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I sindacati tentano la rimonta e ci provano con i teatri
Protesta organizzata
Quanto guadagnano i nostri professori d’orchestra? Poco, tanto,
giusto, o al pari dei loro colleghi d’Europa? E quanto lavorano, sempre
in raffronto ai colleghi europei? E rendono più o meno dei loro colleghi
europei? E poi, a differenza di quanto fanno i loro colleghi europei, ci
pensano qualche volta al futuro dei giovani musicisti, visto che nessun
altro lo fa da noi? Oppure credono che se i giovani musicisti sono
ridotti all’elemosina, non è affar loro? Scorrendo le varie voci di una
busta paga, tenteremo di dare risposte a queste domande.
a cura della redazione
C
he la protesta ci sarebbe stata non era difficile
immaginarlo. Che sarebbe partita dalla Scala, e
nel giorno più importante della stagione, il 7
dicembre, con una prova generale già a novembre,
proprio dal teatro che oggi può vantare conti in regola,
produttività enormemente aumentata e qualità delle
realizzazioni, era invece prevedibile. Se fosse partita, ad
esempio, da Napoli, chi sarebbe andato a spiegare
all’opinione pubblica che gli orchestrali del San Carlo,
con quella vergognosa voragine di debiti del teatro, della
quale sembra non vi sia nessun responsabile, chiedevano
aumenti di stipendio?
I sindacati, per riprendere in mano la situazione hanno
dunque atteso che il governo negli ultimi due anni
aumentasse gradualmente le risorse destinate al Fus, e
subito dopo hanno fatto capire che su quei soldi in più,
anche loro volevano mettere le mani. Sarebbe stata
l’occasione per mostrare che loro esistevano ancora.
Negli ultimi anni, infatti, s’era registrata una relativa
tregua, innescata dal FUS ogni anno più striminzito.
La protesta si è estesa ad altri teatri ed è stata anche lì
programmata per i giorni in cui quei teatri godono di una
visibilità che in nessun altra occasione, in ragione della
loro attività lirica, riescono a guadagnarsi:
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Venezia,Genova, Roma si sono messi in coda dietro i
professori scaligeri; a Venezia è scoppiata la guerra del
frac, in occasione del Concerto di Capodanno diretto da
Roberto Abbado irradiato da Rai Uno(share del 28% 4.221.000 telespettatori!); a Genova, in occasione delle
recite de ‘Il cappello di paglia di Firenze’ di Rota,
quando il sindaco ha detto chiaramente che era l’ultima
volta; e, invece, la protesta si è ripetuta anche al secondo
titolo, pretesto: gli spifferi in buca; a Roma, con la
dichiarazione di adesione alla protesta nazionale; Santa
Cecilia si è astenuta.
Cosa chiedono gli orchestrali ma anche il personale
tecnico ed amministrativo dei teatri? Chiedono il rinnovo
del contratto di lavoro che è fermo da due anni, dal 2006,
e naturalmente anche il contratto integrativo, il quale in
molti casi è sostanzioso
assai, forse più di quello
nazionale, specie nei casi
delle Fondazioni più
prestigiose.
Lissner alla Scala (lo spiega
anche nelle pagine Forum di
Music@) era riuscito ad
accordarsi con i sindacati,
promettendo loro che a
febbraio avrebbe discusso il
contratto integrativo. Troppo
facile. Nessun contratto
integrativo può essere
stipulato se prima non viene
discusso ed approvato quello
nazionale, così dispone la
cosiddetta ‘Legge Asciutti’,
fatta quando il FUS scendeva
inesorabilmente e quindi di
rinnovi di contratti neanche a
parlarne, giacchè si sa che
nei teatri sono le cosiddette
masse (artistiche e tecniche)
che assorbono con i loro
stipendi gran parte dello
stanziamento FUS. A fine
anno, nell’ultimo consiglio dei Ministri, il governo
emana un decreto (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del
2 gennaio, nel quale sono accomunati, in un unico testo, i
lavoratori dei teatri e quelli delle imprese di pulizia:
musica & monnezza!) nel quale si autorizzano i teatri a
corrispondere ai lavoratori degli anticipi sul contratto
integrativo, in attesa che si discuta il contratto nazionale
prima, e poi quello integrativo. Decreto ‘salva Scala’, è
stato subito battezzato.
