Buone prassi: una ricerca comparata tra la Provincia di Bologna e la

Buone prassi: una ricerca comparata tra la
Provincia di Bologna e la regione dell’Oxfordshire.
Simonetta Manfredi
Oxford Brookes University
Introduzione
Questa relazione presenta alcuni dei risultati emresi da una ricerca sull’ uso della
flessibilità all’ interno delle aziende per favorire la conciliazione tra gli impegni
familiari e quelli del lavoro retribuito. La rilevazione è stata condotta su un un
campione di imprese ed enti pubblici della Provincia di Bologna ed un campione di
imprese ed enti pubblici situati nella regione dell’ Oxfordshire. Queste due aree
geografiche hanno in comune un alto tasso di occupazione femminile, superiore alla
media nazionale. Secondo le fonti ISTAT (1999) nella Provincia di Bologna il tasso
delle occupate è di 43,7% contro una media nazionale del 29,4%, mentre nell’
Oxfordshire il tasso di occupazione femminile è del 51,82% contro una media
nazionale del 49,23% (Donne e Uomini nel Regno Unito, 2000). Si può supporre che
un’ alta percentuale di parteciapzione femminile nel mercato del lavoro e alle attività
produttive, che caratterizza queste due economie, abbia portato le imprese a prestare
una maggiore attenzione al problema della conciliazione tra il lavoro di cura e quello
retribuito. Di conseguenza si auspica che questa rilevazione comparata possa offrire
degli spunti sull’ uso di una ‘flessibilità positiva’ nell’ organizzazione del lavoro, che
consenta di trovare un punto di incontro tra le esigenze produttive delle imprese e
quelle dei lavoratori.
Obiettivi e metodologia della ricerca.
I principali obiettivi di questa ricerca sono:
lo svolgimento di una indagine comparata tra un campione di imprese situate nella
Provincia di Bologna e un campione di imprese situate nell’ Oxfordshire, al fine di
identificare esempi di ‘buone prassi’ nell’ uso della flessibilità a sostegno della
conciliazione della vita familiare con quella professionale;
la compilazione di una serie di casi studio basati su interviste semi-strutturate
condotte con I responsabili del personale e/o della gestione delle risorse umane nelle
imprese ed organizzazioni selezionate;
la rilevazione delle esperienze di un campione di dipendenti uomini e donne, in tema
di conciliazione tra famiglia e lavoro retribuito e uso della flessibilità, attraverso una
serie di focus groups e l’analisi delle risposte fornite ad un questionario.
Hanno partecipato a questa ricerca 24 aziende (11 nell’ Oxfordshire e 13 nella
Provincia di Bologna). Sono stati intervistati 30 dirigenti, 16 in Italia e 12 nel Regno
Unito. La partecipazione dei dipendenti ai focus groups è stata volontaria e facilitata
dalle organizzazioni che hanno aderito a questa indagine. Lo scopo di questi gruppi di
discussione è stato quello di invitare i dipendenti a parlare delle loro esperienze
sull’uso della flessibilità e sulla conciliazione dei loro tempi di vita con il lavoro
retribuito.
I risultati complessivi di questa indagine e i case studies, verranno presentati in una
relazione finale che verrà completata alla fine del progetto europeo in cui si inserisce
questa ricerca. In questa relazione verranno esposti e commentati criticamente alcuni
dei dati qualitativi, raccolti attraverso la rilevazione compiuta sul campione di
organizzazioni dell’ Oxfordshire e della Provincia di Bologna, in una prospettiva di
confronto tra le due realtà economiche selezionate.
L’ uso del part-time: un’ opzione amichevole per la famiglia ma...non per le
donne?
Nel complesso tutte le organizzazioni che hanno partecipato a questa ricerca, si sono
dichiarate disponibili verso le richieste dei dipendenti, in genere provenienti da madri
lavoratrici, di convertire il lavoro a tempo pieno in part-time, per far fronte ad
esigenze familiari.
La maggior parte dei lavoratori nell’Oxfordshire che hanno partecipato ai focus
groups e che hanno scelto di lavorare part-time pr motivi familiari, in prevalenza
donne, ad eccezione di tre uomini, hanno dichiarato di non aver incontrato difficoltà
nel trasformare il loro rapprorto di lavoro dal tempo pieno al part-time. Diversa
invece si è rivelata l’ esperienza di un gruppo di lavoratrici impiegate presso una casa
editrice, dove le opportunità di lavorare part-time sono in generale limitate ad un
periodo di tre mesi per le donne che rientrano dalla maternità. Il capo del personale di
questa organizzazione ha ammesso che l’ uso del part-time è limitato all’ interno dell’
impresa poichè si ritiene che non si concilia facilmente con le esigenze operative dell’
azienda.
