Amo raccontare quello che fa notizia

Personaggi | Il giornalista esperto di fotografia
Michele Smargiassi,
inviato di «Repubblica»,
racconta il suo lavoro
e le sue passioni
Amo
raccontare
quello che
NON
fa notizia
È l’attitudine a guardare al di là delle cose,
almeno per come normalmente le presentano i media.
Un’inquadratura particolare da cui vedere la vita.
Proprio come succede alle immagini, di cui Smargiassi
è considerato un esperto a livello nazionale
di Francesco Bergonzini - foto di Elisabetta Baracchi
«Non sono mai stato un gran segugio per le notizie e neppure un cronista d’assalto»,
ammette Michele Smargiassi. «Mi sento più un raccontatore. La professione di giornalista
a volte mi costringe a indossare una maschera: la prendo come una recita professionale»
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Personaggi | Michele Smargiassi
Il profilo | Il narratore
del quotidiano
S
sservando s’impara. E magari si riscoprono le cose che abbiamo sempre davanti agli occhi, che vediamo ma non guardiamo o che abbiamo dimenticato. Per Michele Smargiassi,
egno zodiacale Bilancia, Michele Smargiassi è nato l’8 ottobre
osservare fa sempre rima con pensare: «Sarà per la scoliosi, per cui
1957 a Dovadola, nel forlivese, e ha vissuto fino a otto anni a
Rocca San Casciano. Poi la sua famiglia si è trasferito a Modena:
cammino leggermente arcuato», ride. «Camminando così, il mio
nella nostra città, quindi, ha compiuto il suo percorso scolastico e
sguardo va a finire anche dove nessuno lo posa mai, agli angoli della
si
è diplomato al liceo classico Muratori. In parallelo agli studi
strada, sui marciapiedi, negli interstizi. Il sovrappensiero è una
universitari (si è laureato in Storia contemporanea all’ateneo di
condizione felice, una disattenzione attiva in cui si intrufola qualcoBologna), Smargiassi ha iniziato nel 1982 la sua carriera giornasa di insolito». Osservare è fondamentale per Smargiassi, non solo
listica, prima come collaboratore e poi come redattore de
perché di mestiere fa il giornalista (l’osservatore per eccellenza) e
«L’Unità», per poi passare dal 1989 a «La Repubblica», il quotidiano di cui è inviato da molti anni. «Mi occupo di società, cultura e,
tratteggia con sottile arguzia i fatti e i personaggi dell’attualità e del
se proprio devo, anche di politica», si presenta ai visitatori del
costume, ma anche perché ama la fotografia e la cultura che sta dieblog «Fotocrazia» sul sito web del quotidiano. «Penso che un
tro all’immagine: oltre che fra le firme di punta di «Repubblica»,
buon giornalista non sia uno scrittore ma uno scrivente; tento di
Michele Smargiassi è annoverato fra i principali esperti italiani di
non essere uno scrivano, spero di non diventare mai uno scribaccultura della fotografia, studioso attento e a volte anche giudice
chino».
severo. Insomma, un fine osservatore.
Le grandi passioni di Michele Smargiassi sono la storia e la cultura dell’immagine, e soprattutto della fotografia. Nel suo curricuMichele Smargiassi, 54 anni, abita a Modena da quando era un
lum spicca anche la collaborazione con gli «Annali della Storia
bambino, e da tempo ormai lavora a Bologna, prima alla redazione
d’Italia» dell’Einaudi, per i quali ha scritto un saggio sulla fotograde «L’Unità», poi come inviato del quotidiano fondato da Eugenio
fia familiare. A questi temi è dedicato anche il saggio
Scalfari. Le sue passioni, comunque, erano evidentemente scritte
«Un’autentica bugia. La fotografia, il falso, il vero», edito nel 2009
nel suo dna: «Mio padre Alberto, cancelliere di pretura, possedeva
da Contrasto Books. Proprio nei mesi scorsi è uscito il suo libro
«Ora che ci penso», dedicato alla «storia dimenticata delle cose
una Voigtländer con mirino a traguardo: da lui ho avuto il gusto di
quotidiane», che raccoglie e rielabora alcune inchieste realizzate
guardare le figure. Mia mamma Miranda, insegnante di scuola meda
Smargiassi per «Repubblica». Sposato da trent’anni con
dia, aveva tantissimi libri: da lei ho preso il piacere di leggere le stoDaniela, Smargiassi ha due figli adolescenti. E qual è il suo posto
rie», ricorda. Al giornalismo è arrivato gradualmente: «In realtà,
del cuore? «Una mansardina in casa a Modena, il mio luogo di
mentre studiavo, pensavo che il mio mestiere sarebbe stato di orgastudio, con tanti libri, soprattutto di fotografia, anche troppi.
