Prof. Avv. Marilisa D’Amico Ordinario di Diritto costituzionale Università degli Studi di Milano La legge sul riequilibrio di genere negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate e delle società a controllo pubblico: considerazioni alla luce dei principi costituzionali SOMMARIO 1. L’assenza delle donne dal mondo dell’impresa; 2. L’Unione europea e l’invito ad adottare politiche che promuovano una presenza di genere più equilibrata nei posti di responsabilità delle imprese; 3. Le scelte adottate in altri Paesi; 4. L’iter parlamentare di approvazione della legge n. 120 del 2011, concernente la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati; 5. Considerazioni sulla compatibilità a Costituzione della legge 1. L’assenza delle donne dal mondo dell’impresa Con la legge n. 120 del 2011, il Parlamento italiano ha introdotto una disciplina volta a favorire il riequilibrio di genere negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate e a controllo pubblico. Prima di addentrarsi nell’analisi della disciplina e dell’iter parlamentare che ha condotto alla sua approvazione, mi pare opportuno ricostruire, pur brevemente, la situazione di fatto esistente al momento in cui tale legge fu approvata e che ha motivato il legislatore ad intervenire. Tale ricostruzione assume in questo caso particolare rilievo, se si considera che la legge in esame si è proposta di dare attuazione al principio di uguaglianza sostanziale, ovvero a quel principio - sancito dall’art. 3, comma secondo, Cost. – che legittima l’adozione di azioni positive aventi l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli che “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini” impediscono il realizzarsi della parità enunciata solennemente nel primo comma della medesima disposizione costituzionale. Ebbene, al momento in cui la legge è stata approvata, le donne erano pressoché assenti dagli consigli di amministrazione delle società quotate in borsa. Più in generale, scarsa è sempre stata la presenza delle donne dal mondo dell’impresa. Di questo problema il legislatore si fece specificamente carico già nel 1992, predisponendo misure di promozione dell’imprenditoria femminile. Con la legge n. 215 del 1992 (Azioni positive per l’imprenditoria femminile) furono infatti 1 approntate misure finanziarie di favore per le imprese condotte da donne e per le società a prevalente partecipazione femminile. La Corte costituzionale fu investita del sindacato sulla conformità a Costituzione di questa legge, impugnata dalla Regione Lombardia e dalla Provincia Autonoma di Trento, per violazione del riparto di competenze. Ebbene, pur accogliendo in parte le doglianze dei ricorrenti (e stabilendo che occorreva prevedere un meccanismo di cooperazione tra Stato, Regioni e Province autonome, in modo da coinvolgere gli enti territoriali nella concreta decisione del Ministro dell’industria di concedere le agevolazioni) la Corte costituzionale dichiarò sotto gli altri profili non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate. L’importante decisione (sentenza n. 109 del 1993) fu l’occasione per chiarire la natura delle azioni positive e per confermare l’allarmante assenza delle donne dal settore dell’economia. La Corte ebbe infatti ad affermare che la misura legislativa introdotta era diretta “a colmare o, comunque, ad attenuare un evidente squilibrio a sfavore delle donne, che, a causa di discriminazioni accumulatesi nel corso della storia passata per il dominio di determinati comportamenti sociali e modelli culturali, ha portato a favorire le persone di sesso maschile nell’occupazione delle posizioni di imprenditore o di dirigente d’azienda”. Proseguendo nel proprio ragionamento, il Giudice costituzionale spiegò come le finalità perseguite dal legislatore fossero espressione del dovere di cui all’art. 3, comma 2, Cost. (principio di uguaglianza sostanziale), e descrisse le azioni positive come “il più potente strumento a disposizione del legislatore, che, nel rispetto della libertà e dell’autonomia dei singoli individui, tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate”. La disciplina in esame, proprio perché volta a salvaguardare il primario valore costituzionale della pari dignità sociale, era quindi stata legittimamente introdotta dal legislatore statale, non potendosi ammettere, in questo ambito, interventi differenziati per aree geografiche. La legge n. 215 del 1992 ha certamente contribuito