Anche nella Provincia di Bologna le lavoratrici che hanno scelto di lavorare parttime, hanno dichiarato, nell’ ambito dei focus groups che si sono svolti sia nel settore
privato che in quello pubblico, di non aver avuto problemi nel cambiare dal tempo
pieno al part-time. Solo tre lavoratrici madri impiegate presso un’ organizzazione
pubblica hanno riportato di avere avuto notevoli difficoltà nel convincere il loro capo
settore a concendergli di lavorare part-time. Una di loro, in seguito al rifiuto opposto
alla sua richiesta di riduzione dell’orario di lavoro, è ricorsa all’ utilizzo del congedo
parentale per ridurre la sua attività a tre giornate lavorative alla settimana.
A tutti i dirigenti delle organizzazioni che hanno preso parte in questa ricerca, è stato
chiesto se ritenevano che il lavorare part-time potesse pregiudicare in qualche modo
le prospettive di carriera dei lavoratori o delle lavoratrici che utilizzano questa
modalità di lavoro.
La maggior parte dei dirigenti intervistati nelle imprese private e in due
organizzazioni pubbliche della Provincia di Bologna, sono dell’ opinione che il
lavoro part-time possa creare delle difficoltà all’azienda dal punto di vista operativo,
e che inoltre possa avere un effetto negativo sulle opportunità di crescita
professionale del dipendente che abbia scelto questa modalità e di conseguenza sulla
sua progressione di carriera. Le seguenti citazioni, estratte rispettivamente da una
intervista con una donna dirigente di un’ organizzazione del settore pubblico e con un
uomo dirigente di un’ impresa del settore privato, riassumo le opinioni, nel
complesso poco favorevoli, espresse dalla maggior parte della dirigenza, a proposito
del lavoro part-time:
“ Nel settore pubblico c’è una legislazione che richiede l’utilizzo del part-time per
aumentare
l’occupazione.
Il
part-time
però
può
creare
disfunzioni
per
l’organizzazione, senza contare che in proporzione è più costoso: per esempio un
part-time a 18 ore in realtà costa come 20 ore, inoltre è troppo rigido. Nella maggior
parte dei casi sono le donne che lavorano part-time. non c’è dubbio che il lavoro parttime abbia ripercussioni negative sulla progressione di carriera.”
“ C’è quasi un’ impossibilità assoluta di dare delle responsabilità a chi lavora parttime”.
I costi e la legislazione sul part-time, che a giudizio della maggior parte dei dirigenti
intervistati, presenta una eccessiva rigidità, fanno del part-time una modalità di lavoro
che può creare delle difficoltà di carattere organizzativo all’ interno dell’ azienda. Un
ulteriore problema riguardo al part-time è creato dal fatto che nella maggior parte dei
casi , viene richiesto con le stesse modalità, ovvero sia in orizzontale, e nelle stesse
fascie orarie, che comprendono la mattina e al massimo le prime ore del pomeriggio.
Tale modalità è la più richiesta dalle madri lavoratrici poichè ben si concilia con gli
orari delle scuole e degli asili, ma dal punto di vista dei datori di lavoro può creare
dei problemi riducendo l’ organico disponibile a lavorare nelle ore pomeridiane.
Le lavoratrici che hanno partecipato ai focus groups svoltesi nell’ area della Provincia
di Bologna e che hanno scelto di lavorare part-time per ragioni familiari, sono dell’
opinione che il lavorare part-time per un periodo di tempo superiore ad un anno,
possa seriamente danneggiare le prospettive di carriera. Una lavoratrice che è stata
capo del personale in un’ azienda manifatturiera per un periodo di tre anni, ha
spiegato che in seguito alla sua decisione di lavorare part-time, motivata dalla
necessità di occuparsi della cura dei figli, rispettivamente di tre e sei anni, ha dovuto
dimettersi dalla sua posizione di dirigente, poichè non era più in grado di lavorare a
tempo pieno. In seguito alle sue dimissioni è stata riassunta dalla stessa azienda in
qualità di impiegata nel settore del personale con un contratto part-time di 30 ore
settimanali. Ha commentato la sua esperienza nel modo seguente:
“ Quando ho parlato della mia scelta con i colleghi maschi, quest’ultimi l’hanno
considerata come una rinuncia alla carriera. La possibilità di fare un asosta nella
carriera non è contemplata. Attualmente il part-time all’interno dell’azienda non offre
opportunità di carriera. Il job-sharing non è utilizzato e ci sarebbe un problema
culturale ad introdurlo poiché nell’azienda, così come molte altre in Italia, la carriera
è fondata sulla presenza, sull’aver deciso di dare la maggioranza del proprio tempo o
quanto meno la disponibilità del proprio tempo all’azienda. In generale in Italia i
codici di comportamento negli ambienti di lavoro sono maschili, fondati sulla
presenza (degli uomini) determinata dall’organizzazione della famiglia che è ancora
affidata alle donne”.