nizzare spettacoli: lavoravo con una cooperativa dell’Arci che si
Nonostante tutto, continuo a sostenere che i libri non pesano e
non occupano spazio».
occupava della distribuzione di eventi. Poi ho iniziato a collaborare
con la redazione modenese
de “L’Unità”, scrivevo recensioni di spettacoli; e, quan«Dipendiamo dalle immagini, anche se pensiamo di essere smaliziati», riconosce
do fecero alcune assunzioil giornalista. «Tutti sappiamo che le foto si possono manipolare infinite volte, eppure
ni, mi chiesero se avessi vocontinuiamo a credere alla loro “verità”, come se fossimo ancora all’epoca di Daguerre»
glia di fare il giornalista. Così cominciai a occuparmi di
cronaca cittadina». Da lì, il
passaggio a Bologna, e quindi nella squadra di Scalfari. «Devo
ammetterlo: non sono mai stato un gran segugio per le notizie. Mi
sento più un raccontatore. E non sono neppure il cronista d’assalto:
anzi, io sono fondamentalmente un timido e un imbranato, non
chiedo neppure il nome di una via. La professione di giornalista a
volte mi costringe a indossare una maschera: la prendo come una
recita professionale».
Ed è proprio un libro di racconti e di «fatti della vita» quello che
Smargiassi ha pubblicato la scorsa primavera: «Ora che ci penso»
(edito da Dalai) ci accompagna, come recita il sottotitolo, nella storia dimenticata delle cose quotidiane, quelle che ci stanno accanto
ma che ci sono talmente familiari da diventare invisibili allo sguardo. Smargiassi si è posto tante domande: chi sceglie la musica negli
ascensori? E chi ruba i segnali stradali in città? Chi si ferma a mettere un fiore al guardrail? E perché è sparita la carta carbone? E chi
O
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Il blog di Smargiassi
sul sito di «Repubblica»
si chiama «Fotocrazia»:
«Perché ogni fotografia
richiama un potere.
Nessuno scatto è ingenuo
o innocente.Le immagini
possono essere utili
ma occorre prendere bene
le misure. Se conosci
la fotografia, non può farti
troppo male. Può addirittura
aiutarti a comprendere
il mondo. Se la lasci fare, se
la sottovaluti, ti fregherà»
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Personaggi
sono quelli che annusano i libri per sentire il
profumo delle pagine stampate? «Tutte cose
che non nota forse neppure chi le fa», aggiunge il giornalista. «Ora che ci penso» è
stato definito un libro di antropologia degli
oggetti quotidiani: «In realtà è tutto nato
nell’ambito del mio lavoro di giornalista»,
spiega Smargiassi. «Quando a “Repubblica”
si sono introdotte sezioni del giornale pensate in modo nuovo, mi è capitato di poter
proporre (e di poter fare) anche inchieste su
temi della vita ordinaria, e su quello che a
volte non viene percepito come notizia, come la scomparsa delle lampadine a incandescenza o i furti di segnali stradali». Smargiassi è convinto che negli oggetti ci sia quello che gli uomini ci hanno messo dentro: «La
storia dell’uomo è come “congelata” negli
oggetti. Per questo non è giusto che li eliminiamo dalla nostra cultura». E dentro il libro del giornalista, ci sono anche molti viaggi e ricostruzioni storiografiche, oltre ai ritratti di persone speciali, come il maestro Alberto Manzi, il primo insegnante televisivo,
o Secondo Casadei, padre del liscio romagnolo. Inquadrature di un mondo speciale, o
forse rimasto un po’ in ombra.
È sempre questione di sapere osservare e
di saper cogliere anche i dettagli imprevisti.