a migliorare la grave situazione esistente, ma, come anticipato, la presenza delle donne nell’imprenditoria continua ad essere ancora molto bassa. Soprattutto, le donne sono assenti dagli organi decisionali delle grandi società. I dati della Consob aggiornati al 2009 dicono che a far parte dei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa sono, per il 94% dei casi, uomini. Anche a livello europeo i dati sono sconfortanti. A rivelarlo è un Report commissionato e pubblicato dalla Commissione europea – “More women in senior positions-key to economic stability and growth” (Più donne in posizioni chiave per la crescita economica), del marzo 2010. Dall’indagine svolta, risulta che le donne continuano ad essere pesantemente sottorappresentate nel processo decisionale economico. Infatti, i membri dei consigli di amministrazione delle maggiori società europee quotate in borsa sono uomini in circa l’89% dei casi. Nelle statistiche – ad esempio quelle stilate ogni due anni dalla European Professional Women Network – l’Italia si colloca peraltro nelle ultimissime posizioni, mentre la Norvegia risulta il Paese dell’Unione europea in cui più equilibrata è la presenza di genere nelle società quotate. 2 Una ricerca condotta dall’Osservatorio sul diversity management della Sda Bocconi – “The different facets of diversity in boards of directors” (Ricerca presentata il 28 settembre 2010 presso la Sda Bocconi School of Management) – svolta su un campione di 500 curricula di consiglieri di società italiane quotate, ha poi rivelato che le donne potenzialmente idonee a ricoprire questi ruoli, perché in possesso degli stessi requisiti degli attuali consiglieri, sono mediamente più giovani, presentano una minore mobilità, ma un livello di istruzione più alto. Non è, quindi, questione di merito. Se determinanti fossero i curricula, le donne valicherebbero facilmente quel soffitto di cristallo che le tiene invece ancora oggi al di fuori degli organi di vertice delle società. Ma a fare le spese di questa assenza sono anzitutto le società, che finiscono per essere guidate da gruppi omogenei. È infatti dato ormai acquisito che una molteplicità di competenze ed esperienze incrementa la qualità delle decisioni assunte. 2. L’Unione europea e l’invito ad adottare politiche che promuovano una presenza di genere più equilibrata nei posti di responsabilità delle imprese Dell’importanza di puntare sul cosiddetto fattore D sono consapevoli anche le istituzioni dell’Unione europea. Proprio alla luce dei risultati contenuti nel Report pubblicato dalla Commissione europea Più donne in posizioni chiave per la crescita economica – che evidenzia il forte squilibrio di genere esistente negli organi dirigenziali delle maggiori società – Viviane Reding, commissario per la Giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza, ha affermato che “Se l’Europa intende seriamente uscire dalla crisi e diventare un’economia competitiva grazie a una crescita intelligente e inclusiva, dovrà sfruttare meglio il talento e le capacità delle donne”. È questo il punto centrale anche della Risoluzione del Parlamento europeo del 10 febbraio 2010 sulla parità tra donne e uomini nell’Unione europea – 2009 (2009/2101(INI)). Nell’atto si dà conto della grave crisi economico - finanziaria che sta attraversando l’Unione europea e dei rischi che essa si ripercuota, principalmente, sulla posizione delle donne nel mercato del lavoro. La crisi, in realtà, ha colpito soprattutto gli uomini. Ma l’analisi deve tener conto del fatto che le donne sono meno retribuite degli uomini, che quindi costano di più alle aziende. In secondo luogo, la presenza delle donne nel mercato del lavoro è altamente settoriale. In particolare, esse costituiscono fino a due terzi del personale attivo nei settori dell’istruzione, della sanità e dell’assistenza sociale; la crisi, quindi, rischia di colpire molto pesantemente il lavoro femminile se i tagli di bilancio interessano questi ambiti. Ma quel che più colpisce, come si diceva, è che secondo il Parlamento europeo “la crisi economica, sociale e finanziaria può rappresentare un’opportunità per fare dell’Unione un’economia più produttiva e innovativa e una società che prende in maggiore considerazione la parità tra uomini e donne, purché siano adottate politiche e misure adeguate”. 