Le organizzazioni che hanno preso parte a questa ricerca nella zona dell’ Oxfordshire,
sembrano, invece, avere una visione più positiva del lavoro part-time. Ciò è
probabilmente influenzato dal fatto che un’ alta percentuale di donne in Gran
Bretagna lavora part-time, ed in particolare quelle con figli in età scolare, poichè a
causa della generale carenza a livello nazionale di servizi per la cura dei bambini, il
part-time è l’ unico modo che gli consente di conciliare lo svolgimento di un lavoro
retribuito con il lavoro di cura.
In quei settori del lavoro con un’ alta percentuale di personale femminile, il lavoro
par-time tende ad essere la norma, anzichè quello a tempo pieno. Questo è il caso per
esempio dell’ Oxford County Council (un ente locale, paragonabile alla regione) che
ha circa 13,000 donne dipendenti in tutta la regione, di cui il 70% lavora part-time. Il
capo del personale di questa organizzazione, che è responsabile per le politiche di
gestione delle risorse umane dell’ ente, ha dichirato che il lavoro part-time all’
interno dell’ organizzazione rappresenta la norma e che, dato l’ elevato numero di
dipendenti donne, l’ uso della flessibilià per conciliare gli impegni di lavoro con
quelli familiari è ormai diventata parte della cultura dell’ organizzazione del lavoro
dell’ ente. A giudizio di questa donna dirigente il fatto di avere una così alta
percntuale di lavoratori part-time, sta mettendo in discussione l’ utilità di continuare a
distinguere tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori part-time. L’ ente sta cercando di
promuovere una diversa cultura del lavoro che ponga l’ accento sui risultati
conseguiti, piuttosto che sulle ore lavorate e per questo motivo intende modificare la
concezione, che ancora persiste, che “ un vero lavoro è solo di 37 ore, a tempo
pieno”. Inoltre in un settore in cui l’ orario di offerta dei servizi al pubblico si va
allungando e in alcuni casi aumenta la domanda di servizi che siano disponibili 24
ore su 24, “ un lavoro tradizionale dalle 9 alle 17, non ha più senso”. Più aumenta il
numero di servizi offerto 24 ore su 24 e più la nozione di lavoro a tempo pieno, così
come è formulata attualmente, viene messa in discussione. Inoltre in un ciclo
lavorativo di 24 ore anche la logica secondo la quale il lavoro di un dirigente possa
solamente essere fatto a tempo pieno, viene ad essere messa in discussione. Nell’ ente
ci sono già un certo numero di casi di donne dirigenti che lavorano dalle 30 alle 32
ore settimanali. La stessa intervistata per ragioni familiari, ha ridotto, per un certo
periodo di tempo, il suo orario di lavoro a 32 ore e mezzo alla settimana. L’
intervistata ritiene che il suo carico di lavoro ed in particolare il suo contributo come
lavoratrice all’ andamento dell’ ente non siano stati poco modificati dalla riduzione
dell’ orario di lavoro, che però le ha consentito di acquistarsi il diritto di “andare a
casa in tempo”, poichè in genere ci si aspetta dai dirigenti che siano disponibili a
lavorare oltre il normale oario di lavoro. A giudizio dell’ intervistata il lavoro parttime può avere un effetto negativo sulla progressione di carriera quando è al di sotto
delle 25 ore settimanali.
Questa organizzazione ha dichiarato di essersi impegnata a far si che I lavoratori parttime non vengano trattati come una categoria distinta rispetto a quelli a tempo pieno
ed in particolare che il loro contributo non venga considerato di minor valore rispetto
a quello dei colleghi che lavorano a tempo pieno.
L’ ente sta cercando di incoraggiare la diffusione di una cultura dell’ organizzazione
del lavoro che permetta ai dipendenti di modificare i propri orari e modalità di lavoro,
nell’ arco della loro vita lavorativa, a seconda delle diverse esigenze che si
prensentano nei vari cicli di vita, a condizione che il lavoro venga svolto con
efficienza. Secondo l’ opinione dell’ intervistata
“ I migliori fattori motivanti per idipendi sono l’ aver controllo sul proprio lavoro e su
come organizzarlo”.
Per quanto riguarda l’ uso del part-time un’altra differenza, tra il campione di imprese
della Provincia di Bologna e quello della regione dell’ Oxfordshire, riguarda l’
utilizzo del job sharing. Non sono stati rilevati esempi di job sharing nelle
organizzazioni prese in considerazione nella Provincia di Bologna. Ai dirigenti di
queste organizzazioni è stato chiesto di commentare sull’ uso del job sharing in via
ipotetica. Tutti gli intervistati hanno espresso dubbi sulla fattibilità di questa modalità
di lavoro ed in particolare sulla difficoltà di trovare due dipendenti adatti. Alcuni
ritengono che l’ attuale cultura dell’ organizzazione del lavoro non sia ancora pronta
ad accogliere l’idea del job-sharing. In ogni caso la maggior parte degli intervistati
pensa che questa modalità di lavoro non possa considerarsi, nemmeno in via di
ipotesi, come una forma di part-time che possa applicarsi ai lavori a livello
dirigenziale. Tuttavia alcuni dirigenti hanno ammesso che si trovano a condividere
una serie di responsabilità con altri colleghi e che di fatto tale situazione potrebbe
essere considerata come una sorta di job-sharing.