In quale situazione si chiedono comunque degli aumenti
di stipendio? In una situazione, che quanto a produttività,
è semplicemente scandalosa - lo ha detto senza mezzi
termini Pappano nell’intervista dello scorso numero di
Music@: “noi, al Covent Garden, ha dichiarato il noto
direttore, con gli stessi soldi di un teatro italiano, metti
dell’Opera di Roma, abbiamo il triplo di giornate con il
teatro aperto”. Allora come si possono avanzare diritti
con una produttività così bassa? I teatri italiani lo fanno
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in ragione della differente concezione del teatro in Italia,
rispetto ai paesi del centro Europa. In Italia, ogni opera
viene preparata con un notevole numero di prove;
all’estero le prove sono pochissime, salvo che per rari
spettacoli, nel corso della stagione. A proposito di prove.
Chi ha assistito a qualche prova d’ orchestra, sarà stato
continuamente tentato di alzarsi e gridare in faccia a tutta
l’orchestra: ma quando la finite di far casino? Anche
recentemente, come abbiamo avuto modo di verificare in
un teatro italiano, tutti i componenti del settore
percussioni e ottoni non sono stati neppure per un attimo
zitti ed attenti. Ripresi dal direttore, se ne sono
letteralmente fregati; e il direttore artistico, al quale
abbiamo riferito dell’ inqualificabile comportamento dei
suoi orchestrali, ha fatto spallucce, come a dire lo so ma
non ci posso far nulla. Alcuni
direttori del grande giro, ci
hanno assicurato che
all’estero questo non esiste, e
che in Italia è malattia
comune, una vera e propria
epidemia fra gli orchestrali;
si salvano forse due o tre
orchestre: Scala, Firenze.
Ora con questo bassissimo
indice di produttività, con
questo indecente
comportamento
generalizzato, si possono
richiedere aumenti, lasciando
tutto come prima e senza un
concreto segnale di svolta?
Prima di giungere a
conclusioni che potrebbero
apparire affrettate e senza
riscontri nei fatti, forse
conviene capire, innanzitutto,
quanto guadagnano i nostri
orchestrali – ci fermiamo
naturalmente alle orchestre
delle fondazioni liriche,
perché nelle altre, dalle ICO
di nome e di fatto, alle orchestre semistabili ecc.. le cose
sono più difficile da inquadrare – a fronte di quale
impegno, settimanale e mensile, anche se va chiarito che
in questo tipo di professione conta il tempo di lavoro, ma
conta anche la disponibilità, l’attenzione,
l’aggiornamento professionale, l’esercizio, anche fuori
degli orari di lavoro, senza i quali i frutti di tale lavoro
sarebbero vanificati. E magari varrà anche la pena sapere
quanto guadagnano i musicisti delle orchestre straniere, a
parità o no di orari di lavoro e qualità delle prestazioni
professionali.
Per il contratto delle Fondazioni liriche, gli orchestrali
lavorano quindici giorni al mese. Il contratto prevede
cinque ore di lavoro al giorno, fra prove e concerti,
ventotto ore a settimana. In tutto trentacinque prestazioni
al mese (ogni prestazione è della durata di due ore e
trenta minuti). Gli orari sono tassativi e con un’orchestra
che vuol far vedere i sorci verdi alla direzione, basta
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sgarrare per avere seri problemi sindacali. Quando
l’orario di lavoro supera le trentacinque prestazioni si ha
diritto allo straordinario; mentre, quando, per esigenze
della direzione, non si raggiunge il numero di prestazioni
stabilito per contratto, non si ha una riduzione del
compenso. Gli orchestrali hanno quindici mensilità. Tutto
ciò che si favoleggia di cose strane e di strane indennità
degli orchestrali per particolari prestazioni ecc..
lasciamolo da parte, non è su questo che vogliamo
ragionare ora.
Sarà bene non dimenticare talune situazioni giuridiche,
pur legittime, che vedono strumentisti lavorare
contemporaneamente, con due diversi stipendi, in due
diverse istituzioni, la cui compatibilità è naturalmente
prevista ed incoraggiata. Un esempio per tutti, quello
della Scala, dove non c’è
praticamente differenza fra
gli orchestrali della Scala e
quelli della Filarmonica. O
riflettere sulla libertà che ha
uno strumentista di far parte
anche di gruppi cameristici,
permettendogli di
guadagnare ancora oltre il
fisso da orchestrale. Tutte
queste situazioni vanno
chiarite, prima di dire che i
professori d’orchestra in
Italia guadagnano poco o
troppo e prima ancora di
tirare conclusioni affrettate
secondo le quali i musicisti
italiani, ormai condannati
alla fame se non si ridiscute
il contratto nazionale e
quello integrativo, sarebbero
tentati di ripetere
l’esperimento che ha fatto
l’aitante e noto violinista, un
giovanottone che risponde al
nome di Joshua Bell, a New
York. Bell voleva vedere se
la gente lo riconosceva e lo compensava, mentre
suonava, in jeans, nella metropolitana, il suo prezioso
strumento. Se qualcuno pensa di provarci anche qui da
noi, sappia che nessuno l’ha riconosciuto, e che ha
guadagnato pochi spiccioli.