3 In questo senso, deplorando il fatto che i piani di ripresa economica si concentrino principalmente sui posti di lavoro in cui prevalgono gli uomini, il Parlamento incoraggia invece gli Stati membri a “promuovere l’imprenditorialità femminile nel settore industriale”, e, più specificamente, a “promuovere una presenza più equilibrata tra donne e uomini nei posti di responsabilità delle imprese, dell’amministrazione e degli organi politici”. Quanto agli strumenti concretamente adottabili per conseguire questi risultati, significativo è che il Parlamento europeo richiami “gli effetti positivi dell’uso delle quote elettorali sulla rappresentanza delle donne”. In termini del tutto simili il Parlamento europeo si è espresso anche nella più recente Risoluzione dell’8 marzo 2011 sulla parità tra donne e uomini nell’Unione europea – 2010 (2010/2138 (INI)). Nel documento si insiste sulla necessità che gli Stati fissino obiettivi vincolanti per garantire la presenza paritaria di donne e uomini nei posti di responsabilità delle imprese. Pare, dunque, che siano le stesse istituzioni dell’Unione europea a suggerire di utilizzare, anche in ambito economico, uno strumento che ha trovato iniziale applicazione – con esiti spesso positivi – in ambito politico, nell’adozione delle discipline nazionali elettorali. 3. Le scelte adottate in altri Paesi È stata la Norvegia ad aver inaugurato il ricorso al meccanismo delle quote in campo economico. Il primo intervento normativo risale al 2003, quando è stata approvata una legge che ha fissato una soglia minima di presenza di ciascun genere – corrispondente al 40% – all’interno dei consigli di amministrazione delle società pubbliche. Nel 2006 la previsione è stata estesa anche alle società private. L’inosservanza della norma – alla quale occorreva adeguarsi entro due anni dall’entrata in vigore della stessa – comporta rigide sanzioni, al limite dello stesso scioglimento della società inadempiente. Se sono coinvolti interessi pubblici preminenti, che richiedono la ‘sopravvivenza’ della società, è invece prevista l’erogazione di pesanti sanzioni economiche. Grazie a questo intervento normativo, la presenza femminile nelle più grandi imprese norvegesi è salita dal 36% del 2006 al 42% del 2009. La scelta adottata in Norvegia è stata molto apprezzata anche dal Parlamento europeo, che nella già citata Risoluzione sulla parità tra donne e uomini del 2009 ha invitato “la Commissione e gli Stati membri a considerare l’iniziativa norvegese come un esempio positivo e a progredire nella stessa direzione”. Anche in Spagna, nel 2007, le società pubbliche quotate di grandi dimensioni (con almeno più di 250 dipendenti) sono state invitate a sviluppare piani di promozione delle pari opportunità, e a prevedere, entro il 2015, una partecipazione minima – pari ad almeno il 40% – di ciascun sesso nei consigli di amministrazione. In questo caso non sono però previste sanzioni, ma solo incentivi, che sembrano aver prodotto qualche discreto risultato. Negli ultimi anni si riscontrano infatti segnali di progresso nella rappresentazione delle donne nei consigli di 4 amministrazione delle più grandi società (che passa dal 5% del 2006 al 10% del 2009). Anche in Francia è stata di recente approvata una legge (Représentation équilibrée des femmes et des hommes au sein des conseils d’administration et de surveillance et à l’égalité professionnelle – Loi 2011/103 del 27 gennaio 2011) che prevede che entro 6 anni le donne dovranno ricoprire almeno il 40% dei posti nei consigli di amministrazione delle società sia pubbliche sia private. Alternativa alla previsione normativa di quote – che a sua volta può presentarsi sotto la diversa veste di obbligo assistito da sanzione o di invito accompagnato da incentivi – è la possibilità di adottare codici di corporate governance. Si tratta di codici di autoregolamentazione, in cui, come accaduto in alcuni Paesi quali ad esempio la Finlandia e la Gran Bretagna, sono state inserite previsioni volte a favorire l’ingresso di più donne nei consigli di amministrazione delle società quotate. 