Anche la maggior parte dei dipendenti intervistati nei focus groups hanno espresso
dei dubbi sul job sharing ed in partcolare sulla possibilità di trovare persone che
abbiano uno stile professionale abbastanza simile da poter lavorare in uno stretto
rapporto di collaborazione.
La maggior parte delle organizzazioni nella regione dell’ Oxfordshire, invece, hanno
dichiarato di avere dei regolamenti formali che prevedono il job-sharing e che
consentono, almeno in teoria, di svolgere qualunque lavoro con questa modalità, a
meno che esigenze operative dell’organizzazione lo escludano.
Alcune organizzazioni sia nel settore pubblico che in quello privato, con un’ alta
percentuale di donne lavoratrici, hanno approntato un apposito registro per il job
sharing. I dipendenti che sono interessati a questa modalità di lavoro possono
registrare il loro nome e in questo modo si cerca di facilitare all’ interno dell’
organizzazione la ricerca ‘dell’ altra metà’. E’stato comunque fatto presente da queste
organizzazioni che il numero di dipendenti che fa il job-sharing è limitato, visto le
difficoltà che dal punto di vista organizzativo questa modalità di lavoro può
presentare, poichè non è facile trovare due persone adatte e disponibili a condividere
lo stesso lavoro o, in caso di dimissioni di uno dei due lavoratori, una sostituzione
adeguata.
Tra i dipendenti intervistati nell’ Oxfordshire, tre fanno il job sharing: due uomini che
condividono un lavoro di quadro nel settore pubblico e dirigono un team composto da
12 persone e una donna che lavora in una impresa di servizi nel settore privato. Nel
caso di questi tre dipendenti la decisione di fare il job-sharing, e quindi di lavorare
part-time è stata motivata da ragioni familiari, ed in particolare dalla necessità di
occuparsi di figli piccoli. I due lavoratori nel descrivere la loro esperienza di jobsharing,
hanno ammesso di aver incontrato pregiudizi da parte di colleghi che
pensano che “un lavoro di responsabilità non si possa fare part-time”. Gli intervistati,
invece, ritengono di dare molto all’ organizzazione per cui lavorano “ poichè
portiamo più esperienza nel lavoro, siamo molto efficienti nell’ organizzare il nostro
tempo perchè è più limitato rispetto a quello di un lavoratore a tempo pieno”.
Questi lavoratori che fanno il job-sharing lavorano due giorni e mezzo alla settimana
e sia nella loro opinione che in quella del loro datore di lavoro, il job sharing funziona
bene. Il capo del personale di un’ impresa di servizi privata dove ci sono dei
lavoratori cha fanno il job sharing, ha dichiarato che nella sua esperienza il job
sharing comporta dei costi moderatamente più alti rispetto ad un lavoro a tempo
pieno, in quanto è necessario per esempio moltiplicare per due i costi di formazione e
di valutazione del personle, ma che nel complesso i costi addizionali sono compensati
da un più alto rendimento di chi utilizza questa modalità. Inoltre l’ azienda è dell’
idea che l’ offerta di modalità di lavoro flessibile e ‘amichevoli per la famiglia’,
rappresenti una strategia valida per assumere nuovo personale e per non perdere
quello esistente, soprattutto in un mercato del lavoro altamente competitivo, come
quello della regione dell’ Oxfordshire, dove l’ offerta di lavoro scarseggia.
Le ore di lavoro
La settimana lavorativa
Per le organizzazioni comprese nel campione del Regno Unito, il lavoro è di 5 giorni
la settimana, normalmente da lunedì a venerdì, ed è considerata la tipica settimana
lavorativa che corrisponde al campione nazionale (vedi Hogarth et. Al. 2000). Ogni
volta che la tipologia del lavoro lo richieda il sabato e la domenica sono coperti da
turni di lavoro.
Nel campione studiato sia in Italia che nel Regno Unito, l’estensione dell’apertura la
domenica si è realizzata principalmente nel settore della distribuzione e in alcuni
servizi pubblici. In particolare nel Regno Unito vi è la tendenza verso un numero
crescente di servizi pubblici che estendono l’orario di apertura. Per esempio le
biblioteche pubbliche sono ora aperte fino alle 9 di sera in certi giorni della settimana.
Nel campione del Regno Unito non si è trovato nessuno con contratto di lavoro di sei
giorni alla settimana. Invece, nel campione italiano il lavoro su sei giorni alla
settimana è la norma nel settore privato del commercio al dettaglio. Un tentativo fu
fatto di organizzare il lavoro su 5 giorni, in un grande magazzino di un’azienda
studiata, ma poi fu successivamente abbandonato poiché i dirigenti lo trovarono
operativamente non funzionale.