Per la prima volta siamo andati a spulciare la busta paga
dei nostri orchestrali. Sembra una partitura, con tante
voci in campo. Se uno prende la busta paga di un
insegnante, c’è lo stipendio base, poi un’indennità di
‘insegnamento’ come se i professori a scuola, senza
quell’indennità, si farebbero le canne… e la vecchia
scala mobile. E scatti ? Solo scatti d’ira.
Se si guarda, invece, la busta paga di un orchestrale prendiamo quella di un orchestrale di una fondazione
lirico-sinfonica – si parte dallo stipendio base, al quale
una seconda consistente voce va ad aggiungersi, quella
del contratto integrativo (accordo) dei singoli enti, che
molte volte è davvero una voce consistente dello
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stipendio e se la batte con onore con lo stipendio base;
poi ci sono per ogni sputo attribuzioni di merito:
straordinario, indennità mensa, indennità abito, indennità
strumento, riprese radiofoniche o televisive, registrazioni
discografiche. Insomma se un orchestrale respira, anche
il suo prezioso respiro sembra che gli venga retribuito. E
su questo nulla da eccepire, in linea di principio. Come
non possiamo eccepire alcunché sul diritto di ogni
lavoratore di pretendere che dopo qualche anno di
‘mora’, causa decurtazione FUS nel caso degli
orchestrali, si torni a parlare di rinnovo del contratto
nazionale di lavoro e dell’accordo integrativo delle
singole fondazioni.
Apparentemente svantaggiati, gli aggiunti, sui quali le
fondazioni giocano molto in attesa che si sblocchino le
assunzioni, hanno anche
parte del TFR e della 13
mensilità. Insomma fra
questo e quello, un
pischelletto bravo, ai primi
passi in un’orchestra, prende
più di quanto nei
Conservatori prendono i
professori agli ultimi anni di
carriera. E dunque di
lamentarsi degli stipendi i
professori d’orchestra delle
fondazioni liriche non
possono davvero. Il
presidente dell’Anfols,
Walter Vergnano, ha
dichiarato che gli stipendi
degli orchestrali italiani sono
nella media di quelli europei.
Tremila euro netti al mese,
come cifra di partenza, senza
scatti e senza qualifiche
speciali, vi sembran pochi o
tanti ? E, perciò, gli
orchestrali italiani sarebbero
gli unici ad avere stipendi
europei in Italia, mentre
moltissime altre categorie hanno stipendi italiani e
pagano beni e servizi come fossero all’estero.
Lissner, nel Forum, dichiara che è riuscito ad ottenere di
più, senza per questo farli lavorare di più. Come è
possibile, se nelle altre fondazioni lavorano tanto meno?
Il problema va una volta per tutte affrontato, perché non
può ancora una volta restar fuori dalla contrattazione
nazionale ed aziendale.
Questa situazione di relativo privilegio riguarda in Italia
mille e cinquecento orchestrali circa. Altrettanti, quelli
che suonano nelle restanti orchestre - che comunque
sono sempre pochissime- hanno meno privilegi, garanzie,
benefit minori e meno gratificanti. Per non parlare di
quei poveracci del Regio di Parma, costituiti in orchestra
autonoma, che per far contenti il loro sovrintendente,
Mauro Meli che comunque di Euro ne percepisce 30.000
circa al mese, devono dire che loro ad essere pagati solo
per i giorni lavorativi – una settantina di euro, netti o
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lordi non sappiamo bene- sono contenti; perchè così si
sentono spronati a stare sempre all’erta. Ma si possono
dire simili stupidaggini, dimenticando innanzitutto che
un ‘orchestra è tale solo se lavora gomito a gomito non
saltuariamente. Che poi Meli riesca a procurare tournée
alla sua orchestra ‘a cottimo’, portandola anche a Ravello
dove, per fargli arrotondare lo stipendio, De Masi il noto
sociologo, l’ha voluto come direttore artistico, questo
dipende dal pubblico ravelliano, certamente di bocca
buona; altrimenti come si spiegherebbe che dopo le
grandi orchestre degli anni prima di Meli, ora si contenta
di quella scritturata dal suo direttore artistico?