4. L’iter parlamentare di approvazione della legge n. 120 del 2011, concernente la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati. Anche in Italia si è in un primo momento tentato di introdurre, a livello di autoregolamentazione, un incentivo ad incrementare il numero delle donne nei consigli di amministrazione delle società quotate. Ma il tentativo di inserire una simile previsione in occasione della riforma del Codice di autodisciplina delle società quotate nella Borsa italiana è fallito. Anche per questo, quindi, si è deciso di puntare sull’introduzione di un vincolo a livello legislativo. Nel 2009 sono stati presentati alla Camera dei deputati e al Senato tre progetti di legge dal contenuto molto simile. Obiettivo di questi progetti (C. 2426, presentato nel maggio 2009 a firma dell’on. Golfo, e C. 2956, presentato a novembre 2009 a firma dell’on. Mosca; S. 1719, presentato dalla senatrice Germontani), era di modificare il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria di cui al d.lgs. n. 58 del 1998, introducendo previsioni volte a favorire la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate nei mercati regolamentati. Il primo dato significativo è che i richiamati progetti di legge provenivano dall’iniziativa di diverse forze politiche. Ciò dimostra come l’assenza delle donne dagli organi decisionali dell’economia sia un dato oggettivo, preoccupante indipendentemente dal punto di vista politico che si adotta nell’approccio alla tematica. Come si evince dalle relazioni illustrative che hanno accompagnato le proposte, il fine perseguito era quello di intervenire per risollevare una condizione di sottorappresentanza femminile negli organi delle società quotate in borsa talmente grave da porre l’Italia nelle ultime posizioni delle statistiche europee. Il punto di vista da cui si sono prese le mosse, poi, non è solo che questa condizione fosse penalizzante per le donne, ma che in questo modo si riducesse l’ambito di risorse e di talento a cui il Paese poteva attingere per il proprio sviluppo. 5 Le proposte di legge, in altre parole, nascevano dalla “convinzione che il sostegno alla partecipazione della donne al lavoro e alla carriera sia un presupposto e uno strumento essenziale per la crescita e per la competitività del nostro sistema produttivo” (C. 2956) e che il fattore D costituisca un “valore aggiunto apportato dalle donne nella gestione d’impresa”, che esplica “i suoi effetti anche sul piano dei profitti d’impresa” (C. 2426). Nella stessa direzione andava anche la relazione illustrativa al disegno di legge presentato al Senato, che ricordava come una ricerca della società Cerved sulle donne manager rivelasse che le imprese guidate dalle donne conseguono migliori risultati rispetto alle altre, accrescono più velocemente i ricavi, generano più profitti, e sono meno rischiose. In effetti, come già evidenziato, il riequilibrio di genere negli organi decisionali delle società è obiettivo che, nei più recenti studi, viene ricollegato non solo alla necessità di garantire alle donne parità di accesso nella gestione d’impresa, quanto alla constatazione che collegi composti in modo equilibrato tra donne e uomini siano in grado di conseguire risultati migliori, perché frutto di decisioni assunte sulla base di un confronto tra sensibilità, esperienze, attitudini e punti di vista differenti. Ripercorrendo l’iter parlamentare attraversato dai richiamati progetti di legge, si può ricordare come le due proposte presentate alla Camera, e sottoposte all’esame della Commissione Finanze in sede deliberante, sono poi confluite in un testo unificato adottato dalla Commissione stessa, e approvato il 2 dicembre 2010. In questa prima versione, approvata dalla Camera e poi trasmessa al Senato, si richiedeva che “il riparto degli amministratori da eleggere [fosse] effettuato in base a un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi”. Il disegno di legge stabiliva esso stesso a quali condizioni tale criterio potesse dirsi soddisfatto. Infatti vi si precisava che “Il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo degli amministratori eletti”. Il riparto si applica per tre mandati consecutivi e la violazione di tali prescrizioni comportava la decadenza dalla carica dei componenti eletti. Le previsioni riguardano anche la composizione dei collegi sindacali e sono altresì estese alle società controllate da pubbliche amministrazioni non quotate nei mercati regolamentati. Ora, sebbene la proposta di legge avesse ricevuto l’appoggio delle maggiori forze politiche, in Senato il cammino del progetto ha dovuto subire un rallentamento, ed è stato oggetto di modifiche. I correttivi più significativi sono stati quelli proposti dal Governo, che, in primo luogo, aveva proposto la sostituzione della sanzione della decadenza con la previsione di sanzioni di natura meramente pecuniaria, da comminare alle società inadempienti al termine di un procedimento