Nel settore dell’alimentazione la maggioranza dei lavoratori a tempo pieno lavora 6
giorni alla settimana, con l’eccezione di alcune zone quale il servizio pasti alle scuole
e alle ditte dove i dipendenti lavorano 5 giorni alla settimana. In alcuni casi anche i
dipendenti del settore pubblico lavorano 6 giorni alla settimana.
Questi dati sono coerenti con i risultati dei maggiori studi condotti sull’applicazione
della flessibilità e del genere fra tutti gli stati membri dell’Unione Europea, che
hanno evidenziato che il lavoro di sabato, come abitudine, è più comune nei paesi
dell’Europa del Sud come la Grecia, l’Italia e la Spagna. In Italia la percentuale delle
donne e degli uomini che lavorano la domenica è rispettivamente del 39,9% e 39,4%
(Drew, 2000 in Re-definition of Women,s Relationship to Employment )
Ore di lavoro
La media contrattata settimanalmente di ore di lavoro in entrambi i paesi, sia nel
privato che nel settore pubblico è tra le 36 e 38 ore. In Italia nel settore industriale i
lavoratori hanno contratti di 40 ora la settimana, ma gli viene richiesto di lavorarne
39 alla settimana, sebbene la retribuzione sia per 40. Questo permette una certa
flessibilità alle aziende che possono richiedere al personale di lavorare più a lungo
settimanalmente se necessario. Le ora extra lavorate sono usualmente rifuse ai
dipendenti sia come congedo per ferie sia come opportunità di accorciare la settimana
lavorativa nel periodo estivo come, ad esempio, la possibilità di terminare il lavoro il
venerdì a mezzogiorno, oppure iniziare il lunedì pomeriggio.
Due dei maggiori datori di lavoro nell’ Oxfordshire, uno del settore privato e uno del
pubblico, hanno rispettivamente la settimana lavorativa più corta e quella più lunga
dell’ intero campione considerato. Tutto il personale di una grande casa editrice, che
è ben conosciuta a livello internazionale, ha un contratto di 35 ore. alla settimana. Il
contratto di 35 ore fu introdotto nel 1978, quale risultato di un accordo con i
Sindacati. All’estremo opposto, invece, i giovani medici che lavorano per il servizio
pubblico, sebbene il loro contratto preveda che l’ orario di lavoro non debba superare
le 56/58 ore alla settimana, spesso devono lavorare fino a 76 ore alla settimana. I
medici sono una categoria di lavoratori che è stata esonerata dai provvedimenti della
direttiva europea sui tempi di lavoro che stabilisce come limite massimo le 48 ore
settimanali. E’ stato pubblicamente riconosciuto dal settore, e dal Governo, che i
giovani medici sono tenuti ad orari di lavoro estremamente lunghi, ma il solo
miglioramento introdotto dal Governo è stato attraverso il così detto “New Deal per
giovani medici” che mira a garantire ai giovani medici contratti che non superino le
56/58 ore settimanali.
Flessibilità oraria
La flessibilità oraria in entrata e in uscita sembra essere una pratica comune,
soprattutto nel settore pubblico, sia in Italia che nel Regno Unito. Normalmente le
organizzazioni identificano delle ore centrali (ore di compresenza) quando tutti i
dipendenti devono essere al lavoro, ma offrono una flessibilità in entrata in genere di
un’ora.. Tutti i lavoratori intervistati che hanno accesso al lavoro flessibile, lo trovano
estremamente utile, particolarmente nel caso in cui abbiano figli da portare a scuola o
al nido, o nel caso in cui utilizzino i mezzi pubblici per recarsi al lavoro. Si ritiene in
generale che l’orario flessibile permetta un inizio più rilassato della giornata di
lavoro. Esso può inoltre ridurre l’assenteismo: poiché alcuni dipendenti hanno
riscontrato che, che grazie all’orario flessibile, non necessitano più di chiedere
permessi per visite mediche o altri impegni.
L’orario flessibile è una pratica comune nella maggioranza delle organizzazioni
studiate nei due paesi, ma ciò che invece è differente è il medoto di rilevazione delle
ore lavorate. Nella provincia di Bologna il sistema più comune di registrare le ore
lavorate è il sistema di marcatura dell’orario in entrata e in uscita, mente nel
campione dell’ Oxfordshire questa pratica è raramente usata. Le organizzazioni dell’
Oxfordshire considerano sia responsabilità del dipendente di gestire correttamente l’
orario flessibile, senza abusarne. In alcune organizzazioni è in uso la prassi in base
alla quale i dipendenti stessi registrano le ore lavorate su di una apposita scheda che
viene regolarmente inviata, settimanalmente o mensilmente, al proprio dirigente o
direttamente all’Ufficio del personale.