«La fotografia fa esattamente questo. Il fotografo crede di riprendere qualcosa di specifico, ma in realtà fotografa anche molte altre
cose. Nello sguardo fotografico entrano molte più cose di quante l’autore intenda metterne», aggiunge Smargiassi. Ma la fotografia, come proclama il titolo di un altro fortunato libro del giornalista, può essere «Una
autentica bugia», ovvero va presa con le molle, perché non sempre racconta tutta la verità e nient’altro che la verità. «Si parla tanto
di morte della fotografia, eppure tutti noi oggi abbiamo in tasca almeno un apparecchio
(come il telefonino) che può scattare foto. In
rete ci sono 50 miliardi di fotografie, e quindi ci sono più foto che esseri umani», osserva
Smargiassi. «Dipendiamo dalle foto, anche
se pensiamo di essere smaliziati. Con la cosiddetta rivoluzione digitale tutti sappiamo
che le foto si possono manipolare molto più
di una volta, eppure continuiamo a credere
alla “verità” delle immagini, come se fossi-
Qui sotto i due
più recenti libri scritti
da Michele Smargiassi.
«Un'autentica bugia»
è del 2009
e ha per sottotitolo
«La fotografia, il vero,
il falso»: il bersaglio
sono gli apologeti
della rivoluzione digitale.
È uscito quest'anno,
invece,
«Ora che ci penso»,
dove il sottotitolo recita
«La storia dimenticata
delle cose quotidiane»
mo ancora all’epoca di Daguerre. Questo
insieme di credulità e di presunzione di senso
«La fotografia è stata data per morta tante volte, ma anche nel cellulare
critico è micidiale: siamo ancora più indifesi».
è stata inserita una fotocamera», osserva Smargiassi. «In rete
Fa parte del comitato scientifico del Cenci sono 50 miliardi di fotografie, quindi ci sono più foto che esseri umani»
tro italiano della fotografia d’autore di Bibbiena, eppure Michele Smargiassi non si sente un critico fotografico: «Non sono un appassionato della foto d’autore e tranne un manipolo di grandi, fra cui
includo anche Franco Vaccari, mi interessano pochissimi fotografi.
Del resto, le foto d’autore sono un’infinitesima parte delle immagini
che vediamo ogni giorno. Sono invece molto attratto dall’antropologia della foto, cioè da quello che fa nelle nostre vite. Forse questo è
utile per salvare la fotografia dalle sue stesse menzogne». Da qualche tempo, Smargiassi dialoga di cultura dell’immagine nel blog
«Fotocrazia», che tiene sul sito web del suo giornale e conta migliaia
di visitatori e di fedelissimi consumatori consapevoli di immagini:
«Per me è un impegno senza orario, ma si è creata una piccola comunità di persone che condividono gli stessi interessi. Sono onorato
che, fin dalla nascita del blog, uno dei suoi più assidui frequentatori sia Ando Gilardi, storico della fotografia, che in giugno ha compiuto 90 anni». Il titolo di questo diario telematico è illuminante, e lo
spiega lo stesso Smargiassi nella sua introduzione al forum: «Fotocrazia perché ogni fotografia richiama un potere. Potere della fotografia, potere sulla fotografia, potere con la fotografia. Nessuna fotografia è ingenua, nessuna è innocente; molte possono essere utili.
Quel che conta è prendere bene le misure. Se conosci la fotografia,
non può farti troppo male. Può addirittura aiutarti a comprendere
il mondo. Se la lasci fare, se la sottovaluti, ti fregherà».
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Personaggi
Smargiassi ama scrivere di fotografie.
Ma ama anche scattarne? «Confesso che ho
fotografato. Ho avuto due macchine analogiche che ora ho lasciato senza le batterie:
ho smesso di usarle quando mi sono sentito
sempre più inadeguato. Poi ho acquistato
una digitale compatta che mi ha completamente disamorato: spingevo un tasto e faceva tutto lei, io ero lo schiavo della macchinetta, quindi l’ho regalata a mio figlio che si
diverte moltissimo. Attualmente sono in pausa terapeutica, non fotografo da un paio di
anni: ma vorrei tanto una Leica digitale».