di competenza della Consob. Con un altro emendamento il Governo aveva poi proposto di graduare l’obiettivo del riequilibrio di genere, scandendo le fasi temporali attraverso cui realizzarlo. Più precisamente, si richiedeva di riservare al genere meno rappresentato, nel primo mandato, un decimo dei posti, nel secondo mandato, un quinto dei posti, e solo nel terzo, un terzo dei posti. Inoltre, si proponeva di posticipare l’applicazione della legge ad un anno (e non quindi a sei mesi) dalla data della sua entrata in vigore. Le modifiche governative sono state fortemente criticate in Commissione. Un dato da sottolineare positivamente, tuttavia, è che le difficoltà incontrate non hanno 6 ostacolato la volontà politica di approvare un testo normativo condiviso, se non negli specifici contenuti, certamente negli obiettivi. Dopo un primo momento di stallo, dunque, i gruppi parlamentari sono riusciti a trovare un punto di mediazione tra la posizione espressa dal Governo con i propri emendamenti e quella dei senatori (molti dei quali anche appartenenti alla maggioranza) che ritenevano indispensabile non posticipare eccessivamente l’entrata a regime della legge e mantenere nel testo la previsione di sanzioni davvero dissuasive. Nella versione definitiva della legge, quindi, è stata reintrodotta la sanzione della decadenza, che deve però essere preceduta da due successive diffide della Consob nei confronti della società inadempiente. La prima diffida deve contenere un termine ad adempiere di quattro mesi (scaduto vanamente il quale verrà comminata una sanzione pecuniaria), la seconda di tre mesi. In caso di persistente inottemperanza è previsto che i componenti eletti decadano dalla carica. Lo statuto dovrà inoltre disciplinare le modalità di formazione delle liste e i casi di sostituzione di amministratori in corso di mandato, al fine di garantire, anche in tale ipotesi, il rispetto del riparto di genere richiesto. La Consob, inoltre, per esercitare i propri poteri in ordine alla violazione, all’applicazione ed al rispetto delle disposizioni in materia, è stata impegnata ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, un apposito regolamento. Quanto ai tempi per la realizzazione degli obiettivi previsti dalla legge, accolta la proposta del governo di posticipare l’applicazione della legge ad un anno dalla sua entrata in vigore, con un altro subemendamento è stata però proposta (ed ottenuta) una scansione dei tempi differente. Si indica, infatti, in un quinto la quota richiesta per il primo mandato e si stabilisce che già dal secondo le società dovranno conformare i cda e i collegi sindacali in modo tale che almeno un terzo dei posti sia occupato dal sesso sottorappresentato. Merita di essere ricordato che proprio sulla scansione temporale dei passaggi attuativi dell’obiettivo del riequilibrio di genere si sono però registrati i maggiori contrasti. Il Governo, proprio il giorno dell’8 marzo, quando era prevista la votazione, ha espresso parere negativo su quest’ultimo subemendamento. La votazione è stata pertanto rinviata, con l’intento di evitare la formalizzazione di una contrapposizione tra Governo e Commissione che avrebbe reso ancora più difficile l’approvazione del disegno di legge. Forse anche a seguito di questo segnale di disponibilità, il giorno successivo il Governo ha mutato orientamento, esprimendo parere favorevole. Ne è seguita l’approvazione in Commissione del progetto di legge nella versione risultante dal subemendamento richiamato. Il progetto di legge, approvato dal Senato il 10 marzo, è tornato alla Camera, dove ha ricevuto la definitiva approvazione. 5. Considerazioni sulla compatibilità a Costituzione della legge La disciplina introdotta con la legge n. 120 del 2011, fin dal momento in cui è stata sottoposta all’esame del Parlamento, è stata da taluni accolta criticamente, in quanto 7 ritenuta lesiva del diritto di iniziativa economica privata e dello stesso principio di uguaglianza. In particolare, in questi termini si era espresso l’allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giovanardi (Quote rosa? Scivolano sulla Carta, Il Sole 24 Ore, 8/12/2010). Ora, sulla questione attinente al rapporto tra la disciplina in esame la Costituzione, nonché ai principi enunciati dalla Corte costituzionale nella propria giurisprudenza formatasi in materia di sistemi di quote, ho avuto già modo di esprimermi durante un’audizione tenuta innanzi alla Commissione