In altre organizzazione invece, non è usato alcun metodo di rilevazione formale delle
ore lavorate, poiché una corretta gestione del tempi di lavoro, è considerata una prova
di efficineza da parte di un dipendente e viene valutata attraverso il raggiungimento
di obiettivi concordati con il datore di lavoro. Alcuni dirigenti sono dell’opinione che
quando un’organizzazione si concentra sul raggiungimento degli obiettivi, c’è minor
bisogno di monitorare la presenza dei dipendenti
Congedi di maternità e parentali.
In Italia vi è una forte struttura legislativa forte che permette alle donne di combinare
la maternità con il lavoro retribuito. Inoltre diritti aggiuntivi possono essere
disponibili attraverso i contratti integrativi aziendali.
Questa struttura è stata recentemente rafforzata dalla introduzione della Legge n.
53/2000 a sostegno della maternità, paternità per il diritto alla cura,
all’apprendimento e per il coordinamento dei tempi nelle città. Una delle
caratteristiche più interessanti di questa legge sono una serie di possibilità destinate a
incoraggiare i padri a farsi carico di un più attivo ruolo parentale, per esempio
offrendo loro l’opportunità di un mese in più di congedo parentale, a patto che essi
scelgano di esercitare il loro diritto per un periodo di almeno tre mesi.
I genitori e i loro figli sono anche aiutati dall’esistenza di una vasta rete di servizi per
la cura all’infanzia, coordinata dalla Regione Emilia-Romagna.
Il Regno Unito, invece, rispetto agli altri paesi dell’ Unione europea, ha una delle
legislazioni meno generose sulla maternità, tanto è vero che l’attuale Governo
Laburista sta programmando di migliorarla, avvicinandola così alla media europea.
Quando è stata attuata la Direttiva europea sul congedo parentale, il Governo ha
adottato un approccio ‘minimalista’ all’attuazione della direttiva, introducendo una
serie di restrizioni all’esercizio del diritto al congedo parentale. Per esempio,
attualmente il congedo parentale può essere solo utilizzato da genitori di bambini nati
dopo il 15 dicembre 1999, e comunque i genitori non possono usufruire di più di
quattro settimane all’anno di congedo per ogni figlio. Il congedo parentale non è
retribuito ed inoltre la legge prevede la facoltà del datore di lavoro di rinviare una
richiesta di congedo parentale fino ad un periodo di sei mesi, nel caso in cui ritenga
che l’assenza del dipendente possa causare delle difficoltà operative all’azienda.
Ai dipendenti è stato chiesto di commentare sulla nuova legislazione sui congedi
parentali, ed in particolare sulla previsione della non trasferibilità del diritto dei padri,
che rappresenta una innovazione nella legislazione di entrambi gli stati.
Nella provincia di Bologna solo le organizzazioni del settore pubblico hanno riferito
di aver ricevuto richieste di congedo parentale da parte di padri. Un ente locale ha
intrapreso un’azione positiva per promuovere il congedo parentale, in particolare con
i padri, all’interno dell’organizzazione, ponendo l’accento sul loro diritto/dovere di
essere più attivamente coinvolti nella cura dei figli.
Nel settore privato, invece, non è stata riportata alcuna richiesta di congedo parentale
da parte dei padri. Si ritiene che i padri siano restii a fare uso del congedo parentale in
parte, perché la cura dei figli è ancora considerata, principalmente, come una
responsabilità della madre, e in parte perché si pensa che una prolungata assenza dal
lavoro potrebbe avere conseguenze negative sulla carriera.
Quest’ultimo punto è ben riassunto da un capo del personale di un’organizzazione
privata nel settore dei servizi che ha detto: “In alcune organizzazioni il concetto che
una donna (in un posto manageriale) possa assentarsi dal lavoro per un anno di
congedo per maternità viene accettato, ma un uomo che sparisce per quasi un anno
dall’organizzazione potrebbe correre il rischio di essere discriminato: Un padre che
prende il congedo può essere visto come uno che vuole una vacanza gratis”
Punti di vista simili sono stati espressi da dipendenti uomini che hanno preso parte
alle discussioni dei focus group. Tutti erano dell’opinione che il fattore principale che
possa influenzare la decisione di un padre sul fatto di utilizzare o no il congedo
parentale, sia il suo ruolo nel lavoro: più responsabilità egli ha, più è vero che la
fruizione del congedo parentale potrebbe avere un impatto negativo sulle prospettive
della sua carriera. Un giovane single impiegato che si sta formando per occupare una
posizione manageriale in una grande azienda di distribuzione al dettaglio, ha fatto il
seguenti commenti sulla legge sui congedi parentali: “Era ora che ci fosse
riconosciuto un ruolo nella cura dei figli”. Quando, però, gli è stato chiesto se egli
avrebbe fatto uso del congedo parentale nel caso in cui avesse dei figli, ha risposto:
“Assolutamente no”: Egli ha spiegato che crede che la legge abbia anticipato i tempi,
poiché nei luoghi di lavoro gli uomini devono ancora affrontare la scelta tra famiglia
e lavoro. Tutto ciò è ingiusto, ma per un padre che lavora come dirigente, utilizzare il
congedo parentale vorrebbe dire mandare all’ azienda il messaggio che per lui la
famiglia è più importante del lavoro e questo potrebbe porre un freno alla
progressione della sua carriera.