Per Smargiassi, la passione della fotografia
è maturata comunque già molti anni fa, soprattutto durante il periodo di servizio civile: «A Mirandola mi sono occupato di riordinare il lascito di don Francesco Gavioli, praticamente una collezione universale con più
di duecentomila cartoline illustrate. Durante l’inventario e il primo ordinamento, mi sono sentito sempre più legato a quelle immagini». Al punto che poi la sua tesi di laurea
con il professor Lucio Gambi (uno dei massimi geografi del Novecento) è stata proprio
dedicata a una ricerca sulle trasformazioni
di Modena viste attraverso le cartoline illustrate. «Mi sono innamorato più delle immagini che dell’urbanistica», confessa Smargiassi. «Quel lavoro è stato per me molto importante, perché mi ha consentito di studiare gli storici fotografi modenesi che ci hanno
lasciato le testimonianze più belle della nostra città, così com’era e come è cambiata».
E allora, com’è Modena? «È la città in cui
vivo praticamente da sempre e dove continuo a vivere volentieri, anche se spesso la
vedo solo di notte, e di giorno quasi non la
conosco», sorride il giornalista. «Credo che il
vero welfare di Modena sia il tempo che ti
regala, per i suoi servizi e per la sua giusta
dimensione. In una mattinata libera, posso
portare a scuola i figli, acquistare e leggere i
giornali, andare a prendere un libro in biblioteca, prenotare una visita all’Azienda sanitaria, passare dalla posta e magari fare
anche una piccola spesa: tutte operazioni
che per un romano richiedono almeno una
giornata intera, e che invece qui si possono
sbrigare in un tempo molto più breve». Forse anche per questo Michele Smargiassi non
si trasferirebbe mai in una città più grande
(ma inevitabilmente più complessa e caotica). «Attualmente non andrei a vivere neppure a Bologna. Vi ho trovato una crisi accentuatissima di civismo: la città è diventata sporca e maleducata. Mi sembra che a Bologna sia venuta a mancare quella specie di
autosorveglianza civica, grazie alla quale
nessuno buttava la carta per strada e non si
andava in bicicletta sotto i portici. Oggi ciascuno va per i fatti suoi, e c’è un livello molto
basso di amore per lo spazio comune».
E così, anche Smargiassi ogni giorno viaggia, si sposta e appartiene al grande mondo
di «Pendolandia», per usare una definizione del suo libro. «I pendolari sono disumani: né nomadi né stanziali, non rientrano nelle due
grandi categorie dell’antropologia», scrive in «Ora che ci penso». «I
forzati del treno sono un milione e seicentomila: la popolazione di
una metropoli brulicante, dove ciascuno passa tre settimane l’anno
in movimento, spendendo circa seicento euro in abbonamenti. Ma
non interessano né alla politica, né all’economia, né alla sociologia».
«I pendolari sono maltrattati da tutti», si sfoga Smargiassi. Eppure
per lui il treno resta un bellissimo mezzo di trasporto, «che ti offre la
possibilità di leggere, di pensare. Amo il treno, ma non sono ricam-
biato». I viaggi in treno fanno ricordare
anche gli amici con cui venivano condivisi. E per Michele Smargiassi è impossibile dimenticare Edmondo Berselli, «con cui
abbiamo avuto una lunga frequentazione da pendolari, scambi di parole, email
e telefonate». L’affetto si unisce al rimpianto: «Edmondo continua a suscitarmi
invidia ogni volta che lo rileggo. Giocava
con le parole, ma senza fare soltanto spettacolo. Aveva varie marce, e ognuna corrispondeva a un linguaggio. È stato un grande amico». Come Berselli, anche Smargiassi è stato parte della grande sfida informativa di «Repubblica»: «Devo molto a Eugenio Scalfari e mi
sento figlio di quel giornalismo», ammette. «”Repubblica” è un quotidiano con un carattere deciso. L’hanno chiamato un giornale-partito, ma io credo che sia semplicemente un giornale-giornale, con
un’identità culturale e politica, e una forte identificazione con il lettore. È diventato il compagno di strada di tante persone. Ezio Mauro, poi, ha saputo creare un giornale capace di scavalcare la concorrenza della tv e di misurarsi con i nuovi media. Sa raccontare, analizzare, entrare nei problemi in modo diverso rispetto al notiziario
tv. E in questo ritrovo anche la mia cifra».