Sono tutte cose sulle quali varrebbe la pena riflettere, ma
su una più di tutte: occorre che i teatri siano aperti più
sere, non fa nulla se poi riescono a suonare come fanno
quei poveracci dei Wiener Philharmoniker all’Opera di
Vienna 300 sere su 365 all’anno, e che nell’orchestra
oltre all’impegno viga maggior disciplina, e chi non sta
alle regole, possa essere mandato via, per far posto ai
giovani.
Un futuro per i giovani
G
iovani, ecco la parola chiave. Quale futuro?
In Italia si ha la sfacciataggine di mettere in
giro certe notizie evidentemente false anche
da parte del Ministero, secondo il quale dei tremila
diplomati circa che escono ogni anno dai nostri
Conservatori, 1500 trovano lavoro. Dove ? Ce lo
dica il Ministro, specie ora che non s’ha da affannare,
dovendosi dedicare solo agli ‘affari ‘correnti’. Dove
lavorano, signor Ministro?
Nelle orchestre? Non dica
di sì, perché direbbe una
balla grande come una casa.
Vuol dire che lei nel
condominio del suo ex
collega Rutelli non mette
mai il naso. Il direttore
artistico di una ICO
(sappiamo tutti cosa sia:
sottospecie, sottopagata,
delle Orchestre delle
Fondazioni
liricosinfoniche) ci ha detto che
ogni anno si potrebbero
liberare
forse
una
cinquantina circa di posti,
fra i 3500 orchestrali
complessivi italiani. Lavorano nelle scuole?
Innanzitutto cosa intende per scuole: Conservatori,
scuole… Nei Conservatori, prima di una
generazione, non ci saranno posti, anche perché con
i chiari di luna che attraversiamo, potremo correre il
rischio di una enorme contrazione delle iscrizioni.
Perciò sui Conservatori è meglio farci una croce
sopra. Nelle altre scuole, forse qualcuno. E gli altri
mille e passa? Fanno i concertisti? Non lo dica,
Ministro, ci vien da ridere. Lavorano negli studi di
registrazione? Sì, forse, una decina. Suonano a feste
e matrimoni e pure ai funerali di quelli che hanno
chiesto di compiere l’ultimo viaggio accompagnati
dalla musica? Mettiamo una cinquantina,che si
arrangiano in un modo o nell’altro? E gli altri ? Per
gli altri, dica la verità, non sa cosa rispondere. Ecco
tutti quegli altri ci interessano. I tremila nuovi
diplomati ogni anno - meno il centinaio occupati senza speranza alcuna di trovar lavoro in Italia,
perché della musica non frega a nessuno. Sì, proprio
a nessuno. Vuole un esempio, di alcuni suoi vicini
di casa? Veltroni e Marrazzo che finora assicuravano
un contributo all’Orchestra
Regionale del Lazio –
alcune centinaia di migliaia
di Euro – ora non danno
neppure quelli (li hanno da
spendere o li hanno forse già
spesi nelle prossime Estati
romane o nelle ‘opere in
piazza’ – Veltroni ne ha
annunciata una per il
prossimo 21 aprile; chissà se
ora salterà). Quanto ci costa
quel bagno (per Veltroni) di
folla? Molto di più di quanto
dà all’Orchestra del Lazio
che prima faceva una
stagione ed ora sarà forse
costretta a lavorare per metà
anno o forse anche a chiudere i battenti. Vogliamo
dimenticare la chiusura dell’Orchestra giovanile
dell’Accademia di santa Cecilia, causata dal mancato
finanziamento dell’allora sindaco Rutelli:
quattrocento sporchi milioni, e dal disinteresse del
grande compositore Luciano Berio?
Il triste è che non possiamo consolarci pensando ad
un cambio di governo, eventuale, perché la Lega ad
una sua orchestra non penserà mai, ed il centrodestra
per la musica in genere non nutre affezione,
nonostante gli esordi del suo capo e l’autentica
passione musicale del suo più prossimo
collaboratore.
Tuttavia non c’è posto per la rassegnazione.