Il caso e la storia
di Isabella Pierantoni
Il fulmine squarciò il cielo e si scaricò sull’albero, che esplose in proiettili di schegge.
La potenza elettrica scivolò sulla pelle dell’uomo accucciato sulle radici e, prima di
spezzargli il cuore, annunciò al cervello che la vita sarebbe finita lì. Il vento scacciò
la pioggia, lasciando caldo umido e odore di bruciato, di legna e carne.
L’ispettore, grazie a una telefonata anonima, giunse con un appuntato sul luogo in
contrada Castelluzzo. Il caldo umido impregnò i loro vestiti e penetrò nei polmoni,
come il fumo delle sigarette alle quali entrambi avevano rinunziato. A destra le
chiome verdi d’ulivo si estendevano compatte fino all’orizzonte, a sinistra file di
tronchi nodosi cercavano il cielo con rami e foglie dai riflessi metallici. Nel punto più
alto trovarono i resti della vittima, in tasca una foto su un documento illeggibile e un
biglietto. “Ispettore, c’è scritto un indirizzo, via Dame, o qualcosa di simile” osservò
l’appuntato, e, guardando la suola delle scarpe del poveretto, aggiunse “è arrivato
vivo fin qui”.
Dalle indagini non scaturì nulla e l’evento fu considerato casuale. Fuori dalle carte
rimase la storia racchiusa in quella che era stata una vita.
All’ispettore non restò che scrivere il rapporto e controllarlo. Non aveva ancora finito
quando avvenne il finimondo: il centralino impazzito, la sirena delle ambulanze nelle
strade, le macchine di servizio mobilitate sul territorio, colleghi disperati. Paura
fredda e rabbia incontenibile spazzarono quindi ogni incertezza: in via D’Amelio la
terra si aprì con un boato, ingoiando un giudice dagli occhi di febbre e cinque giovani
stretti a un sogno.
“Odio questa maledetta estate”, urlò l’ispettore bestemmiando tra le lacrime “è la fine
di tutto”. Gli balzò il cuore in gola quando si palesò il pensiero che l’indirizzo trovato
sul morto fosse incompleto e che la storia di quella vita perduta attraversasse per
ignoti motivi la strada dell’agguato e il fascicolo che aveva tra le mani.