorrente in cassazione ammesso al patrocinio a spese dello Stato non è tenuto, in caso di rigetto dell'impugnazione, al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. Cass. 2 settembre 2014 n. 18523 (NB. Sul punto vi è contrasto di giurisprudenza) In tema di patrocinio a spese dello Stato, la revoca del provvedimento di ammissione, ai sensi dell'art. 136 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, può essere disposta solo qualora non sussistessero in origine o siano venute meno le condizioni reddituali oppure se l'interessato ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. Pertanto, la condotta del difensore che taccia, nel corso del processo, circa l'ammissione al beneficio non ne giustifica la revoca, salvi gli eventuali effetti sul piano disciplinare o della permanenza nell'elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato. Cass. 31 luglio 2014 n. 17461 In difetto di un provvedimento espresso, ai sensi dell'art. 136 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, di revoca dell'ammissione di una parte al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, la condanna pronunciata a carico dell'altra a rifondere direttamente alla prima - e non allo Stato le spese di giudizio (senza, peraltro, alcuna distrazione in favore del suo legale) non integra una revoca implicita del beneficio, ferma restando la facoltà dello Stato di esercitare il diritto di rivalsa per il recupero delle spese, ex art. 134 del medesimo d.P.R. n. 115 del 2002. Cass. 18 giugno 2014 n. 13925 Il decreto di ammissione del fallimento al patrocinio a spese dello Stato emesso dal giudice delegato ai sensi dell'art. 144 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, implica una valutazione della legittimità del procedimento promosso dal curatore e deve considerarsi una implicita autorizzazione alla costituzione in giudizio. Cass., 9 giugno 2014 n. 12947 Nel patrocinio a spese dello Stato, il decreto di liquidazione del compenso al difensore non è revocabile, né modificabile, d'ufficio, poiché l'autorità giudiziaria che lo emette, salvi i casi 68 espressamente previsti, consuma il suo potere decisionale e non ha il potere di autotutela tipico dell'azione amministrativa. Cass., 6 giugno 2014 n. 12795 L'opposizione al decreto di pagamento delle competenze del difensore di persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato è sottratta alla regola del foro erariale, essendo fissata, in deroga, la competenza territoriale del giudice di prossimità, come risulta dall'art. 15 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, applicabile "ratione temporis", per cui il ricorso si propone al capo dell'ufficio giudiziario cui appartiene il magistrato che ha emesso il provvedimento impugnato. Cass., 5 giugno 2014 n. 12668 In tema di patrocinio a spese dello Stato, la legittimazione a ricorrere per cassazione avverso il provvedimento che abbia rigettato o solo parzialmente accolto l'opposizione del difensore avverso il decreto di liquidazione del compenso spetta esclusivamente al difensore medesimo, non anche al patrocinato, che non può considerarsi soccombente nel procedimento, né ha interesse a dolersi dell'esiguità della liquidazione. Cass., 15 maggio 2014 n. 10705 In materia di patrocinio a spese dello Stato, la preventiva pronuncia ammissiva del giudice in assenza di idonea documentazione si giustifica con la ristrettezza del termine previsto dall'art. 96, comma 1, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 per l'emanazione del provvedimento, che, a sua volta, trova fondamento nelle esigenze di immediata tutela del diritto di difesa. In tale ipotesi, deve ritenersi sussistente non solo il successivo potere del giudice di verificare chiedendo informazioni alla parte o delegando la Guardia di finanza ai sensi dell'art. 96, comma 2, del d.P.R. 115 cit. - l'assenza delle condizioni reddituali di cui agli artt. 76 e 92 (analogamente a quanto previsto dall'art. 79, comma 3), ma anche quello di revocare con effetto "ex tunc" il provvedimento originariamente concesso. Tale ipotesi va tenuta distinta sia da quella della mancata tempestiva comunicazione della variazione delle condizioni esistenti al momento della proposizione dell'istanza, di cui all'art. 79, comma 1, lett. d), del richiamato d.P.R. n. 115 del 2002, sia da quella, prevista dall'art. 112, comma 1, lett. d) del medesimo d.P.R., del successivo accertamento, da parte del magistrato competente, della insussistenza dei presupposti di ammissione, emergente da indagini o conoscenza di nuovi fatti non conoscibili al momento della presentazione dell'istanza. Cass., 19 marzo 2014 n. 6292 69