Le perdite di retribuzione sono anche state menzionate dagli uomini come un
disincentivo ad utilizzare il congedo parentale, ma il possibile l’impatto negativo
sulla progressione di carriera sembra essere la loro principale preoccupazione.
Questi punti di vista sono stati riportati anche da alcune delle madri che lavorano che
hanno preso parte ai focus group organizzati nella Provincia di Bologna. Una donna
ha detto; “Mio marito ha un sacco di responsabilità nel suo lavoro e in pratica egli
non può prendere il congedo parentale”. Tutte le donne concordano sul fatto che gli
uomini dovrebbero essere più coinvolti nella cura dei figli, ma pensano che una più
equa distribuzione tra i sessi delle responsabilità familiari non sia possibile fintanto
che a molti uomini venga richiesto di lavorare 12-14 ore al giorno.
Anche i dipendenti maschi che hanno preso parte alla ricerca nella regione
dell’Oxfordshire, ritengono che gli orari di lavoro troppi lunghi, rappresentino
l’ostacolo principale ad un esercizio più attivo del loro ruolo di padre. Ciò si verifica
particolarmente nel settore manifatturiero, dove andare a casa “in orario” è
considerato un segno di mancanza di impegno.
Le esperienze degli uomini che lavorano nel settore pubblico, o nel settore dei servizi,
sembrano, invece, essere più positive. Ciò che è apparso essere un beneficio per loro
è il fatto che essi lavorano per organizzazioni con un’alta percentuale di donne
impiegate, che hanno sviluppato, attraverso un formale impegno di pari opportunità,
una serie di politiche e attività a sostegno della conciliazione famiglia e lavoro.
Un alto dirigente di una pubblica amministrazione ha detto: “Non c’è nessuna ragione
perché ciò che viene fatto per aiutare le donne che lavorano e hanno figli, non debba
essere fatto anche per gli uomini”. Il responsabile del personale di un’azienda privata
ha notato come la cultura nei confronti degli uomini con responsabilità familiari sia
cambiata, egli ha detto: “In passato era imbarazzante per gli uomini dover dire devo
andare a prendermi cura dei figli, ma adesso non lo è più”. Un fatto positivo che ha
contribuito a questo mutamento culturale è stato identificato nel fatto che la maggior
parte delle imprese nell’Oxfordshire, offrono un periodo di congedo di paternità
retribuito, che varia, a seconda dell’organizzazione da una a due settimane.
Occorre notare che il Governo laburista ha annunciato nell’ ultima legge finanziaria,
resa pubblica l’8 marzo del 2001, che a partire dall’Aprile 2003, sarà introdotto per
tutti i padri lavoratori un congedo parentale retribuito, non meno di 100 sterline alla
settimana, di due settimane.
Quando si è discusso dell’utilizzo del congedo di maternità, le donne che lavorano
nel settore pubblico e privato nell’ area della provincia di Bologna e in particolare
che svolgono attività professionali hanno espresso ansietà circa il rischio di essere
emarginate sul lavoro, in seguito ad assenze per maternità. Una giovane donna
sposata ma ancora senza figli, che è un dirigente in una azienda di distribuzione, ha
detto che ella non è sicura della reazione della azienda per cui lavora, nel caso in cui
lei si assentasse dal lavoro in maternità per un anno.
Punti di vista simili sono stati espressi da un gruppo di donne che lavoravano nel
settore pubblico. Per esempio è stato riportato che spesso le donne in maternità sono
totalmente dimenticate ed esse non vengono incluse nei piani di sviluppo, non
tenendo conto del loro rientro. Una donna ha detto:”Quando si è in maternità si perde
terreno, si perde la corsa”. Un’altra donna, madre di due bambini, ha commentato:
“Quando si diventa madri, presumono che si passi dallo stato di lavoratrice a quello
di madre. Si deve lavorare molto duramente per dimostrare che si è ancora interessate
al proprio lavoro”.
Conclusioni: sviluppo di buone prassi e innovazione.
Per concludere mi soffermerò su di un paio di esempi di modalità di lavoro flessibile
che possono fornire degli spunti innovativi a tutti i soggetti che siano interessati a
facilitare la conciliare gli impegni del lavoro retribuito con quelli familiari.
Il telelavoro a casa.