Finanze della Camera dei deputati proprio nel corso del procedimento di approvazione della legge n. 120. Riprendo qui il parere espresso in quella sede. Sotto il profilo del rapporto con il diritto di iniziativa economica, anzitutto, rilevo che la circostanza che sia stato proprio il Parlamento europeo, sebbene in un atto non vincolante, a suggerire di seguire l’esempio norvegese, porta utili argomenti a favore della tesi secondo cui questo tipo di misure non inciderebbero indebitamente sulla libertà di iniziativa economica, in quanto finalizzate al raggiungimento di un maggiore equilibrio sociale e, in ultima analisi, della realizzazione del principio comunitario dell’effettiva parità tra donne e uomini in ambito lavorativo. Si consideri, poi, che l’art. 41 Cost., nel garantire la libertà di iniziativa economica, aggiunge anche che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Questo aspetto è stato sottolineato anche dalla Commissione Affari costituzionali che, nell’iter di approvazione del progetto di legge alla Camera, ha espresso – con alcune osservazioni poi recepite nel testo – parere favorevole. Inoltre, a voler essere formalisti, in ogni caso l’art. 41 Cost. dovrebbe cedere rispetto all’art. 3, comma 2, Cost., ovvero a uno dei principi supremi previsti dalla nostra Costituzione. Quanto alla compatibilità di tali previsioni proprio all’art. 3 Cost., nonché all’art. 51 Cost., estensivamente interpretato (in quanto norma riguardante l’accesso alle cariche elettive e agli uffici pubblici), va osservato, anzitutto, che la legge n. 120 è evidentemente finalizzata, come detto, a dare attuazione al principio di uguaglianza sostanziale, sancito dal comma 2 della citata disposizione costituzionale. La norma, come detto, impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che, limitando l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione della stessa all’organizzazione politica, economica e sociale. Va detto, però, che non ogni previsione normativa che si ponga l’obiettivo di realizzare l’uguaglianza ai sensi dell’art. 3, comma 2, Cost., è, per questa sola circostanza, legittima. Occorre, infatti, confrontarsi con la giurisprudenza della Corte costituzionale, che nelle proprie pronunce ha individuato i limiti che le “azioni positive” incontrano nel nostro ordinamento. In questo senso, è utile ripercorrere la giurisprudenza della Corte sulla conformità a Costituzione sia delle norme finalizzate ad attribuire un vantaggio specifico alle donne quali soggetti appartenenti ad una categoria debole, sia di quelle che, formulate in termini neutri, sono volte a garantire parità di chances tra a donne e uomini nella competizione elettorale. Assume particolare rilievo, in questa ricostruzione, anzitutto la già citata sentenza n. 109 del 1993, nella quale, lo si ricorda, la Corte ha affermato – proprio con riferimento a misure introdotte in materia economica – che le azioni positive “sono 8 il più potente strumento a disposizione del legislatore, che, nel rispetto della libertà e dell’autonomia dei singoli individui, tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate”. In questa pronuncia, dunque, la Corte costituzionale mostra di giudicare con favore le misure normative che, “proprio perché presuppongono l’esistenza storica di discriminazioni attinenti al ruolo sociale di determinate categorie di persone e proprio perché sono dirette a superare discriminazioni afferenti a condizioni personali (sesso) in ragione della garanzia effettiva del valore costituzionale primario della ‘pari dignità sociale’, introducono vantaggi specifici a favore della categoria svantaggiata”. Vista la forte analogia tra lo strumento oggi introdotto (il sistema delle quote) e quello sovente utilizzato in materia elettorale, pare poi utile un riferimento anche alla giurisprudenza costituzionale in tale settore. Con la sentenza n. 422 del 1995, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime tutte le misure normative intese a favorire la rappresentanza politica femminile, affermando che qualsiasi disposizione tendente ad introdurre riferimenti “al sesso” dei rappresentanti, anche se formulata in modo neutro, si porrebbe in contrasto con tale principio. Nella successiva sentenza n. 49 del 2003, però, la Corte ha cambiato orientamento, e ha dato rilievo, tra l’altro, alla circostanza che la misura prevista dal legislatore regionale fosse formulata in termini neutri (“ambo i sessi”). Primo