L'ingegnere in blu Di Pierangelo Ferrari 28 Luglio 2009 Ad Alberto Arbasino perdono tutto: il barocchismo linguistico, l’incontenibile snobismo, il froufrou salottiero, l’esibizionismo esterofilo. Anche di essere nato a Voghera gli perdono. Perchè uno che scrive “la carriera di uno scrittore italiano passa attraverso tre fasi: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro” entra di diritto nel mio personale pantheon delle intelligenze taglienti, accanto a Ennio Flaiano e a Woody Allen. Il fatto è che Arbasino è delizioso, quando vuole. Quando non si perde nelle involuzioni sintattiche del suo ghirigorismo. L’ultimo libro arbasiniano, pubblicato da Adelphi, è quasi interamente leggibile. Grazie a Gadda, di cui si occupa. E’ Carlo Emilio Gadda, L’ingegnere in blu del titolo. Vi consiglio di leggerlo, se volete conoscere il più grande scrittore italiano del Novecento. In effetti, non ci si può avvicinare a Gadda senza “istruzioni per l’uso”, senza conoscere l’uomo, le sue illusioni frustrate, le sue devastanti nevrosi. La cognizione del dolore, il suo libro più grande, è incomprensibile se non lo si riporta alla biografia familiare. Così come – sostiene a ragione Arbasino – avrà un peso rilevante nella sua opera “il traumatico impatto con due realtà atroci quali la Grande Guerra e Roma”. Arbasino ci accompagna, con finezza e ironia ma anche con dolente comprensione, nell’io devastato dell’ingegnere, mettendo allo scoperto temi, fissazioni, stili, avversioni culturali. Le pagine migliori, tuttavia, sono quelle in cui il lombardo Arbasino racconta l’antropologia piccolo-borghese lombarda messa a nudo dal milanese Gadda: quelle “famiglie appiccicate e recluse che borbottano meccanicamente rosari, al buio per economia, e considerano ogni spesa una calamità, ogni scampanellata un annunzio di sventura, ogni viaggio uno sperpero inammissibile, ogni divertimento una vergogna insensata; e tengono come solo metro di giudizio che cosa ne penserebbero gli altri, i vicini, le vicine, le zie, le cugine, le vecchine…”. Credete a me, non si può morire senza avere letto Gadda. Vi suggerirei di cominciare dal capolavoro più “leggibile”, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (la realtà atroce di Roma). Ma se volete fare i conti con voi stessi, con il vostro passato, se volete capire un pò di più che cosa è stata a lungo questa parte del Paese, partite dai “disegni milanesi” de L’Adalgisa (Garzanti), dove è rappresentata la “somaresca tribù” dell’affaccendata borgesia milanese. O, meglio ancora, dai racconti di Accoppiamenti giudiziosi (Garzanti). Testi come L’incendio di via Keplero o San Giorgio in casa Brocchi raggiungono livelli insuperabili di esilarante grottesco e sono il nostro amarcord, il milieu culturale e sociale da cui siamo usciti (usciti?) non molti decenni fa.