Nel campione di imprese ed enti pubblici che sono state oggetto di questa ricerca
nella Provincia di Bologna e nella regione dell’ Oxfordshire, solo due organizzazioni
del settore pubblico nell’ Oxfordshire, hanno dichiarato di avere elaborato un
regolamento per permettere ai dipendenti, che ne facciano richiesta, di telelavorare da
casa, sempre che questa modalità di lavoro sia compatibile con le esigenze operative
dell’ ente. Queste due organizzazioni sono rispettivamente un ente pubblico e un’
università: nel primo caso la possibilità di telelavorare da casa, esiste già da diversi
anni anche se non è ritenuta praticabile per tutti i tipi di lavoro ed in particolare per
quelli che richiedono regolari contatti con il pubblico, mentre nel caso dell’ università
il telelavoro è ancora a livello di sperimentazione per il personale tecnico
amministrativo.
Il primo ente ha riferito che le richieste di telelavoro da casa sono in aumento e di
pari interesse sia per i dipendenti uomini che per le dipendenti donne, in particolare in
quanto questa modalità lavorativa consente di ridurre i tempi di viaggio tra casa e
lavoro. Quando viene inoltrata una richiesta di telelavoro, sempre che sia compatibile
con il tipo di attività lavorativa svolta dal dipendente, l’ ente provvede a svolgere un
‘risk assessment’, ovvero sia valuta l’ idoneità degli spazi nella casa del dipendente
che quest’ ultimo intende adibire ad ufficio. Il telelavoro da casa può essere
concordato per un periodo di tempo limitato, per far fronte ad una contingenza,
oppoure per un periodo di tempo indeterminato. In quest’ ultimo caso in genere viene
alternato al lavoro svolto in un ufficio. Un esempio è rappresentato dal caso di una
lavoratrice che svolge attività di quadro, che attualmente lavora 30 ore alla settimana,
e a cui è stato concesso di svolgere 20 ore di lavoro in ufficio e di telelavorare a casa
le rimanenti 10 ore. Il tempo dedicato all’ ufficio lo utilizza soprattutto per gestire il
personale di cui è responsabile, per partecipare a riunioni e in generale per i contatti
con gli altri colleghi, mentre le ore di lavoro a casa le dedica alle attività da lei
definite ‘quiet’ (più tranquille), ovvero quelle, come la preparazione di relazioni
scritte , che non richiedono interazione con altri colleghi. La scelta di chiedere una
riduzione dell’ orario di lavoro a 30 ore settimanali, di cui una parte da svolgere a
casa, è stata motivata dalla nascita del secondo figlio. Questa lavoratrice si è
dichiarata estremamente soddisfatta delle sue attuali circostanze di lavoro e ritiene
che non abbiano causato alcun problema di carattere operativo alla organizzazione
per cui lavora. Lo staff per cui è responsabile sa quando lei è reperibile in ufficio e
occasionalmente, quando si rende assolutamente necessario è disposta a fermarsi a
lavorare in ufficio qualche pomeriggio. Per quanto rigurda il lavoro da svolgere a
casa ritiene che sia necessario a mantenere una chiara distinzione tra il lavoro dell’
ufficio e la famiglia. Per questa lavoratrice la famiglia “comes first” ( viene prima),
ma anche la carriera è importante e questo modo di lavorare le ha consentito di
armonizzare entrambe le cose senza dover ricorrere a troppi compromessi o sacrifici.
Verso una flessibilità del lavoro autogestita?
A fronte di esigenze socio-familiari diversificate, una grande azienda nel settore della
distribuzione che opera nella provincia di Bologna, sta considerando la possibilità di
inserire una formula di autoderminazione degli orari nei contratti dei dipendenti,
soprattutto per chi lavora alle casse dei negozi, dove c’è un’ alta percentuale di
personale part-time.
Per attuare questa modalità di autodeterminazione dei turni, il presidio necessario
verrebbe stabilito da un dirigente, mentre la definizione degli orari individuali all’
interno del presidio, verrebbe definita dal gruppo di lavoro facente capo al presidio
stesso. Attualmente l’azienda sta studiando, con l’ aiuto di consulenti, esperienze di
autoderminazione dei turni già attuate all’ interno di catene per la distribuzione
alimentare in Toscana e in Francia.
L’azienda si auspica che in futuro sia possibile poter concordare la flessibilità
direttamente con il lavoratore in una logica di autodetreminazione, in modo da poter
meglio far fronte alle esigenze differenziate dei singoli dipendenti, fermo restando il
principio che spetta all’ azienda di definire I vari presidi lavorativi.
Un progetto simile che comporta l’ introduzione di modalità di lavoro autogestite è
allo studio nel settore della sanità nella regione dell’ Oxfordshire. L’ unità sanitaria
locale si propone di promuovere un maggior coinvolgimento dei dipendenti nella
pianificazione del servizio e delle sue modalità di offerta. L’ ente è consapevole che il
raggiungimento di tale obiettivo presuppone un notevole cambiamento nella cultura
dell’ organizzazione del lavoro e un maggiore trasferimento di responsabilità
direttamente ai dipendenti sia a livello individuale, sia come membri delle singole
unità operative. L’ ente si propone di ‘empower its staff’, ovvero di mettere il
personale in condizione di svolgere un ruolo maggiormente da protagonista all’
interno delle proprie unità di lavoro.