elemento di cui tenere conto nel valutare la conformità a Costituzione della misura che si intende oggi approvare è proprio la scelta di formulare la misura introdotta senza esplicitare che essa è rivolta ad uno dei due generi. Si tratta di una scelta indubbiamente apprezzabile, posto che, in questo modo, la disposizione evita di tradursi in una esplicita misura di favore nei confronti di una particolare categoria di soggetti. Già questo aspetto, forse, potrebbe indurre la Corte costituzionale ad esprimersi in termini favorevoli nell’ambito di un eventuale giudizio di legittimità costituzionale. Ciò premesso, occorre segnalare però che le misure introdotte dalla legge n. 120 presentano una differenza rispetto a quelle sinora richiamate. Infatti, esse non introducono una riserva di posti nell’ambito delle liste di candidati al consiglio di amministrazione (o del collegio sindacale) – similmente a quanto previsto nelle leggi elettorali sopra menzionate – ma stabiliscono direttamente un riparto di posti negli organi. Infatti, l’equilibrio di genere è raggiunto solo se il genere meno rappresentato all’interno dell’organo ottenga almeno un terzo degli amministratori eletti (o dei sindaci eletti). Dunque, le norme, sebbene formulate in modo neutro, e quindi non esplicitamente rivolte a favorire le donne, potrebbero ritenersi tese ad attribuire direttamente un risultato. Al sesso sottorappresentato, lo si ribadisce, non si vede riservata una percentuale di posti in lista, ma una percentuale di posti negli organi elettivi. Ciò potrebbe porsi in difficile equilibrio con quella giurisprudenza costituzionale che esclude l’ammissibilità di norme che “non si propongono di ‘rimuovere’ gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi” (sentenza n. 422 del 1995). Va considerato, innanzitutto, che i limiti che la Corte pone alle azioni positive riguardano la materia elettorale e la possibilità che l’attribuzione del risultato sia 9 strumento coercitivo della volontà dell’elettore (così, in particolare, Corte costituzionale, sentenza n. 4 del 2010). Inoltre, e soprattutto, occorre ragionare sulla circostanza che misure come quelle oggi in esame si propongono di rimediare a situazioni di discriminazione storicamente perpetrate. In ciò si rivelano simili alle affirmative actions statunitensi. La Corte suprema, chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità di provvedimenti attraverso cui, nell’accesso al lavoro e all’istruzione universitaria, veniva riservata una quota di posti ai soggetti facenti parte di categorie discriminate, ha chiarito quali siano i requisiti che rendono legittime tali misure. Le affirmative actions devono, anzitutto, avere natura temporanea. Per evitare che si trasformino a loro volta in misure discriminatorie esse possono operare, dunque, per il solo tempo necessario a raggiungere l’obiettivo per il quale sono state previste. Ora, come già detto, le misure previste nel progetto approvato della Camera sono formulate in termini neutri. Astrattamente, quindi, potrebbero avere permanente efficacia nell’ordinamento. Non favorendo esplicitamente taluni soggetti, esse troverebbero applicazione anche qualora (ipotesi per vero irrealistica …) fosse quello maschile il sesso sottorappresentato da tutelare. Proprio perché volte a garantire una certa percentuale di posti negli organi decisionali delle società, tuttavia, si rivela decisiva – e va valutata pertanto positivamente – la scelta di aver inserito nel testo unificato all’esame della Commissione Finanze (come proposto nel progetto di legge C. 2956) una clausola di delimitazione temporale delle misure introdotte. Con questo accorgimento, in caso di contestazione sulla loro legittimità costituzionale, la Corte dovrebbe quindi valutare come legittime le disposizioni introdotte, che, peraltro, come già visto, si muovono nella direzione indicata (pur se non imposta) dagli stessi organi dell’Unione europea. In definitiva, dunque, e in attesa di verificare, a breve, i concreti effetti della legge, deve ribadirsi l’assoluta con divisibilità dell’intervento approntato dal legislatore, in quanto finalizzato a garantire non già solo al sesso sottorappresentato parità di accesso ai vertici delle società, quanto, soprattutto, un riequilibrio di genere utile alla stessa funzionalità di tali organi, messi in grado di adottare decisioni ‘migliori’, alle quali tutti, non solo le donne, dovrebbero avere interesse. 10